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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 25 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Huffington Post del 25/03/15
"Non cediamo il passo al terrore". Da tutto il
mondo a Tunisi per l'apertura del Forum
Sociale Mondiale
Di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci e Raffaella Bolini, Relazioni
internazionali Arci
È iniziata oggi alle 16 la manifestazione di apertura del Forum Sociale Mondiale, una
"grande marcia dei popoli contro il terrorismo" che terminerà davanti al museo del Bardo.
Le delegazioni provenienti da tutto il mondo hanno confermato la loro presenza, così come
sono state confermate tutte le attività - seminari ed eventi culturali. Settantamila persone
saranno a Tunisi dal 24 al 28 marzo per dar vita a questa edizione del Forum.
Il FSM "non arretra di un passo davanti al terrore", come dichiarano il Comitato
Organizzatore Tunisino e il Forum Sociale del Maghreb.
Il 26 marzo, nel campus universitario dove si terrà il Forum, ci sarà un grande incontro per
iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il terrorismo".
Anche nel 2013 il Forum Sociale Mondiale fu una grande manifestazione popolare con la
giovane democrazia tunisina. Si svolse poco tempo dopo gli omicidi dei dirigenti della
sinistra Chokri Balaid e Mohamed Brahmi, fu il più grande evento autorganizzato di società
civile mai realizzato nella regione, e aiutò il paese a evitare la destabilizzazione.
La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una
terza via fra l'oscurantismo e l'autoritarismo che imperversano, non solo nella sponda sud
del Mediterraneo.
Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla, denunciando i governi
europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla - continuando
a imporre il pagamento del debito contratto da Ben Ali, impedendo così investimenti per il
lavoro e lo sviluppo, imponendo i trattati di libero scambio, interessati solo al profitto e a
bloccare i migranti fuori dai nostri confini.
Le organizzazioni sociali che guidano il Comitato Organizzatore del FSM, il sindacato
UGTT e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali, hanno fatto parte del Quartetto di
società civile al quale Governo e Parlamento affidarono il compito di risolvere lo stallo
istituzionale al tempo dello scontro sulla nuova Costituzione, che rischiava di portare il
paese alla guerra civile. Dopo il successo di quell'impresa, la loro autorevolezza si è
ulteriormente accresciuta.
Il Forum Sociale Mondiale sarà l'occasione per l'incontro dei principali attori sociali
democratici del mondo intero. Servirà a consolidare e allargare le alleanze internazionali, a
preparare l'agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni.
Saranno a Tunisi molti sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di
movimento, le grandi centrali associative, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni
folte dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l'ISIS, agli iracheni e
siriani), le famiglie politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari di molti
paesi e parlamentari europei. Saranno presenti delegazioni anche di Syriza e di Podemos.
A Tunisi si preparerà la mobilitazione mondiale che avrà luogo a Parigi a dicembre in
occasione della Conferenza Onu sul Clima. Si consoliderà l'alleanza europea per il
sostegno alla Grecia e contro l'austerità. Si incontreranno i movimenti contro la povertà,
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contro l'accaparramento della terra, dell'economia sociale, per i diritti sociali, civili e
democratici. Si terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il tema dei migranti sarà
uno dei cuori pulsanti del Forum.
Dall'Italia partiranno centinaia di attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti
politici e istituzionali. Moltissime le associazioni e i movimenti presenti.
Anche l'Arci parteciperà con una folta delegazione. Legata alla società civile tunisina da
una relazione storica e permanente, l'Arci e la sua ONG Arcs lavoreranno a Tunisi su
diversi temi e campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie
per un'Alternativa Mediterranea e per un'Europa diversa.
Crediamo che solo con un grande investimento pubblico di risorse intorno a un piano
strategico di sviluppo, solo con un New Deal mediterraneo finalizzato al lavoro, alla
democratizzazione, alla transizione ecologica sia possibile tagliare alla radice la
destabilizzazione della regione, a nord e a sud.
Crediamo sia necessario chiudere i rubinetti del commercio delle armi, un grande piano di
disarmo, il superamento di ogni logica di potenza, un vero impegno negoziale per la pace
e la democrazia in tutte le aree di conflitto - e la fine dell'occupazione della Palestina.
Crediamo che il Mediterraneo non possa continuare a essere un enorme cimitero di
migranti, chiediamo corridoi umanitari per i profughi e la possibilità per i migranti di arrivare
legalmente in Italia e in Europa in cerca di lavoro.
In particolare, l'Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il FSM, una
rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia
in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale
Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia.
http://www.huffingtonpost.it/raffaella-bolini/non-cediamo-il-passo-alterrore_b_6932694.html?utm_hp_ref=italy
All’interno la fotogallery della manifestazione
Da Redattore Sociale del 24/03/15
"Non cediamo il passo al terrore", a Tunisi si
apre il Forum sociale mondiale
Circa settantamila persone provenienti da tutto il mondo impegnate in
seminari, convegni, eventi culturali. A pochi giorni dall'attentato che ha
scosso la Tunisia l'evento sarà aperto oggi pomeriggio dalla "grande
marcia dei popoli contro il terrorismo"
ROMA - "Non cediamo il passo al terrore". Con questo messaggio prenderà il via oggi
pomeriggio la manifestazione d'apertura del Forum Sociale Mondiale di Tunisi, che fino al
28 marzo vedrà circa settantamila persone provenienti da tutto il mondo impegnate in
seminari, convegni, eventi culturali. A pochi giorni dall'attentato terroristico che ha scosso
la Tunisia l'evento sarà aperto dalla "grande marcia dei popoli contro il terrorismo" che
terminerà davanti al museo del Bardo.
Moltissime le delegazioni internazionali che hanno confermato la propria presenza: dalla
Cina agli Stati Uniti, dal Brasile all'India. Anche l'Arci parteciperà con una folta
delegazione. L'associazione è infatti legata alla società civile tunisina da una relazione
storica e permanente e, insieme alla sua Ong Arcs, lavorerà a Tunisi su diversi temi e
campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie per una
Alternative Mediterranea e per una Europa diversa. "In particolare - sottolinea
l'associazione - l'Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il Fsm, una
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rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia
in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale
Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia".
Sempre oggi in piazza Duomo a Milano, in contemporanea con l’apertura del Forum
Sociale Mondiale di Tunisi, con cui la piazza si collegherà, si terrà una manifestazione per
dire tutti insieme “I popoli del mondo contro il terrorismo”.
Tra le varie iniziative previste dal Forum vi è quella relativa alla stesura della "Carta
Internazionale Altermondialista contro il terrorismo" che inizierà nel corso di un incontro nel
campus universitario Al Manara. L'ultima edizione del Forum Sociale Mondiale (2013) si
svolse a pochissimo tempo di distanza dagli omicidi dei dirigenti politici della sinistra
Chokri Balaid e Mohamed Brahmi, fu il più grande evento autorganizzato di società civile
nella regione mai realizzato, e aiutò il paese a evitare la destabilizzazione.
"La Tunisia - sottolinea l'Arci - con la sua complessa ma resistente transizione
democratica, rappresenta una terza via fra l'oscurantismo e l’autoritarismo che
imperversano nella regione - e non solo nella sponda sud del Mediterraneo. Gli attori
sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla - e denunciano i governi europei e la
comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla. Le organizzazioni sociali
che guidano il Comitato Organizzatore del Forum Sociale Mondiale, fra cui il sindacato
Ugtt e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali, hanno fatto parte del quartetto di
società civile al quale Governo e Parlamento affidarono il compito di risolvere lo stallo
istituzionale al tempo della discussione sulla nuova Costituzione, che rischiava di portare il
paese alla guerra civile".
Il Forum Sociale Mondiale sarà l’occasione per l’incontro dei principali attori sociali
democratici del mondo intero e servirà a consolidare ed allargare le alleanze
internazionali, a preparare l’agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni.
Sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi
associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni dei paesi in
conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l'Isis, agli iracheni e siriani), le famiglie
politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei: tutti
saranno a Tunisi insieme alle delegazioni di Syriza e di Podemos. "Il tema dei migranti
sarà uno dei cuori pulsanti del Forum - conclude l'Arci - .Dall’Italia partiranno centinaia di
attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti politici e istituzionali. Moltissime
le associazioni e i movimenti presenti".
Da Vita.it del 25/03/15
Al via il Forum sociale di Tunisi con la marcia
contro il terrorismo
di Redazione
Alle 16 iniziano i lavori dello storico appuntamento delle associazioni di tutto il mondo, tra
cui Arci: "Proporremo la nascita di una rete mondiale sulle persone scomparse nelle
migrazioni". L'edizione tunisina è ancora più signifificativa perché si apre pochi giorni dopo
la strage del museo del Bardo
La manifestazione di apertura de Forum Sociale Mondiale si terrà a Tunisi martedì 24
marzo. Inizierà alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà
davanti al museo del Bardo.
Tutte le delegazioni internazionali hanno confermato la loro presenza, da tutto il mondo,
dalla Cina agli Stati Uniti al Brasile e l’India. Tutte le attività sono confermate - seminari,
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convegni, eventi culturali. Settantamila persone pronte a dare vita a un’altra edizione del
Forum Sociale Mondiale, che si tiene a Tunisi dal 24 al 28 marzo.
Il 26 marzo, nel campus universitario Al Manara, dove il Forum avrà luogo, si terrà un
grande incontro per iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il
terrorismo”.
L’ultima edizione del Forum Sociale Mondiale (2013) si svolse a pochissimo tempo di
distanza dagli omicidi dei dirigenti politici della sinistra Chokri Balaid e Mohamed Brahmi,
fu il più grande evento autorganizzato di società civile nella regione mai realizzato, e aiutò
il paese a evitare la destabilizzazione.
La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una
terza via fra l’oscurantismo e l’autoritarismo che imperversano nella regione - e non solo
nella sponda sud del Mediterraneo.
Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla - e denunciano i governi
europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla.
Le organizzazioni sociali che guidano il Comitato Organizzatore del Forum Sociale
Mondiale, fra cui il sindacato UGTT e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali,
hanno fatto parte del Quartetto di società civile al quale Governo e Parlamento affidarono
il compito di risolvere lo stallo istituzionale al tempo della discussione sulla nuova
Costituzione, che rischiava di portare il paese alla guerra civile.
Il Forum Sociale Mondiale sarà l’occasione per l’incontro dei principali attori sociali
democratici del mondo intero. Servirà a consolidare ed allargare le alleanze internazionali,
a preparare l’agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni.
Saranno a Tunisi un gran numero di sindacati europei, magrebini ed africani, le principali
reti sociali di movimento, le grandi associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas
internazionale, delegazioni dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno
fermato l’ISIS, agli iracheni e siriani), le famiglie politiche della sinistra e della
socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei. Saranno presenti delegazioni anche
di Syriza e di Podemos.
A Tunisi si preparerà la mobilitazione mondiale che avrà luogo a Parigi a dicembre, in
occasione della Conferenza Onu sul Clima. Si consoliderà l’alleanza europea per il
sostegno alla Grecia e contro l’austerità. Si incontreranno i movimenti contro la povertà e
contro l’accaparramento della terra. Si terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il
tema dei migranti sarà uno dei cuori pulsanti del Forum.
Dall’Italia partiranno centinaia di attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti
politici e istituzionali. Moltissime le associazioni e i movimenti presenti.
Anche l’Arci parteciperà con una folta delegazione. Legata alla società civile tunisina da
una relazione storica e permanente, l’Arci e la sua ONG Arcs lavoreranno a Tunisi su
diversi temi e campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie
per una Alternative Mediterranea e per una Europa diversa.
In particolare, l’Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il FSM, una
rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia
in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale
Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia.
A Milano, il 24 marzo alle 18, in piazza Duomo, in contemporanea con l’apertura del
Forum Sociale Mondiale di Tunisi, con cui la piazza si collegherà, si terrà una
manifestazione per dire tutti insieme “I popoli del mondo contro il terrorismo”.
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Da Adn Kronos del 24/03/15
Al via il Forum sociale mondiale, marcia a
Tunisi fino al Bardo
"Siamo qui alla marcia, sotto la pioggia. Siamo tanti, di tutti i colori e di tutti Paesi, contenti
di partecipare a questa manifestazione inaugurale del Forum sociale mondiale per dare un
messaggio chiaro contro ogni violenza e contro la violenza terrorista che si è abbattuta
sulla Tunisia". A parlare è Simona Capocasale, responsabile Paese in Tunisia di Gvc,
Gruppo di volontariato civile, raggiunta telefonicamente dall'Adnkronos a Tunisi.
La marcia diretta verso il Bardo, teatro dell'attentato di qualche giorno fa. "Il museo è stato
riaperto oggi per questa occasione - spiega Capocasale - Siamo tanti e il corteo è anche
partito prima del previsto proprio perché non riusciva ad accogliere tutte le persone nella
piazza. Nonostante la pioggia nessuno ha desistito".
Al corteo "anche molta gente comune oltre agli esponenti delle varie associazioni. Presenti
il Movimento delle donne, gli iracheni, i curdi e rappresentanti da tutto il mondo".
La marcia si è poi conclusa davanti al museo del Bardo. "E' stata una manifestazione
grandissima" dice Raffaella Bolini, coordinatrice delle relazioni internazionali Arci,
raggiunta al telefono dall'Adnkronos. "C'era il diluvio universale, rivoli d'acqua dappertutto
ma anche un fiume di gente che arrivava da tutte le strade. Davvero tanta gente, anche di
Tunisi".
Nello striscione d'apertura anche "la solidarietà alle vittime del terrorismo contro tutte le
forme di violenza e oppressione. Al corteo c'erano bambini, giovani e donne. E' stato
cantato l'inno tunisino, anche da non tunisini, e scanditi slogan come 'la Tunisia non fa un
passo indietro'". Una grande marcia a voler dire "noi ci siamo e non ci arrendiamo".
"La manifestazione è poi terminata davanti all'ingresso del Bardo dove c'era uno striscione
che salutava i partecipanti al Forum. Dentro al museo c'è stata una cerimonia - riferisce
Bolini - a cui sono stati invitati componenti del consiglio internazionale del Forum e delle
diverse delegazioni". La presenza delle forze dell'ordine "era molto visibile, tutte dalla
parte dei manifestanti ovvero a proteggere noi".
http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2015/03/24/via-forum-sociale-mondiale-marciatunisi-fino-bardo_M9xB8kseHFEnpwRnT4CE3K.html
Da Radio Articolo 1 del 25/03/15
Oggi, ore 15:05 - Elleesse - Un altro mondo è possibile. Voci dal WSF di Tunisi. Con R.
Bolini, Arci
Da Radio Città Fujiko del 24/03/15
Al via il Forum Sociale Mondiale a Tunisi
Dal 24 al 28 marzo una nuova edizione del Forum, si scriverà la "Carta
contro il terrorismo".
La manifestazione di apertura del Forum Sociale Mondiale si terrà a Tunisi martedì 24
marzo. Inizierà alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà
davanti al museo del Bardo. Fino al 28 marzo sono attese a Tunisi settantamila persone
provenienti da tutto il mondo per dare vita a seminari, convegni ed eventi culturali.
"Non cediamo il passo al terrore", è lo slogan scelto per il Forum Sociale Mondiale di
quest'anno, che si terrà a Tunisi dal 24 al 28 marzo. La manifestazione di apertura avrà
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inizio alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà davanti
al museo del Bardo. A pochi giorni dall'attentato che ha sconvolto la Tunisia, oltre
settantamila persone da tutto il mondo - dalla Cina agli Stati Uniti al Brasile e l’India prenderanno parte a questa nuova edizione del Forum. Il terrorismo sarà al centro di un
altro appuntamento, il 26 marzo nel campus universitario Al Manara, dove si terrà un
grande incontro per iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il
terrorismo”.
"La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una
terza via fra l’oscurantismo e l’autoritarismo che imperversano nella regione - spiega una
nota dell'Arci, che prenderà parte all'evento con una folta delegazione - Gli attori sociali di
tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla, e denunciano i governi europei e la comunità
internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla". Saranno a Tunisi un gran numero di
sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi
associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni dei paesi in
conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l’Isis, agli iracheni e siriani), le famiglie
politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei.
Saranno presenti delegazioni anche di Syriza e di Podemos.
Il Forum sociale mondiale di Tunisi sarà il terreno che preparerà la mobilitazione mondiale
che avrà luogo a Parigi a dicembre, in occasione della Conferenza Onu sul Clima. "Si
consoliderà l’alleanza europea per il sostegno alla Grecia e contro l’austerità - spiega l'Arci
- si incontreranno i movimenti contro la povertà e contro l’accaparramento della terra. Si
terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il tema dei migranti sarà uno dei cuori
pulsanti del Forum". In particolare, l’Arci è fra i promotori del processo che farà nascere,
durante il FSM, una rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che
sono migliaia e migliaia in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione
speciale del Tribunale Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie,
verità e giustizia.
Intervista a Filippo Miraglia
http://www.radiocittafujiko.it/news/al-via-il-forum-sociale-mondiale-a-tunisi
Da Globalist del 24/03/15
Tunisi alza la testa: belle bandiere sotto il
diluvio
La Tunisi ferita che non si arrende sfila fino al Bardo. Cronaca di una
giornata di lotta e bandiere sotto il diluvio. [Antonio Cipriani]
Antonio Cipriani
mercoledì 25 marzo 2015 09:37
Belle le bandiere che nel pomeriggio di Tunisi sono salite verso il cielo grigio, sfidando la
pioggia e carezzando con i tanti colori del mondo il Bardo. Alla sfida del terrore ha risposto
la sfida corale e vivace della vita. Lungo le strade, a viso aperto, hanno marciato da Bab
Saadoune fino ai cancelli chiusi e segnati dal filo spinato del museo, le ragazze e i ragazzi
della meglio gioventù tunisina, i fratelli arrivati da tutto il Maghreb, dall'Italia, da tutta
l'Europa, dall'America.
Per dire: non abbiamo paura del terrorismo, figuriamoci del diluvio. Ma non solo. Come
racconta Mikel, finlandese che ha vissuto a lungo a Roma, e a Tunisi per il Forum Sociale
Mondiale: siamo qui non solo contro il terrorismo, ma per la pace, per la giustizia e la
solidarietà tra i popoli. Per dire al mondo degli indifesi che non sono soli, che non sono
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dimenticati, e non prevarrà questo sistema di violenze su violenze, nel silenzio assoluto.
Per essere al fianco di Hamed che ha un figlio disperso nel mare di Lampedusa nel marzo
2011; disperso, non morto. Perché di lui e di tanti altri non si sa più niente. Al fianco di
Imed che da quattro anni dedica la sua vita ai migranti dispersi sulla rotta della speranza
con la sua associazione La terre pour tous.
La Tunisi che ha accolto i partecipanti del Social Forum è una città ferita. Lungo le stradine
del suq, nei localini dove si fuma il narghilè, si beve caffè forte e the zuccherosissimo alla
menta, l'esistenza scorre lenta. Tutto sembra sospeso. Le persone fanno la fila al forno
per il pane caldo, il traffico è caotico come sempre, i motorini sfrecciano tra pedoni, gatti,
pozzanghere, ragazzini che giocano. Però dove la Tunisi popolare lascia il posto a quella
istituzionale, si percepisce un tono diverso. Transenne ovunque a impedire passaggi.
Polizia, mitra in mano, sguardi tesi a scrutare lo scorrere dei manifestanti che si muovono
con i loro cori verso il Bardo.
Nel portabagagli aperto di una macchina dei corpi speciali sono seduti armati e
incappucciati due poliziotti armati fino ai denti. Si vedono solo gli occhi: uno sguardo torvo
e uno intenso, scuro, di giovane tunisina. Il contrasto è incredibile. Lo sguardo dell'agente
somiglia a quello di cento mille ragazze in piazza. Col velo, senza velo. Cuori ruggenti che
credono nella rivoluzione. Che si battono per rendere reali parole come democrazia,
giustizia sociale. Per cancellare la parola sfruttamento, emarginazione, segregazione.
Ragazze e ragazzi con un sogno, che vengono dopo quelli dalla primavera e non si
arrendono.
Volontarie vere (mica quella roba da schiavetti di Expo), perché un altro mondo sia
possibile per davvero e non solo sulla carta. O con truffe mediatiche a far credere una
finalità etica a coprire come una foglia di fico cementificazioni, speculazioni, ricchi affari
per pochi fregando il prossimo allegramente. Il fatto interessante è rappresentato dalla
presenza di tanti giovanissimi, una carica di diciottenni. I fratelli minori dei ragazzi della
primavera dei gelsomini tunisini, che quattro anni fa avevano 13-14 anni e che ora sono in
prima fila, a testa alta, sulle strade.
Dall'Italia sono arrivati in tanti. Un segno di attenzione e di vicinanza forte. Il dramma del
mare che ci divide e ci unisce agisce su questa rotta. Da una parte le decisioni politiche
europee e italiane che hanno causato una serie di danni e vittime a non finire; dall'altra i
cittadini, le associazioni che si battono per i rifugiati, per non spegnere i riflettori sulla
barbarie del Mediterraneo. Ci sono quelli dell'Arci, di Legambiente, della Fiom, di El
Mastaba, della Cgil e tanti altri. Qualcuno si interroga sulla presenza o meno dei media
tradizionali italiani. Interessante, quanto inutile, domanda. Forse all'interno di "un altro
mondo è possibile", occorrerebbe inserire la possibilità che chi lo scandisce, lo pensi. E
possa guardare alla costruzione di un sistema alternativo che non abbia alcuna
dipendenza da quello attuale e ufficiale.
Tunisie horra horra. Risuonano i canti di lotta e di resistenza. Canti popolari, belli in ogni
parte del mondo. Gli slogan scanditi in coro. Tanta voglia di Palestina libera espressa da
ogni delegazione dei paesi. Bellissimi, immobili con le tante mani dipinte su uno striscione
ci sono Artists for Palestine. "Siamo davanti al Museo che è stato bagnato dal sangue del
terrore - dice Adbelhamid Khairi dell'Associazione tunisina Terre des Hommes - e diciamo
che i terroristi quello che temono di più è la cultura. Senza conoscenza un popolo è
facilmente manovrabile. Noi siamo contenti di avere qui con noi tutte queste associazioni
che testimoniano interesse per la cultura".
Non solo contro il terrorismo, però. Questo appare chiaro anche nella discussione
preparatoria di questa manifestazione. Perché il Forum Sociale Mondiale ha un suo
percorso fatto di idee, di pensiero che si muove contro l'appiattimento di senso del
pensiero unico. Un appiattimento che porta le persone a vivere le paure come parte
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integrante di un sistema di rinunce e conformismo. Attraverso un immaginario impoverito
che rende sempre meno liberi.
Poi il cielo, che per qualche tempo aveva dato tregua alla manifestazione, si è dipinto di un
viola intenso. E una bufera d'acqua e vento si è riversata su Tunisi, trasformando le strade
in fiumi, bagnando ogni manifestante dalla testa ai piedi. Così le belle bandiere sono
rimaste nei cuori di chi c'era. Negli occhi delle tante persone che applaudivano al
passaggio dai loro giardini, dalle finestre, da fuori i bar. E la notte si è alzata con le sue luci
tenui, il traffico impazzito, i taxi attesi per ore, i sorrisi degli sconosciuti.
Eravamo in tanti? Chiede una ragazza di Torino bagnata come un pulcino. Non si sa,
risponde un ragazzo che camminava al suo fianco, eravamo giusti.
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=71218
Del 25/03/2015, pag. 25
Il ballo della Milano liberata
L’idea per festeggiare il 25 Aprile
«Il sole indugiava ancora all’orizzonte e le rondini garrivano nel cielo del Castello che già
le avanguardie del pubblico affluivano verso i viali del Parco ad assicurarvisi posizioni di
favore....». Comincia così l’articolo del Corriere d’Informazione del 15 luglio 1945, un
minuscolo colonnino (ma tutto il quotidiano, per scarsità di carta, usciva con due sole
pagine in quell’anno di pace appena ritrovata dopo cinque anni di guerra), dedicato al
grande ballo collettivo organizzato il giorno prima al Castello Sforzesco di Milano per
festeggiare la fine delle ostilità. L’iniziativa ebbe un successo strepitoso, tanto da restare
incisa nella memoria della città. Ed è per questo che, per celebrare il 70° anniversario
della Liberazione, Radio Popolare ha avuto l’idea di replicare la festa di allora allargandola
però a tutta l’Italia (case, piazze, strade, teatri, ovunque ci sia la voglia di ballare e
cantare). «Abbiamo chiesto la collaborazione di Arci, Anpi (l’associazione partigiani) e
Insmli (gli istituti di storia della resistenza) — spiega Danilo De Biasio a nome
dell’emittente milanese — per lanciare l’idea: tra un mese esatto, nella notte tra il 24 e il 25
aprile, dalle 10 in poi, cercheremo di far ballare più gente possibile in tutte le città e i paesi,
fino a intonare, tutti insieme, allo scoccare della mezzanotte, un canto collettivo.
L’iniziativa, che si chiama “Liberi anche di cantare e ballare”, ci è sembrata un modo non
scontato per celebrare tutti coloro che hanno lottato per la nostra libertà. Non abbiamo
ancora scelto la canzone, ma probabilmente sarà Bella ciao che in tutto il mondo è
identificata con la resistenza italiana al nazifascismo».
Settant’anni fa l’idea di far ballare la città dopo i lutti e gli odi della dittatura e della guerra
civile fu di Antonio Greppi, il primo sindaco socialista della Milano liberata. Noi oggi
festeggiamo la liberazione il 25 aprile, ma, per chi la visse, quella giornata di 70 anni fa
tutt’altro che una festa: per le strade si sparava ancora, era in corso la caccia a nazisti e
fascisti, ci furono allora e nei giorni successivi giustizia e vendetta che culminarono in
piazzale Loreto con i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi appesi a testa
in giù alla longarina di un distributore di benzina. Greppi decise quindi che in qualche
modo era ora di chiudere la stagione dell’odio e di festeggiare, nel vero senso della parola,
il ritorno alla libertà. Come luogo delle danze fu scelto il Parco Sempione e come giorno il
14 luglio, la festa nazionale francese per la presa della Bastiglia, in segno di solidarietà e
amicizia con i maquisards , i partigiani francesi che avevano combattuto contro tedeschi e
collaborazionisti del governo di Vichy.
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L’organizzazione della «Festa della fraternità e del popolo» (questo il nome completo, un
po’ magniloquente ma l’epoca lo esigeva) fu affidata da Greppi a Paolo Grassi (in quel
momento critico teatrale del quotidiano socialista l’Avanti ) e Giorgio Strehler, che poi con
il Piccolo Teatro sarebbero diventati due giganti della cultura italiana. Le poche foto
dell’epoca mostrano l’Arco della Pace imbandierato con i vessilli delle Nazioni alleate
(Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica) e con il tricolore italiano. La
celebrazione partì con gli inni nazionali, poi la Canzone del Piave, quindi l’Inno dei
lavoratori (vietato da anni e le cui parole erano di Filippo Turati). Poi iniziò la festa «vera»,
cui parteciparono migliaia di persone. Così la descriveva un articolo dell’ Europeo : «Al
Parco sette piste da ballo, nove orchestre, tre palloni frenati e fuochi d’artificio. Ma lo
spettacolo più vivo fu in periferia, con decine di orchestre e di bande che percorrevano la
città in autocarro. Fisarmoniche, violini, chitarre, grammofoni suonavano nelle piazze. E la
gente ballava. Ballavano ricchi e poveri, vecchi e bambini. Tutta Milano ballò nelle strade,
fino oltre l’alba, sotto i lampioncini e le bandiere...».
Chissà se tra un mese succederà lo stesso. A Radio Popolare ci sperano. In sedici città
(per ora), da Milano a Lecce e da Reggio Emilia a Barletta, i circoli Arci si stanno
muovendo per organizzare le danze. «Abbiamo aderito — spiega Francesca Chiavacci,
presidente dell’Arci — perché ci sembra una bella iniziativa che riporta tra noi in modo un
po’ più fresco l’ora della Liberazione». E anche la macchina organizzativa dell’Anpi è in
azione. «È un’iniziativa simbolicamente forte — dice Carlo Smuraglia, numero uno
dell’Associazione — che si aggiunge a quelle tradizionali e che dà il senso di una
comunità viva e vivace che vuole andare avanti con fiducia e coraggio».
Da il Secolo d’Italia del 25/03/15
I quotidiani del 25 marzo visti da destra. 10
articoli da non perdere
di Renato Berio
Sulle prima pagine di oggi, 25 marzo, domina la notizia dello schianto dell’Airbus della
Germanwings che ha provocato 15o vittime: si dà conto della difficoltà dei soccorsi, dello
choc dei parenti e dei paesi coinvolti, delle possibili cause di un disastro che ha commosso
l’Europa facendole ancora una volta rivivere l’incubo del terrorismo. Per la politica la
notizia di rilievo è quella del sì alla prescrizione con l’astensione dei centristi di Alfano. Per
quanto riguarda la cronaca due gli avvenimenti principali: il braccio destro di Zingaretti,
Maurizio Venafro, dimissionario perché coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale e il
ritrovamento secondo i pm delle “mazzette” destinate al supermanager Incalza: buste
nascoste tra i libri dell’indagato Adorisio, socio della Green Field. Grande spazio sui
giornali anche alla decisione di Angelina Jolie di farsi asportare le ovaie per non ammalarsi
di cancro.
1) La gita maledetta della classe di liceali cancellata nell’impatto (la Repubblica, p.4)
Andrea Tarquini racconta il dolore dei ginnasiali di Haltern dopo la tragedia dell’aereo
caduto sulle montagne della Provenza. “Mazzi di fiori, rosse candele funebri accese,
animali di pelouche dell’infanzia: i simboli del lutto sono ovunque al Joseph-KonigGymnasium di Haltern am See… ovunque scritte coi gessetti o con gli spray ‘vi vogliamo
bene’, ‘ci mancherete sempre’, ‘non vi dimentichiamo’. Il dolore ha cancellato ogni altra
sembianza della scuola”.
2) La partita delle low cost (Il Sole 24 Ore, p.1)
Gianni Dragoni spiega che le compagnie a basse tariffe hanno raggiunto in Europa una
quota di mercato del 32%. Le compagnie tradizionali inseguono dunque questo modello,
10
con taglio di costi e procedure che i piloti contestano. Ora il piano Lufthansa di puntare su
Germanwings (che costa il 20% in meno) dovrà fare i conti con la tragedia dell’Airbus 320
che “con 24 anni di servizio è uno dei più vecchi della flotta del gruppo”.
3) Ecco le sei inchieste sulla metro di Roma (Il Tempo, p.1)
Il quotidiano romano dedica l’apertura e due pagine interne alle inchieste della
magistratura sui costi e i lavori delle linee B e C della metro. Sei indagini sono state aperte
dalle procure in due città. I magistrati di Firenze si concentrano su Ercole Incalza, i pm
romani stanno invece valutando costi e modalità dei lavori per costruire la linea C.
4) Indagati, faide e pugnalate alle spalle. E se l’Impero di Renzi finisse a Roma? (Il
Giornale, p.1)
Vittorio Macioce in un editoriale sottolinea che Roma è il tallone d’Achille di Matteo Renzi.
La zona “oscura e melmosa” che rischia di oscurare la sua fortuna. Una “discarica di
malaffare” che potrebbe travolgere Renzi perché nella Capitale il Pd è il “partito Stato”
vittima di correnti e clientelismi, con un sindaco che naviga a casaccio e la Regione di
Zingaretti che affonda nella palude degli scandali.
5) De Girolamo: “Renzi ci deve rispettare altrimenti noi usciamo” (La Stampa, p.9)
Intervistata da Francesca Schianchi la capogruppo dell’Ncd alla Camera Nunzia De
Girolamo ipotizza l’appoggio esterno al governo se il premier dovesse ostinarsi a non
accettare “le idee che caratterizzano la nostra presenza al governo”. Dopo il caso del ddl
sulla prescrizione i rapporti vanno chiariti. “A Renzi abbiamo donato il sangue e lui ne ha
avuto tutti i vantaggi, da quello elettorale a quelli mediatici. Ora deve avere più rispetto di
noi”.
6) Tv, se il dolore fa disinformazione (Avvenire, p.23)
Roberto I.Zanini scrive dell’indagine dell’osservatorio di Pavia su 300 ore di trasmissione
centrate su fatti di cronaca nera di sei canali. I punti critici di questo tipo di informazione
sono due: raffigurazione strumentale del dolore e spettacolarizzazione seriale del dolore.
Tra i programmi promossi Unomattina e I fatti vostri, tra quelli bocciati Chi l’ha visto? e
Pomeriggio cinque.
7) Paura di dirsi cristiani a Londra (Il Foglio, p.1)
Matteo Matzuzzi informa i lettori di un rapporto della commissione Pari opportunità della
Gran Bretagna che ha raccolto duemila casi di insulti e derisioni ai cristiani che avevano
testimoniato la loro fede. Si va dalla “bambina umiliata davanti a tutta la classe perché ha
osato dire che l’universo è stato creato da Dio” agli impiegati che nascondo in ufficio i
simboli della loro religione (rosari, crocifissi) perché dal 2010 è vietato esibire la propria
confessione per evitare “discriminazioni” a danno di altre fedi.
8) Gassman: “Il paese muore di corruzione, Barracciu lasci” (Il Fatto, p. 9)
Intervista all’attore Alessandro Gassman protagonista di un battibecco su twitter con la
sottosegretaria del Pd Francesca Barracciu, alla quale ha chiesto pubblicamente di
dimettersi perché indagata per peculato. “Barracciu – dice l’attore – ha dimostrato tutta la
sua arroganza. Ma è quello che volevo. Ha risposto che avrei dovuto imparare a fare
l’attore prima di chiedere il biglietto agli spettatori. Non cambio idea: tutte le persone che
ricoprono un ruolo di responsabilità e sono indagate devono farsi da parte”.
9) Il ballo della Milano liberata. L’idea per festeggiare il 25 aprile (Corriere della sera, p.
25)
Paolo Rastelli racconta dell’idea di Radio Popolare, emittente milanese, che assieme
all’Anpi nella notte tra il 24 e il 25 aprile vuole far cantare e ballare “più gente possibile in
tutte le città” fino a intonare un “canto collettivo” a mezzanotte che non potrà essere che
Bella ciao. Un’idea discutibile viso che quella data fu segnata da lutti e sangue in ricordo
dei quali c’è poco da ballare e cantare. Per ora sono sedici le città coinvolte grazie ai
circoli Arci.
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10) La Littizzetto sfotte le sue ma ne esce con le ossa rotte (Libero, p. 1)
Bruna Magi commenta l’infelice battuta di Luciana Littizzetto contro le clarisse di Napoli
che hanno accolto con “eccessivo” entusiasmo papa Francesco (“Non si sa se non
avevano mai visto un Papa o un uomo”). Ma la vera notizia è stata la replica delle suore,
giunta via Facebook e assolutamente pertinente: “Aggiorna il tuo immaginario
manzoniano”. Littizzetto voleva accusare le suore di essere retrograde, è lei invece a stare
“ferma” all’Ottocento.
http://www.secoloditalia.it/2015/03/i-quotidiani-25-marzo-visti-destra-10-articoli-nonperdere/
Da Vita.it del 24/03/15
Per un'estate fuori dagli schemi... pensaci
adesso
Di Antonietta Nembri
Sono tantissime le possibilità offerte da ong e associazioni di trascorrere un periodo da
volontari in un workcamps, in Italia o all'estero. Occasione per incontrare altri giovani e
approfondire la conoscenza del mondo che ci circonda. Iscrizioni aperte... affrettatevi
La primavera è appena iniziata ed è già ora di pensare a cosa fare la prossima estate.
Anzi per chi vuole trascorrere le vacanze in modo diverso: divertendosi e allo stesso
tempo rendendosi utile anche agli altri il tempo per decidere è adesso. Marzo è del resto il
momento in cui le diverse realtà, associazioni e ong, che organizzano i campi di
volontariato presentano programmi e progetti, proposte ogni anno con qualche novità.
E gli slogan che vengono scelti acchiappano l’occhio di chi gira su siti e social, anche
perché l’online è il mezzo più utilizzato dalle organizzazioni per far conoscere i propri
progetti.
Tra le prime realtà ad aprire le iscrizioni ci sono Fondazione Arché Milano e l’associazione
Amani che hanno come meta l’Africa.
Arché anche quest’anno offre l’opportunità di vivere un’esperienza di solidarietà e
condivisione nella tradizionale meta dello Zambia, dove i volontari hanno anche
l’opportunità di monitorare l’andamento del progetto “Zambia: istruzione per la vita”. I
volontari sono ospitati nella missione gesuita di Chikuni e accompagnati sul territorio dal
comitato locale che gestisce il progetto a favore degli orfani.
Arché non chiede quote di partecipazione, a carico del volontario ci sono i costi del viaggio
aereo e l’assicurazione. Per la copertura delle spese di vitto i volontari sono invitati a
lasciare un’offerta libera ai missionari.
Il campo si svolgerà nel mese di agosto, i posti vanno a esaurimento e chi volesse partire
con Arché è invitato a iscriversi al più presto chiamano il numero di Milano 02.6688521
oppure scrivendo a: [email protected]
Kenya e a Lusaka in Zambia. Chi parteciperà ai campi promossi da Amani s’immergerà
nella realtà delle due città africane, condividendo la vita quotidiana dei bambini e dei
ragazzi accolti a Kivuli Centre e al Mithunzi Centre, o delle bambine e ragazze della Casa
di Anita. Il periodo del campo è agosto e prima della partenza i volontari sono invitata a un
percorso di formazione della durata di 5 weekend che precedono la partenza.
Le spese di viaggio sono a carico dei volontari, mentre per vitto e alloggio viene richiesto
un contributo di 10 euro al giorno. Tutte le informazioni sul sito dell'associazione o
scrivendo a campi[at]amaniforafrica.it.
“Estate selfie? No grazie, estate workcamps!” è questo l’invito che arriva da Lunaria, una
Aps impegnata nella promozione e organizzazioni di campi di volontariato dal 1992. In
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poco più di vent’anni sono oltre 20mila i volontari italiani e stranieri coinvolti. Solo lo scorso
anno circa mille giovani si sono impegnati in 52 Paesi del mondo. Lunaria partecipa alla
rete internazionale di associazioni riunite nell’Alliance of International Voluntary Service
Organization. Oltre 2mila i progetti disponibili sul sito dell’associazione ai quali possono
partecipare ragazzi italiani dai 15 anni su. Due le novità dell’estate 2015: la prima consiste
nella possibilità di partire con un gruppo di italiani coordinato da un volontario esperto per
due progetti in Kenya e Uganda. Una seconda novità riguarda la possibilità di ottenere un
certificato di riconoscimento delle competenze partecipando al Post Camp Event, previsto
in ottobre, per chi ha partecipato a un workcamp.
Per quanto riguarda la possibilità di viaggi in gruppo il periodo previsto è per l’Uganda
dall’1 al 16 luglio, mentre in Kenya il campo si terrà dal 10 al 25 luglio. Per chi intende
partecipare a questi due campi è previsto anche un training residenziale a maggio. Chi
fosse interessato può avere maggiori informazioni scrivendo a: workcamps[at]lunaria.org
Per conoscere gli oltre 2mila progetti di volontariato internazionale nei campi di impegno e
supporto sociale, cultura, eventi e festival, ma anche ambiente e agricoltura e i più antichi
e tradizionali campi di costruzione e manutenzione il consiglio è quello di andare sul sito
oppure scaricare l’App (iOs e Android). Il suggerimento che arriva da Lunaria è quello di
scegliere in base alle proprie inclinazioni e sensibilità. Un accorgimento, trattandosi di
campi internazionali la conoscenza dell’inglese o della lingua del paese ospitante è
indispensabile.
Italia, Europa e perché no il mondo sono le mete scelte per i campi 2015 da Ibo Italia,
l’associazione italiana soci costruttori ong membro di Focsiv che quest’anno, accanto ai
campi tradizionali riservati ai maggiorenni (in Italia ed Europa) o agli over 21 (le mete
extraeuropee) viene fatta la proposta anche agli adolescenti tra i 14 e i 17 anni di
partecipare a esperienze in campi di lavoro e solidarietà in Italia e in Europa. Quattro le
mete italiane: a Biancavilla (CT), in una realtà di accoglienza per persone in difficoltà, a
Salvatonica (FE) partecipando alla ricostruzione di un villaggio danneggiato dal recente
terremoto, che ospiterà mamme e bambini in stato di bisogno. Oppure a San Leonardo di
Cutro (KR) e Vernazza (SP) dedicandosi alla tutela della legalità e del paesaggio con
ragazzi di tutto il mondo. Diverse le mete per l’estate 2015, tutte le informazioni e i format
per iscriversi sono online al sito dell’ong. Prima di partire sono previsti incontri pre-campo
per conoscere le realtà in cui ci si reca e la cultura del posto. Per quanto riguarda i costi
c’è una quota di iscrizione che è di 160 euro per i campi in Italia ed Europa e 210 euro per
quelli fuori Europa, a questo costo va aggiunto il volo (nel caso) e a volte degli extra da
dare alla comunità ospitante. Ma tutte le spese sono segnalate al momento dell’iscrizione.
Un centinaio i posti a disposizione per partecipare al progetto “Terre e libertà” proposto
dall’ong delle Acli Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli) che da oltre vent’anni
opera nel settore della cooperazione internazionale. Sono quattordici le località previste
per campi di animazione a favore di bambini dai 6 ai 14 anni in Albania, Bosnia
Erzegovina, Kosovo. Moldova, Kenya, Mozambico e Senegal. Al progetto partecipano
anche gruppi di scout che si recheranno nelle mete europee di Kosovo e Bosnia
Erzegovina. Età minima per partecipare ai campi è 18 anni per le mete europee, mentre
per le destinazioni africane si richiedono almeno 22 anni. È prevista anche un’età
massima consigliata che è di 50 anni. Del resto l’età media dei campisti è di 24/25 anni. I
campi, della durata di due / tre settimane nei mesi di luglio e agosto.
Due date di chiusura per le iscrizioni: il 27 aprile per le mete extra-europee, mentre per
tutti gli altri campi è il 15 giugno. Slogan dell’estate 2015 è l’invito: “Porta i tuoi piedi fuori
dai luoghi comuni…”. I volontari che partecipano ai progetti di Ipsia saranno divisi in
équipe composte da un numero minimo di 6 a un massimo di 9 volontari, in ogni équipe vi
sarà un responsabile della ong. La formazione è obbligatoria, avvisano gli organizzatori, si
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tratta di due incontri pre-partenza e uno al termine dell’esperienza. Gli incontri formativi si
terranno il 20 e 21 giugno e il 4 e 5 luglio. Tutte le informazioni, e i particolari dell’iscrizione
(tramite format elettronico) sono online al sito del progetto: www.terreliberta.org.(la foto di
copertina è tratta dalla pagina Fb di Terre e LIbertà ed è stata scattata nell'estate scorsa in
Kosovo)
Una proposta di volontariato all’estero rivolta ai giovani quella che arriva dall’associazione
Bambini in Romania che da alcuni anni organizza campi estivi di volontariato
internazionale negli istituti e nelle comunità in Romania e in Repubblica Modolva. Si tratta
di quindici giorni di attività di animazione e ricreative con bambini e ragazzi dai 3 ai 20
anni. Tre i turni previsti per l’estate 2015: 4-18 luglio, 18 luglio -1 agosto e 1-15 agosto. Le
iscrizioni chiudono il 28 aprile.
Un hashtag caratterizza la proposta di Libera per i campi estivi 2015 in Italia #estateliberi.
Si tratta di campi di volontariato che vengono organizzati sui terreni confiscati alle mafie e
che prevedono momenti di lavoro agricolo o di risistemazione del bene, di formazione e,
infine, di incontro con il territorio per uno scambio interculturale. Per pubblicizzare questi
campi su Youtube è presente anche un video girato la scorsa estate alla Fattoria della
Legalità a Isola del Piano (PU). Aggiornamenti e informazioni sulla pagina ad hoc di
Libera.
Non sono ancora note le mete per la prossima estate proposte da Arcs e Arci che dal
2007 promuove accanto ai classici campi formativi anche dei workshop di reportage tenuti
da fotografi professionisti con l’obiettivo di avvicinare i giovani italiani a realtà e
problematiche attraverso lo strumento fotografico. Mete principali sono il sud America, il
Nord Africa, il Medio Oriente e i Balcani. I campi dell’estate 2015 – fanno sapere
dall’organizzazione – saranno incentrati sui workshop fotografici che offrono l’occasione di
coniugare passione artistica e impegno sociale. I dettagli delle mete, le attività previste e le
quote di partecipazione saranno resi noti sul sito di Arcs
http://www.vita.it/it/article/2015/03/24/per-unestate-fuori-dagli-schemi-pensaciadesso/131846/
Da Repubblica.it del 24/03/15
Due giorni di cinema e cultura con Antonietta
De Lillo
di PAOLO DE LUCA
Un anniversario e un’anteprima per Antonietta De Lillo, per due giorni dedicati a cinema e
cultura. La regista napoletana sarà infatti giovedì 26 alle 15 alla succursale del liceo
Pansini (in via Sangro), per assistere alla proiezione de “Il resto di Niente”, la sua
trasposizione cinematografica del capolavoro di Enzo Striano, a dieci anni esatti dall’uscita
in sala.
L’indomani, venerdì 27 alle 21, il cinema Astra in via Mezzocannone accoglierà in
anteprima nazionale la visione del suo ultimo docufilm “Let’s go”. La pellicola, con
montaggio di Giogiò Franchini e musiche di Daniele Sepe, è prodotta da Marechiarofilm, in
collaborazione con Rai Cinema. Presentata al Torino Film festival e in programmazione
già dalle prossime settimane, racconta una delle tante facce del Paese, stremato dalla
crisi. E lo fa attraverso storia di Luca Musella, fotografo, operatore e scrittore, esodato.
Luca attraversa un impasse professionale che, inevitabilmente, si ripercuote anche sulla
sua vita emotiva. Ma non si lascia abbattere. Il protagonista ripercorre la propria vita in un
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testo-lettera scritto da lui stesso e in un viaggio reale e ideale attraverso Napoli, sua città
natale e Milano, il luogo della sua nuova esistenza.
Luca infatti si rialza. Il film racconta proprio questo: “Non tanto la volontà - spiega la
stessa
De Lillo - di raccontare la "caduta" di Luca, quanto il desiderio di mostrare l'incapacità della
collettività di sostenere chi è in difficoltà. Le cadute fanno parte della vita, siamo noi a
essere diventati troppo fragili per accettarle”. L’anteprima all’Astra rientra nella
programmazione di “Astradoc”, rassegna dedicata al cinema documentario, a cura di Arci
Movie e Parallelo 41 con l’università Federico II.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/03/25/news/due_giorni_di_cinema_e_cultura_con_
antonietta_de_lillo-110415730/
Da la Nazione del 25/03/15 (Livorno)
Un vagone di cibo per i bisognosi
Cordata di benefattori dà una mano al Comune: la distribuzione
Alimenti per famiglie bisognose Alimenti per famiglie bisognose
Livorno, 25 marzo 2015 - PASTA, pane di semola a fette, panini, merendine, sughi pronti,
cipolle borlotti, fagioli, lenticchie, orzo, legumi per un totale di una tonnellata e 500 chili.
Tutti donati dalla catena di supermercati Penny e benefattori anonimi. Questi alimenti sono
stati consegnati al Comune che ieri li ha distribuiti (attraverso la protezione civile) alle
associazioni che sostengono le famiglie in difficoltà: Livorno per Tutti, Arci Solidarietà (si
presenterà però giovedì), Opera Santa Caterina, Salesiani, Don Nesi, la Croce Rossa
Croce.
LA ASSOCIAZIONE Livorno per tutti ha sede in via della Gherardesca 11/A (zona
Ardenza) all’interno di un fondo messo a disposizione dalla Croce Rossa. La presiede
Mario Atteritano. Si può contattare al 347-0484350 per segnalazioni e richieste di aiuto.
«Abbiamo organizzato un emporio solidale – spiega il presidente – che sarà operativo a
breve». Intanto ha già preso in consegna venti famiglie (su segnalazione delle chiese
Evangeliche) che le hanno selezionate in base all’Isee perché beneficino delle donazioni
di alimenti. Opera Santa Caterina ha settanta famiglie in carico. Ce lo dice la presidente
Angela Dalena. «Il 60% sono livornesi e crescono di numero ogni giorno. Le selezioniamo
in base all’Isee e collaboriamo con gli assistenti sociali che spesso ci contattano
chiedendo il nostro aiuto perché il Comune ha meno soldi per le emergenze sociali».
Opera Santa Caterina consegna pacchi alimentari che bastano al sostentamento delle
famiglie per un mese. «Tutto frutto di donazioni tra cui quelle della sezione femminile del
Libertas Tennis Club sempre in prima linea per aiutarci». Le famiglie con figli «sono
assistite per sei mesi poi viene fatta una verifica. Gli anziani a tempo indeterminato; tutti gli
altri per tre mesi a rotazione». La sede è in piazza Anita Garibaldi 2. La consegna avviene
il martedì dalle 17 alle 19 e il secondo e quarto lunedì del mese dalle 16.30 alle 18.30.
Infine Anna Braccini presidente della sezione di Livorno e provincia della Croce Rossa
racconta: «Gestiamo 250 famiglie per un totale di 2000 persone». I pacchi alimentari sono
consegnati dalle 10 alle 12 nella sede di via Masi 7. «Aiutiamo stranieri e soprattutto
livornesi. A Tutti chiediamo l’Isee e collaboriamo con gli assistenti sociali e le altre
associazioni per evitare che le stesse persone facciano il giro di più punti di distribuzione».
Monica Dolciotti
http://www.lanazione.it/livorno/pasta-poveri-1.792889
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Da Avvenire del 25/03/15, pag. 9
Migranti, 5 su 100 muoiono in mare
Alessia Guerrieri
Proteggere le persone, prima dei confini. Perché davanti all’aumento delle «vittime delle
frontiere», la risposta deve essere un sistema permanente d’accoglienza. Un canale
umanitario, insomma, in cui la parola d’ordine sia mobilità transnazionale e integrazione,
non Cara (Centro d’accoglienza per richiedenti asilo) e Cie (Centro d’identificazione ed
espulsione).
Due realtà, queste, che verranno poste sotto la lente d’ingrandimento «già da questa
settimana» dalla Commissione d’inchiesta parlamentare, «finalmente messa in condizione
di lavorare», dice uno dei membri, il deputato Paolo Beni (Pd), durante l’incontro Protect
people not borders, organizzato alla Lumsa di Roma dall’associazione studentesca Good
morning, youth e dal "Comitato 3 ottobre".
Una commissione istituita alla Camera a fine novembre, ma ancora non operativa, in cui
21 deputati avranno tempo un anno per analizzare le condizioni di permanenza dei
migranti in queste strutture – in Italia i Cara sono 14 e i Cie 13, ma attualmente attivi solo 5
– il loro sistema di gestione e le procedure di affidamento della direzione dei centri.
Parallelamente però, Italia ed Europa, dovranno ripensare le politiche sull’immigrazione e
sull’asilo.
Va innanzitutto superata la logica dell’approccio emergenziale, secondo la portavoce
Acnur per il Sud Europa Carlotta Sami, prendendo coscienza tuttavia dell’aumento del
numero delle persone «che fuggono dal terrore» e che muoiono attraversando il
Mediterraneo «perché non hanno alternative, né un canale legale per venire nel nostro
continente».
Dall’inizio dell’anno, infatti, le vite perse in mare sono più di 400, «5 ogni 100 migranti,
mentre nel 2014 il rapporto era 2 ogni 100». In sostanza, «lavorare per la pace», «istituire
un canale umanitario», più che concentrarsi «sulla tutela dei confini», sono per il
rappresentante dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, le azioni politiche su cui
Bruxelles dovrebbe orientarsi. Altrimenti si continuerà a «fare scelte sbagliate» aggiunge
Sami, a crearsi alibi, «a non cercare una strategia comune per l’asilo». Il che significa non
risolvere il problema.
L’Unione Europea, difatti, nel periodo 2008-2013 ha stanziato il triplo dei fondi per la
protezione delle frontiere rispetto a quelli destinati all’accoglienza: un miliardo e 820 milioni
contro 630 milioni. «Una sproporzione» dicono i ragazzi di Good morning, youth, che
dimostra come «la comunità internazionale sia in realtà più un’individualità
internazionale». Il tema dell’immigrazione, invece, gli fa eco il rettore dell’ateneo che ha
patrocinato l’evento, Francesco Bonini, «consente di guardare in prospettiva e in
profondità» il mondo attuale, «costruendo relazioni» attente alla persona e ai cambiamenti.
«Occorre dunque un progetto di lungo periodo per proteggere la vita» per Tareke Brhane,
presidente del Comitato 3 ottobre – nato proprio dopo la tragedia a largo di Lampedusa
del 2013 in cui morirono 368 stranieri – perché l’indifferenza è costata già «20mila morti
negli ultimi dieci anni». Dietro ogni rifugiato e ogni migrante c’è appunto una storia «che ha
più punti di contatto con noi di quello che immaginiamo», ammette Donatella Parisi,
responsabile comunicazione del Centro Astalli. Quindi dopo anni in cui si parla solo di
accoglienza – aggiunge – bisogna iniziare a lavorare sull’integrazione «dando opportunità
a queste persone di mostrare il meglio che hanno da offrire».
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 25/03/15, pag. 2
Il Social forum nel posto giusto al momento
giusto
Giuliana Sgrena
TUNISI
«Je suis Bardo». La manifestazione contro il terrorismo e a fianco dei
tunisini che ieri, sotto un nubifragio, ha aperto il Forum sociale
mondiale. Voci, slogan e colori – dal giallo di Amnesty al rosso delle
bandiere tunisine – che danno il senso di quello che da oggi sarà la
kermesse ospitata nel campus universitario del Manar
Un violento nubifragio, che ha oscurato il cielo di Tunisi e trasformato le vie in torrenti in
piena, ha messo a dura prova i partecipanti al Forum sociale mondiale che hanno voluto
aprire la kermesse proprio con una manifestazione di solidarietà con i tunisini contro
l’attacco terroristico che una settimana fa ha colpito il museo del Bardo.
La manifestazione, partita da Bab Saadoun, aveva come obiettivo il luogo dove si è
consumato il terribile attentato che ha provocato la morte di ventidue persone, tra cui
quattro italiani, e decine di feriti. Ma all’entrata del museo i manifestanti non si sono potuti
nemmeno avvicinare per le ingenti misure di sicurezza che dovevano proteggere l’apertura
simbolica del Bardo con un concerto riservato a personalità invitate. Tra i privilegiati che
ieri hanno varcato il cancello del museo vi era anche il ministro degli esteri italiano Paolo
Gentiloni, che ha anche visitato le due italiane ancora ricoverate in ospedale.
La solidarietà palestinese
Due anni fa, l’edizione precedente del Social Forum si era conclusa con una
manifestazione per la Palestina aperta da un’enorme bandiera palestinese, per l’appunto.
La stessa bandiera, retta, tra gli altri, dal noto esponente palestinese Mustafa Barghouti,
ha aperto anche la marcia di ieri. «Siamo qui come palestinesi per esprimere la nostra
solidarietà al popolo tunisino, ma anche per promuovere la nostra lotta contro l’apartheid
imposto da Israele e contro il terrorismo: quello perpetrato da Israele contro il popolo
palestinese è il peggior terrorismo», ha detto Barghouti. «La violenza non ha patria e
distrugge i popoli», recitava uno striscione.
E mentre la bandiera palestinese diventava sempre più pesante sotto gli scrosci d’acqua,
gli slogan urlati a squarciagola incrociavano la solidarietà con la Tunisia a quella con altri
popoli sotto la minaccia del terrorismo globalizzato dell’Isil e non solo. Senza dimenticare
che una delle prime vittime del terrorismo è stato nel febbraio del 2013 un leader politico
del Fronte Popolare, Chokri Belaid, seguito, in luglio, da Mohamed Brahmi. Due anni fa, il
ricordo di Chokri, assassinato meno di due mesi prima dello svolgimento del Forum, era
vivo e le sue immagini coprivano la centrale Avenue Bourghiba. Ieri invece mi ha fatto
tristezza incontrare Basma, la vedova, quasi al fondo del corteo con alcuni familiari e con
un solo ritratto del marito.
Tra le magliette con bandiere e slogan non mancavano quelle con la scritta «Je suis
Bardo», diventato ormai lo slogan internazionale per sostenere le vittime del terrorismo.
Voci, slogan e colori – dal giallo di Amnesty al viola delle donne della Marcia mondiale, al
rosso prevalente nelle bandiere tunisine, ad altri ancora – davano il senso di quello che
sarà il Forum che si aprirà oggi nel campus universitario del Manar. Un appuntamento
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fortemente voluto e mantenuto dagli organizzatori tunisini nonostante le difficoltà
provocate dall’attentato terroristico, che però non ha messo in ginocchio la Tunisia. Anzi.
Certo sono aumentate le misure di sicurezza, all’aeroporto la fila al controllo passaporti è
particolarmente estenuante, soprattutto con gli arrivi in massa di questi giorni. La città
invece non appare assolutamente militarizzata, ieri per la manifestazione erano solo
chiuse alcune vie, ma immaginiamo che le misure di sicurezza saranno più evidenti per la
marcia di domenica prossima alla quale parteciperanno leader politici a livello
internazionale. L’Italia ci sarà, ha assicurato ieri Gentiloni al ministro degli esteri tunisino.
La gratitudine per gli stranieri
A rendere percepibile la gratitudine dei tunisini nei confronti degli stranieri che, nonostante
il terrorismo, vengono a Tunisi, erano le persone che sostavano sui marciapiedi, uscivano
dai negozi o guardavano dai balconi applaudendo e salutando i manifestanti. Il Forum
sociale mondiale non poteva scegliere una sede migliore.
E l’arrivo di decine di migliaia di partecipanti al Fsm è stata anche un’ottima risposta ai
cittadini che hanno lanciato l’hashtag #visit Tunisia esibito su cartelli ieri mattina davanti al
museo del Bardo. La pioggia inclemente – dopo giornate primaverili – non aveva dissuaso
nemmeno i tunisini che fin dal mattino si erano ritrovati per testimoniare il loro sdegno, la
rabbia, ma soprattutto la determinazione a opporsi a chi vuole distruggere la loro
rivoluzione.
Erano semplici cittadini: molti giovani che hanno approfittato delle vacanze scolastiche, ma
anche persone anziane, mamme con i figli. Meriem con in braccio Mohammed, un
bambino di un anno, inutilmente cercava di calmare il suo pianto e resisteva sotto la
pioggia: «Non posso rinunciare al futuro per mio figlio». Intanto i giovani agitavano la
bandiera tunisina e cantavano l’inno nazionale. La pioggia era anche l’occasione per
esibire l’ombrello con la scritta «I love Tunisia». La scenografia era perfetta.
Menem e Aziza hanno appena quattordici anni, sono studentesse del liceo Pasteur. «Non
dobbiamo cedere alla paura, altrimenti avrebbero già vinto i terroristi», mi hanno detto. E
Aziza ha aggiunto che i terroristi sono ragazzi ai quali è stato fatto il lavaggio del cervello
per costringerli con i soldi a sfruttare le persone che vivono nella miseria. E Ali, padre di
Menem, spuntato alle sue spalle ha aggiunto: «Anche se avessimo paura, non dobbiamo
assolutamente trasmetterla ai nostri figli».
Per l’occasione c’era anche una banda folkloristica e qualcuno aveva addirittura portato
dei cammelli. L’obiettivo, oltre che esorcizzare la paura, è anche quello di salvare una
delle risorse più importanti del paese: il turismo. E lo è anche per il governo che però ha
deciso di rinviare l’apertura del museo.
A poter varcare i cancelli del Bardo ieri erano in pochi, autorità e invitati, per noi, come per
tutti gli altri accorsi all’appuntamento non resta che aspettare una migliore occasione.
Cadono le prime teste
Tutta l’area che comprende il museo e l’assemblea nazionale (parlamento) ora è sotto
stretto controllo, ma così non era prima, poiché sono cominciate a cadere le teste dei capi
dei servizi di sicurezza. Per fortuna i terroristi non hanno fatto in tempo ad azionare la
carica di esplosivo che portavano addosso, ha affermato il presidente tunisino Beji Caid
Essebsi, perché sono stati colpiti prima.
Cominciano anche a circolare voci su possibili ripercussioni dell’attentato sul governo. Non
sono mancate critiche al partito islamista Ennahdha che, durante il governo della troika
aveva dato ampia copertura alle frange estremiste e al reclutamento di jihadisti da inviare
in Siria. Ora Ennahdha ha un ministro nel governo costituito in maggioranza da Nidaa
Tounes, partito laico di centro. Il presidente Essebsi nelle interviste dei giorni scorsi ha
dichiarato che «il terrorismo non ha una tradizione in Tunisia. La crescita del jihadismo nel
18
paese è avvenuta negli ultimi anni» grazie «al lassismo delle autorità, durante il governo
islamista».
È la fine della luna di miele tra laici e islamisti, come si chiede il quotidiano Le Temp?
Da Vita.it del 24/03/15
Tunisia
Forum Sociale Mondiale, si parte
Di Giada Frana
Insieme al proseguimento della rivoluzione dei diritti e della dignità, per un migliore mondo
possibile, a fare da collante per i partecipanti dell’edizione 2015 ci sarà anche la lotta la
terrorismo. Per questo in apertura ci sarà una grande manifestazione in ricordo delle
vittime del museo Bardo
Mancano ormai poche ore alla cerimonia di apertura della 13esime edizione del Forum
Sociale Mondiale. La marcia simbolica di apertura sarà dedicata alle vittime dell’attentato
del museo del Bardo e a tutte le vittime del mondo che sono cadute per mano del
terrorismo.
La lotta contro il terrorismo diventa così un ulteriore collante per i partecipanti all’edizione
2015 del Forum Sociale, insieme al proseguimento della rivoluzione dei diritti e della
dignità, per un migliore mondo possibile. Fino a sabato, il campus universitario El Manar
sarà in pieno fermento culturale.
Il programma delle diverse giornate sarà suddiviso in tre momenti: spazio ai dibattiti dalle
8.30 alle 11.00, poi dalle 11.30 alle 14.00, per riprendere nel pomeriggio dalle 15.00 alle
17.30. In ogni momento, i partecipanti avranno l’imbarazzo della scelta nel decidere a
quali dibattiti prendere parte: si parlerà di tematiche inerenti a cittadinanza, economia,
diritti dell’uomo, tematiche ambientali, immigrazione e giustizia sociale.
Inoltre dal 25 al 27 marzo, presso il cinema «Le Colisée» , dalle 19.30 alle 22.30, si
svolgerà la cosiddetta “tavola della controversia”, durante la quale, attraverso diverse
conferenze, degli specialisti affronteranno tematiche economiche e politiche presentando
tesi e antitesi.
http://www.vita.it/it/article/2015/03/24/forum-sociale-mondiale-si-parte/131848/
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ESTERI
del 25/03/15, pag. 18
Boko Haram rapisce centinaia di donne e
bambini
Scoperto in Nigeria un nuovo sequestro di massa compiuto dagli
estremisti. Sabato si vota per le presidenziali
PIETRO DEL RE
STAVOLTA
hanno sequestrato tra le quattro e le cinquecento persone, tutte donne e bambini. E’
questa l’ultima fra le nefandezze degli islamisti Boko Haram venuta alla luce: è stata
compiuta nel villaggio di Damasak, nel nord della Nigeria, lo stesso riconquistato pochi
giorni fa dalle truppe di Niger e Ciad, dove prima di partire gli islamisti avevano sgozzato e
buttato in un pozzo un centinaio di civili. Souleymane Ali, testimone del rapimento di
massa, ha detto alla Reuters: «Hanno sequestrato 506 persone tra bambini e giovani
donne. Ne hanno uccise una cinquantina prima di andarsene. Non sappiamo se hanno
anche ammazzato altre persone dopo aver lasciato la città». Lo scorso aprile, nel vicino
villaggio di Chibok, la setta aveva assaltato una scuola e rapito trecento liceali, di cui da
allora si è persa ogni traccia, anche se è verosimile che le ragazze se le siano spartite
come bottino di guerra le soldataglie islamiste.
Damasak era stata riconquistata all’inizio di marzo durante l’offensiva in grande stile
condotta dalle forze congiunte di Niger, Ciad, Camerun e Nigeria. Le perdite nei
combattimenti erano state pesanti: circa 200 miliziani uccisi e almeno dieci morti e 20 feriti
fra le truppe ciadiane.
Il maxi sequestro venuto alla luce ieri è solo l’ultima barbarie firmata dai jihadisti che in
quella regione vorrebbero creare un Califfato e che con i loro ripetuti attacchi hanno
costretto il governo di posticipare le elezioni del più popoloso Paese d’Africa a sabato
prossimo.
Due giorni fa, il presidente Goodluck Jonathan ha dichiarato che basterà un mese per
sconfiggere definitivamente Boko Haram. Ma molti temono che quella del presidente
nigeriano sia solo una promessa elettorale scarsamente credibile.
Dopo i 13mila morti provocati negli ultimi 6 anni dalla jihad, la questione della sicurezza è
fondamentale per una parte dei 68,8 milioni di elettori nigeriani, in particolare per quanti
vivono nel nord del Paese a maggioranza musulmana, chiamati sabato prossimo a
eleggere il nuovo presidente e il nuovo parlamento. Se il corrotto esercito nigeriano,
sostenuto dalle truppe dei Paesi vicini, ha registrato diversi successi contro gli islamisti
nelle ultime settimane, nessuno ha dimenticato la colpevole inerzia di Jonathan durante il
resto del suo mandato. Il suo principale sfidante, l’ex generale Muhammadu Buhari,
ricordato per il pugno di ferro con cui guidò una giunta militare a metà degli anni Ottanta,
ha promesso, in caso di vittoria ai seggi, di fare della lotta a Boko Haram una delle sue
priorità.
20
del 25/03/15, pag. 18
Libia, presidenza a tre e spazio a tutte le
fazioni Ecco il piano dell’Onu per salvare il
paese dalla crisi
ROMA .
Il mediatore dell’Onu Bernardino Leon fa ancora un passo in avanti, e rivela le sue idee su
come dovrebbe essere formato il nuovo governo di unità nazionale in Libia. Ma nel
frattempo dappertutto nel paese continuano gli scontri militari e gli attentati.
Ieri sono state mostrate in tv le immagini del Mig-23 delle forze aeree di “Alba della Libia”,
la coalizione che controlla Tripoli, abbattuto dai miliziani legati al governo di Tobruk. A
Bengasi invece è stata una giornata di battaglia: due attentatori kamikaze dell’Islamic
State si sono fatti esplodere contro un posto di blocco dell’esercito del generale postgheddafiano Khalifa Haftar, uccidendo sette soldati. I kamikaze dovevano vendicare
l’uccisione di un leader jihadista, Bouka Al Arabi, ucciso dagli uomini di Haftar. In molti
quartieri della città si è combattuto pesantemente, un razzo sparato contro un palazzo ha
ucciso molti civili, fra cui una ragazza di 17 anni.
Ma veniamo al piano politico preparato da Leon: il mediatore Onu ha deciso di accelerare
al massimo per contrastare la fazione di Tobruk guidata dal generale postgheddafiano
Haftar che vuol far saltare i negoziati. L’altra sera Leon, reduce dagli incontri di Bruxelles,
è volato prima a Tobruk e poi a Tripoli. A Tobruk il presidente del parlamento Saleh non ha
voluto neppure riceverlo, lo ha costretto ad incontrare il ministro degli Esteri all’aeroporto.
Ma Leon ha reagito rendendo pubbliche le linee-guida, le idee raccolte dalle parti libiche
durante il negoziato. La prima scelta è quella di confermare sostanzialmente il parlamento
di Tobruk uscito dalle elezioni del giugno 2014, come camera sui cui fondare la ripresa
politica. Per Leon sarà «l’organo legislativo di tutti i libici, con piena applicazione dei
principi di legittimità e inclusione». Il governo di unità nazionale sarà formato da un
presidente e da due vice-premier che formeranno un “Consiglio di Presidenza” «non
affiliato a nessun gruppo e accettabile da tutte le parti e da tutti i libici». Questa dirigenza
“collettiva” della presidenza del governo dovrebbe coinvolgere le parti in un organismo che
a sua volta guiderà il governo.
Leon ha accettato anche l’idea di creare un Consiglio di Stato ispirato ad istituzioni che
esistono in altre democrazie. Non è chiaro quale sarà il ruolo preciso di questo nuovo
organismo, ma è intuibile che sia necessario per assorbire la rappresentanza del
Parlamento di Tripoli, che nel nuovo assetto verrebbe cancellato. L’Onu conferma poi
l’Assemblea costituente che deve redigere la nuova costituzione e che in effetti è già al
lavoro a Beida.
(v. n.)
del 25/03/15, pag. 3
Popolo Sahrawi, il governo si ritirerà dalla
missione Onu
Francesco Martone
21
Italia. Nel decreto «missioni all'estero» allarmanti misure anti-terrorismo
«The devil is in the detail», il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Viene da pensarlo
leggendo l’ultimo decreto sulle missioni militari all’estero e lotta al terrorismo in
discussione alla Camera, che nasconde sviluppi gravi per procedure e merito. E il
burocratese della relazione introduttiva svela un dettaglio allarmante.
Di fatto il governo italiano disconoscerebbe il ruolo dell’Onu nella gestione del conflitto nel
Sahara Occidentale annunciando l’intenzione di ritirare a breve quel pugno di carabinieri
da anni integrati nella missione Minurso. Con un colpo di spugna suppostamente ispirato a
imperativi di bilancio si gettano dalla finestra il popolo Sahrawi con le sue legittime
rivendicazioni di riconoscimento, il referendum e un ruolo centrale dell’Onu. Proprio
quando dal Polisario e non solo veniva chiesta a gran voce l’estensione del mandato della
Minurso (un campo, nella foto di Gilberto Mastromatteo) per monitorare le violazioni dei
diritti umani
Ancora, il capitolo di bilancio del decreto prevede una spesa di poco più di 130 milioni di
euro per la lotta a «Daesh» cifra ben superiore alle necessità di copertura per la missione
nel Kurdistan iracheno. Una sorta di argent de poche, magari per irrobustire la già forte
presenza di navi e commandos italiani al largo della Libia? Altro che lotta al terrorismo o
corridoi umanitari, quelle navi sono lì per proteggere i terminali dell’Eni, pronte ad essere
inserite nel quadro di Active Endavour l’operazione Nato di pattugliamento dei mari
lanciata dopo l’11 settembre e ancora presente nel Mediterraneo per la quale ci sono soldi
anche in questo decreto missioni. Che fin dal governo Prodi, è stato considerato un
decreto «omnibus» per diplomatici in cerca di guarentigie, cooperazione internazionale,
Comites, funzionari della difesa ansiosi di smaltire eccedenze di armi, ecc.
Oggi il quadro si evolve ed il decreto viene dedicato alla lotta al terrorismo, con articoli che
introducono norme antiterrorismo, definiscono chi è terrorista e chi no, la portata delle
pratiche di monitoraggio e controllo della rete, le attività dei servizi di sicurezza; sulle orme
di provvedimenti di altri paesi Ue, accolti con grande preoccupazione dalle organizzazioni
per i diritti umani. Ce n’è uno che colpisce, riguarda la possibilità «per le Agenzie di
intelligence, consentendo loro, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di effettuare,
fino al 31 gennaio 2016, colloqui con soggetti detenuti o internati, al fine di acquisire
informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale;».
E quali controlli verrebbero messi in atto per evitare che tali «colloqui» degenerino? Né
c’è alcun riferimento all’obbligo di assicurare il rispetto degli articoli 10 ed 11 della
Convenzione Onu contro i trattamenti inumani e degradanti (la tortura), né il Parlamento
viene informato sui protocolli che verrebbero seguiti i «colloqui». Per un paese che da anni
dibatte ma non adotta una legge contro la tortura le garanzie dovrebbero essere d’obbligo.
E qui si apre l’altro piccolo grande dettaglio Giacché si dovrebbe immaginare che questioni
relative ai diritti ed alla politica estera del paese vedano un ruolo centrale delle
commissioni competenti, ossia la Commissione Affari Costituzionali e la Commissione
Esteri. Così non è, anzi le due Commissioni vengono solo chiamate a dare un parere. Chi
vota invece e decide stavolta sono la Commissione Giustizia e la Commissione Difesa,
significando così due cose: che nella lotta al terrorismo si può fare a meno delle garanzie
costituzionali; e che la politica estera ormai plasmata all’imperativo della lotta al terrorismo,
è questione per i militari non per i diplomatici. Dicevamo un cambio di passo notevole.
Infine, se il diavolo è nei dettagli, che diavolo significa quel dono al governo eritreo, di
materiale ferroviario dell’Aeronautica Militare? E a chi andranno i razzi «regalati» al
governo iracheno? Non certo ai Peshmerga, come fu il caso delle armi allora stoccate a La
Maddalena e sequestrate ad un mercante di armi anni or sono. Già perché queste armi
sono parte dell’impegno italiano contro Isis decretato sotto il sole d’agosto quando lo
scorso anno le Commissioni vennero chiamate a deliberare rischiando una seria gaffe
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diplomatica giacché negli stessi minuti in cui le Camere si riunivano Matteo Renzi era a
Baghdad per concordare i dettagli con il governo iracheno. Altro che «dettaglio».
del 25/03/15, pag. 3
Netanyahu spia Obama
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Israele/Stati Uniti. Il Wall Street Journal rivela che il premier israeliano
avrebbe fatto arrivare informazioni ai parlamentari Usa sui negoziati in
corso con Tehran per aizzare il Congresso contro il presidente Usa,
favorevole a un accordo sul nucleare iraniano. Tel Aviv nega con forza.
Il governo israeliano nega, smentisce con forza le rivelazioni pubblicate ieri dal Wall Street
Journal sulle sue presunte operazioni di spionaggio dei negoziati in corso sul programma
nucleare iraniano, fatte a danno della linea del dialogo con Tehran portata avanti dalla
Casa Bianca. Giorno dopo giorno lo scontro tra Barack Obama e Benyamin Netanyahu
emerge in tutta la sua complessità. E pare destinato destinato ad aggravarsi, ma senza
mettere in alcun modo a rischio gli stretti rapporti strategici e di sicurezza esistenti tra
Washington e Tel Aviv. «L’ostilità tra Netanyahu e Obama non ha precedenti nelle
relazioni tra i due Paesi», notava ieri Arutz 7, l’agenzia di informazione della destra
israeliana, puntando nel suo report l’indice contro il presidente Usa. Obama ha non pochi
motivi per essere infuriato. Alti funzionari della Casa Bianca hanno riferito al Wsj che
l’anno scorso Israele ha spiato i negoziati in corso tra Tehran, gli Stati Uniti e gli altri Paesi
membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania. Un’operazione che, secondo
il giornale, rientrava in una campagna del premier israeliano per ostacolare la possibile
firma di un accordo e realizzata passando le informazioni segrete a parlamentari
americani. Il fine sarebbe stato quello di aizzare contro Obama il Congresso, ora nelle
mani dei Repubblicani stretti alleati di Israele. E proprio a deputati e senatori statunitensi
Netanyahu ha parlato tre settimane fa denunciando la politica del presidente e l’intesa con
l’Iran in dirittura di arrivo.
«Una cosa è lo spionaggio reciproco (tra gli Usa e Israele), un’altra è il furto di segreti per
poi passarli ai parlamentari Usa per minare la diplomazia americana», ha detto uno degli
anonimi funzionari al Wsj, giornale che, peraltro, è vicino a Israele e di solito schierato
contro le politiche di Obama. La Casa Bianca ha scoperto l’operazione quando le agenzie
di intelligence americane hanno intercettato comunicazioni tra funzionari israeliani con
dettagli che, secondo gli Usa, potevano provenire solo dai colloqui riservati. Da parte loro
gli israeliani hanno negato di avere spiato direttamente i negoziatori americani, spiegando
di avere ricevuto le informazioni attraverso altri canali, come la sorveglianza dei
negoziatori iraniani. Sdegnata la reazione del ministro degli esteri israeliano Lieberman.
«Noi – ha detto — non spiamo gli Stati Uniti, né direttamente, né per vie traverse…Quelle
informazioni non sono giuste. Con gli Stati Uniti manteniamo un atteggiamento di completa
trasparenza». Il ministro della difesa Moshe Yaalon da parte sua ha sottolineato che
Israele «non ha ricevuto alcun richiamo formale da parte degli Usa su presunte operazioni
di spionaggio a danno di esponenti americani». Netanyahu non ha commentato le
rivelazioni del Wsj ma il suo ufficio ha avvertito che quelle informazioni sarebbero state
diffuse nell’intento di danneggiare le relazioni fra Israele e Stati Uniti. Dalle nuvole è
caduto John Boehner, speaker del Camera dei Rappresentanti e principale alleato di
23
Netanyahu ai vertici delle istituzioni statunitensi. «Sono sbalordito perchè non mi è mai
stata rivelata alcuna informazione segreta (sui negoziati con l’Iran)», ha affermato Boehner
che il 31 marzo sarà a Gerusalemme, “casualmente” nell’ultimo giorno utile per il
raggiungimento dell’accordo con Tehran. Quel giorno assieme Netanyahu potrebbe
lanciare un nuovo pesante attacco alla politica di Obama.
La vicenda, secondo alcuni, spiegherebbe la determinazione con la quale due giorni fa il
capo dello staff di Obama, Denis McDonough, ha attaccato Netanyahu durante il suo
intervento alla conferenza annuale dell’associazione ebraico americana J Street. La Casa
Bianca, ha detto McDonough, insiste sulla nascita di uno Stato palestinese e, quindi, sulla
soluzione dei “due Stati per due popoli” e ha affermato che l’amministrazione Usa continua
a considerare inquietanti le dichiarazioni fatte da Netanyahu in campagna elettorale con le
quali ha categoricamente escluso la creazione dello Stato di Palestina per poi fare una
parziale retromarcia subito dopo il voto del 17 marzo.
del 25/03/15, pag. 3
Afghanistan, altro che ritiro: 10mila marine
restano nel 2015
Giuliano Battiston
Usa. Ieri l'annuncio del presidente degli Stati Uniti nella conferenza
stampa con Ashraf Ghani, da alcuni giorni in visita negli Stati Uniti
Obama ci ha ripensato. «Circa diecimila soldati americani rimarranno in Afghanistan per
tutto il 2015». È quanto annunciato ieri dal presidente degli Stati Uniti nella conferenza
stampa alla Casa Bianca con l’omologo afghano, Ashraf Ghani da alcuni giorni negli Stati
Uniti per la sua prima visita da quando si è insediato, il 29 settembre scorso. Ad
accompagnarlo c’è il quasi «premier» Abdullah Abdullah, con cui condivide la leadership di
un governo di unità nazionale.
Nei giorni scorsi i due hanno incontrato i più alti esponenti dell’amministrazione Obama: il
segretario di Stato John Kerry, il segretario alla Difesa Ashton Carter, il segretario al
Tesoro, il capo della Cia, i funzionari del Dipartimento di Stato. In primo luogo per battere
cassa. E Carter ha promesso infatti che chiederà al Congresso i soldi necessari per
mantenere i 350.000 membri delle forze di sicurezza afghane fino al 2017. Ma gli incontri
servono anche a ristabilire e mostrare pubblicamente un clima di reciproca fiducia. Sin dal
primo giorno dal suo insediamento, Ghani ha cercato di rimediare agli strappi del suo
predecessore, Hamid Karzai, che ha chiuso la presidenza sparando a zero sull’alleato
americano. Non a caso, uno dei primi atti di Ghani è stata la firma del trattato bilaterale di
sicurezza con gli Stati Uniti, la cornice giuridica da cui dipende la presenza delle truppe
americane in Afghanistan.
E proprio di truppe si è parlato ieri, nell’incontro che Obama ha avuto alla Casa bianca con
Ghani e Abdullah. Nella successiva conferenza stampa, è arrivata la comunicazione
ufficiale del ripensamento di Obama. «Circa 10.000 soldati rimarranno per tutto il 2015».
Un bel cambio di marcia, rispetto a quanto annunciato nel celebre discorso del 27 maggio
2014, quando il presidente Usa aveva dato tempi e numeri precisi del ritiro: 9.800 truppe
americane alla fine del 2014, ridotte a 5.000 entro la fine del 2015, per arrivare a una
presenza minima, per tutelare l’ambasciata, alla fine del 2016. In meno di un anno, la
decisione di raddoppiare il numero dei soldi a stelle e strisce per il 2015. La notizia non
sorprende del tutto. Da settimane infatti il presidente afghano rilascia interviste in cui
24
chiede maggiore «flessibilità» nel ritiro degli americani: un modo per far apparire il cambio
di marcia di Obama come un benevolo cedimento alle richieste degli afghani. La verità è
che gli Stati Uniti hanno paura: sanno che l’Afghanistan è ancora un paese in guerra, e
che le timide aperture dei Talebani nei colloqui di pace non sono soltanto molto lontane
dal garantire un cessate il fuoco, ma potrebbero rivelarsi perfino controproducenti. Quanto
più i Talebani si mostrano inclini al dialogo con il governo di Kabul, tante più probabili sono
le spaccature interne alla variegata galassia dei barbuti. E mentre Ghani enfatizza il
pericolo dello Stato islamico in Afghanistan, gli studenti coranici continuano a colpire: ieri
sono state uccise 13 persone che viaggiavano su un bus, nella provincia di Wardak.
Del 25/03/2015, pag. 21
Truppe saudite schierate al confine con lo
Yemen
Pronta l’azione militare
RIAD Crisi in Yemen, si muove l’Arabia. Truppe saudite, con mezzi pesanti, si stanno
ammassando lungo il confine. Si accelerano così i tempi dell’intervento di una coalizione di
«Paesi volenterosi» sunniti del Golfo. Il «significativo» contingente di truppe, blindati, e
artiglieria da impiegare sia in chiave difensiva che offensiva. Potrebbero essere pronti
anche attacchi aerei, secondo una fonte del governo americano. Ma sempre da
Washington si registrano anche perplessità sull’efficacia di un intervento esterno.
Ieri il presidente sunnita dello Yemen, Abd Rabbu Mansour Hadi, aveva chiesto in una
lettera inviata al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione che autorizzi
l’immediato intervento armato di «Paesi volenterosi» per fermare l’avanzata a sud (su
Aden dove è rifugiato) delle milizie sciite Houthi che dallo scorso settembre controllano la
capitale Sana’a. Intanto si sono registrate altre vittime nel Paese del Golfo. Almeno sei
persone sono state uccise in Yemen quando miliziani sciiti Huthi hanno aperto il fuoco
contro manifestanti ostili alla loro avanzata verso il sud del Paese, riferisce Al Jazeera . Gli
incidenti sono avvenuti a Torba, nella provincia di Taiz, gran parte della quale, compreso
l’aeroporto, è stata conquistata domenica scorsa dagli Huthi. Anche nel capoluogo Taiz,
200 chilometri a sud della capitale Sana’a, vi sono state manifestazioni e scontri, con un
bilancio di decine di feriti, riportano fonti mediche. Altri 12 morti negli scontri tra i ribelli
sciiti e sunniti a sud di Mareb e 20 vittime ad al Baydha dopo un attacco delle tribù sunnite
contro i ribelli dell’imam Abdel Malik al Huthi. L’offensiva più violenta riguarda però proprio
la zona di Mareb, che i ribelli sciiti intendono conquistare per controllare i pozzi petroliferi
presenti nell’area. Gli Huthi, sostenuti dall’Iran, sono scesi lo scorso anno dalla loro
regione originaria nel Nord del Paese e hanno conquistato in settembre Sana’a. Da qui
hanno continuato ad avanzare verso Aden, nel Sud del Paese, dove ha trovato rifugio il
presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, Abed Rabbo Mansur Hadi.
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Del 25/03/2015, pag. 17
Qatar, nuovi schiavi in nome del Dio pallone
FRANCIA, LA ONG SHERPA DENUNCIA LA FILIALE DEL GRUPPO
VINCI PER “RIDUZIONE IN SCHIAVITÙ”: GLI OPERAI LAVORANO 66
ORE A SETTIMANA PER 176 EURO AL MESE
Anshu testimonia con un finto nome perché teme di finire in prigione. Ha 40 anni, è indiano
e lavora come operaio per la QDVC, la filiale in Qatar del gruppo Vinci, gigante francese
delle costruzioni, sul cantiere della metropolitana di Lusail City, la nuova città che si
costruendo da zero, con 38 miliardi di euro a una quindicina di chilometri da Doha. Anshu
è uno dei nuovi schiavi che tirano su gli stadi e le altre faraoniche infrastrutture che
ospiteranno nel 2022 i Mondiali di calcio. Si sveglia alle 4 del mattino e lavora 66 ore a
settimana in condizioni estenuanti per 2000 riyal, circa 500 euro del mese. Ma lui è un
operaio specializzato. I non specializzati ricevono se va bene 700 riyal, 176 euro. I
documenti gli sono stati confiscati: “Impossibile rompere il contratto, lasciare il paese o
cambiare attività senza il permesso del datore di lavoro. Siamo senza passaporto e senza
libertà”. Quella di Anshu è una delle tante storie di sfruttamento nel ricchissimo emirato del
Golfo. Come lui sono circa 1, 2 milioni di operai poveri (l’ 80 % degli abitanti) che arrivano
da India, Nepal, Bangladesh e finiscono col vivere in baraccopoli per poi andarsi ad
ammazzare sui cantieri della Coppa del mondo. Tanti muoiono di stenti. I 50 gradi
all’ombra che ci sono in estate hanno già ucciso molti operai (mentre la Fifa ha rinviato la
competizione sportiva all’inverno per evitare il caldo torrido a pubblico e calciatori). Le
condizioni disumane di lavoro sono state già denunciate da Amnesty International o
Human Right Watch. Ora l’organizzazione non governativa francese Sherpa ha
denunciato Vinci per “lavoro forzato” e “riduzione in schiavitù”. “È LA PRIMA VOLTA che
viene sporta una denuncia di questo tipo contro una multinazionale”, ha detto a Le
Parisien la direttrice dell’associazione Laetitia Liebert. Un’inchiesta è stata aperta a
Nanterre. Per la Sherpa è solo l’inizio: “Il gruppo ha ottenuto diversi milioni di contratti, e
impiega migliaia di persone direttamente o tramite società in subappalto. Questa prima
azione – ha aggiunto Libert – deve aprire una breccia verso la fine della violazione dei
diritti umani da parte delle multinazionali in Qatar”. Nel dicembre scorso l’Unione delle
confederazioni sindacali e 90 associazioni per la difesa dei diritti umani avevano già
contato 1200 decessi. “Facciamo sforzi permanenti per migliorare la sorte dei lavoratori
migranti”, hanno riferito dall’ambasciata del Qatar in Francia. Si promettono più ispezioni
nei cantieri. Si starebbero riformando le condizioni di vita e di lavoro, a partire dal
versamento degli stipendi via bonifico bancario fino ad un allentamento della “kafala”
(“sponsorizzazione”), il sistema che appunto toglie al lavoratore ogni libertà di movimento.
Il direttore della QDVC, Yanick Garillon, non vuole sentire parlare né di lavori forzati né di
schiavitù: “Non abbiamo avuto un solo incidente mortale negli ultimi quattro anni”, ha
detto. Vinci, che impiega 3500 persone in Qatar, ha annunciato che sporgerà una contro
denuncia contro la Sherpa per diffamazione: “A più riprese abbiamo aperto i nostri cantieri
a ong e giornalisti – si legge in una nota – e hanno potuto constatare che facciamo del
nostro meglio per rispettare il diritto locale del lavoro e i diritti fondamentali”.
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del 25/03/15, pag. 13
Prove tecniche di Guerra Fredda
È il Nord il nuovo fronte di Putin
Scandinavia e Paesi baltici alzano le difese. La Nato: Mosca potrebbe
tentare l’attacco Oltre 100 violazioni degli spazi aerei internazionali
dall’inizio della crisi ucraina
Monica Perosino
«Quando il numero e la frequenza degli incidenti è di questa entità non si può più parlare
di caso, ma di schema».
L’ultimo «incidente» è di ieri mattina: 4 caccia russi hanno sorvolato il Mar Baltico, nello
spazio aereo internazionale, volando con il transponder spento. Lo hanno annunciato fonti
militari svedesi: «I velivoli erano due bombardieri Tu-22M e due caccia Su-27».
È il 101esimo «incidente» in un anno, dal 18 marzo 2014, data dell’annessione della
Crimea alla Russia. Tutti si sono concentrati in un’area specifica compresa tra i Paesi
baltici e la Scandinavia. Di questi, 13 sono stati classificati come «gravi» e «a rischio
escalation», 3 ad «altissimo rischio». Solo domenica scorsa un sottomarino russo si
sarebbe impigliato in una rete di un peschereccio scozzese nel mare del Nord.
Lo «schema» di Putin
Mosca preme ai confini Nato, ammassa truppe, organizza esercitazioni, simula
bombardamenti sulle navi del patto Atlantico (senza autorizzazione, né preavviso), viola
costantemente gli spazi aerei e marittimi internazionali: «A questo punto – ha detto il
generale Adrian Bradshaw, comandante Nato in Europa - Vladimir Putin potrebbe tentare
di invadere e impadronirsi di un territorio della Nato».
La risposta europea
I primi ad alzare la guardia sono stati i Paesi baltici: la Lituania ha reintrodotto la leva
obbligatoria, in Estonia sono cresciute le adesioni alle unità paramilitari, mentre i Paesi
Scandinavi stanno militarizzando le aree «cuscinetto» più a rischio. La Svezia ha stretto
nuove alleanze militari con Danimarca e Finlandia, ha varato un programma di riarmo da
700 miliardi di dollari, e ha inviato truppe (era dai tempi della Guerra Fredda che non
succedeva) a presidiare la pittoresca isola di Gotland, nel Mar Baltico, vicino all’enclave
russa di Kaliningrad. La Norvegia ha appena messo in piedi «Joint Viking», la più
imponente esercitazione militare dai tempi dal 1967: cinquemila unità militari presidiano la
regione del Finnmark «per accumulare esperienza di reazione immediata sul territorio spiega il generale Morten Haga Lunde - in operazioni congiunte tra marina, aviazione ed
esercito». I comunicati ufficiali sostengono che l’esercitazione è stata decisa prima della
crisi ucraina, ma «l’attuale situazione in Europa - aggiunge Lunde - mostra che la nostra
presenza militare è più necessaria che mai». E mentre Oslo riapre anche la base di difesa
aerea di Magero, la Russia non sta con le mani in mano e risponde alla Norvegia con una
manovra che impegna 45.000 soldati - sottomarini e caccia compresi - in un’esercitazione
che coinvolge gran parte del Paese. Anche in questo caso «la più massiccia operazione
dalla Guerra Fredda».
Il fronte diplomatico
Secondo il rapporto annuale dell’intelligence svedese, la minaccia più grande contro il
Paese viene dalla Russia: «Mosca sta raccogliendo in modo illegale informazioni sulla
difesa, la tecnologia militare e i nostri rifugiati politici. I servizi russi hanno tentato di
sottrarre materiale militare e di reclutare agenti sul territorio».
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Dopo la crisi diplomatica che ha coinvolto la Danimarca - sabato l’ambasciatore russo a
Copenhagen ha «avvertito» che le navi danesi diventerebbero obiettivo nucleare russo se
il Paese si unisse allo scudo anti missile Nato - ora tocca alla Finlandia tremare: l’ex capo
dell’intelligence russa Nikolai Patrushev è convinto che i nazionalisti finlandesi stiano per
infiltrarsi nella repubblica di Carelia e che la Finlandia stia diventando sempre più
revanscista e anti-russa. Patrushev ha esortato Mosca a «prepararsi a tutelare i propri
interessi nazionali». A molti, l’analogia con la Crimea, non è sfuggita.
del 25/03/15, pag. 7
Perché è tedesca la corruzione greca
Pavlos Nerantzis
ATENE
Grecia. Un fiume di tangenti è passato da aziende della Germania a ex
ministri e parlamentari di Nea Dimokratia e Pasok e a pubblici
amministratori
La corruzione — ovvero le bustarelle a politici, dirigenti pubblici e liberi professionisti — è
considerata una delle cause della crisi greca. Ed è vero che spesso un nuovo scandalo
terremoti il mondo politico e imprenditoriale. Una festa di milioni di euro, tutto denaro
sporco che è stato intascato da gente corrotta, aggravando il bilancio dello Stato ellenico.
Pochi finora gli incriminati, — l’immunità parlamentare tuttora in vigore è di per sé uno
scandalo — ancora meno quelli che negli ultimi anni sono finiti in galera. Tra di loro l’ex
ministro della difesa Akis Tsochatzopoulos, braccio destro di Andreas Papandreou e l’ex
sindaco di Salonicco, Vassilis Papageorgopoulos, ex ministro di Nea Dimokratia.
Ambedue le parti coinvolte, multinazionali europee e politici greci, corruttori e corrotti
hanno agito in nome della difesa del Paese e di uno sviluppo mai giunto. Armamenti,
autostrade, ponti, aeroporti, metro, telecomunicazioni, ospedali sono i «campi d’azione»
dove le tangenti sono all’ordine del giorno e i protagonisti sono, oltre ai politici greci, di
solito aziende multinazionali — quasi sempre — tedesche. Siemens, Deutsche Telecom,
Krauss-Maffei Wegmann (Kmw), Mercedes, Bmw, ma anche Lidl, Praktiker, ecc. sono
alcune delle 120 imprese di interesse tedesco, presenti in terra ellenica Grecia. A 7,9
miliardi di euro risalivano le importazioni dalla Germania nel 2008; a 4,7 miliardi sono
calate nel 2012 a causa non soltanto della crisi del bilancio, ma anche di una preferenza ai
prodotti di casa da parte dei consumatori greci.
Investimenti e evasioni fiscali
La questione delle tangenti, nel caso che vengano coinvolte aziende germaniche,
raramente arriva ai vertici politici. Non ne parlano nemmeno i quotidiani tedeschi, per loro
è tutta colpa dei «greci pigri e propensi alla corruzione». E se magari come sempre
accade in uno scandalo viene coinvolto un funzionario tedesco, allora non è questione di
bustarelle ma di «cattiva amministrazione».
Ad Atene, invece, la gente e i media locali ne parlano di corruzione in questi giorni, non
soltanto in occasione della visita di Alexis Tsipras a Berlino, o del debito greco, ma anche
perché due aziende automobilistiche, la Mercedes e la Bmw hanno evaso alcuni milioni di
euro di tasse. Secondo gli ispettori di fisco della Sdoe ad Atene, a causa di fatture false
presentate dalle due societá tedesche – i prezzi di fabbrica erano ridotti del 200% — lo
stato greco ha perso 10 milioni di euro. «In altri termini, un’auto Bmw che in Italia veniva
sdoganata a 22 mila euro, in Grecia “passava” per 8 mila euro» scrive il settimanale
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Agorá, che ha rivelato lo scandalo. Inoltre, proprio nell’ambito delle riforme richieste dai
creditori internazionali, dopo un incontro tra Claudia Nemat, responsabile della Deutsche
Telecom (Dt) per l’Europa e i ministri delle finanze Yanis Varoufakis e del tesoro Yorgos
Stathakis, è stato reso noto che la Dt é pronta a investire almeno 1,2 miliardi di euro nei
prossimi quattro anni per la modernizzazione della rete delle telecomunicazioni dell’Ote
(Ente delle telecomunicazioni di Grecia). I greci ne parlano perché si ricordano della
«Siemens corrotta» e perché sono stanchi di essere sempre considerati il capro espiatorio
degli affari oscuri di grandi società. Negli ultimi anni, infatti, grazie alle richieste di alcuni
magistrati di Atene, è stato dimostrato che c’è stato un fiume di denaro sporco passato da
aziende tedesche ai conti correnti oppure a società off-shore o ancora nelle mani di alcuni
ex ministri, parlamentari della Nea Dimokratia e del Pasok, di alti dirigenti della pubblica
amministrazione e funzionari privati. L’alibi, per tutti, è stato la crescita economica del
Paese, ma dietro le quinte invece si lavorava contro il cosiddetto sviluppo (mancato) e a
favore dell’arricchimento illecito personale e aziendale.
Le mille vie della Siemens
In cima alla lista delle «società corotte», la multinazionale Siemens. In Grecia il suo nome
é strettamente collegato ai sistemi di sicurezza per l’Olimpiade di Atene del 2004, che
sono costati tre volte di piú rispetto al preventivo. La società era nota fin dagli anni ‘90,
quando aveva vinto il concorso per la digitalizzazione della rete telefonica ellenica e la
modernizzazione dei sistemi di comunicazione dell’esercito greco (progetto Ermes).
Nel 2011, nel momento in cui la Grecia stava entrando nella strettoia del memorandum il
governo di Yorgos Papandreou, dopo un’inchiesta parlamentare, ha chiesto alla Siemens
2 miliardi di euro come «indenizzo per gli scandali di corruzione e per i danni provocati
dall’azienda tedesca». Siemens, che aveva già versato oltre ai 600 milioni alle autoritá
tedesche, altri 800 milioni alle autorità americane e 100 milioni a ong anti-corruzione, ha
definito «ridicola e esagerata» la richiesta greca.
Questo però non ha impedito alla Siemens di cercare nuove vie di collaborazione con
Atene. Anche perché nel frattempo si è «autopurificata», cambiando amministrazione. Non
più bustarelle ai politici e alti dirigenti che poi avrebbero appoggiato le proposte tedesche
alle commissioni, ma soltanto progetti che «mirano alla creazione di nuovi posti di lavoro. Il
nuovo accordo dovrebbe dimostrare che la Grecia é un partner affidabile, in cui gli
investimenti non si disperdono piú per vie traverse».
Almeno cosi scriveva la Suddeutsche Zeitung quando ai primi mesi del 2012 il governo
pro-memorandum di Lukas Papadimou (coalizione tra socialisti, conservatori e
ultranazionalisti di Laos) stava discutendo il lancio di nuovi progetti della Siemens in
territorio ellenico pari a 90 milioni di euro. La Grecia secondo i tedeschi era ancora
debitrice alla Siemens di 150 milioni di euro (dei quali 70 milioni per lavori realizzati per
l’Olimpiade di Atene), ma poteva risparmiare gli 80 milioni se il governo greco promuoveva
nuovi accordi con la azienda. Uno sconto, insomma, un hair-cut di un debito il quale a suo
tempo con il consenso di alcuni funzionari greci corrotti era stato «sovrafatturato».
Il caso Christoforakos
Ovviamente nessuna parola da parte della multinazionale tedesca per i 100 milioni di euro
– a questa cifra, secondo gli inquirenti tedeschi, ammonta il denaro scomparso — offerti
dai suoi ex dirigenti ai politici e funzionari greci.
Intanto e nonostante gli indizi per un numero grande di politici corotti, soltanto due finora
sono stati incriminati: nel 2008 Teodoros Tsoukatos, braccio destro dell’ex premier Kostas
Somitis e nel 2010 l’ex ministro socialista Tassos Mantelis. Ambedue hanno sostenuto che
il denaro sporco (1 milione di marchi e altri 500 mila di marchi) intascato dalla Siemens
erano finiti alle casse del Pasok. Invece, Michalis Christoforakos, responsabile della
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Siemens in Grecia, l’uomo che distribuiva le bustarelle ad Atene, è fuggito a Monaco,
mentre la giustizia tedesca insiste a non soddisfare la richiesta dei magistrati greci per la
sua estradizione.
Di fatto dopo nove anni di indagini da parte dei magistrati di Atene il caso Siemens made
in Greece è ancora aperto. Nel novembre scorso nel momento in cui la troika chiedeva
ulteriori misure di austerity per coprire i buchi neri delle finanze greche, è stato chiesto il
rinvio a giudizio per ben 55 persone, di cui 19 dirigenti tedeschi della Siemens, accusati di
corruzione e riciclaggio di denaro sporco. Il danno che avevano prodotto all’azienda greca
di telecomunicazioni Ote risale a 70 milioni di euro. I governanti riescono quasi sempre a
farla franca; i governati vengono chiamati a pagare i danni delle loro malefatte.
L’affare sporco degli armamenti
Il campo degli armamenti è sicuramente il più amato dalle società tedesche e visto che la
Grecia tra i paesi europei da decenni tiene il primato delle spese militari, le tangenti sono
sempre all’ordine del giorno. Sotto i riflettori quattro sottomarini ordinati nel 2000 dal
ministero della difesa greco alla Marine Industrial Enterprises S.A., succursale della
società germanica Ferrostaal. Nel gennaio del 2014 sono stati arrestati due dipendenti
pubblici, Sotiris Emmanouel e Yannis Beltsios, collaboratore dell’ex ministro
Tsochatzopoulos, accusati di corruzione e di riciclaggio di denaro sporco (hanno intascato
24 milioni di euro dalla Hdv e la Ferrostaal). A dicembre del 2013, intanto, era stato
incarcerato un altro dirigente del ministero della difesa greco. Antonis Kantas aveva
ricevuto 1,7 milioni di euro come tangenti per promuovere l’acquisto di 170 carri armati
Leopard. Anche stavolta il corruttore é una società tedesca: la Krauss-Maffei Wegmann.
Che ci sia proprio una festa di bustarelle nel settore della difesa militare lo ha
rinconfermato il leader del partito nazionalista Anel (Greci indipendenti) e partner di
governo, Panos Kammenos, attuale ministro della difesa, che si è dichiarato pronto ad
aprire indagini fino in fondo.
del 25/03/15, pag. 7
Incidenti, scioperi e utili giù
Soffre il modello Lufthansa
Piloti sul piede di guerra e una sciagura evitata a novembre E ieri i piloti
di Germanwings hanno bloccato trenta voli
Luigi Grassia
Lufthansa è uno dei simboli dell’efficienza della Germania. Però la compagnia aerea
subisce un’erosione degli utili, è stata funestata nel 2014 e nel 2015 da scioperi che mal si
conciliano con la sua immagine, e adesso arriva quest’incidente a Germanwings. Forte
spia di disagio è che ieri almeno 30 voli di Germanwings sono stati cancellati perché dopo
la tragedia i piloti si sono rifiutati di salire a bordo.
La compagnia low cost ha 85 aerei, quasi tutti Airbus 319 e 320. Si tratta di jet
mediamente giovani, ma qui ha messo lo zampino la sfortuna: quello precipitato in
Provenza era un A-320 vecchio, visto che portava il numero 147 in una famiglia di velivoli
che dal 1988 ha raccolto 7.597 ordini. L’anzianità non vuol dire che quell’A-320 fosse
pericoloso: un jet decolla sempre al massimo dell’efficienza, a prescindere dall’età.
Semplicemente, se è più vecchio richiede una manutenzione più lunga e più costosa.
Cosa che, peraltro, è in contraddizione con la filosofia low cost. E ieri sera correva voce
che l’aereo il giorno prima avesse manifestato problemi tecnici.
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Per farsi un quadro completo c’è da mettere nel conto anche l’altra tragedia sfiorata da un
Airbus, un A-321 (derivato dall’A-320) non di Germanwings ma della casa madre
Lufthansa, nel novembre scorso. Dovrebbe accendersi una spia rossa su questi particolari
Airbus? O forse c’è qualche anomalia da tenere d’occhio in Lufthansa?
«Gli A-320 sono sicuri»
Gregory Alegi, docente di gestione della compagnie aeree alla Luiss Business School e
direttore di DedaloNews.it, risponde con un «no» ai dubbi sugli Airbus e con un «no,
ma...» a quelli su Germanwings e Lufthansa. Capitolo Airbus: Alegi osserva che «nel
mondo decolla un A-320 ogni 2,5 secondi. E in 27 anni ne sono andati persi solo 11 o 12
in volo. Sono aerei sicurissimi». Quanto alle compagnie tedesche, secondo l’esperto «è
lecito chiedersi, non solo per Lufthansa o per Germanwings ma per tutti i vettori aerei
mondiali, se la corsa al taglio dei costi, che si è accelerata negli ultimi anni, abbia eroso i
margini di sicurezza». Li ha erosi? «No, non li ha erosi. Le statistiche indicano che gli
incidenti aerei sono in calo. Però andrebbe analizzato, per esempio, se certe cose che
prima si facevano in casa e adesso vengono acquisite come servizi esterni conservino gli
stessi standard di qualità. Bisognerà prendere spunto da questo incidente per fare un
check-up a tutte le compagnie».
Del 25/03/2015, pag. 20
«Europa protagonista a Cuba»
Mogherini apripista all’Avana
Incontro con Raúl Castro. Accordo di cooperazione entro il 2015
L’AVANA
La sfida è ambiziosa: «abbattere l’ultimo muro della storia contemporanea» e far sì che
l’Europa sia protagonista del processo di trasformazione a Cuba. Federica Mogherini,
primo Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue a visitare l’isola, ha lasciato ieri
l’Avana con grande soddisfazione, dopo una giornata fitta di colloqui ai massimi livelli, tra
cui vari ministri e il presidente Raúl Castro. «Incontri eccellenti che hanno confermato la
necessità che l’Unione Europea accompagni il processo di riforme economiche a Cuba e
apra la strada ad investimenti importanti in vari settori, dal turismo alle energie
rinnovabili», ha commentato.
Una mano tesa che gli interlocutori cubani sembrano ben disposti ad accettare. Il processo
di actualizacion del socialismo, come lo ha definito Raúl Castro, che nel 2008 ha ereditato
dal fratello Fidel la guida del Paese, necessita di 2.500 milioni annui di investimenti
stranieri. Il modello di riferimento, come ha lasciato intendere ieri il ministro dell’Economia
Marino Murillo Jorge, è quello vietnamita: cauta e graduale apertura alle privatizzazioni,
per ora attraverso le micro-imprese a gestione familiare, e agli investitori esteri ma senza
rinunciare ad un forte e più efficiente apparato economico statale e al sistema sociale
d’impronta socialista. Nessun accenno, per ora, ad aperture democratiche.
«La nostra volontà è di lavorare insieme», ha confermato il ministro degli Esteri Bruno
Rodriguez Parrilla, che il 22 aprile ricambierà la visita a Bruxelles: «Sono convinto che se il
processo di dialogo si svilupperà su un piano di eguaglianza sovrana e di mutuo rispetto
arriveremo a un finale proficuo per tutti». L’obiettivo dichiarato di Mogherini è accelerare i
negoziati bilaterali in corso per giungere «entro la fine del 2015» ad un accordo politico e
di cooperazione fra Unione Europea e Cuba. Processo avviato nel febbraio dell’anno
scorso e ripreso con rinnovato impulso dopo lo storico annuncio in dicembre del disgelo
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fra Cuba e Usa. Se da un lato infatti l’Europa plaude all’apertura del dialogo fra i due ex
nemici, e anzi punzecchia Washington a muoversi rapidamente — «non c’è alcuna
ragione perché resti in vigore l’embargo», ha ribadito Mogherini — dall’altro il messaggio
lanciato ieri dall’Alto rappresentante è chiaro: «Siamo amici di Cuba da 25 anni, il primo
partner commerciale e il principale investitore straniero. La nostra relazione è e resterà
molto forte». Il primo, tangibile segnale è stata la ratifica congiunta con il ministro del
Commercio Estero Rodrigo Malmierca Diaz di un pacchetto di finanziamenti per la
cooperazione da 50 milioni di euro, già varato dall’Ue per il periodo 2014-2020, e la
proposta di un nuovo possibile canale di investimenti attraverso il Life, lo strumento
finanziario dell’Ue per l’ambiente. Anche i Paesi europei più refrattari ad un intesa con
l’ultimo regime comunista dell’America latina si sono infatti resi conto che la politica dei
piccoli passi rischia di far loro perdere spazio, e appetibili occasioni economiche, negli
scenari geopolitici che si stanno delineando nella regione. In fondo, Cina e Russia non
stanno certo a guardare. In contemporanea con Federica Mogherini, è sbarcato all’Avana
il ministro degli Esteri di Putin, Serghej Lavrov, preannunciando importanti investimenti.
Non stupisce, dunque, che la questione dei diritti umani sia rimasta ieri sullo sfondo.
Se la politica è fatta anche di «chimica», il momento più alto della maratona diplomatica di
Mogherini a Cuba è stato però l’incontro con il cardinale Jaime Ortega che ieri ha insistito
per parlare in italiano, e a lungo, del ruolo della Chiesa cattolica, di riforme sociali ed
economiche ma anche dei possibili sviluppi politici sull’isola, riservando parole di
apprezzamento per l’atteggiamento molto più disponibile del nuovo Líder máximo Raúl.
Sara Gandolfi
del 25/03/15, pag. 12
L’America riscopre la fucilazione
“Più umana delle iniezioni letali”
Legge nello Utah sulla pena di morte: il plotone serve se non ci sono
farmaci
Francesco Semprini
Due pile di sacchi imbottiti di sabbia, sul modello di quelli usati per fortini e trincee,
affiancano una sedia in ferro grigio con cinghie di cuoio all’altezza di piedi, braccia e testa.
È questa l’immagine della camera delle fucilazioni del penitenziario di Draper, in Utah,
pubblicata per la prima volta nel 2010, e oggi tornata di prepotente attualità su giornali, tv
e siti Internet, dopo la reintroduzione del plotone di esecuzione da parte dello Stato.
Seconda scelta
Non una prima scelta, ma solo il «rimedio» nel caso in cui, come sovente accade,
manchino i farmaci utilizzati dal «boia». Il ritorno del plotone di esecuzione, dopo dieci anni
dalla soppressione, è stato decretato dal governatore Gary Herbert, che ha apposto la sua
firma al provvedimento votato dal parlamento statale. Herbert, repubblicano, ha spiegato
che l’Utah è uno Stato che prevede la pena capitale e pertanto necessita di un metodo di
esecuzione di riserva nel caso persista la carenza dei farmaci letali. «Preferiamo utilizzare
il metodo dell’iniezione - spiega il portavoce del governatore, Marty Carpenters -. Ma in
ogni caso rendere esecutiva la pena è un nostro dovere».
Già altri Stati americani contemplano il ricorso a metodi alternativi. In New Hampshire
l’impiccagione può sostituire l’iniezione in caso di mancanza di farmaci, mentre nello stato
di Washington il condannato può chiedere di ricorrere al «cappio». In Oklahoma, Stato che
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ha il controverso primato del numero di esecuzioni pro capite, la sedia elettrica è già il
metodo alternativo, seguito dalla fucilazione, se l'iniezione letale dovesse essere
abbandonata.
Armati di Winchester
La patria dei mormoni è il solo Stato Usa ad aver fatto ricorso al plotone di esecuzione da
quando la pena di morte è stata reintrodotta nel 1976. L’ultimo a essere giustiziato con
una pallottola è stato Ronnie Lee Gardner, un uomo accusato di aver ucciso un barista, e
successivamente di aver ammazzato un avvocato e ferito un ufficiale giudiziario nel
tentativo di scappare dall’aula di tribunale nella quale stava affrontando il processo, nel
1985. Gardner fu condannato prima del 2004, anno dell’abolizione del plotone di
esecuzione, e non si poté sottrarre alla fucilazione.
del 25/03/15, pag. 13
“Falkland a rischio invasione”
Londra rinforza le sue difese
Alessandra Rizzo
Più di trent’anni fa si sono fatte la guerra e oggi le tensioni tra Gran Bretagna e Argentina
intorno alle isole Falkland tornano altissime: Londra ha annunciato che rafforzerà le difese
militari per proteggere l’arcipelago dal rischio di una nuova invasione e garantirne «il diritto
a restare britannico».
Ma oggi ci potrebbe essere un terzo incomodo nella partita diplomatica e militare che si
gioca nel Sud dell’Atlantico, la Russia. Giorni fa, rispondendo all’ennesima denuncia da
parte di Londra dell’annessione russa della Crimea, il deputato Alexei Pushkov, capo della
commissione esteri della Duma, aveva detto: «La Crimea ha più ragioni di essere in
Russia che le Falkland di far parte della Gran Bretagna». E secondo il «Sun», Buenos
Aires starebbe trattando con Mosca per dodici bombardieri a lungo-raggio. Il ministro della
Difesa britannico Michael Fallon ha detto alla Bbc che «quel particolare accordo non è
stato confermato, ma la minaccia rimane».
Difese rafforzate
Londra ha annunciato che intende aggiornare i sistemi di difesa aerea e comunicazione,
investire 180 milioni di sterline (268 milioni di euro) per modernizzare le infrastrutture, e
inviare due elicotteri Chinook nel 2016. Resterà invece invariato il numero di truppe, circa
1200 soldati, con una piccola flotta di elicotteri Sea King e jet da combattimento Typhoon.
«Posso assicurare che difenderemo le isole Falkland per sempre», ha giurato il primo
ministro David Cameron.
L’Argentina non ha mai smesso di rivendicare la sovranità delle isole che chiama Malvine,
nonostante la rovinosa sconfitta del 1982, quando le forze britanniche in meno di tre mesi
respinsero l’invasione delle truppe inviate dalla junta argentina. Anzi, Buenos Aires ha
rafforzato le sue pretese da quando sono stati trovati giacimenti di petrolio nei mari intorno
alle isole.
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INTERNI
del 25/03/15, pag. 12
Forza Italia, epurazione alla Camera
Il fittiano Chiarelli attacca il “cerchio magico” berlusconiano. Brunetta
lo rimuove da capogruppo in commissione Ma la censura scatena la
polemica dentro il partito, il deputato pugliese riunisce i suoi e prepara
la scissione
CARMELO LOPAPA
ROMA .
La rottura definitiva con Berlusconi — e dunque l’ennesimo scisma in Forza Italia — è solo
questione di tempo. E l’incidente verificatosi tra le due fazioni, stavolta nel pieno di una
delicata votazione in aula, è stata solo l’ultima miccia. Raffaele Fitto scalda i motori per
candidarsi in Puglia contro il partito, riunisce i suoi parlamentari a Roma, la nascita di
gruppi autonomi è ormai alle porte. «Ma cosa aspetta a farlo? Guardate: non vedo l’ora
che lui e i suoi se ne vadano, sarà il più grande regalo che possano farci», è sbottato
Silvio Berlusconi al telefono da Arcore quando Brunetta e gli altri dirigenti gli hanno
raccontato nel pomeriggio quanto avvenuto a Montecitorio. Succede che Gianfranco
Giovanni Chiarelli, deputato pugliese di Forza Italia (fittiano), viene incaricato di fare la
dichiarazione di voto a nome del partito, da capogruppo in commissione Giustizia: si vota
la riforma della prescrizione. Lui prende la parola e a sorpresa attacca a testa bassa due
fedelissimi del cosiddetto “cerchio magico”, Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi:
«Impegnano le loro giornate a fare strategie per epurazioni e per distruggere quanto
Berlusconi ha fatto in questi anni. Non ho avuto modo di confrontarmi con loro — rincara
Chiarelli annunciando il voto contrario di Fi — perché a loro non interessa nulla del partito.
Mi scuso di questa divagazione, il mio intervento lo consegnerò alla Bergamini in modo
che chi va in televisione possa dire cose sensate». Da quel momento scoppia la guerriglia
interna. Jole Santelli, berlusconiana doc, prende subito le distanze in aula: «Non si
scherza sulla giustizia, non la si utilizza per colpire i colleghi». Ma è solo l’inizio. Brunetta
informa Arcore e ne riceve l’autorizzazione a silurare seduta stante, con semplice nota,
Chiarelli dal ruolo di capogruppo in commissione. Raffaele Fitto si aggira in Transatlantico,
è a Montecitorio per tenere a rapporto i suoi. Esprime solidarietà all’amico defenestrato e
attacca di nuovo: «Cosa siamo diventati? Che situazione avvilente. Da partito liberale di
massa, siamo diventati il partito delle censure, dei commissariamenti, delle sostituzioni,
delle epurazioni ». E la sua è la reazione più moderata. Al termine della riunione dei fittiani
è un fuoco d’artificio. Saverio Romano: «Quante altre castronerie e gaffe politicoistituzionali può commettere il capogruppo di Fi senza pagarne le conseguenze?»
Maurizio Bianconi: «Ormai siamo a metà tra l’Isis che taglia le teste e gli ultimi giorni di
Salò». Daniele Capezzone: «La censura pagina triste per chi la pratica» (sottinteso
Brunetta). Pietro Laffranco: «Così va quando finisce l’impero». Per lo strappo definitivo
occorre ancora qualche giorno. Lunedì, a Firenze per una manifestazione politica,
Bianconi confidava agli amici che «ci mancano ancora cinque o sei per dar vita al gruppo
alla Camera » (dove ne occorrono venti). Al Senato (dieci) invece i numeri ci sarebbero. I
big chiamati in causa replicano a muso duro. «Restiamo un partito serio — dice Giovanni
Toti — nonostante qualcuno si stia impegnando a fondo per trasformarlo nell’opposto,
stiamo con Brunetta ». E la Bergamini: «Mai visto nulla del genere e questa storia non
depone a favore di chi l’ha montata». Sia Toti che la Bergamini voleranno oggi a Berlino
assieme a Tajani per incontrare i vertici Cdu.
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Silvio Berlusconi invece rientrerà oggi a Roma anche per cercare di spegnere i vari
incendi. Ancora in stand by l’incontro e l’accordo con Salvini e la Lega. Tanto che
l’annunciato Ufficio di presidenza potrebbe ora slittare alla prossima settimana. Dal capo
del Carroccio a Verona nuova mano tesa: «In Veneto, speriamo Forza Italia ci sia. Le
nostre porte sono spalancate, tranne a chi governa con Renzi». Con Berlusconi si
vedranno entro fine settimana. Ma l’ex Cavaliere pretende patti chiari: candidature
concordate anche in Liguria e Toscana. Sarà dura. Proprio in Liguria, Salvini ha già
lanciato Edoardo Rixi, in Forza Italia accarezzano ora l’idea di sostituirlo con Giovanni
Toti.
del 25/03/15, pag. 14
Pisapia, il perché di un addio “Preferisco la
rotazione è meglio della rottamazione”
La scelta fatta in poche ore, con Renzi neppure una telefonata Colpita
dall’affaire Pirelli, per la “città del potere” è un doppio shock
CARLO VERDELLI
MILANO .
Il lungo addio di Giuliano Pisapia è stato breve. La decisione l’ha presa sabato sera, ci ha
dormito sopra, la mattina dopo ha controllato che in città non stessero succedendo casini
particolari, ed evidentemente non ha considerato un “casino particolare” la notizia della
contemporanea cessione della Pirelli ai cinesi o l’ha digerita come un fatto ineluttabile,
vedi il recente passaggio dei grattacieli di Porta Nuova agli arabi del Qatar. Poi dopo
pranzo ha chiamato i suoi assessori per avvertirli del blitz, ha chiesto allo staff di
organizzare al volo una conferenza stampa per le 17 e qualche minuto prima di andare in
scena ha messo all’erta anche i reprima, dei social network. Uno di loro gli ha chiesto se
doveva preoccuparsi. Lui ha scelto con cura le parole per rispondere: al posto di uno “stai
sereno” dal beffardo sapore renziano, un pacato “stai tranquillo” alla milanese. Quindi,
vestito da pomeriggio festivo, con un informale maglioncino beige, in mezz’ora ha spiegato
quel che stava sospeso nell’aria da almeno mezzo anno, e cioè che non si sarebbe
ricandidato, e quindi non sarà lui il tredicesimo sindaco di Milano, ma che fino alla fine del
mandato, cioè alle Comunali del maggio 2016, avrebbe continuato il suo lavoro come anzi
meglio di prima, perché d’ora in avanti nessuna delle sue decisioni potrà essere letta in
chiave pre-elettorale. Scusate il disturbo, buon fine week-end a tutti. Telefonate con il
premier Renzi? Nessuna, né prima né dopo. Giusto un accenno indiretto: “Il termine
rottamazione non mi piace. Preferisco rotazione”. E lui, che il 20 maggio compirà 66 anni,
come del resto aveva già promesso a inizio mandato, si prepara a roteare via prima che a
qualcuno venga l’idea di rottamarlo.
Sommando il forzista Giovanni Toti che gli dà dello Schettino “che abbandona la nave a
poche settimane dall’Expo” e i quattro minuti di applausi dalla sua maggioranza nel primo
consiglio comunale, il giorno dopo, lunedì, Giuliano Pisapia esibisce un sorriso ancora più
soave del solito e l’aria di chi ha fatto la cosa giusta nel momento giusto. Non è stata la
stanchezza a spingerlo, men che meno gli scogli che ha davanti (la grande città
metropolitana, il taglio violento ai fondi per amministrare le povertà crescenti, con una
disoccupazione passata dal 6 all’8%, e gli sviluppi necessari a una metropoli europea). Il
fatto è che ormai era diventato un tormento, persino i bambini delle scuole gli chiedevano
conto di cosa avrebbe fatto. I tempi non gli permettevano di indugiare oltre: il 15 aprile
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uscirà per Rizzoli il suo libro “Milano, città aperta” ed andava evitato ogni sospetto di voler
trainare il debutto; il 1° maggio parte l’Expo e guai a disturbare. Rimandare a dopo, a
esposizione finita, cioè a novembre? Troppo tardi, sia per organizzare delle primarie sia
per immaginare una coalizione capace di vinsponsabili cere anche senza un leader che
oggi avrebbe 12 punti di vantaggio su un’eventuale ancorché azzardata candidatura di
Matteo Salvini e addirittura 18 sul ciellino Lupi, oltretutto calcolati prima della caduta. In
più, il gentile ma non sprovveduto Pisapia percepiva che le sue fila si stavano
ingarbugliando, che erano cominciati personalismi tra assessori e consiglieri, e che i
rapporti con l’ex collega di Firenze diventato premier non volgevano al bello, complicati se
possibile dalla questione del registro delle nozze gay o dalle tensioni sui fondi lesinati per
la sfida dell’Expo. Meglio sgombrare la nuvolaglia subito, e quando sarà vinca il migliore,
purché sia chiaro anche ai migliori che vincere qui può non essere così automatico come
sembra. Quando sarà, cioè fra 14 mesi: per l’anatra che si è auto- azzoppata, il cammino
è ancora lungo.
Resta il fatto che a 37 giorni dall’inaugurazione dell’Expo, incrociando le dita visto
l’avanzamento dei lavori, Milano perde in un colpo altri due pezzi: il più significativo
sindaco “arancione” e una delle poche multinazionali nate in casa, la Pirelli, fondata
proprio qui nel 1872, l’azienda col grattacielo, il Pirellone, simbolo laico del boom anni
Sessanta. Sarà un caso ma la città che con la sua provincia garantisce ancora il 10 % del
pil nazionale al governo non ha rappresentanti. Aveva un ministro, il milanese Maurizio
Lupi, e adesso neanche quello. Sottosegretari, zero.
Fine di un’epoca, cambio di stagione. Quando il 27 maggio 2011, il variegato popolo che
sosteneva Pisapia sindaco si riunì in piazza Duomo per l’ultimo comizio prima della
liberazione dalla Moratti e da un ventennio di dominio berlusconiano e leghista, un
arcobaleno benaugurante benedì la follìa politica di quella folla, un mix che andava dal
centrista Tabacci alla battagliera sinistra vendoliana, includendo borghesia e gran
borghesi desiderosi di cambiamento ma anche movimenti civici e giovani movimentisti.
Domenica scorsa, quando il vincitore di allora ha annunciato il suo passo a lato, se non
indietro, pioveva umido e il cielo neanche si vedeva.
In superficie, poco o nulla cambia. Milano ha ancora un sindaco e la Pirelli non si muoverà
da dove sta, alla Bicocca, almeno fino al 2021. Eppure domenica 22 marzo, quinta di
Quaresima, non è stata una giornata così banale. Due eventi variamente annunciati
promettono di avere conseguenze più forti di quanto il sottotono con cui sono stati
presentati lasci presagire. Con Giuliano Pisapia in uscita e la China National Chemical
Corporation in entrata per comandare Pirelli, Milano lascia sul campo sia un pezzo
pregiato di storia industriale e culturale sia un’ipotesi politica, quella “arancione”, che solo
qui, rispetto a Genova, Cagliari o Napoli, ha avuto la sua espressione più compiuta. E
poco importa che il sindaco uscente sogni per la “sua” città un domani politico in continuità
col presente, cioè senza alleanze col centrodestra, insomma una riedizione aggiornata del
“modello Milano” che ha, tra gli altri, il piccolo difetto di non somigliare per niente al
“modello Italia” impostato da Renzi. Come conta relativamente che Tronchetti Provera
manterrà la carica di amministratore delegato del gruppo e il quartier generale non si
sposterà a Pechino o altrove. Restano due effetti visibili da subito. Il primo è che andrà
ritoccata al rialzo la percentuale delle società italiane quotate in Borsa in mano a gruppi
stranieri: fino a domenica 22 marzo era intorno al 43 per cento, ora di più. Il secondo è
che, inevitabilmente, è già cominciata la volata per chi sarà il primo cittadino della Grande
Milano Metropolitana a maggio 2016. “Battendo legno, come dicono gli inglesi, quello di
questa giunta è stato finora un percorso netto, senza scandali né pasticci giudiziari”, lascia
intendere Pisapia, marcando la differenza con chi l’ha preceduto. Certo, dal 2011 il
paesaggio politico è cambiato parecchio, e quindi è possibile che Matteo Renzi, che non
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chiama, non telefona, non manda sms, consideri il laboratorio arancione dell’alchimista
Giuliano un esperimento fastidioso e quindi da archiviare. Possibile anche che il
nervosismo crescente tra molti cavalieri dell’Arcobaleno nasca proprio da qui. “Ma il timore
di perdere, ricompatta. O almeno si spera”. E questo spiega, in breve, il lungo addio.
Quanto al Pirellone, consegnato alla storia patria da una foto di Uliano Lucas, con un
immigrato sardo in posa davanti alla “fiaba verticale” con una valigiona nella mano sinistra
e una grande scatola di cartone sulla spalla destra, adesso ospita il Consiglio regionale e,
da primo, è sceso a quinto grattacielo della città. Se qualcuno vuole una cartolina da
Milano, può andare in piazza Gae Aulenti. C’è una torre 100 metri più alta, è degli arabi,
dov’è il problema.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 25/03/15, pag. 1/23
Nei quartieri a est della città le giovani ronde dei clan terrorizzano gli
abitanti
Decine di colpi esplosi all’impazzata mentre donne e bambini cercano di
mettersi al riparo Ecco l’ultima follia svelata da un video-shock
I ragazzini con la pistola per le strade di
Napoli quelle scene da Gomorra che
superano la fiction
ROBERTO SAVIANO
ACCADE spesso che realtà rincorra, superandola, la creazione cinematografica. Vedendo
il video diffuso dai carabinieri della compagnia di Torre del Greco si resta talmente
increduli da credere di stare guardando un mafia-movie. I commenti che in pochi minuti
sono giunti sui social network ovunque tracciavano un’interpretazione: «Sembra Gomorra
».
L’espressione “sembra un film” descrive qualcosa di straordinario e spettacolare. Talmente
spettacolare da ricordare l’esagerazione filmica, da non poter essere considerata un
evento reale. Questa espressione nasce da un equivoco, la differenza tra film e realtà è
solo questione di diottrie. La vicinanza al dettaglio spesso è possibile solo in una
costruzione scenica e per questo motivo quando un evento, che sia un terremoto o un
omicidio, viene ripreso nei suoi dettagli immediatamente fa pensare a un film. Perché la
realtà la immaginiamo antagonista della tv o del cinema, la pensiamo distante o non
catturabile. La realtà che percepiamo è fluida e, accade sempre, distante. La immaginiamo
possibile da registrare solo nella memoria.
La ricostruzione invece la sentiamo lenta, vicinissima e rassicurante. La realtà ci spaventa,
la ricostruzione ci incuriosisce. Questi sono i vecchi codici ma sempre più non è così. Le
telecamere nascoste e la capacità degli obiettivi rendono possibile raccontare la realtà nel
dettaglio talmente preciso che spinge spesso a far credere alla messa in scena dinanzi a
un fatto reale osservato. La precisione con cui la realtà viene narrata ribalta i canoni che
abbiamo descritto prima e crea immediatamente un effetto cospirazione in molti
osservatori. Pensiamo: la cronaca non può esser descritta e ripresa così bene.
Immaginiamo che la realtà sia diversa e crediamo quindi che sia stata costruita o
ricostruita.
La tendenza a considerare tutte le immagini dei “falsi” costruiti nasce dalla diversa
percezione che abbiamo della realtà che immaginiamo confusa, non scenica. Anche
questo è falso. La realtà spesso è assai più scenica della sua ricostruzione fantasiosa ma
non solo, sta cambiando la dialettica tra schermo e realtà . La presenza disseminata di
telecamere, cimici; la diffusione di dispositivi in grado di riprendere tutto con precisione
riscrive l’immaginario a cui si appella il cinema. Si vive e si recita alla stessa maniera, ci si
influenza vicendevolmente e spesso inconsapevolmente. Non c’è bisogno di possedere
talento registico o cinematografico, gli smartphone hanno la capacità di catturare foto di
qualità o video raramente sfocati, quindi anche sul piano della qualità realtà e finzione
iniziano a essere immagini identiche.
Quindi bisognerebbe ribaltare il commento, quando si guarda la tv o un film al cinema
bisognerebbe dire “sembra la realtà”. Il rapporto tra film e realtà è lo stesso che passa tra
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una tela e una fotografia, certo dipende dallo stile del pittore e del fotografo ma
nell’obiettivo della ricostruzione sceni- ca non c’è un calco della realtà ma la realizzazione
di una profondità. Guardando questo video si ha la sensazione di una sorta di prova
scientifica di quanto si era raccontato nella serie Gomorra. Il video dei carabinieri mostra
una tipica scena di inseguimento sugli scooter, uno dei camorristi al posto del passeggero
spara in aria, poi spunta sulla destra una sentinella che spara correndo, persone che
stanno scappando e un bambino alla sua sinistra. Lungo la traiettoria dello sparo c’è una
persona che fugge terrorizzata. Scappano tutti, uomini e animali, si vede un cane, forse un
gatto, fuggire. “Sembra Gomorra”, titolano i primi siti mentre scrivo. In realtà ci si è accorti
di tutto questo attraverso il racconto, ma scene come queste ci sono sempre state, ma non
avevano cittadinanza nell’attenzione nazionale.
Il video mostra come dopo la sparatoria la vita torni normale, come se si mettesse in conto
che per le strade di Ponticelli ci si può imbattere uno scontro tra bande e che, nel caso,
bisogna semplicemente accelerare il passo. Non vedete una somiglianza con l’abitudine di
chi vive sotto il tiro dei cecchini? Alcune scene di “Gomorra, la serie” del resto, sono girate
a Ponticelli. Questa è la guerra dimenticata del paese che qualche volta viene ripresa dalle
telecamere nascoste e costringe quindi per un attimo a non voltarsi. Una guerra che
abbiamo deciso di narrare oltre l’emergenza e con lo strumento dell’arte. D’istinto mi
verrebbe da dire: ma non ero io ad aver inventato queste cose? Non eravamo stati noi con
la serie ad aver esagerato, sporcato la città? È la realtà che ora in molti tenderanno a
liquidare dicendo che succede ovunque, che ci sono più reati in Belgio che in Italia, che in
fondo lo stesso sta accadendo anche a Buenos Aires o Parigi ma che si insiste su Napoli
per mangiarci sopra.
È quell’omertà alleata dell’impotenza (o forse della codardia) che genera questi commenti.
Qui non c’è da sottovalutare questi episodi, qui c’è solo da ribadire che il Sud vive un
abbandono, assenza di progetto, assenza di risorse, assenza di visione, assenza di
attenzione. Il lamento del Mezzogiorno verrà descritto come se fosse soltanto un languido
lamento e un’infantile richiesta d’attenzione e assistenza. Qui si consuma un dramma che
abbiamo iniziato a sopportare come il più ordinario dei modi di vivere. Naturalmente
queste cose accadono, ma quel meccanismo che fa immaginare una realtà spaventosa e
la trasforma in una ricostruzione curiosa crea una pericolosa distanza. Queste immagini
rischiano di essere percepite come messa in scena di una guerra lontana che non
interessa, tutto diventa sopportabile e al massimo attira la curiosità di un video visto come
decine di altri sullo smartphone postato da qualche amico. La realtà non è peggiorata dal
suo racconto ma, al contrario, la sua rappresentazione ne restituisce i codici e prova a
darle un senso. Il punto è un altro: se si rimane solo spettatori hanno fallito sia l’arte del
cinema e della fiction sia il video diffuso dai carabinieri di Napoli.
Del 25/03/2015, pag. 14
Corruzione, la stretta di Padoan e Cantone
sulle partecipate
Il responsabile del piano
La mappa dei rischi Il sistema di controllo
Via al piano con rotazione dei dirigenti, mappa delle aree a rischio e un
«responsabile per la prevenzione»
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ROMA Un piano anticorruzione con l’individuazione di un responsabile della prevenzione
degli illeciti nelle società partecipate e controllate dal Tesoro e in quelle pubbliche
(comprese quelle partecipate dagli enti locali). La mappa delle aree a rischio. La tutela di
chi denuncia illeciti dall’interno della pubblica amministrazione. E la rotazione degli
incarichi in enti e società, fondazioni e associazioni di enti locali. Sono alcune delle linee
guida della lotta all’illegalità presentate ieri dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan,
e dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, che puntano
sulla prevenzione. Per ora le regole sono «sospese per le società quotate in Borsa e per
quelle che emettono strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati». Per il ministro è
«una profonda riforma strutturale: so che non resterà lettera morta». «È una rivoluzione,
ma si tratta di una semina con raccolto nel lungo periodo», dice Cantone che sottolinea sui
reati di corruzione: «Nessuno può pensare di mettere in discussione le regole sulle
intercettazioni: non credo sia un tema in agenda. Al massimo si può pensare di rafforzarle
per la corruzione». «Altra cosa è parlare della pubblicazione o della troppa pubblicità —
aggiunge — specie se si tocca la vita privata».
Figura chiave delle linee guida sarà il «responsabile per la prevenzione della corruzione»,
incaricato di redigere il piano per prevenire gli illeciti: dovrà essere un dirigente interno,
caratterizzato da un comportamento «integerrimo». Tra i suoi compiti, la stesura di una
«mappa dei rischi»: le aziende dovranno innanzitutto individuare in quali aree o settori di
attività potrebbero più facilmente verificarsi i reati. E l’ambito di applicazione del
provvedimento è particolarmente vasto: in base ai dati del Mef del 2012, le partecipate
dall’amministrazione centrale sono 423, cui si aggiungono le 17 partecipate dagli enti
previdenziali. A questi bisogna aggiungere i 7.726 enti collegati a Regioni, Province e
Comuni. Il documento prevede inoltre un rigido «sistema di controlli». E se le società ne
fossero sprovviste, dovranno essere introdotti nuovi principi e strutture ad hoc . C’è anche
un «codice di comportamento» orientato alla prevenzione. Inoltre è stabilito che «gli
incarichi dirigenziali non potranno essere conferiti in caso di condanna per reati contro la
P.a. o di contemporanei incarichi politici». Da notare il «divieto di assunzione per gli ex
dipendenti pubblici che nei tre anni precedenti abbiano esercitato poteri autoritativi o
negoziali» per la P.a. E gli incarichi dirigenziali «saranno conferiti a rotazione».
Francesco Di Frischia
Del 25/03/2015, pag. 5
Mafia Capitale, si dimette l’uomo di Zingaretti
ACCUSATO DI TURBATIVA D’ASTA PER UNA GARA AGGIUDICATA A
UNA COOP VICINA A BUZZI: LASCIA IL CAPO SEGRETERIA DEL
PRESIDENTE DEL LAZIO
Il numero due del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, si dimette. Maurizio
Venafro, capo di gabinetto della Regione, è indagato per turbativa d’asta nell’ambito
dell’inchiesta Mafia Capitale della Procura di Roma. Così prima che la vicenda diventi un
boomerang per la giunta Zingaretti, Venafro ha deciso di fare un passo indietro e ieri ha
inviato una lettera di dimissioni dove ha spiegato che le indagini degli inquirenti sono
“(purtroppo) incompatibili con i tempi della politica, dell’informazione e, infine ma non per
ultimo, con quelli della mia personale dignità”. A TIRARE in ballo Maurizio Venafro nell ’
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inchiesta che ha scoperchiato una presunta mafia a Roma, sono stati anche alcuni
testimoni che sentiti come persone informate sui fatti avrebbero ricostruito le fasi
precedenti all’assegnazione di uno degli appalti più ricchi della regione Lazio: quello del
Recup, il centro di prenotazione di prestazioni sanitarie della Regione, che in totale valeva
60 milioni di euro. L’appalto era stato diviso in quattro lotti, di cui uno, per circa 14 milioni,
era stato assegnato in una prima fase ad una cooperativa vicina al sodalizio. Alla fine però
questo appalto, oggetto anche di alcune interrogazioni in Regione come quella di
Francesco Storace de La Destra, non ha avuto vita lunga. Dopo gli arresti del 2 dicembre
che hanno sconvolto la Capitale quindi il presidente Zingaretti ha annullato quel bando e la
gara quindi non è stata assegnata definitivamente. Il coinvolgimento di Venafro però –
secondo alcune indiscrezioni sul caso nonostante il massimo riserbo della procura – ci
sarebbe in un momento precedente. Ossia quando il capo di gabinetto della Regione
nomina Claudio Scozzafava nella commissione che doveva assegnare l’appalto. Anche
Scozzafava, già dirigente del Campidoglio e dell’ospedale Sant ’ Andrea, è stato iscritto
nel registro degli indagati della procura di Roma con l’accusa di associazione a delinquere
e corruzione. I guai giudiziari per questa nomina secondo Maurizio Venafro si
concluderanno con un’archiviazione: “Non ritengo finchè la mia posizione non sarà chiarita
e chiusa con l’inevitabile archiviazione – scrive nella lettera di dimissioni – conseguente
alla mia estraneità ad ogni ipotesi d ’ accusa, parlare pubblicamente dell’indagine, dei fatti
e delle ragioni che depongono per l’assoluta correttezza e trasparenza del mio operato”.
Che Buzzi volesse mettere le mani su uno degli appalti più ghiotti della Regione i
magistrati romani lo avevano capito già nella prima fase delle intercettazioni. In una
riunione negli uffici di Buzzi del 5 maggio 2014, Carlo Guarany ritenuto dai pm
collaboratore del ras delle coop, fa riferimento ad una gara da 60 milioni. Fabrizio Testa
ribatte: “Bhe in Regione Lazio… (inc)… Luca” e Carminati rassicura: “In Regione
c’avemo… c’è Luca”. Carlo Guarany sembra non convinto: “Si ma io voglio di’… questi qui
la gara de 60 milioni di euro l’avranno vista, no?”. Poco dopo interviene di nuovo Massimo
Carminati: “No, ma Luca sicuramente è stato interessato… però capito se dobbiamo
arrivacce alla cosa ce arrivamo in un’altra maniera”. Il Luca a cui si fa riferimento come
chiariscono i pm nell’ordinanza è Luca Grama-zio, indagato anche lui nell ’ inchiesta sul ‘
mondo di mezzo ’ per brogli elettorali e figlio dell’ex senatore Domenico. “In merito ad una
non meglio precisata gara da 60 milioni, – scrivono i pm – Massimo Carminati ricordava ai
presenti che in Regione Lazio potevano contare anche sull’appoggio di Luca Gramazio”.
Poi con il proseguire delle indagini, gli inquirenti hanno scoperto che la gara da 60 milioni
di cui parlava il gruppo poteva essere quella Recup. In aiuto ai pm anche una seconda
intercettazione, captata il 2 settembre 2014, tra la segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito e
Claudio Caldarelli, punto di collegamento tra l’organizzazione e la politica. La Cerrito dice:
“A Clà, ma l’avemo vinto quel discorso de ‘ Formula Sociale ’ per dei Cup, de Recup, che
era?”. Caldarelli risponde: “Stiamo.. ce va a pranzo oggi!”. La segretaria si informa ancora.
“Ma è buono come appalto?”. E Caldarelli: “14 milioni”. DA QUESTE intercettazioni sono
stati avviati una serie di accertamenti non solo acquisendo documenti ma anche
ascoltando in questi mesi diverse persone in Regione. I dettagli della vicenda non sono
ancora nitidi. Perchè Carminati faccia riferimento a Luca Gramazio in questo appalto
specifico è ancora da chiarire, come pure mancano i dettagli del coinvolgimento del
numero due in Regione. Che intanto ha rassegnato le dimissioni.
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Del 25/03/2015, pag. 15
I cronisti, “Falcone spiato” e la vocetta che
disinformava
BOLZONI RICORDA LE SOFFIATE “SOSPETTE” DI LA BARBERA E
ALTRI FONTI DELLO STATO
Arnaldo La Barbera? “Nel 1989 mi consegnò l’informativa sui telefoni intercettati nell’ufficio
di Falcone, il capo della polizia Parisi confermò la notizia al mio collega Giuseppe
D’Avanzo (l’inviato editorialista scomparso nel 2011, ndr) e Repubblica uscì con il titolo ‘
Falcone spiato’, ma non era vero: quel rapporto non portò da nessuna parte’’, risponde
Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica che ha deposto ieri a Caltanissetta nel processo
Capaci bis rievocando quegli anni. E l’identikit dello stesso killer dell’Addaura e di Capaci
pubblicato a sole tre settimane dalla strage dell’autostrada? “Gli identikit me li diede La
Barbera, ma a dirmi della corrispondenza di volti fu un alto personaggio, La Barbera mi
smentì la notizia, ma io la scrissi proprio per l’autorevolezza della fonte”. Notizie velenose
diffuse da fonti che a distanza di anni “cambiano direzione” e che hanno ammorbato
l’informazione nella stagione più misteriosa della lotta alla mafia, gli anni delle microspie
nell’ufficio di Falcone, dell’Addaura, delle lettere del Corvo, degli strani avvistamenti di
Buscetta a passeggio per Palermo: anni di soffiate di servizi segreti e di strategie
mediatiche sotterranee di pezzi degli apparati antimafia ferocemente contrapposti.
L’inviato di Repubblica le chiama “campane sotterranee, che poi tanto sotterranee non
erano: alcuni informavano, altri smentivano”, per arrivare a una conclusione: “Anni dopo
con D’Avanzo ci siamo resi conto che in alcune di quelle vicende siamo stati oggetto di
disinformazione”. E non solo di quegli anni: tra le indagini “strane”, viziate da soffiate
interessate, Bolzoni cita anche “la prima indagine palermitana su Berlusconi per mafia”.
Notizia diffuse ad arte per mettere sotto pressione Giovanni Falcone? “Ci sono varie
interpretazioni – ha risposto Bolzoni – ce n’è una malevola, secondo cui qualcuno lo
voleva sotto pressione, gli voleva fare sentire il fiato sul collo. Ma ci può essere
un’interpretazione benevola, e cioè qualcuno che aveva deciso di attirare l’attenzione su di
lui, in quel momento al centro di forti tensioni”. E chi diffondeva quelle voci contro
Falcone? “Ambienti dell’alto commissariato antimafia, Falcone non si fidava di un sacco di
persone dentro le istituzioni. Qualche nome? Bruno Contrada, D’Antone”. Sono gli anni
dell’attentato fallito all’Addaura: “Facendo brillare l’innesco cancellarono la possibilità di
risalire all’artificiere – ha proseguito Bolzoni – Falcone si sorprese molto e si adirò”.
Vicende che “mi turbarono”, dice Bolzoni, come quando La Barbera e un’altra fonte lo
portarono nel bunker di Falcone all’ammezzato del palazzo di Giustizia di Palermo, “dove
uomini con la tuta bianca controllavano i fili del telefono’’: “c’era qualcosa di strano perché
il giorno dopo smentirono tutti con D’Avanzo ritenemmo poi che quella vicenda fosse stata
costruita a tavolino: non si ebbe mai la prova che quei telefoni erano intercettati”. Non fu la
sola, in quegli anni: “Con altri colleghi abbiamo avuto informazioni da ambienti ostili a
Falcone e lo stesso Falcone si adirò. Siamo stati a casa del personaggio che avrebbe
incontrato Buscetta, e ci siamo resi conto di avere subìto una campagna di
disinformazione. Poi, in anni più recenti, da altre fonti ci siamo ricreduti: forse non
avevamo tutti i torti”. L’inviato di Repubblica ha ricordato di esser stato poi sentito alla Dna
e dai pm di Caltanissetta che oggi indagano sui veleni di quegli anni: “Ho un ricordo vago
d’esser stato chiamato in via Giulia dal procuratore Grasso per parlare delle foto
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dell’identikit nell’articolo che avevo scritto poco dopo la strage. Mi sconcerta che tre
settimane dopo Capaci potessi aver scritto quelle cose che rilette a distanza di anni fanno
impressione”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 25/03/15, pag. 14
I fondi per i migranti spesi in fiere di paese
e contratti ai parenti
Caltagirone, inchiesta sul ”Cara” di Mineo
Fabio Albanese
E dire che non lo volevano. E pensare che quando nel 2011 l’allora premier Berlusconi e
l’allora ministro dell’Interno Maroni vennero a visitarlo e annunciarono che quella mega
struttura di Mineo, ormai abbandonata dagli americani di Sigonella, sarebbe diventata il
Cara (Centro accoglienza per richiedenti asilo), più grande d’Italia, poco ci volle che
alzassero le barricate: «Qui non vogliamo migranti - dissero gli amministratori dei comuni
della zona - potrebbero portare malattie e causare problemi di ordine pubblico». E invece,
man mano che le procure di Catania e Caltagirone vanno avanti con le rispettive inchieste,
dal Cara di Mineo, che ospita oltre tremila richiedenti asilo, l’unica malattia emersa è
quella del malaffare: non dei migranti ma di chi li dovrebbe assistere.
Le risorse
Una delle due inchieste della procura di Caltagirone sull’«affare Cara» riguarda l’uso di
risorse destinate al centro e usate invece per sagre e manifestazioni locali e per
l’assunzione, sia nel Cara sia nelle strutture del Sistema di protezione richiedenti asilo e
rifugiati (Sprar) della zona, di decine, forse centinaia di persone, imparentate con politici e
amministratori dei 9 comuni che aderiscono al Consorzio «Calatino Terra d’Accoglienza».
Il Consorzio gestisce il Cara e il ricco budget; l’ultima gara d’appalto, 97 milioni in tre anni,
è stata giudicata «illegittima» dal presidente dell’autorità anticorruzione Cantone ed è da
mesi sotto la lente della Dda di Catania, che ha avviato l’indagine dopo aver ricevuto dalla
procura di Roma atti dell’inchiesta su “Mafia Capitale” con, al centro, il ruolo di Luca
Odevaine, il quale aveva un incarico anche al Cara di Mineo. E’ in questa inchiesta che
sarebbe indagato anche l’attuale sottosegretario all’agricoltura Giuseppe Castiglione
(Ncd), ai tempi in cui da presidente della provincia di Catania fu soggetto attuatore della
gestione del Cara (Castiglione nega di aver ricevuto un avviso di garanzia).
La procura di Caltagirone ha aperto questa seconda indagine, al momento «contro ignoti»,
dopo una serie di esposti anonimi e di denunce e dopo l’acquisizione di atti: il procuratore
Giuseppe Verzera deve far luce sull’uso di una parte dei fondi per l’assistenza ai migranti,
usati invece per contribuire all’organizzazione di manifestazioni come una sagra dell’uva a
Licodia Eubea, la festa di Santa Lucia a San Cono, il Natale di Mirabella Imbaccari, il
presepe vivente di Vizzini: solo nell’ultimo anno 200mila euro destinati a “progetti di
integrazione” dei migranti, in minima parte utilizzati per i richiedenti asilo, «in scena» come
partecipanti o spettatori.
L’occupazione
C’è poi il capitolo assunzioni. Attorno al business Cara-Sprar, controllato dal Consorzio,
ruotano un migliaio di posti di lavoro. Molti occupati sono imparentati con sindaci,
assessori ed ex assessori di tutti gli schieramenti. Posti di lavoro che, in comuni piccoli
come questi, possono spostare i voti sufficienti a fare eleggere un candidato o un altro.
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del 25/03/15, pag. 6
Brescia, cariche contro i migranti
Manuel Colosio *
BRESCIA
Diritti. I manifestanti chiedevano il riconoscimento del permesso di
soggiorno
Ci sono voluti quattro giorni di repressione con cariche, arresti, fermi ed espulsioni di
migranti per ottenere la possibilità di manifestare a Brescia e in piazza Loggia. Questa
città ha vissuto un clima di repressione e militarizzazione del centro cittadino e della sua
piazza simbolo, fino a ieri transennata e occupata dalla polizia. Tutto questo a causa della
volontà di impedire ai migranti e alle associazioni che li sostengono di manifestare per il
permesso di soggiorno e contro il risultato della sanatoria 2012, che a Brescia ha prodotto
un numero di rigetti che non si sono registrati in nessuna altra città italiana. Qui la
prefettura ha respinto quasi l’80% delle oltre 5.000 domande inoltrate, ribaltando in pratica
le statistiche nazionali dove invece l’80% dei richiedenti ha ottenuto il permesso. Una
situazione che obbliga quindi migliaia di immigrati, che spesso vivono da anni in città, a
lavorare senza un contratto di lavoro e di affitto, senza la residenza, l’iscrizione al servizio
sanitario e rischiando in ogni istante l’espulsione. Da qui la rabbia di chi si è sentito vittima
di una propria truffa: alle migliaia di euro spesi per la regolarizzazione si aggiungono
adesso anche quelli per ricorrere al Tar locale, ingolfato proprio dai ricorsi. Una ingiustizia
che ha visto diverse realtà che da anni lottano a fianco dei migranti, come l’Associazione
Diritti per Tutti, l’ufficio immigrati della Cgil, la comunità senegalese di Brescia e
l’associazione islamica Muhammadiah, scendere in piazza per manifestare e chiedere che
si rivedessero tutte le pratiche rigettate illegittimamente.
La risposta però è stata quella di portare il livello del confronto sul terreno dell’ordine
pubblico: vietare la partenza da Piazza della Loggia per la manifestazione di sabato
scorso, blindando la piazza ed effettuando cariche prima e durante il corteo, sgomberare
domenica di prima mattina il presidio che aveva passato la notte in piazza Vittoria,
realizzando diversi fermi che si sono tradotti per 3 migranti nella detenzione in un Cie e
per un quarto il rimpatrio forzoso; migranti e antirazzisti però non demordono e lunedì
decidono di tornare a presidiare la piazza, ma ad attenderli però ancora una volta la polizia
in assetto antisommossa, che ha caricato per l’ennesima volta il presidio sul nascere ed
effettuando anche in questo caso 4 fermi, un arresto e provocando 4 feriti tra i
manifestanti. Il tutto ordinato dal responsabile di piazza della questura, Domenico
Farinacci.
«Siamo in una città governata dalla polizia e in stato d’eccezione» ha denunciato a più
riprese Diritti per tutti, al quale si è aggiunge il commento della Camera del Lavoro di
Brescia, che per bocca del segretario generale Damiano Galletti definisce la situazione
«inaccettabile» e chiede che si torni al dialogo. Ampia la solidarietà ricevuta da tutta Italia:
attestati di vicinanza sono giunti da diverse città, tra le quali Bologna (dove ieri si è tenuto
anche un presidio nel pomeriggio), passando per la Valle di Susa per scendere fino a
Napoli. mentre ieri il senatore bresciano del M5S Vito Crimi ha chiesto al governo di
spiegare il perché di questa assurda gestione dell’ordine pubblico. Forte della solidarietà e
di una sempre maggiore partecipazione, la lotta quindi non si è certo arrestata, anzi: ieri si
è tornati a manifestare nel tardo pomeriggio e al grido di «Brescia libera» centinaia di
persone hanno riconquistato prima piazza Loggia e poi la libertà di manifestare,
muovendosi in corteo per le vie del centro. Tornati in presidio in piazza della Loggia si
sono susseguiti gli interventi per chiedere l’apertura di un tavolo di trattative sui rigetti e si
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è denunciata, attraverso la riproduzione su grandi cartelli delle fotografie e la proiezione
dei video, la repressione e la sospensione dei diritti dei giorni precedenti. In mattinata si
era tenuto, tra l’altro, un incontro tra migranti e associazioni di solidali con il sindaco del Pd
Emilio Del Bono, che dopo tre giorni di latitanza e deleghe agli altri componenti della
giunta, ha dichiarato di ritenere legittime le motivazioni della protesta, ma ha anche
ammesso allo stesso tempo di avere sostenuto l’inopportunità di manifestare nella centrale
piazza cittadina. Il movimento di lotta però resiste e rilancia: per sabato 28 marzo è
prevista una nuova grande manifestazione che unirà le richieste specifiche dei migranti e
degli antirazzisti a quelle di tutti i bresciani di poter manifestare liberamente in città e nella
sua piazza simbolo, quella ferita dalla strage fascista e di stato del 28 maggio 1974.
* Radio Onda d’urto
del 25/03/15, pag. 25
L’Asmi è la prima associazione di lupetti musulmani: conta 200 iscritti.
La vicepresidente è stata formata dall’Agesci: “Così impariamo a
migliorarci”
Ecco gli scout di Allah “Ma nei nostri giochi i
maschi e le femmine non si toccano mai”
ZITA DAZZI
MILANO .
Come tutti gli scout del mondo, indossano il fazzoletto arrotolato al collo, amano la vita
all’aria aperta, condividono i valori dell’amicizia e della pace. E credono in dio. Che poi
questo dio sia Allah e non Gesù Cristo non cambia. Loro non ci vedono niente di strano e
nemmeno i responsabili nazionali dell’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani)
che li hanno accolti come fratelli e “formati” perché potessero cominciare a fare attività
educative, col metodo del movimento internazionale ispirato agli scritti di Robert BadenPowel, padre dei milioni di “lupetti” e “coccinelle” che in tutto il mondo esplorano i boschi in
“squadriglie” e fanno giochi nella natura per imparare la solidarietà e i rispetto delle regole.
Il primo scout musulmano d’Italia era un ex cattolico di Udine convertito all’Islam, che non
aveva voluto rinunciare alla sua passione di quando era ragazzino. Era il 2007 ed era
un’eccezione assoluta. Adesso è nata l’Associazione scout musulmani d’Italia, circa 200
iscritti, tutti figli di immigrati e in contatto diretto con l’Agesci. La vicepresidente è una
ragazza immigrata di seconda generazione, Sarah, 26 anni, quinta figlia di una famiglia di
egiziani trapiantata in Italia, studentessa di farmacia a Milano, una ragazza solare e
allegra, col suo hjiab colorato ben calcato in testa. È stata lei a frequentare un corso
Agesci per organizzare un percorso da scout Doc per un gruppetto di 20 bambini di
religione islamica, anche loro figli di arabi e nordafricani che vivono a Milano.
«Il Profeta Mohammed, pace e benedizione su di lui, viveva anche lui una vita da scout —
ha raccontato Sarah ai giornalisti della rivista “Scarp de tenis”, vicina alla Caritas
Ambrosiana, che esce questa settimana con un servizio sul tema. «L’Islam come religione
combacia con il movimento scout e si può dire che lo scoutismo è Islam perché Maometto
viaggiava per diffondere il suo messaggio e viveva in modo molto umile, davanti ad un
pasto abbondante non doveva saziarsi, si accontentava di poco, viveva nella natura, e
anche nei momenti più difficili era sempre disponibile verso tutti. Sapeva ascoltare, era al
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servizio di tutti, bambini, donne e anziani, cercava di trasmettere il messaggio dell’Islam a
tutti ».
Sarah in questi giorni è in Egitto per una breve vacanza, ma appena tornerà riprenderà le
sue uscite in giro per la Lombardia, con i bambini al seguito. «Hanno chiesto di fare solo
alcune piccole modifiche alle regole generali — spiega Matteo Citterio, responsabile delle
relazioni internazionali Agesci — Per esempio, le ragazze portano il velo sul capo e non
indossano i pantaloni corti. Nei giochi di gruppo si evita il contatto fisico fra maschi e
femmine, come prescrivono i precetti della loro religione. Comunque, noi li sosteniamo
nelle loro attività e nella creazione di un percorso per i bambini. Fare formazione a loro è
stata un’esperienza interessante». A Milano per altro, con 100mila islamici residenti, non è
cosa insolita trovare bambini musulmani anche negli oratori, tanto che l’arcivescovo
Angelo Scola, recentemente, ha dato loro il benvenuto: «Se pregano nelle nostre
parrocchie, non c’è problema. La vera integrazione si costruisce così».
Sarah è d’accordo sul dialogo a tutto campo con i cattolici e pensa che una strada veloce
per insegnare sani principi di vita anche ai più piccoli è quella che si impara andando con
gli scout: «Così si arriva più vicino a Dio perché ci si distacca dalla vita movimentata di
ogni giorno, dalla routine che distrae. Noi preghiamo cinque volte al giorno e anche
quando facciamo le uscite tutti insieme, rispettiamo il precetto. Nell’Islam c’è questo
sentimento dello “sforzo” che appartiene allo scoutismo: bisogna sempre sforzarsi in modo
positivo per migliorarci, essere utili agli altri e sorridere nei momenti difficili, come dice il
Profeta».
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WELFARE E SOCIETA’
del 25/03/15, pag. 46
La dialettica giovani-anziani varia nelle diverse epoche Ma la storia
antica dell’Isola di Pasqua svela che spesso sono i padri a divorare i
figli
Rubare il futuro la dura legge che incatena le
generazioni
GUSTAVO ZAGREBELSKY
LE società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle
che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare
senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le
generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si
passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena
della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane
sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse:
«La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»).
Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima
l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a
costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella
che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i
beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di
una generazione, cioè la sua durata in vita?
Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da
ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e
d’istruzio- ne. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi
padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla
generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro
che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono
segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che
definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione
precedente.
E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio
che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”.
Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido
sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio
diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno
maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo
della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna
generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo.
A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il
tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da
altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la
mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i
quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non
vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro
esistenza.
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Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei
diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del
Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo
di un’intera generazione. Ma è ancora così?
Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali — cioè, in pratica, tutte, salvo le società
dell’utopia — gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati
a se stessi. Erano i non-produttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i
“malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che
rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva.
Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli
handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a
spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana”
della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la
pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale
dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” — pensioni e assistenza,
sanità, lavoro — chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui
numero percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita.
Forse, è alle viste una vera e pro- pria ribellione della generazione giovane, su cui grava
l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li
si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi.
Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe
sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli
europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge
il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni
dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero
piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste,
ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone,
divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori
europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente
deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di
persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era
ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto
questo disastro? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema
desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli
studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da
sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe
stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta
ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per
la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco
a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli
molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre
accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì
all’ultimo stadio, l’antropofagia. E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte
di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che
erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte
un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva.
Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso
nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle
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— un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso — occorrevano
tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu
desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte
furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una
via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche —
la loro salvezza — era già stato usato e consumato per le teste di pietra.
Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la
sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso
alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima,
trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare.
Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore,
estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra appartiene alla
generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di
nuovo.
del 25/03/15, pag. 6
Celle illegali a Sollicciano, detenuto risarcito
Eleonora Martini
Carcere. Sovraffollamento e attività trattamentali inadeguate, nel
penitenziario fiorentino di Sollicciano. Radicali italiani in sciopero della
fame per chiedere amnistia e indulto e ricordare l’attualità del
messaggio di Napolitano
Quaranta giorni di sconto sulla pena e 3.840 euro a mo’ di risarcimento del danno, per
essere stato recluso per 880 giorni in una cella del carcere di Firenze-Sollicciano senza
quei requisiti minimi imposti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutela della dignità
dei detenuti. Corte che tra qualche mese, a giugno prossimo, metterà di nuovo l’Italia sotto
la lente di ingrandimento per valutare se sussistano ancora le condizioni che portarono
alla condanna pilota cosiddetta «Torreggiani» dell’8 gennaio 2013.
Non è la prima volta che un tribunale — in questo caso il magistrato di sorveglianza di
Firenze, Susanna Raimondo — riconosce a un detenuto costretto a vivere in uno spazio a
disposizione, al netto degli arredi, che si aggira tra i 3 e i 4 metri quadri, «in violazione
dell’articolo 3 della Convenzione Edu», il rimedio previsto dall’articolo 35 dell’ordinamento
penitenziario inserito dal legislatore nel 2014 come meccanismo compensatorio, su
richiesta dalla stessa corte di Strasburgo. Risale al settembre 2014, infatti, il primo
risarcimento in favore di un detenuto del carcere di Ferrara. «In Emilia Romagna è
accaduto più volte — racconta Franco Maisto, presidente del Tribunale di Sorveglianza di
Bologna — però c’è una parte della magistratura, sia pur minoritaria, che tende ad
interpretare in modo restrittivo i requisiti necessari per accedere ai risarcimenti previsti
dalla legge 117/2014, tanto che si sta pensando anche di riscrivere in modo più chiaro la
norma». «In Toscana finora c’erano stati solo rigetti, speriamo che questa ordinanza faccia
da apripista», commenta il garante dei detenuti regionale, Franco Corleone.
Uno dei punti più controversi del meccanismo di compensazione voluto dal Guardasigilli
Orlando per evitare una serie infinita di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti umani è
la cosiddetta «attualità del pregiudizio», sulla quale si attende prossimamente il
pronunciamento della Cassazione. Non è interpretato univocamente neppure quale sia il
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giudice — se quello civile o il magistrato di sorveglianza — a cui presentare ricorso,
quando il ricorrente è ormai un ex detenuto.
Nel caso fiorentino, il magistrato Susanna Raimondo, accogliendo la richiesta di un uomo
di 44 anni condannato nel 2011 per reati legati agli stupefacenti, ha riconosciuto la
violazione dei diritti umani commessa a Sollicciano malgrado l’amministrazione
penitenziaria del carcere non abbia risposto — come spesso avviene — in modo preciso
ed esaustivo alle richieste di chiarimento del giudice riguardo le attività trattamentali offerte
al detenuto.
Perché, come si legge nell’ordinanza, se a disposizione di ciascun recluso c’è uno spazio
inferiore ai 3 mq, deve essere considerata violata la giurisprudenza della Corte europea e
il trattamento inumano e degradante è da ritenersi accertato. Se invece lo spazio vitale è
superiore ai 3 mq ma inferiore ai 4 mq, «vanno valutati altri aspetti delle condizioni
carcerarie quali ad esempio il rispetto o meno delle esigenze sanitarie di base, l’aerazione
disponibile, le attività trattamentali praticate, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la
possibilità di permanere in spazi aperti per un congruo numero di ore».
Peraltro, scrive Raimondo, «va considerato che nella determinazione dello spazio fruibile
deve essere detratto l’ingombro costituito dal mobilio fisso mentre non devono essere
scomputati gli arredi rimovibili, come sgabelli o tavolini. Anche la superficie del letto è
ininfluente, essendo utilizzato per distendersi di giorno e per dormire la notte e dunque
rientrante nello spazio concretamente disponibile dal detenuto».
«L’ordinanza di Raimondo rappresenta un barlume di lucidità nella giustizia italiana:
speriamo che a questa sentenza ne seguano altre e che si riesca a compensare la totale
inerzia delle istituzioni, nazionali e locali», commentano i Radicali fiorentini sottolineando
l’iniziativa della segretaria del partito, Rita Bernardini, che «è in sciopero della fame
proprio per ricordare il messaggio alle Camere del presidente Napolitano (ottobre 2013,
ndr)».
Anche Marco Pannella è intervenuto ieri di nuovo sulla questione da Radio Radicale,
annunciando iniziative nonviolente per «chiedere immediatamente amnistia e indulto».
Provvedimenti tesi, sostiene Pannella, soprattutto a «salvare Cesare». Perché, «come
aveva previsto Napolitano nel suo messaggio alle camere, senza provvedimenti come
amnistia e indulto, sarebbe proseguita la condizione tecnicamente criminale, direi
assassina e torturatrice, di Cesare, dello stato italiano».
del 25/03/15, pag. 6
Opg, Veneto inadempiente. «Ma le sanzioni
non bastano»
Eleonora Martini
Intervista a Nerina Dirindin, della Commissione Sanità del Senato. «Va
promosso quel dialogo troppo carente tra le strutture sanitarie e la
magistratura»
Ci sono regioni che si sono attivate appena qualche settimana fa, quando hanno capito
che non ci sarebbe stata nessun’altra proroga. Ma c’è anche chi, come il Veneto di Luca
Zaia, ha scelto deliberatamente di non prestare particolare attenzione ad un evento
considerato “storico” come la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. E a sei giorni
dall’ora X che per legge scatta a fine marzo, continua a non predisporre alcun piano.
«Purtroppo c’è qualcuno che tende a considerare un optional ciò che è imposto per
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legge», commenta la senatrice Pd Nerina Dirindin, che per la commissione Sanità ha
effettuato in questi giorni una serie di sopralluoghi per verificare il processo di dismissione
degli Opg.
Qual è la situazione?
Finalmente questo percorso è stato avviato in tutte le regioni, tranne il Veneto. Alcune si
sono attivate prima, altre dopo, come il Piemonte che lo ha fatto solo recentemente. Ma
ora l’importante è che in questo percorso, che sarà lungo e ad ostacoli, si evitino certe
scorciatoie: non si trasferiscano semplicemente le persone da una struttura degradata ad
una solo un po’ più bella, si attuino effettivamente percorsi riabilitativi terapeutici
personalizzati, si rispetti la dignità di queste persone che sono al contempo rei e folli.
Per le regioni che non rispettano i termini di scadenza è previsto il
commissariamento…
Sì, c’è un commissario nazionale, unico per tutte le regioni, per fare in modo che ci sia
omogeneità nell’attuazione della riforma.
Nessuna sanzione?
Guardi, io credo che sia inutile sanzionare, perché le sanzioni non possono che essere
minuscole. Mentre invece bisogna creare una cultura nuova: accompagnare, monitorare,
supportare, arrabbiarsi magari… Nella legge abbiamo scritto che il rispetto delle scadenze
sugli Opg sarebbe stato considerato uno degli indicatori per maturare il diritto alla quota
integrativa del Fondo sanitario nazionale, però non credo che la sanzione sia un
deterrente.
Il Partito Radicale insieme ad alcuni deputati di Alternativa libera denunciano il
mancato rispetto, di fatto, della scadenza del 31 marzo.
Guardi a me non interessa che il 1° aprile chiudano gli Opg e buttino via la chiave, perché
questa è la cosa peggiore che potremmo fare. Sappiamo che non siamo tutti pronti e se
pure resterà un solo internato bisognerà che per lui sia predisposto il migliore piano di cura
personalizzato. Allora, tutta questa furia nel denunciare l’arretratezza del processo io la
utilizzerei per dare una mano a non creare allarmismi, a sostenere la cultura del rispetto,
cosa che per altro i Radicali hanno sempre fatto. Io però non sono per la repressione, ma
per la sensibilizzazione, la formazione, la creazione di una cultura positiva.
Come si stanno attrezzando i Dipartimenti di salute mentale?
I Dsm sono già in sofferenza perché in questi anni di forti restrizioni economiche sono stati
spesso trascurati. Perciò sono previste risorse per i concorsi e per l’assunzione del
personale, e ci auguriamo che tutte le regioni si attivino immediatamente. Però c’è anche
bisogno di formare e creare motivazione nel personale, perché da troppi anni le strutture
sanitarie si sono disinteressate agli internati. E la stessa cosa vale anche per la
magistratura che finora ha spesso utilizzato gli Opg a mo’ di ripiego rispetto alle carenze
dei servizi. Davanti ad un’amministrazione sanitaria che non garantisce una risposta
adeguata per qualsiasi motivo, presunto o reale, la magistratura non ha avuto sufficiente
attenzione e consapevolezza che si tratta di omissione di atti d’ufficio.
Come si scardina questa prassi?
Abbiamo visto ovunque una scarsa abitudine al dialogo tra l’amministrazione sanitaria e
quella giudiziaria ma ora quasi dappertutto si stanno attivando tavoli e sottoscrivendo
protocolli per rimettere in moto una collaborazione più proficua, sia nell’interesse del
malato che degli operatori e delle comunità. Nella legge 81 però è stato introdotto anche
qualche elemento di novità importante che potrà condizionare il comportamento dei
magistrati. Uno per tutti, il concetto di pericolosità sociale, che non può essere ricondotto
in alcun modo alla condizione economico-sociale degli internati. Doveva accadere prima
per gli Opg, dovrà accadere d’ora in poi per le Rems, le residenze che li sostituiranno.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 25/03/2015, pag. 12
ACQUA PUBBLICA ADDIO OGGI BOLLETTE
SALATE MA IL FUTURO È PEGGIO
BEFFA REFERENDUM
Il governo punta alla creazione di grandi gruppi regionali. I Comuni
senza soldi non vedono l’ora di cedere le loro quote ai privati
Votato da molti, tradito subito dopo da tutti. Il referendum sull’acqua doveva togliere il
profitto dai servizi idrici ed estromettere in futuro i privati dalla gestione. Non se n’è fatto
nulla, i prezzi sono saliti, gli investimenti si sono fermati e ora, passata la buriana,
qualcosa si muove in senso opposto: dopo quattro anni, l’affare per i privati torna a farsi
interessante. L’ultimo allarme, comitati e forum l’hanno lanciato sulla legge delega di
riforma della Pubblica amministrazione: “Se applicata, cancellerà il voto di 26 milioni di
Italiani”, denunciano. Preoccupa la norma che premia i Comuni che fanno gare aperte
(anche ai privati) per gestire i servizi locali. I testi sono vaghi, ma il combinato disposto con
le ultime novità de governo di Matteo Renzi – che quel voto non lo ha mai digerito – ha
scatenato il tam tam. Il futuro tracciato dallo Sblocca Italia La via scelta è quella tracciata
dal decreto Sblocca Italia: un gestore unico dei servizi locali per ogni ambito territoriale,
partendo da chi ha almeno il 25 per cento dell’utenza. “Un modo per favorire le grandi
multiutilities quotate in Borsa”, denunciano i comitati per l’acqua pubblica: la bolognese
Hera, la milanese A 2 a, l’emiliana Iren e la romana Acea, nate nell’alveo dei Ds, ora Pd, e
poi passate al padrone di turno. La svolta, però, è arrivata con la legge di Stabilità, che
rende impossibili gli affidamenti a società in house e assegna i contributi pubblici ai gestori
che si fondono, garantendo loro anche la possibilità di prolungare le concessioni (come già
fatto per i signori delle autostrade). La scelta di vendere le partecipazioni rimane per ora ai
Comuni, ma chi lo fa viene premiato con la possibilità di usare il ricavato fuori dai vincoli
del patto di stabilità: le casse disastrate degli enti locali ne hanno un bisogno disperato.
Tanto più che il panorama non è cambiato rispetto al giugno del 2011: il 70 per cento dei
gestori, infatti, è ancora in mano pubblica, in un groviglio di migliaia di Comuni-azionisti.
Solo nel comparto idrico, il volume d’affari sfiora gli 8 miliardi di euro. Considerando anche
gas ed energia elettrica si arriva a 33 miliardi: è il “capitalismo municipale” su cui la Cassa
depositi e prestiti guidata dal renziano Franco Bassanini ambisce a giocare un ruolo
sempre più da protagonista: presta soldi ai gestori (3 miliardi) e punta a catalizzare gli
investimenti privati, visto che le casse pubbliche sono vuote e le infrastrutture sono un
disastro. Per farlo però servono le fusioni, che facciano lievitare il valore delle società. Al
resto ci pensano i rincari in bolletta che garantiscono gli introiti. Nell’agosto del 2013 lo
scenario attuale era stato messo nero su bianco da un report della Fondazione Astrid,
presieduta proprio da Bassanini: “L’obiettivo – si legge – è la costituzione di realtà di
medie e grandi dimensioni, verso cui “non manca la domanda e il consolidamento /
privatizzazione sembra essere la soluzione più probabile”. Tanto più che “l’aggregazione
consente di raggiungere una massa critica capace di attrarre investitori privati”. È la
strategia che Federutility, l’associazione dei gestori, propone da anni. Per i “referendari” è
il preludio a un esproprio che potrebbe completarsi con la modifica del titolo quinto
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prevista dalla riforma costituzionale. Per ora nessuno nel governo parla apertamente di
privatizzazioni, anche se l’unico ostacolo è rappresentato, almeno sulla carta, dal
referendum. Matteo Renzi non ha mai fatto mistero di avversare la campagna per l’acqua
pubblica (“bloccherà gli investimenti privati”) e oggi a Firenze si paga la bolletta più alta
d’Italia (“ma abbiamo investito molto”, si giustifica il Comune). Per i cittadini aumenti fino al
74 %, ma non è finita Perché tanto interesse? Il motivo è semplice: dal 2008 a oggi le
tariffe sono salite del 74 per cento, in dieci anni sono raddoppiate, e cresceranno ancora: i
rincari sono assicurati, pubblica o privata che sia la gestione. E con loro i ricavi. A sentire i
comitati a tradire il referendum è stata l’Autorità per l’energia e il gas, a cui il governo di
Mario Monti consegnò a fine 2011 i poteri di controllo, chiudendo il vecchio comitato di
vigilanza dei servizi idrici (Con-viri). Gli elettori avevano votato contro la “remunerazione
del capitale investito” dei gestori (“fino al 7 per cento” non si fanno profitti sull’acqua”), ma
nel nuovo metodo tariffario la voce si è tramutata in “costo degli oneri finanziari”. Nomi
diversi, stessa sostanza”, accusano le associazioni dei consumatori. Certo è che nel 20142015 le bollette saliranno di un altro 10 per cento. “E ‘ un metodo innovativo – spiegano
dall’Autorihy – perché copre solo i costi efficienti, secondo il principio europeo del full cost
recovery. I gestori l’hanno ritenuto perfino troppo oneroso. Se vogliamo che l’acqua
rimanga un bene pubblico i costi vanno coperti”. Secondo Federutility, tra il 2010-2014 per
colpa del voto, gli investimenti, in un settore che ne ha disperatamente bisogno si sono
fermati. Eppure le bollette non hanno mai smesso di lievitare. Secondo l’autorità servono
65 miliardi nei prossimi 20 anni, di cui 6 subito per evitare che l’Ue sanzioni l’Italia per le
carenze nella depurazione, con una multa da 485 milioni all’anno. “La scelta di Monti è
stata un regalo ai gestori – spiega Roberto Passino, ex presidente del Conviri – L’Autorità
non aveva competenze in materia e si è dovuta rivolgere alle risorse interne di Federutility.
Una roba da Paese delle banane”. Secondo Passino, il Conviri era stato ostacolato ma
aveva messo in piedi un database con i dati dei gestori, ignorato dall’Authority. È il grande
equivoco di un referendum che ha fotografato le inefficienze del sistema, disinnescato il
giorno dopo: “L’acqua non può essere gestita come il gas o l’energia elettrica. In un
settore senza concorrenza, l’unico controllo pubblico è quello comparativo tra i gestori, per
premiare i migliori e penalizzare i peggiori. Nulla di tutto questo è stato fatto, e così le
bollette saliranno sempre, come è successo per gli altri settori”. Alle società è stato
permesso di farsi rimborsare anche gli investimenti pubblici (1, 2 miliardi dal 2008, il 36 %
del totale), così il consumatore paga due volte. “Il metodo è neutrale, altrimenti sarebbe
stata una scelta politica”, spiegano dall’Autorità, che giustifica la scelta dei dirigenti: “Le
competenze vanno ricercate dove si trovano”. Nel 2014 ha sanzionato 1. 250
concessionari tagliando loro del 10 % le bollette. Motivo? Non avevano consegnato i dati
minimi di bilancio. Se fossero private, sarebbe intervenuta la magistratura. La commistione
tra controllori e controllati ha generato mostri. Il conflitto di interessi dei Comuni è enorme,
molti hanno usato l'acqua per gestioni clientelari, e nessuno ha pagato per le voragini nei
conti visto che le decisioni sono collegiali”, denuncia Passino. Il Tar della Lombardia ha
bocciato i ricorsi dei comitati contro il nuovo metodo tariffario e ora la parola finale spetta
al Consiglio di Stato. In caso di bocciatura si tornerebbe al punto di partenza. Dalla Boschi
a D’Angelis, l’ascesa dei renziani idrici L'ipotesi di sottrarre spazio ai privati è rimasto
lettera morta. A oggi, l'hanno fatto solo due sindaci su ottomila: a Napoli e Reggio Emilia.
A Ferrara, il Comune ha ceduto 8 milioni di azioni di Hera, la multiutility che riscuote le
bollette di gran parte dell'Emilia Romagna e del Nord, mentre diversi Comuni, guidati dal
sindaco di Bologna, sono pronti a far scendere il controllo pubblico sotto il 51 per cento. In
Campania, i sindaci protestano contro la Gori, azienda partecipata da Acea che rifornisce
76 Comuni tra Napoli e Salerno. La società, da due mesi guidata dall'ex deputato
cosentiniano Amedeo Laboccetta, indagato per favoreggiamento nell'inchiesta sul re delle
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slot Francesco Corallo, dal 2002 ha contratto un debito colossale con la Regione: 283
milioni di euro. La giunta di Stefano Caldoro ha condonato i primi 70 rateizzandone altri
200, ed è pronta ad approvare una legge che - denunciano i comitati per l'acqua - le
spianerebbe la strada. Negli anni ha messo a bilancio crediti dubbi, frutto di un piano
tariffario contestato e ora ha ottenuto un conguaglio di 110 milioni di euro dalle bollette,
cresciute del 40% negli ultimi 5 anni. L'apertura ai privati, con affidamento diretto ad Acea
è arrivata nel 2001 con Alberto Irace presidente dell'Ato di riferimento (l'associazione dei
Comuni che affidano il servizio). Nel 2007 è passato proprio in Acea, dove oggi è
amministratore delegato. Grande amico di Marco Carrai, consigliere e finanziatore di
Matteo Renzi, ha guidato la toscana Publiacqua ai tempi in cui nel cda sedeva anche
Maria Elena Boschi. Giorgio Napolitano ha scritto la prefazione del suo libro (Come
riparare l'Italia), pubblicato insieme a un altro dirigente renziano ex Publiacqua, Erasmo
D'Angelis, ora a Palazzo Chigi per gestire il dissesto idrogeologico e le infrastrutture
idriche. “Servono 20 miliardi per evitare le sanzioni Ue, 400 milioni l’anno li metterà lo
Stato, il resto arriverà dai privati –ha spiegato ieri D'Angelis – Le bollette saliranno di 10-20
euro, ma sono le più basse d’Eu - ropa. Per coprire il fabbisogno di investimenti
servirebbero 50 euro ad abitante”. Solo a Napoli il pubblico si è ripreso la gestione Solo
Napoli ha deciso di tornare indietro, trasformando la vecchia Arin spa in una società
speciale: Acqua bene comune che non ha fini di lucro e persegue il pareggio di bilancio.
“Abbia - mo avviato un difficile percorso di risanamento - spiega il presidente Maurizio
Montalto, animatore dei comitati campani - Ma la Regione, dopo aver condonato 70 milioni
a Gori ne contesta a noi 50”. A fine 2014 il Comune si è preso gli utili (16 milioni)
nonostante l’opposizione dell’azienda. Per ora gli investimenti sono fermi, così come gli
stipendi dei dipendenti, “ma nei prossimi mesi presenteremo il piano industriale: i lavori da
fare sono tanti, molti enti locali non pagano e dovremo rivolgerci alle banche, ma siamo
un’azienda sana, l’unica della Regione”. In Sicilia 17 Comuni della provincia di Agrigento
non hanno accolto la privata Girgenti Acque, che si è aggiudicata la concessione per 5
milioni di euro (la prima gara, andata deserta, ne prevedeva 30) e le bollette sono
cresciute più del doppio. A Roma, il Comune vuole vendere alla controllata Acea
(partecipata anche dal gruppo Caltagirone) la quota in Acea Ato 2, che gestisce l'acqua
nella Capitale. La partita è aperta.
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INFORMAZIONE
del 25/03/15, pag. 12
EDITORIA/ LA SVOLTA DOPO LA CRISI
Arriva il sì del tribunale l’Unità torna in
edicola
ROMA .
«Buone notizie per giornalisti e lettori: via libera del Tribunale alla riapertura dell'Unità!
Anche questa è #lavoltabuona». Così su Twitter il tesoriere del Partito democratico,
Francesco Bonifazi dà l’annuncio del via libera del Tribunale all’operazione editoriale che
riporterà il quotidiano in edicola. Gli fa eco il vice segretario dem, Lorenzo Guerini che
sempre su Twitter commenta: «Bene la decisione del Tribunale: ora L’Unità può ripartire.
Bravo a Francesco Bonifazi per il lavoro svolto!».
L’Unità ha chiuso le edizioni nell’agosto scorso. E c’è stata una lunga trattativa prima del
via libera al nuovo editore e al suo piano di rilancio che vedrebbe a Milano la sede
principale del giornale. «Il ritorno del quotidiano L’Unità in edicola è prossimo. Il Pd ha
perseguito tenacemente questo obiettivo, grazie al tesoriere Francesco Bonifazi. Con una
Unità rinnovata il mondo dell’informazione sarà più ricco», ribadisce la senatrice Laura
Cantini, della direzione dem.
Del 25/03/2015, pag. 26
Facebook diventa edicola (virtuale): ospiterà
gli articoli del New York Times
L’ipotesi di un accordo destinato a cambiare l’informazione globale. Tra
opportunità e dubbi
La rivoluzione che potrebbe cambiare per sempre il volto del giornalismo comincerà per un
inammissibile ritardo: di otto secondi. Quanti ne passano, in media, dall’istante in cui
clicchiamo sul link a un articolo su Facebook a quello in cui quel pezzo appare davanti ai
nostri occhi, nel sito di un giornale. Per la società fondata da Mark Zuckerberg, quell’attesa
è una seccatura inaccettabile imposta ai lettori. E, per superarla, basterebbe fare in modo
che le storie non fossero sui siti dei vari giornali, ma direttamente sul social network. In
altri termini: permettendo agli utenti, mentre stanno condividendo immagini o
scambiandosi messaggi, di leggere interi articoli senza uscire da Facebook.
Il cambiamento può sembrare minimo. Non lo è, e per una serie imponente di motivi. Il
primo riguarda le dimensioni di Facebook: 1,4 miliardi di utenti, un quinto della
popolazione del pianeta. Il secondo è che, secondo il New York Times , la proposta di
inglobare articoli prodotti da diversi giornali non è teorica, i test inizieranno nei prossimi
mesi, e i primi giornali a partecipare dovrebbero essere lo stesso New York Times ,
BuzzFeed e il National Geographic . Il terzo è che, davanti a queste indiscrezioni, il social
network si è trincerato dietro a un «no comment», non a una smentita: e questo ha aperto
un dibattito tra integrati e apocalittici nei media di mezzo mondo.
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In realtà, la faglia apertasi ieri porta alla luce un sommovimento in corso da mesi. «Lo
scorso anno, Facebook invitò una serie di editori americani a parlare delle difficoltà che
stavano fronteggiando. A dicembre, tornò da loro con quattro idee. E ora ne tira fuori una
quinta», spiega Jeff Jarvis, giornalista, docente alla City University of New York e grande
esperto di media. «C’è da scommettere che avrà colloqui anche con testate europee. Si
parla già del Guardian , ad esempio. I giganti della tecnologia stanno cercando alleati tra
chi produce notizie». A un primo sguardo, le ragioni per una collaborazione sono evidenti.
I social network (da Facebook a Twitter, a Snapchat) vogliono che i lettori passino più
tempo possibile sulle loro piattaforme, ed evitare che vi si diffondano notizie false: avere la
garanzia di contenuti di qualità permetterebbe di centrare entrambi gli obiettivi, senza
doversi impelagare nel difficile (e costoso) mestiere dell’editore «diretto».
E i giornali? Da un lato, avrebbero di fronte una platea non solo immensa (900 milioni di
utenti attivi ogni giorno) ma per loro sempre più difficile da raggiungere. Una ricerca
pubblicata pochi giorni dal Media Insight Project spiega che, negli Usa, l’88% dei giovani
accede alle notizie regolarmente tramite Facebook; e non manca chi crede che, tra 5-10
anni, gli internauti leggeranno notizie quasi solo sui social.
Dall’altro lato, la piattaforma di Zuckerberg sarebbe pronta a dare ai giornali una parte dei
ricavi pubblicitari derivanti dagli articoli inglobati sulla sua piattaforma. Si tratterebbe di una
svolta clamorosa. I nodi, però, non sono pochi. «In questo modo, si incoraggiano le
persone a leggere notizie su Facebook. Facendone, di fatto, il guardiano della sfera
pubblica: e questo pone dei problemi, dal punto di vista della libertà di stampa», spiega
Emily Bell, in passato a capo dell’edizione digitale del Guardian e ora docente alla
Columbia University. «In base a quale algoritmo Facebook deciderebbe quali contenuti
mostrarci, e in che modo? E quali poteri negoziali avrebbe un giornale se le modalità di
presentazione di un suo contenuto sulla piattaforma non lo convincessero?». Non solo:
«Ipotizziamo che il numero di utenti di Fb continui a crescere. Chi oserà, a quel punto,
rimanere fuori da un accordo che permette ai suoi concorrenti di avere accesso a miliardi
di utenti?». Ma il punto vero, per Jarvis, è un altro. «Ciò che conta sono i dati. Per decenni
siamo andati avanti a scrivere un articolo, a impacchettarlo e a pensare che potesse
andare bene per tutti. Quel modello di informazione è finito. I social sanno il nostro nome,
il nostro compleanno, dove viviamo, chi sono i nostri amici e le nostre preferenze. Se dare
articoli a Facebook garantirà ai giornali l’accesso a quei dati sui lettori, allora i media
potranno finalmente imparare a fornire servizi personalizzati. A creare una relazione, non
informazione di massa». C’è da aver paura? No, per Jarvis: i giornali non possono
ignorare un’opportunità del genere. «Ma occorre saper negoziare: o l’accesso ai dati dei
lettori, o nulla». E alcuni giornalisti del Guardian avrebbero suggerito agli altri giornali di
non procedere ad accordi separati, o diventerà poi difficilissimo tornare indietro. Per loro,
la rivoluzione degli otto secondi può (anzi, deve) attendere.
Del 25/03/2015, pag. 8
Nei talk show c’è spazio solo per i due Matteo
IN UN MESE SALVINI È STATO IN VIDEO PER OLTRE SEI ORE, IL
DOPPIO DI RENZI
Ci sono solo due certezze nei salotti televisivi e in rete: Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Tutti gli altri leader o presunti tali arrancano, rincorrono. O magari brillano per assenza
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nelle classifiche delle presenze tv o in quelle della presenza sul più popolare a livello
politico dei social network, come Twitter. SECONDO I DATI di Geca Italia (il Laboratorio di
indagine sulla comunicazione audiovisiva a cui si affida spesso anche l’Agcom), tra il 10
febbraio e il 10 marzo nella top ten delle presenze nei talk show di Rai, Mediaset e La 7 il
primo è il leader della Lega (ha parlato per complessive 6 ore e 25 minuti). Doppia quasi
Renzi (3 ore e 47 minuti), che però da premier ha un vantaggio (tutti lo vogliono e tutti lo
cercano) ma pure uno svantaggio (anche se lui vorrebbe, non può andare sempre e
ovunque). Ma compensa con conferenze stampa ed eventi in diretta streaming che
riempiono i tg. È la tv che fa il leader o è il leader che va in tv? Sono gli ascolti che portano
voti o sono i voti che fanno scalare le vette dei talk show? A scorrere la classifica Geca, la
risposta non è semplice. Al terzo posto c’è Giorgia Meloni, che nei sondaggi è sotto il
cinque per cento. Poi, ci sono gli urlatori di professione, come Gasparri e la Santanchè,
apprezzati proprio per questo. È il format che comanda. Ma anche Giovanni Toti di Forza
Italia e Francesca Puglisi del Pd. Che non bucano lo schermo, ma sono necessari a un
contraddittorio. E qui, ecco un dato inaspettato: tra le donne, nell’ultimo mese, la prima è
la Meloni (con 3 ore e 6 minuti), segue la Santanchè (2 ore e 35). Solo terza è la prima
donna del Pd, la Puglisi (2 ore e 4 minuti). Responsabile Scuola, certo. Ma dove sono i
veri volti femminili del governo? Maria ElenaBoschi o MariannaMadia? Non pervenute.
Nella top ten non c’è neanche un’altra democratica. Eppure il Pd è il partito di governo, e
quello con più parlamentari. Che non reggano la tensione del piccolo schermo? Manca
Maurizio Landini: il suo personaggio tv è ancora in ascesa. Tra le assenze interessanti
quella di Silvio Berlusconi: letteralmente sparito. Come Beppe Grillo, che però ne ha fatto
una sorta di battaglia culturale. Il leader dei Cinque Stelle compensa (in parte) con Twitter:
secondo la classifica stilata da Pokedem (il sito che monitora i politici su Twitter e sui
social media) è il sesto più twittato con 55. 969 cinguettii negli ultimi 30 giorni. Mentre B.
per Twitter è un estraneo. AL TOP DELLA CLASSIFICA la stessa coppia della tv: al primo
posto di gran lunga Renzi, con 648. 385 cinguettii. Segue Salvini (173. 185). I due Mattei
sanno come farsi seguire da ogni tipo di media. Poi la Meloni (131. 013). E i ministri
Stefania Giannini (89. 626) e Andrea Orlando (66. 299). Una piccola rivincita di B. nella
classifica dei più citati sui media online: secondo solo a Renzi, batte Salvini. Si parla
ancora di lui, ma i talk quasi lo ignorano, i social non lo conoscono. Se serviva una
conferma che è un leader in discesa, eccola.
Del 25/03/2015, pag. 11
QN, QUEL FEUDO DI CARTA CHE PIACE A
CALTAGIRONE E A DELLA VALLE
IL RISIKO EDITORIALE
Il patron della Tod’s tace sui riassetti di Rcs, un “investimento
sbagliato”. Potrebbe vendere e puntare sui quotidiani locali MontiRiffeser
Mentre incalza la resa dei conti finale su Rcs in vista del 29 marzo quando scadranno i
termini per la presentazione delle liste dei candidati per il rinnovo del cda, i riflettori del
risiko editoriale si sarebbero accesi anche su un altro grande impero di carta: la Monrif
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della famiglia Monti-Riffeser, presente sul mercato attraverso la Poligrafici Editoriale con il
circuito QN (Quotidiano Nazionale), Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. IL
BOCCONE è ghiotto: conquistare la galassia QN significa entrare in giornali fortemente
radicati sul territorio. A Firenze, per esempio, la Nazione è il quotidiano della città per le
notizie di cronaca locale ed è ancora molto letto soprattutto per le pagine dei necrologi
nonché per quelle dedicate allo sport a livello provinciale. Ma mettere le mani sulla
proprietà non è facile finché c’è l’inossidabile Marisa Monti, nata a Ravenna che ha
ereditato dal padre Attilio (soprannominato “Artiglio” per la determinazione negli affari
sparsi fra zuccherifici, alberghi, raffinerie e giornali) il Resto del Carlino costruendoci poi
attorno un polo editoriale. Ancora oggi Marisa è presidente del gruppo, ne possiede il
controllo e fra una cena e una convention nella tenuta senese di Bagnaia (la cittadella
esclusiva che l’Osservatorio dei giovani editori ha trasformato in capitale convegnistica del
giornalismo), riceve in pellegrinaggio i suoi direttori. Nel 2005, era l’estate dei “furbetti del
quartierino” che volevano mettere le mani sul Corriere della Sera, in un’intervista a
Panorama liquidò una domanda sul rischio che Rcs fagocitasse la Monrif: “Non lo temo
perché non vendo. Sono un osso duro, oddio tutto ha un prezzo. Trovassi un Ricucci che
mi fa un’offerta super…”. Chissà se oggi ha cambiato idea. I pretendenti non
mancherebbero. Gli ultimi rumors raccolti nell’ambiente editoriale, puntano il dito in
particolare su Francesco Gaetano Caltagirone che – ecco le voci – vorrebbe “annettere” i
quotidiani di QN al suo gruppo che edita già il Messaggero, il Mattino di Napoli e il
Gazzettino di Venezia. L’obiettivo sarebbe quello di arrivare a coprire il territorio fino a
Piacenza, escludendo però il Giorno che, sostengono le stesse fonti, se fosse acquistato
dall’ingegnere difficilmente potrebbe sopravvivere in autonomia, visto che a Milano con il
Corriere, il Giornale e Libero il mercato è saturo. Altre fonti guardano invece al possibile
interesse da parte di un investitore americano, deciso a entrare sul mercato tricolore. Ma
in partita potrebbe entrare a sorpresa anche un altro imprenditore appassionato di editoria.
In molti hanno notato lo strano silenzio di Diego della Valle sulla partita Rcs. Mister Tod’s
si sarebbe riavvicinato al dominus di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Proprio quell’
“arzillo vecchietto”, con cui per altro sono indebitati i treni Italo di Ntv, che nelle grandi
manovre di via Solferino è schierato dalla parte opposta degli Agnelli. Non è un caso se gli
ultimi attacchi sulla gestione operativa di Rcs arrivano dal picconatore Della Valle ma
dall’amico Urbano Cairo, editore de La 7. La posizione improvvisamente defilata
dell’imprenditore marchigiano ha lasciato spazio ad alcune ipotesi. Forse ha deciso di
vendere una parte o tutta la sua quota in Rcs che, ha detto del resto lui stesso in una delle
sue ultime apparizioni pubbliche, “è stato un investimento tutto sbagliato, non sono riuscito
quasi a toccare palla”. O forse, aggiungono altre fonti, Della Valle si è stancato di fare il
ribelle nel salotto di via Solferino occupato dalla Fiat e ha deciso di sparigliare i giochi,
uscire, fare cassa e spostare l’investimento su giornali per lui (per la Tod’s e per la sua
Fiorentina) forse più strategici almeno a livello territoriale come quelli della Poligrafici
Editoriale. Di cui, per altro, il fratello Andrea è già azionista con circa il 10 % acquistato nel
2010 proprio da Rcs per 9, 5 milioni di euro. FANTAEDITORIA? Chissà. Le trattative, se
mai ci saranno, andranno comunque fatte con Andrea Riffeser Monti cui la madre Marisa
ha affidato il timone operativo di Monrif-Poligrafici e che, secondo quanto si sussurra nelle
redazioni di Qn, vorrebbe anche vendere ma non senza il via libera della capo-famiglia.
Intanto, spetta a lui licenziare i direttori. E il turnover in casa Qn è altissimo: nel 2012
Mauro Tedeschini è stato licenziato in tronco dalla direzione del quotidiano La Nazione di
Firenze perché, secondo il cdr del quotidiano che per protesta aveva proclamato un giorno
immediato di sciopero, l’editore non avrebbe condiviso l’impostazione scelta da Tedeschini
sullo scontro tra la Fondazione Mps e l’allora sindaco di Siena Franco Ceccuzzi per il
ritardo dei finanziamenti al Comune. Stessa sorte è toccata di recente a Marcello Mancini,
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sostituito da Pierfrancesco De Robertis al timone de La Nazione dopo meno di un anno. A
far discutere, nelle redazioni del gruppo, è stata però anche un’assunzione. Quella di
Bruno Vespa (già collaboratore) che a novembre 2014 è stato nominato nuovo direttore
editoriale del Quotidiano Nazionale. La mossa era stata accolta con “profondo sconcerto”
dal coordinamento dei comitati di redazione dei giornali del gruppo, già alle prese con
piani di riorganizzazione aziendale, che avevano contestato la scelta di affidare “un
incarico superfluo” a una figura esterna. Sul fronte dei conti 2014, Monrif ha aumentato il
fatturato a 225, 7 milioni (+ 8, 7 %) grazie ai 20, 1 milioni incassati con la vendita della
sede della Nazione a Firenze ma i ricavi pubblicitari sono scesi del 4, 4 % a 62, 8 milioni.
Quanto alla controllata Poligrafici Editoriale, ha chiuso in utile il 2014 con 87, 8 milioni di
ricavi (-0, 9 %) grazie anche all’aumento di 0, 1 euro del prezzo in edicola. “La crisi si fa
sentire per tutti e, come per le banche, anche il settore editoriale sta cercando una nuova
fase di consolidamento in modo da alimentare le sinergie e ammortizzare i costi”,
commenta un analista. Il che, tradotto, significa nuovi matrimoni e alleanze alla ricerca
della preda giusta. Come Monrif?
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 25/05/15, pag. 11
L’orizzonte obbligato delle unità di
apprendimento
Andrea Capocci
Formazione. Le scuole primarie tra innovazione della didattica e tagli di
bilancio. La proposta finlandese di abolire l’insegnamento in base alle
materie disciplinari riapre la discussioone sullo stato dell’arte della
situazione della scuola italiana
Basta con le materie. Non si andrà più a lezione di matematica, storia, inglese e così via.
Si studierà per argomenti interdisciplinari come «Il tempo in Europa», in cui le lingue
straniere e la geografia si imparano nella stessa ora.
Dove succederà? In Finlandia, la «solita» Finlandia. Ormai nelle scuola la chiamano così.
Perché ogni volta che si discute di come migliorare le nostre scuole, c’è sempre qualcuno
che cita il paese di Babbo Natale come modello da seguire. Da anni, gli alunni finlandesi si
piazzano ai primi posti delle classifiche mondiali per livelli di apprendimento, mentre i
nostri arrancano nelle posizioni medio-basse. Le scuole finlandesi sono diventate meta di
pellegrinaggio per gli esperti di didattica di tutto il mondo, alla ricerca dell’arma segreta.
I soldi, certo, contano. La Finlandia investe nell’istruzione circa il 7 per cento del Pil, contro
il 4 per cento dell’Italia. Ma in termini assoluti non ci sono grandi differenze: se si
esaminano gli investimenti per studente escludendo l’università, entrambi i paesi sono
allineati nei pressi della media Osce. Se si osserva l’organizzazione del sistema, invece, le
distanze aumentano. Le scuole finlandesi sono piccole, gestite in grande autonomia ma
con un clima collaborativo tra docenti, presidi, alunni e famiglie. Niente test Invalsi e
massima libertà sulla definizione dei programmi di studio.
Dalle conoscenze alle competenze
Talvolta può ricordare la scuola «Marylin Monroe» del film «Bianca» di Nanni Moretti. Per
esempio la decisione di abbandonare l’insegnamento della scrittura a mano in favore della
tastiera del computer a molti è sembrato un inutile nuovismo. Anche la nuova proposta di
abolire le materie non riscuote apprezzamenti unanimi nella stessa Finlandia. Ma il
governo non ha fretta: del resto, ogni cambiamento, sin dalla riforma del 1972 da cui è
partito il rilancio finlandese, è stato attuato con estrema gradualità e costanza.
In realtà, l’innovazione di cui si sta discutendo oggi non è poi così rivoluzionaria. Persino in
Italia, i famigerati programmi ministeriali sono stati aboliti già nel 2010 dalla riforma
Gelmini, in favore di più flessibili «indicazioni nazionali». La riforma poneva l’accento sullo
sviluppo e la valutazione delle «competenze» degli studenti, più che delle «conoscenze».
Non è solo un gioco di parole. Secondo la ricerca didattica contemporanea (che si basa in
gran parte sul «costruttivismo» di John Dewey, elaborato anni Trenta del Novecento), le
competenze si possono valutare solo quando le conoscenze vengono applicate in contesti
autentici, ad esempio nello studio di un problema tecnico concreto. Ma per essere
autentico, un contesto deve necessariamente essere interdisciplinare, perché la realtà in
genere si presenta simultaneamente sotto diversi punti di vista. Da questa riflessione
nasce la proposta di superare la scansione tradizionale delle materie, da rimpiazzare con
«unità di apprendimento» interdisciplinari.
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A ben guardare, nella lodatissima scuola primaria italiana questo approccio è sempre stato
ampiamente adottato, complice anche il ridotto numero di docenti per classe. Le aule dei
nostri bambini sono piene di cartelloni su temi come «l’acqua» o «il terremoto», affrontati
da diverse angolature e solitamente con lavori di gruppo. Non a caso, quando a Tullio De
Mauro (linguista, studioso dei sistemi educativi ed ex-ministro dell’istruzione) è stato
chiesto un parere su #labuonascuola, si è limitato a dire: «Renzi copi la primaria».
Agli insegnanti italiani, tuttavia, la riforma Gelmini è risultata indigesta perché qualunque
innovazione didattica, accompagnata da tagli pesantissimi al bilancio delle scuole (otto
miliardi in meno), è destinata a fallire. Le «unità di apprendimento», dunque, sono ancora
poco diffuse e la valutazione delle competenze si limita per lo più a qualche crocetta
apposta a fine scrutinio. Le sperimentazioni didattiche, dunque, sono per lo più autogestite
dai docenti volenterosi e fanno fatica a diventare sistematiche. In Finlandia, gli insegnanti
disposti a tentare nuove strade ricevono aumenti di salario.
Il bluff delle classifiche
Per altro, sull’efficacia di queste innovazioni vi sono anche dubbi legittimi. Lo storico della
matematica Giorgio Israel, che pure ha collaborato con Mariastella Gelmini, ha parlato
apertamente di «bluff», a proposito delle performance degli studenti finlandesi. «Le
classifiche Ocse-Pisa dicono soltanto una verità parziale circa le abilità matematiche dei
bambini finlandesi» mentre «le conoscenze matematiche dei nuovi studenti hanno subito
un declino drammatico». Gli studenti finlandesi di oggi, infatti, fanno fatica a rispondere ai
quesiti che venivano somministrati loro trent’anni fa. Dunque, i risultati sbandierati
dipendono da come sono elaborati i test, che invece vengono spacciati per oggettivi.
Basta parlare di scuola, e anche la matematica diventa un’opinione.
Del 25/03/2015, pag. 10
DIETRO LE VACANZE DI POLETTI STUDENTI
GRATIS IN AZIENDA
ALTRO CHE “TROPPE FERIE”: ECCO COSA C’È SOTTO L’ULTIMA
USCITA DEL MINISTRO
Un apprendistato gratis oppure pagato al 10 per cento del dovuto. Per capire che quella
del ministro Giuliano Poletti sulle vacanze scolastiche – “sono troppi tre mesi” – non è una
boutade tra le tante, basta andarsi a leggere i testi dei provvedimenti legislativi in via di
approvazione. Due, in particolare: il terzo decreto attuativo della legge delega chiamata
Jobs Act, quello sulle “Tipologie contrattuali” e il disegno di legge che riforma la scuola. Se
letti all’unisono i due documenti offrono un’idea molto precisa del rapporto tra scuola e
lavoro immaginato dal governo Renzi e dell’obiettivo di far lavorare di più i giovani in età di
studio, di pagarli meno, molto meno o, addirittura, di non pagarli per niente. NON SIAMO
PROPRIO al ritorno a Oliver Twist ma, anche nei riferimenti immaginifici – “i miei figli
scaricavano le cassette al mercato”, dice il ministro Po-letti – si conferma che il progetto
sociale dell’attuale governo è il ritorno alla stagione antecedente al 1970, alla conquista
dello Statuto dei lavoratori ma anche alla stagione dei diritti sociali. Quando il ministro dice
che “non si distruggerebbe” un ragazzino se invece “di stare a spasso per le strade della
città va a fare quattro ore di lavoro”, dice qualcosa che ha già impostato sia nel Jobs Act
che nel disegno di legge sulla Scuola. Il terzo decreto attuativo del Jobs Act, quello che
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deve ancora passare in Parlamento – e che è ancora nei cassetti del governo come se la
fretta iniziale fosse esaurita – è finito sotto i riflettori soprattutto per la parte che riguarda la
soppressione delle tipologie lavorative “precarie” (in realtà, solo i Co. co. pro.,
l’associazione in partecipazione e il job sharing). In quel testo, però, c’è un articolo, il 41,
che introduce “l’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione
professionale”. IL FINE È QUELLO di “coniugare la formazione sul lavoro effettuata in
azienda con l’istruzione e formazione professionale svolta dalle istituzioni formative”, cioè
gli enti di formazione. Questo apprendistato riguarda i giovani “che hanno compiuto i 15
anni di età” e la durata del contratto “è determinata in considerazione della qualifica o del
diploma da conseguire” e non può essere superiore ai tre anni oppure a quattro nel caso
del diploma professionale. Per attivare la tipologia lavorativa, i datori di lavoro
sottoscrivono un “protocollo” con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto in base a
uno schema definito da un decreto ministeriale che definisce anche il contenuto e “l’orario
massimo del percorso scolastico che può essere svolta in apprendistato”. I profili sono poi
regolati dalle regione. Ognuna delle quali ha stabilito livelli di formazione annua differente:
sono 1. 000 ore in Emilia Romagna, 990 in Piemonte, Toscana e Liguria ma scendono a
400 in Lombardia e Campania. Secondo il Jobs Act, la formazione esterna all’azienda
“non può essere superiore al 60 % dell’orario per il secondo anno e del 50 per cento per il
terzo e quarto anno”. Quanto alla retribuzione, “per le ore di formazione svolte nella
istituzione formativa” il datore di lavoro “è esonerato da ogni obbligo retributivo”. Per
quanto riguarda invece, le ore di formazione a carico del datore di lavoro, “è riconosciuta
al lavoratore una retribuzione pari al 10 % di quella che gli sarebbe dovuta”. Trattandosi di
un apprendista, si tratterebbe comunque di una retribuzione inferiore di almeno due livelli
di categoria di quelli di un dipendente regolare. Nella legislazione vigente, per la qualifica e
per il diploma professionale, si riconosce una retribuzione che tenga conto delle ore di
lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione “almeno nella misura del 35
% del relativo monte ore complessivo”. Il peggioramento è evidente. LO COMPLETA
quanto previsto dal disegno di legge su “La buona scuola” dove, all’articolo 4, si parla di
“Scuola, lavoro e territorio”. In questa sede si prevedono 400 ore di alternanza scuolalavoro (200 per i licei) negli istituti tecnici; L’alternanza è prevista nei periodi di
sospensione dell’attività didattica (Natale, Pasqua, estate) e viene inserita la possibilità dei
contratti di apprendistato per la qualifica. Finora le sperimentazioni avviate non hanno
funzionato. Anche per questo, nella Buona scuola, sono previsti 100 milioni per finanziare
gli incentivi alle imprese. Studiare meno, lavorare tutti.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 25/05/15, pag. 10
La tessitrice di parole
Alessandra Pigliaru
Christa Wolf. «Parla, così ti vediamo», uscito con la casa editrice e/o,
raccoglie i pensieri, le lettere, i discorsi della scrittrice tedesca. Da ciò
che si affolla nella mente alla sapiente orditura del testo
«Sapete, mi piacerebbe scrivere come succede nella testa. Nella testa le cose più
disparate accadono simultaneamente, ma purtroppo si può scrivere solo in modo lineare.
La mia immagine ideale di scrittura è un tessuto. Vorrei creare un tessuto in cui i fili si
intrecciano e si sovrappongono, e poi nasce una trama che non è la risultante di un filo
solo». È il 14 giugno del 2010 e Christa Wolf rilascia una lunga intervista a Susanne Beyer
e Volker Hage – pubblicata su Der Spiegel – che diviene pretesto per imbastire una
conversazione appassionata sulla politica e la letteratura, punti fondamentali attorno a cui
si concentra l’ultimo e imperdibile Rede, daß ich dich sehe (Verlag, 2012) ovvero Parla,
così ti vediamo (edizioni e/o, pp. 176, euro 17), nella traduzione di Anita Raja.
La tessitura di cui accenna, cioè il piacere che affiora da ciò che si affolla nella testa e
arriva alla disciplina sapiente del dare conto di sé, è il controcanto di ciò che per Christa
Wolf è sempre stata accurata ricerca verso una parola che non cedesse a disordini né a
confusioni. Parola sessuata, progetto di desiderio e di conoscenza dove fosse chiaro che
«scrivere è fare le cose grandi», dove cioè «le cose si superano solo scrivendole», la
meraviglia della scrittura di Christa Wolf si dipana a questa altezza lungo dodici brevi scritti
tra saggi, interviste, lettere e discorsi preparati dal 2000 al 2011.
In Parla, così ti vediamo, tratteggiata l’esperienza dello scrivere e l’andirivieni della lingua,
emergono il rigore degli affetti e dei legami così come l’osservazione critica della temperie
in cui Wolf è vissuta, una complessità che ancora può interrogare il presente e la sua
violenza strutturale, domandare giustizia, decifrare le falle e le rinunce di una
contemporaneità apparentemente senza scampo e fondata sul profitto e sull’ottusità.
Si potranno così seguire alcune considerazioni e interlocuzioni collocabili tra Thomas
Mann, Paul Parin, Egon Bahr, Günter Grass, nominati e incontrati in specifiche occasioni.
Di Mann, Wolf ricorda la caratura in occasione di un premio che riceve nel 2010 e che è a
lui intitolato; poi la descrizione dell’incontro con Uwe Johnson.
Fin dalla condivisione di uno spazio affascinante e simbolico come il Meclemburgo, Wolf
ne restituisce gli accesi scambi, sì che le serate trascorse a chiacchierare di letteratura e
politica scorrano insieme al ritratto di uno scrittore appassionato e combattuto per cui
centrale è stato «essere infinitamente vulnerabile e contemporaneamente pretendere con
impazienza la perfezione, da sé e dagli altri».
Sullo stesso crinale della generosità critica, avanza la figura di Günter Grass che utilizza le
parole come fossero cipolle – riprendendo il titolo di un suo scritto — e decide di mettere in
questione le fratture, gli oneri e le contraddizioni del suo percorso di «ritrovamento di sé»,
porgendo a Wolf la possibilità di riflettere sull’autobiografia e i suoi rischi.
Consapevole che i punti dolenti di una comunità si possano riconoscere proprio dal fatto
che se ne tace sia in pubblico che in privato, la scrittrice analizza in più di un passaggio il
rapporto ambivalente con la Rdt – che innerva quasi tutti gli scritti compreso il celebre
discorso dedicato al «punto cieco» tenuto nel 2007 al Congresso internazionale di
psicoanalisi, svoltosi a Berlino per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Parole
puntuali sono per esempio dedicate al momento iniziale del movimento rivoluzionario nella
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Rdt, indimenticato perché all’inizio sorretto da una forte utopia. Domandarsi se l’errore di
valutazione delle possibilità offerte dalla situazione storica non possa forse definirsi
anch’esso il «punto cieco» di quei soggetti che ne sono stati coinvolti, consente a Wolf di
concludere che «la piena comprensione di tutti i nessi e di tutte le conseguenze di una
realtà contraddittoria paralizzerebbe ogni necessario movimento».
Il ricordo insieme al tema del ripetere e rielaborare caratterizza il processo psicoanalitico
ma anche il lavoro di Wolf e serve per precisare alcuni motivi su cui si è soffermata, al
contempo proponendo uno sfondo che è quello della letteratura considerata in gran parte
«il serbatoio della memoria di un popolo». Brecht, Proust, Tabori, Hesse e Silvia
Bovenschen, sono i nomi attraverso cui Wolf allestisce una breve storia della parola
ricordo nella scena letteraria. La considerazione politica è tuttavia che siamo in presenza
di una marea che si muove tra la dimenticanza e l’assillo per la conservazione senza
soluzione di continuità e soprattutto senza una rappresentazione efficace nel tempo
presente. Infine, se «lo spirito del tempo si impossessa dei nostri ricordi», questi ultimi si
declinano in molti modi: simili a una corrente scura che trascina rituali, retoriche, estorsioni
e blocchi rivelano una vasta risacca tra perdita e dimenticanza.
Il riferimento principale va all’esperienza dei tedeschi che dopo il secondo conflitto
mondiale hanno operato una «massiccia perdita del ricordo», quasi al limite di una
negazione di consapevolezza. La memoria «cede, e si vieta l’irruzione del ricordo dei
massacri».
Eppure, tenendola viva, forse occorre farci i conti per diventare se stessi, «con ogni
energia diventare se stessi».
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ECONOMIA E LAVORO
del 25/03/15, pag. 5
Landini chiama, Camusso risponde
Massimo Franchi
In piazza sabato. Il segretario Cgil alla manifestazione che prosegue la
mobitazione contro il Jobs act. Landini chiede di cambiare le pensioni:
ci si deve andare a 62 anni senza penalizzazioni. La coalizione sociale
tornerà dopo Pasqua: grande assemblea a Roma per lanciare una
struttura federale in ogni Comune
Sabato pomeriggio a piazza del Popolo con la Fiom ci sarà anche Susanna Camusso. Le
divergenze sulla Coalizione sociale vengono messe da parte di fronte all’unità della Cgil e
alla battaglia comune contro il governo Renzi e il Jobs act. La notizia la dà Maurizio
Landini nella conferenza stampa di presentazione della manifestazione e viene
confermata dalla stessa Susanna Camusso: «Io ci sarò, non c’è dubbio, ma non abbiamo
ancora ragionato sul comizio».
Il segretario generale della Cgil la mattina sarà a Reggio Calabria per un precedente
impegno, ma tornerà a Roma in tempo. Se deciderà di parlare dal palco, chiuderà la
manifestazione. Se invece sceglierà di non parlare o delegherà ad un altro segretario
confederale Cgil, sarà Landini a chiudere la manifestazione. Cosa già accaduta per le
manifestazioni della Fiom a piazza San Giovanni il 18 maggio 2013 (parlò Nicola Nicolosi)
e il 9 marzo 2012 (parlò Vincenzo Scudiere), ma entrambe le volte Camusso non
partecipò al corteo.
Il riavvicinamento fra Landini e Camusso è dovuto anche a ragioni tattiche: la battaglia
contro il Jobs act sarà lunga e difficoltosa. Se per un eventuale referendum abrogativo
servono almeno due anni di tempo (e i testi definitivi su molte questioni, ad esempio la
cassa integrazione, non saranno approvati prima dell’estate) anche i ricorsi giudiziari in
Italia e in Europa già annunciati da entrambi necessitano almeno di un anno di tempo. Per
tutti questi motivi dividersi adesso e rimanerlo per anni non gioverebbbe a nessuno: per
primi ai lavoratori.
D’altro canto, come ha sottolineato Landini, «la piattaforma della manifestazione è
totalmente sindacale» e dunque non crea divisioni in Cgil. Non a caso lo slogan scelto è
«Unions»: oltre a riecheggiare la parola sindacato in inglese, porta Landini a ricordare
come «oggi sia necessaria la massima unità del lavoro». Il segretario generale della Fiom
ha poi ribadito come molti punti programmatici siano stati decisi «dallo stesso direttivo
della Cgil».
«È la continuazione della battaglia contro il Jobs act», precisa per poi snocciolare il lungo
elenco di richieste: «Che ai anche i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti dopo un
po’ di tempo dovranno avere le tutele dell’articolo 18; che si lanci una raccolta di firme per
una legge di iniziativa popolare, oltre quella sugli appalti che dia la responsabilità delle
leggi e di uguali contratti e diritti all’impresa che vince, per un nuovo statuto dei lavoratori
che preveda che a parità di lavoro, subordinato o autonomo, ci sia parità di salario; che ci
sia un referendum fra gli iscritti Cgil per decidere se andare a più referendum abrogativi
del Jobs act»|.
La vera novità riguarda le pensioni: la Fiom propone «una drastica riduzione dell’età
pensionabile a 60–62 anni senza penalizzazioni e con la reintroduzione delle pensioni di
anzianità a partire dai lavori più usuranti». Per chiudere si punta sull’orario di lavoro: «Si
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tolga la defiscalizzazione al lavoro straordinario e che se si vuole che far lavorare la
domenica e i festivi non si usi il “modello Melfi” con un aumento di orario, ma gli accordi
firmati alla Continental, alla Carraro, alla Ducati dove in cambio c’è una quinta squadra e si
lavora 32 ore pagate 40 per l’aumento di produttività». Infine la richiesta di «una politica
industriale che eviti i casi Ansaldo e Pirelli» e che «si arrivi ad una legge sulla
rappresentanza che riprenda il modello della certificazione nella pubblica amministrazione
aggiungendo il referendum confermativo sul contratto, un contratto così fatto potrebbe
avere valore per tutti, erga omnes».
Ma «come ogni manifestazione della Fiom» quella di sabato «sarà aperta a tutti e dal
palco parleranno studenti, insegnanti precari, partire Iva e immigrati». Il corteo che ricalca
interamente quello della “Via Maestra” di sabato 12 ottobre 2013 partirà da piazza Esedra
alle 14 per arrivare a piazza del Popolo. «Abbiamo chiesto al Comune di aumentare lo
spazio per i pullman da 200 a 300», ha annunciato il segretario organizzativo Fiom Enzo
Masini, sintomo «di un clima favorevole come per le nostre migliori manifestazioni fatte di
sabato pomeriggio».
Ma la coalizione sociale rimane sempre sullo sfondo. Se ieri Landini ha specificato come
sia «un percorso ancora lungo», le novità in cantiere sono tante. L’idea della Fiom — i due
rappresentanti che la seguiranno direttamente al posto di Landini saranno nominati a
breve — è di convocare una grande assemblea costitutiva a Roma la settimana dopo
Pasqua, mentre dal punto di vista della struttura l’idea è quella di «spargersi sul territorio»,
in modo quasi federale. In ogni Comune associazioni e movimenti si metteranno assieme
per «piani di azione» che dovranno essere definiti con obiettivi chiari e stringenti senza
comunque mai diventare una lista elettorale.
del 25/03/15, pag. 5
Contro il jobs act e l’art.81, tutti pronti a
firmare
Verso il 28 marzo a Roma. Due appuntamenti, la staffetta del 'Fronte
Pop'
«Aspettiamo il primo licenziamento collettivo. Alcuni, quelli con il vecchio contratto,
chiederanno il reintegro. Altri, con il nuovo, non potranno. E allora vedremo che succede».
La previsione– ma anche un po’ la sfida — è del giurista Nanni Alleva a proposito degli
effetti del jobs act. Quella dei licenziamenti collettivi è solo una delle molte magagne della
legge, tutte illustrate ieri in un incontro romano organizzato dal Pcdi. Menù del dibattito, le
prossime mosse «unificanti», comepropone Giorgio Airaudo (deputato di Sel) «per
rimettere al centro il lavoro». Per esempio la legge di iniziativa popolare per cancellare il
pareggio del bilancio in Costituzione, la cui raccolta di firme è già in corso, spiega Stefano
Fassina (Pd). Al convegno (presenti fra gli altri il fiommino di Pomigliano Ciro D’Alessio e
Roberta Fantozzi del Prc, e un rappresentanteUsb) si parla del possibile referendum sul
jobs act. Fra gli oratori all’ultimonon arriva il rappresentanteCgil Corrado Baracchetti. La
Cgil, si fa sapere, non gradisce che il dibattito fra le altre cose sia dedicato anche alla
«unità delle sinistre». La preoccupazione di non debordare nella politica (partitica),
nonostante la ’pace’ con la Fiom, evidentemente si fa sentire. Intanto il primo
appuntamento unitario è «Unions», la piazza della Fiom sabato a Roma.
Quasi lo stesso menù per per un convegno contemporaneo che si svolge alla sede della
Cgil, a pochi passi dall’altro, come un passaggio di staffetta di mano in mano. A
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organizzarlo qui sono i promotori del «Fronte pop», che incrociano la coalizione sociale
nascente con le pratiche politiche già in corso, dal parlamento fino ai territori. Anche qui
arrivano Airaudo e Fassina, ma anche Michele De Palma (Fiom), Gabriella Stramaccioni
(Libera), Giulio Marcon (Sel). Anche qui si distribuiscono i moduli per la raccolta di firme
della legge di iniziativa popolare per cancellare il pareggio di bilancio in Costituzione.
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