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CESARE PAVESE: tra letteratura e Resistenza
E’ricorso, nel settembre 2008, il centenario della nascita di Cesare Pavese. La sua morte, avvenuta
nel 1950, è stata invece oggetto di commemorazione per il 60° anniversario nell’agosto 2010.
Tra gli autori del Novecento, si tratta di uno dei più significativi.
Il difficile rapporto che Pavese ha avuto con il suo momento storico (la guerra, la Resistenza), la sua
paura, i suoi dubbi sono la prova che è vissuto in un contesto arduo, che presupponeva una scelta di
campo difficile per tutti, massimamente sentita da chi, come lui, faticava a vivere anche una vita
normale. E’ in questo che sta la tragica modernità di Cesare Pavese.
“Troppo triste” dice qualcuno. Pavese è però un autore irrinunciabile del Novecento, il più adatto
alle scuole, quello che si può affidare ad una lettura guidata da parte degli studenti d’oggi, che non
smetteranno di sentirlo uno di loro. Così profondo nelle sue analisi, così filosofico nella sua
semplicità, così capace di leggere nel quotidiano i simboli di una dimensione metafisica, superiore.
Piemontese, nato e vissuto vicino a noi, ritroviamo nelle sue espressioni qualcosa di familiare, che
ce lo fa sentire vicino. Regionale solo in parte, è internazionale per il resto, data la familiarità di
Pavese con la letteratura americana; si tratta di un autore moderno e classico al tempo stesso.
Tra i suoi libri, Paesi tuoi, uno dei primi romanzi (1939), si presenta come già straordinariamente
maturo. In esso l’autore ricorre di continuo all’immagine della collina, che indica che quello è per
Pavese un mondo contrapposto alla città. E’ una specie di tragedia rustica, una storia di sangue e
passione, che assomiglia molto a La figlia di Jorio di D’Annunzio, che narra una vicenda di sangue
e incesto consumatasi in pieno entroterra abruzzese. Talino, un contadino “goffo” che si trova in
prigione a Torino con l’operaio Berto, quando esce dal carcere convince quest’ultimo ad andare con
lui a Monticello, sulle colline dove la sua famiglia risiede e dove si stanno svolgendo i lavori
stagionali della mietitura. E’ in questa ambientazione che Berto entra in contatto con la famiglia di
Talino, composta dal padre e da quattro sorelle, l’ultima delle quali, la più carina e la meno
inselvatichita dalla vita di campagna, diviene oggetto d’interesse da parte di Berto. Ma Talino,
geloso della simpatia che intravede tra i due, ucciderà barbaramente Gisella, mentre il padre e gli
altri familiari ne coprono la fuga alle forze dell’ordine.
In tutte le opere di Pavese, da Paesi Tuoi al capolavoro La luna e i falò (1950), la trama contiene
sempre l’idea di un ritorno alle origini (il nostos dell’epica classica), che risulta impossibile e che si
carica di moderna inquietudine rispetto alla tradizione epica.
Pavese è convinto che l’infanzia sia il momento della vita spontanea e naturale. La presa di
coscienza di ciò coincide con il superamento dell’infanzia stessa. Il destino dell’uomo è un po’
come un ricercare le proprie origini, ricercare se stesso come si era nell’infanzia: per questo in
Pavese tornano paesaggi e ambienti rustici e selvaggi, oppure vi sono immagini che ricorrono, come
simboli o miti che da sempre ci appartengono. Oppure, per questo in Pavese c’è spesso un
personaggio adulto che viene accompagnato, in genere da un ragazzo, alla scoperta di una realtà che
da solo non potrebbe interpretare o perché ne è stato lontano per molto tempo o perché non ne fa
parte.
Non si tratta, in effetti, per Pavese, di rappresentare o descrivere la realtà, come spesso
erroneamente si crede mettendo lo scrittore nella corrente del Neorealismo, ma di decifrare i
simboli che in essa affiorano, di cogliere i sensi segreti della realtà stessa. La realtà di Pavese è
simbolica: lui stesso ha distinto in fasi successive e precise la sua produzione letteraria, inserendo
Paesi tuoi nella fase del realismo e La luna e i falò in quella della realtà simbolica .
La casa in collina (1948) è il romanzo in cui Pavese tratta più direttamente il tema della
Resistenza, considerando la difficoltà del protagonista della vicenda (Corrado) a partecipare alla
Storia, ad uscire da un isolamento egoistico, a votarsi agli altri, nella vita di coppia così come nella
dimensione collettiva e storica. Corrado non riesce a dare il suo contributo alla lotta armata,
all’impegno politico, alla Resistenza
E’ significativo, in questo senso, che La casa in collina venga pubblicato insieme a Il carcere in
Prima che il gallo canti: un titolo che fa riferimento al tradimento di chi non sa scegliere e rinnega
quello che è stato.
Corrado, un professore di scienze di Torino, affitta una stanza in una casa in collina alla quale torna
ogni sera per sfuggire ai bombardamenti aerei. La vicenda si svolge tra la primavera del ’43 e
l’autunno del ’44 e vede Corrado ritrovare casualmente, mentre gira per la campagna con il suo
cane, Cate, la donna con la quale ha avuto, otto anni prima, una relazione. Ella ha con sé un
bambino, Dino (diminutivo di Corrado), che potrebbe essere il figlio del professore: la donna non
dà spiegazioni e sembra essere più interessata a frequentare un gruppo di antifascisti che si riunisce
all’osteria “Le fontane”. Corrado si affeziona al bambino e sembra liberarsi dalla sua voglia di
solitudine e dalla sua paura di affrontare situazioni rischiose o di responsabilità. Quando, però, il
gruppo di Cate viene catturato dai Tedeschi e si organizza sulle colline la Resistenza, Corrado è
ossessionato dal terrore e si rifugia insieme a Dino in un convento. Quando anche il ragazzo decide
di unirsi ai partigiani, Corrado non ce la fa ad assumersi la responsabilità di una scelta così ardita, a
causa della sua inettitudine, di una sorta di paralisi che lo blocca: tornerà allora dalla sua famiglia,
nelle Langhe. Una volta a casa, dopo aver assistito ad una imboscata di partigiani contro i fascisti e
aver visto molti morti, comprende che, anche se cerca di star fuori dalla lotta, ne ha la medesima
responsabilità di chi vi partecipa e sente la vergogna del suo tradimento. Il protagonista arriva a
concludere che “la vita ha valore solo se si vive per qualcosa o per qualcuno”.
Alcuni passi tratti dal romanzo, evidenziano la difficoltà che Corrado ha nel partecipare attivamente
alla causa, nell’uscire dal suo isolamento e dalla suo pavido egoismo.
All’inizio del romanzo, Corrado espone le motivazioni della sua decisione di affittare la casa in
collina:
“ Ci salivo la sera, come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade
formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il
materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e
divertita…Sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I
burroni, le ville, i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali…Gli sfollati dei prati e
dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me”
“La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il
cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi
restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più
le occasioni perdute. Ma si direbbe che io la guerra la attendessi da tempo e ci contassi, una
guerra così insolita, e vasta che con poca fatica si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo
delle città, rincasando in collina”
In realtà, la solitudine della collina fa riscoprire a Corrado la dimensione più genuina dell’infanzia e
lo mette di fronte alla sua incapacità di essere solidale:
“Si direbbe che sotto i rancori e le incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi scoprivo ragazzo per
avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo questo paese dove ero vissuto. Eravamo noi
due soli, il ragazzo e me stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche di allora. Soffrivo sì ma col piglio
scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo”
Anche Cate, una volta cresciuta e persi la timidezza e l’impaccio di quando era ragazzina (adesso è
lei la più forte, la meno sprovveduta, quella che in effetti ha già fatto la sua scelta di campo),
rimprovera a Corrado la sua inettitudine:
“Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che gli tocca una disgrazia, gli manca
qualcosa, ma loro non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo mi fai pena.
Quando parli con gli altri sei sempre cattivo, maligno. Tu hai paura, Corrado.”
Ad un certo punto, è Corrado stesso che lo ammette:
“Mi sentivo braccato, colpevole. Mi vergognavo dei miei giorni tranquilli.”
Molto toccante è la pagina finale del romanzo, quella in cui Corrado fa delle riflessioni sulla morte,
sui “ragazzi” (i partigiani), su “noialtri- noi non più giovani, noi che abbiamo detto <<Venga
dunque(la guerra) se deve venire>>, sulla guerra ( “Finirà per costringerci a combattere anche
noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori dalla guerra. E
allora forse avremo pace”), sulla sua mancanza di coraggio (“mi accorgo che ho vissuto un solo
lungo isolamento, una futile vacanza”).
La guerra è talmente una faccenda generale che “ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto
somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.
La luna e i falò (1950) è il capolavoro di Pavese, anche se egli amò forse di più i Dialoghi con
Leucò.
La luna e i falò è scritto al termine della guerra e narra la vicenda di Anguilla, un trovatello che
dopo essere stato per vari anni in America torna al paese dove è cresciuto.
Qui trova i segni di quello che è stato, della guerra che si è appena conclusa. Anche Anguilla se ne è
“chiamato fuori”, come Corrado, anche se per altre ragioni (stava in America), e quando ritorna
capisce che non si può eliminare quello che è stato. Segni ce ne sono dappertutto: anche chi la
guerra non l’ha attivamente combattuta, non può non sertirsene toccato.
Anguilla parla con Nuto, un amico che lo accoglie e lo accompagna nel suo nostos, e dai loro
discorsi emerge a tratti (la narrazione è condotta con continui frammenti di passato che si
intersecano alla descrizione del presente) quello che la Storia ha lasciato in quei luoghi.
Della terra, Nuto dice che è un’ingiustizia che alcuni ne abbiano molta e altri niente. Anguilla gli
chiede se è comunista e Nuto risponde che in quel paese sono tutti troppo ignoranti per essere
comunisti e che occorrerebbe chi non guastasse quel nome con la sua ignoranza. Come dire che gli
intellettuali sono chiamati a prendere una posizione, a farsi guide del popolo. Non dimentichiamo
che dietro ai suoi personaggi c’è Pavese stesso, con la sue difficoltà di vivere.
Più oltre, Anguilla dice che bisognava muoversi nel ’45, quando si aveva il coltello dalla parte del
manico, quando il ferro era caldo. Lui è stato via e credeva di trovare qualcosa di fatto, al suo
ritorno. Ora è troppo tardi.
Anguilla chiede a Nuto se è stato sulle colline, cioè se è stato anche lui partigiano. “Sapevo di
diversi del paese, giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni - che erano morti,
su quelle strade, per quei boschi..”
In effetti, i segni più chiari della guerra che si è combattuta sono i morti che hanno versato il loro
sangue su quelle colline, i cui corpi riaffiorano di tanto in tanto: “un Tedesco, sepolto dai partigiani
in Gaminella. Era tutto scorticato”; “ …aveva visto bruciare la casa del Ciora”; “chi sa quanti ce
n’erano ancora sepolti nei boschi..”; “altri due morti, due repubblichini, testa schiacciata e senza
scarpe…dovevano essere repubblichini perché i partigiani morivano a valle, fucilati sulle piazze e
impiccati ai balconi, o li mandavano in Germania”.
Nei paesi di collina si fanno discorsi anche inesatti sulle vicende storiche e sulla Resistenza. Le
notizie di cui Anguilla è a conoscenza, che ha appreso in America, mostrano una diversa possibilità
di lettura: “in America i giornali avevano stampato un proclama del re e di Badoglio che ordinava
agli Italiani di darsi alla macchia, di fare la guerriglia, di aggredire i Tedeschi e i fascisti alle
spalle…”; “possibile che non uno di questi ragazzi ci sia stato e possa dirlo? A Genova i
partigiani hanno perfino un giornale…”. Risponde amaramente Nuto: “Di questi nessuno: E’ tutta
gente che si è messa il fazzoletto tricolore l’indomani…Chi ha rischiato la pelle davvero non ha
voglia di parlarne.”
C’è il prete che ancora “non digerisce la lapide ai partigiani impiccati davanti alla Ca’ Nere”; c’è
ancora forte, in questo mondo poco moderno, la tendenza a chiudersi, a rimanere separati dagli altri,
anche se Anguilla, che ha girato il mondo, sa che occorre uscire dall’isolamento, perché “da soli
non farete mai niente”.
Ad un certo punto, si trova una bella descrizione del 25 Aprile: “quel sospirato 25 aprile…in quei
giorni sì che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro
per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente da tutte le
parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati operai…Si capisce che in tutto quel
quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti:
sempre meno -disse Nuto- della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada e
fatto crepare…
Qualche considerazione sulla Resistenza: “un prete che suona ancora le campane lo deve ai
partigiani che gliele hanno salvate…i partigiani sono morti come mosche per salvare il paese…i
partigiani sono stati dappertutto…Gli hanno dato la caccia come alle bestie. Ne sono morti
dappertutto…(Nuto): Si è fatto tutti qualcosa. Troppo poco …ma c’era il pericolo che una spia
mandasse a bruciarti la casa…”
Sulla vicenda di Santina (una delle tre figlie della famiglia ricca presso cui Anguilla aveva lavorato
in gioventù) si chiude il romanzo.
Vicenda tragica di una donna che scelse di scappare a Canelli e di impiegarsi nella Casa del fascio.
Poi, con l’estate del ’43 la bella vita era finita anche per Santa. Dicevano che era scappata col suo
capomanipolo a Alessandria. …cominciata la repubblica…un bel giorno Nuto sentì dire che Santa
era tornata a Canelli, che aveva ripreso l’impiego alla Casa del fascio, si ubriacava e andava a
letto con le brigate nere.
Un giorno Santa aveva incontrato Nuto e gli aveva confessato di volersi unire alla causa partigiana.
Poi l’avevano scoperta fare la spia, aveva diretto rastrellamenti, segnalato depositi alla Casa del
fascio. I partigiani la presero e la fucilarono. Ne bruciarono il corpo. Di quel rogo rimane ancora il
segno sulle colline, come uno di quei falò che si facevano nelle sere d’estate.