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DAVIDE RONDONI
CONTRO LA LETTERATURA
UN’ACCUSA E UNA PROPOSTA
i grandi TaSCaBiLi
BOMPiani
ISBN 978-88-452-8176-1
© 2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano
I edizione Tascabili Bompiani settembre 2016
Prefazione alla nuova edizione
Quando uscì la prima volta, questo libro mi ha procurato un
bel po’ di guai. E di bellissimi incontri. E questa sarebbe già
una buona ragione per pubblicarne una nuova versione riveduta e corretta. L’editore che lo pubblicò lo ha fatto sparire
e ha tagliato ogni altro rapporto di collaborazione con me. Si
è pentito? Lo hanno fatto pentire? Sapevo di mettermi in un
ginepraio. Perché affrontare il nodo della trasmissione del bene
della letteratura alle nuove generazioni, senza accontentarsi di
chiacchiere ma usando la documentazione, altri studi, i dati e
una cospicua esperienza sul campo, era e resta una cosa difficile. Si tratta di entrare in un campo minato. Sia per le passioni in
gioco (e le vanità) sia perché il mondo della cultura è attraversato da tensioni e propensioni alle “scomuniche”. Ma ho sempre rifiutato d’essere uno scrittore tranquillo e disimpegnato.
Avevo composto libri rivolti ai ragazzi, certo, e come altri
poeti e scrittori si gira invitati dalle scuole. Ma proprio quel
che avevo visto mi ha spinto a scrivere prima alcuni articoli e
poi il libro per affrontare quello che molti non vogliono vedere: un nodo metodologico. Perché ogni volta che parli di
queste cose subito provano a deviare il discorso: il problema
è la passione, il problema sono i soldi, o è la tv, la politica...
La scuola (questo tipo di scuola) non pensa mai di essere il
problema della scuola. La mia proposta ha suscitato polemiche, è stata volutamente fraintesa, irrisa, anche da critici
letterari, professori, professorini, giornalisti. C’è nella cultura italiana molto più conservatorismo di quanto ce ne sia in
politica o in formazioni sociali ben attente a non perdere le
posizioni di rendita.
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È ovvio, è comprensibile in un’epoca di crisi e di passaggio.
Si ha paura di perdere qualcosa. E di certo la crisi di grandi
paradigmi – almeno nell’esperienza europea – causa spinte di
conservatorismo culturale.
Siamo in un’epoca in cui sono in crisi gli Stati (la stessa
idea di Stato), i mediatori (media, editoria, partiti), le trasmissioni e le appartenenze. Alle difficoltà della editoria tradizionale fa eco la sempre maggior “presenza” degli autori
in corpo e voce, in una specie di ritorno (e amplificazione)
della presenza del poeta girovago, del cantastorie, del narratore giullare. È in crisi tutto il corredo di un’epoca che si era
proclamata moderna (“bisogna essere assolutamente moderni” ironizzava sperduto e visionario Rimbaud). È in corso un
grande fallimento, un crollo, una generale ridiscussione. Un
rinnovamento. E però si pretende che rimanga invariato il
paradigma culturale su cui fondare il metodo di educazione.
Ignorando i dati di quel fallimento, non risalendo alle cause. I miei denigratori hanno innanzitutto cercato di evitare
il confronto. Silenzio o supponenza. Altri mi hanno bollato
come un “provocatore”. Chiamare una proposta “provocazione” è un modo per non confrontarsi sulla sua fattibilità
e sui suoi contenuti. Altri hanno usato le basse astuzie del
buttare tutto in politica (ma questo è un libro “politico” in
un modo così libero e alto che costoro non possono nemmeno immaginare) oppure hanno rifiutato di entrare veramente nel merito trincerandosi dietro luoghi comuni e pigrizie
mentali. Ma il libro ha fatto discutere e pensare costruttivamente molti. E se da un lato la medesima casa editrice che
aveva pubblicato il libro – forse per paura di tale confronto –
non ha voluto più ripubblicarlo, dall’altro molti insegnanti,
moltissimi studenti e alcuni scrittori hanno valutato positivamente i miei argomenti e la mia proposta. A distanza di anni,
quando partecipo a qualche lettura o conferenza, l’esistenza
di queste pagine muove gli animi. Che spesso si sono pure
scaldati. Bene, buon segno.
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Occorre discutere su certe grandi questioni. In Italia – Paese
dell’arte – il tema della viva tradizione/ traduzione del gusto
artistico tra generazioni mi sembra capitale, ben di più di altre cose a cui si dedica smodata attenzione. Ma i primi a non
voler discutere sono spesso gli intellettuali, specie quelli più
“arrivati”, che hanno goduto della posizione loro assegnata
dal paradigma di “cultura” oggi in crisi. Il loro colpevole conservatorismo, oltre a dar luogo a recite grottesche e a minuetti
da deliziosa fine impero, non riesce a creare futuro.
Con questa seconda edizione riveduta intendo contribuire
e approfondire la questione. Ho visto molte cose in questi sei
anni e ho sostenuto molte discussioni – a volte molto accese – in giro. E quel che ho visto e sentito mi ha convinto che
la faccenda è ancora più urgente. Sono diventato ancora più
estremista. Spesso mi presentano come uno che ce l’ha con
gli insegnanti di letteratura. Qualche motivo ce l’avrei pure,
se ricordo certe lezioni al Morgagni di Forlì o ripensando a
certe voci stridule, a certi sguardi da bue o a certi imbarazzanti
esperimenti visti in giro. Ma non odio nessuno. “Amare sempre, odiare mai” diceva Ungaretti. Io li stimo, i professori. Ma
chiedo loro di non arroccarsi sul già stabilito e saputo. Chiedo
di scommettere sul motivo profondo per cui insegnano e non
sui protocolli e sulla morfina dello stipendio basso ma fisso.
Sull’insurrezione e la capacità di cura che nascono dall’energia
che si trova in fondo alla persona in prima linea. Perché di
prima linea stiamo parlando.
Abbiamo tutti da imparare, in un’epoca che cambia con
questo frastuono e con questa silenziosa millimetrica precisione. A volte mi sembra di essere già dopo tutto questo. Di
lavorare dopo che il crollo che ho visto è avvenuto. E infatti
questo libro di amore gridato come una denuncia sarebbe uno
scempio se contemporaneamente, fuori dalle polemiche e dallo stesso visibile e dicibile, non ci si dedicasse a coltivare, curvi
su orti seminascosti o chiusi in cortili o chiostri, animi giovani
nella poesia, nell’amore non idolatra per la letteratura.
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Forse tocca ai poeti che sembrano ciechi sorprendere ancora una volta i nervi scoperti di un tempo. Solo se si accetta di
cambiare paradigma a riguardo di cosa si intende per cultura,
la scuola ha ancora un senso. Lo stanno dicendo anche importanti economisti. Forse li ascolteranno di più. Non è questo un
libro che cerca il successo. Ma è una proposta che cerca cuori-fiaccola, strade che si aprono tra i fossi, le réclame e le stelle.
Agosto 2016
Premessa alla prima edizione
“Ogni crisi di educazione è una crisi di civiltà.”
(C. Péguy)
“La ragione non può vivere senza immaginazione.” (G. Leopardi)
“Un poeta vivente? Ehi ragazzi, guardate!”
(in una scuola)
Facoltativo. Se dici questa paroletta vien giù un sistema. Facoltativo, cioè libero.
Lo vorrei così l’insegnamento della letteratura nella scuola
superiore. Per far saltare con la leggerezza di un gesto di danza, o di un colpo d’ali di farfalla, il sistema che sta uccidendo la
letteratura tra i nostri ragazzi. E non ditemi che non è vero. Lo
dico, lo ripeterò: non ce l’ho con la scuola, né coi professori in
generale. Troppo facile. È che amo certi capolavori, che sono
poi capolavori “nostri”. Ce l’ho con chi li tratta male. Con
la mite prof dagli occhi da killer. E siccome mi fido del fatto
(perché l’ho veduto) che la bellezza dei capolavori interessi
e parli anche ai nostri figli e al loro spirito fantastico, voglio
puntare tutto sulla loro libertà. E sulla libertà degli insegnanti.
Chiamatela pure folle allegra stima nei confronti di ragazzi
e insegnanti. Perché la letteratura ha a che fare con la libertà.
Leggere non può che essere un atto libero. Una specie di amore. E dunque a una certa età, da quando ci si avvia a uscire
dall’obbligo scolastico (e si incomincia a innamorarsi sul serio), a quattordici, quindici anni, quando si è nella grande avventura dell’adolescenza, si deve uscire dalla letteratura come
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obbligo. Si entra nel momento in cui si legge perché persuasi
che farlo sia bello, sia un piacere, un bene.
È l’unico modo, a mio parere, per uscire dalla strage. O
se vi urta la parola troppo forte, invece di strage chiamatelo
“oblio”.
Più della metà degli italiani d’età sopra i sei anni non legge
un libro all’anno. Quasi la metà dei ragazzi nella fascia tra i sei
e i diciannove anni non legge neanche un libro eccetto quelli
scolastici.
Li vedo, vacillano, tremano tutti, sobbalzano colpiti. Li riconosco a malapena: potrebbero essere Manzoni, o forse Alfieri, Leopardi. O alcuni degli altri nostri autori.
Sono ancora in piedi, ma si agitano tra i colpi. Mi sembrano quei personaggi nei film western o di azione: crivellati da
una mitragliata o da una pioggia di pallottole vengono feriti,
si curvano, si rialzano, fanno piroette, allargano le braccia tutti scossi. Eppure sembrano non dover cadere mai. Resistono,
non crollano, nonostante la potenza di fuoco. Una specie di
danza magica?
Da dove sparano? Chi è il cecchino? Sta in agguato nell’ombra? È un pericoloso terrorista?
No. I nostri autori sono fatti fuori dalla scuola. La pistola
fumante è appostata sul portone di ingresso di tante scuole
medie superiori italiane. La sentenza di morte è eseguita nelle
aule e nei corridoi ufficialmente preposti alla conservazione e
al tramando di quelle lancinanti e meravigliose bellezze.
È proprio lì che li accoppano. Ve lo confermerà il novanta
per cento di coloro che si sono dovuti “sorbire” la letteratura
a scuola. E che poi magari l’hanno dovuta “riscoprire dopo”.
La prof ha gli occhi da killer. E spesso ha la voce noiosa e distaccata di certi killer di mafia o di grandi racket.
Eppure la letteratura, a detta di tutti, è un grande bene. Un
bene comune. Addirittura scritto con la maiuscola nelle manifestazioni, nei programmi di studio e televisivi: Letteratura,
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Poesia... A volte pure con lo svolazzo di patetici ghirigori di
calligrafia. Presentata spesso con patetiche immagini in dissolvenza tra veli, esseri angelici, rugiade e acque. Che starebbero
a dire: purezza. O: anima. Insomma le cose importanti (immaginate così dagli amanti delle velature rugiadose, sob!).
Fanno gli svolazzi calligrafici sul suo nome e intanto le calpestano il viso, la sfigurano a calci. Le si dedicano cattedre
in tutte le scuole superiori dello Stato, con gran dispendio di
soldi pubblici. E intanto le si tarpano le ali.
Dicono proprio tutti che si tratta di uno degli elementi più
caratterizzanti la cultura e il volto d’Italia. In effetti, un pugliese e un friulano non hanno molte altre cose in comune oltre
al giusto orgoglio di essere connazionali di Dante o di Michelangelo o di Leopardi e Ungaretti. Ah, anche la nazionale di
calcio, ok. Anche se c’è qualche pirla che dice di non tifarla e
guarda un po’ si tratta quasi sempre di estremisti politici che,
su fronti opposti nell’agone pubblico, si ritrovano per questo
comune dispregio.
Proprio non li capisco. Io quando vedo la nazionale giocare
non posso fare a meno di vedere Raffaello Sanzio battere la
punizione con effetto, stravedo come un folle o un ubriaco,
felice Leonardo (l’umanista, non l’ex milanista) in panchina.
Vedo Dante far girare la palla insieme al giro dei pianeti e dei
beati, Caravaggio fantasista avanzare, Ungaretti uomo-goal
sfoggiare la grinta di quei nostri attaccanti da zampata finale
(Anastasi, Rossi, Inzaghi) e sulla sinistra vedo scattare un Pergolesi con l’eleganza strana di un Grosso o dell’indimenticabile Domenghini...
In questo Paese si parla molto di grandi riforme. Della costituzione, dell’architettura federale, del fisco. In molti, tra
politici e opinionisti, si riempiono la bocca di tale necessità.
Ne stanno facendo alcune. Vedremo. Ma io credo che comunque senza una riforma del modo di insegnare letteratura siamo
spacciati. Destinati a perire come Paese. Potremmo dividerci
in Stato federale oppure no, avere il fisco, la magistratura, le