Ubu buur, la Polonia africana

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Ubu buur, la Polonia africana
Attesa per il debuitto della Societas Raffaello Sanzio
IL TEATRO
STORCHI
L’Inferno in terra
svelato da Castellucci
Come superare
le barriere con
gli immigrati
Un gran finale per Vie, che da questa sera fino a chiusura ospita in anteprima sei repliche di “Vexilla regis prodeunt inferni”, ultimo lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio, uno studio preparatorio del progetto da presentare al
Festival di Avignone nel 2008 sulla Divina Commedia. Lo
spazio di Ponte Alto si trasfigura nell’ultimo girone dell’Inferno attraverso visioni e immagini supportate dalla
musica degli Zu.
Una immagine tratta dallo
spettacolo «Ubu buur»
e la compagnia
Ubu buur, la Polonia africana
Da Ravenna “Teatro delle Albe” con compagnia afro-romagnola
Dopo il debutto europeo a
Limoges e italiano a Napoli, è
finalmente giunta l’ora per il
Teatro delle Albe e il suo’’Ubu buur’’ di tornare sui palcoscenici della regione natia.
Appuntamento questa sera alle ore 21.00 allo Storchi di Modena, con una compagnia
sempre pronta a travalicare
la scena per le sue’messe in
vita’ di classici del passato,
quanto a scuoterci con la sua
corrosività critica e politica.
Dare una traccia di’’Ubu
buur’’ significa rendere conto
della lunga e duplice esperienza della compagnia ravennate capeggiata dal 1983 da Marco Martinelli e Ermanna Montanari: quella artistica, che
sempre ha cercato e trovato
nel lavoro con i giovani l’ideale fonte e supporto a un mobi-
le operare sospeso tra ricerca
e tradizione, e quella delle domande e delle urgenze più comuni a ogni cittadino del
mondo, di cui il regista e l’attrice scelgono ancora di farsi
voce.
Benché naturalmente radicato in una precisa territorialità e immaginario culturale,
il Teatro delle Albe sa abitare
l’oggi, e in’’Ubu buur’’ supera
le barriere invisibili che frammentano una società ormai
multietnica, puntando sulla
vicinanza, la speranza nei medesimi diritti e esigenze politiche di chi ormai, straniero in
patria d’adozione, quotidianamente ci affianca, ma che nella pelle e nella lingua ancora
sembra distante. Se la diffidenza può essere imputata all’incomprensione, ecco che
La cruda delicatezza
di un mondo di carta
La dimensione del gioco viene erroneamente annoverata
tra le pieghe di un mondo fatto di leggerezza e fatuo divertimento, senza riuscire a soffermarsi sulla profondità del
suo essere veicolo di verità.
La giovane coreografa portoghese Màrcia Laña, con lo
spettacolo “Dos joelhos para
baixo”, riporta questo elemento all’interno di una dimensione più autentica, fatta di lucida serietà e precisa realizzazione. Nel perimetro buio dello spazio scenico, semplici
fonti di luce, illuminano poco
alla volta la lenta costruzione
di una piccola città di carta,
in cui pochi omini di cellulosa agiscono per mano della
Laña. Altri oggetti e alcuni
semplici elementi come acqua, fuoco e sabbia vanno a
concorrere al dipanarsi delle
esistenze di questo piccolo popolo bianco segnandone le
sorti con crudo realismo. La
performance della Laña rie-
sce a incantare per la sua
semplicità ma, soprattutto,
per una dimensione critica
che riesce ad imporsi con
asciutta efficacia e sottile violenza. La nostra esistenza,
privata e sociale, viene indagata con essenzialità e coerenza, senza il desiderio di voler
dare molto di più di ciò che è
veramente, senza cercare la
complicità dello spettatore
con astratte concettualizzazioni, e senza contaminarsi con
una violenza troppo esibita e
spesso altrettanto vuota. La
Laña, al contrario, riesce a lavorare partendo da realizzazioni minimali, come il tagliuzzare un omino di carta
in piccoli pezzi per poi nasconderli sotto un grande edificio, simbolo del potere.’’Dos
joelhos para baixo’’ è il primo
spettacolo di una giovane artista che è già riuscita a trovare un linguaggio che riesce
ad affascinare e a far pensare. (alice fumagalli)
sarà la lingua la prima barriera da distruggere, motivo per
cui le Albe hanno intrapreso
un complesso viaggio oltre i
confini culturali e artistici
che è arrivato a portare il dialetto romagnolo in Senegal e
il wolof in Romagna. L’incontro ha prodotto una nuova
compagnia afro-romagnola,
nutrita della collaborazione
con
il
griot
Mandiate
N’Diaye, colonna portante
del gruppo e propulsore di
molte iniziative in terra d’origine. Così, da questo impasto
di bisogni e di incontri è nata
nel 1988 la Romagna Africana
di cui’’Ubu buur’’, ovvero’’Ubu re’’ in dialetto wolof, è oggi l’ultimo figlio. Una colorata kermesse di musica, danze
e linguaggi, ferita dal grigiore dei kalshnikov dei chil-
dren soldiers, vedrà quindici
adolescenti di Diol Kadd, villaggio nel cuore del Senegal,
farsi presenza viva e attuale
del capolavoro di Jarry, tra le
trappole del dittatore Padre
Ubu e della sua bianca compagna Madre Ubu. Un sodalizio,
quello con Jarry, da tempo caro alle Albe, iniziato nel 1999
con gli adolescenti italiani
del pluripremiato’’I Polacchi’’, rimesso in vita anche
nel 2005 a Chicago con gli studenti afroamericani della
Seen School e a Scampia per
il progetto Arrevuoto. Ancora una volta con’’Ubu buur’’
l’archetipo è strumento di
confronto, tra giovani come
tra mondi diversi, per scoprire nella condivisione il mezzo
per attrezzarci al futuro. (lucia cominoli)
«Vexilla regis prodeunt
inferni»: avanzano i vessilli
del re degli inferi. La parola
tradotta, spiegata perde
subito il suo fascino, diventa
sterile. Almeno a teatro.
La ricerca della Socìetas
Raffaello Sanzio parte dalle
possibilità messe in campo
dalla pluralità del linguaggio.
Romeo Castellucci, autore e
regista della compagnia,
sancisce in scena un legame
privilegiato con la pittura e le
arti plastiche, sconfinando in
una ricerca di più ampio
raggio sui mezzi di
espressione. Intende il teatro
come luogo di
rimescolamento delle arti
che scardina la parola per
mettere in primo piano
l’impatto visivo.
Secondo Castellucci la
drammaturgia di oggi
dovrebbe fare i conti con gli
svariati linguaggi che la
circondano, come la
pubblicità, la pornografia,
l’immagine televisiva e
cinematografica. L’impianto
scenico della Socìetas
Raffaello Sanzio si trasforma
allora in un quadro’vivente’
prima ancora che’parlante’,
che non risparmia nemmeno
l’elemento centrale del
teatro: l’attore.
Il corpo, perfetto o’scolpito’
da malattie e deformazioni, è
in primo luogo segno sulla
scena. Il linguaggio di
Castellucci nel definire il
contemporaneo si lega ai
classici, vissuti come
materiale primordiale,
magma indissolubile del
teatro.
La scelta della Divina
Commedia si pone in
continuità con una linea che
parte dai cicli mitici-orientali
e arriva a Shakespeare, da
Eschilo fino alla Tragedia
come’topos’ occidentale.
Se l’avanguardia è
estensione dei classici,
l’impatto e il senso delle
icone della Socìetas si basano
sulla forza degli archetipi,
della memoria primigenia:
non un inferno qualunque,
inferno di’’immagini che non
hanno mai smesso di vivere
tra la gente’’, di vessilli che
sono emblemi della
maledizione dell’uomo,
appartengono all’inferno, ma
anche al mondo. (beatrice
bellini)
Il corpo tra gioco e riflessione
In provincia sulle tracce dei coreografi italiani
La materia corporea è alimento della danza e sua primaria sostanza plasmabile.
Per i coreografi italiani Roberto Cocconi, Roberto Castello e la Compagnia Abbondanzia/Bertoni, il corpo è elemento di gioco, riflessione e comunicazione. Linguaggi molto diversi che tracciano visioni solistiche e collettive, in cui gli
elementi della danza diventano partitura per viaggi onirici oppure restano saldamente
ancorati al terreno della vita.
Vie li invita tutti, dopo aver
già scelto nel 2005 di ricordare lo storico gruppo della danza contemporanea italiana’’Sosta Palmizi’’, di cui Cocconi, Castello e Michele Abbondanza hanno fatto parte insieme a Francesca Bertolli, Raffaella Giordano e Giorgio Rossi, alla fine degli anni ottanta.
Un’avventura
iniziata
al
Gruppo Teatro Danza La Fenice di Venezia sotto la direzione di Carolyn Carlson e in-
Da «Il duca delle prugne»
terrotta nel 1990, anno in cui
la compagnia, dopo spettacoli
fondamentali, come’’Il Cortile’’, decide di sciogliersi. Molti di loro proseguono la propria ricerca. Roberto Cocconi
fonda la compagnia Arearea
persuaso che “danzare un’idea significa riprodurla con
lo strumento più universalmente condiviso: il corpo”. Il
Festival sceglie piazza Garibaldi, a Carpi (oggi alle 19),
per il loro “A rebours”, in cui
i 4 interpreti rivivono sapori
di altri tempi, tra calici di vino e tazzine di thé, abiti eleganti e danze corali. Se Roberto Castello, ne’’Il Duca delle
Prugne’’ (Circolo Olimpia di
Vignola, oggi e domani ore
21, sabato alle 21.30) coccola
il suo pubblico tra paillettes e
streapteases e induce alla riflessione sulla società del consumo, utilizzando il formato
del varietà, Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, in’’Capricci’’ (Ponte Alto, domani alle 18), vogliono “renderci
felici non facendoci consumare niente”. Una riflessione
che prosegue, in altra direzione, con l’assolo di Antonella,
“Try” (Ponte Alto, sabato, alle 17), in cui il corpo dell’interprete si fa introspettivo
per “creare, sbagliare e imparare dagli errori”. (eliana
amadio)