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RASSEGNA STAMPA mercoledì 25 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Huffington Post del 25/03/15 "Non cediamo il passo al terrore". Da tutto il mondo a Tunisi per l'apertura del Forum Sociale Mondiale Di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci e Raffaella Bolini, Relazioni internazionali Arci È iniziata oggi alle 16 la manifestazione di apertura del Forum Sociale Mondiale, una "grande marcia dei popoli contro il terrorismo" che terminerà davanti al museo del Bardo. Le delegazioni provenienti da tutto il mondo hanno confermato la loro presenza, così come sono state confermate tutte le attività - seminari ed eventi culturali. Settantamila persone saranno a Tunisi dal 24 al 28 marzo per dar vita a questa edizione del Forum. Il FSM "non arretra di un passo davanti al terrore", come dichiarano il Comitato Organizzatore Tunisino e il Forum Sociale del Maghreb. Il 26 marzo, nel campus universitario dove si terrà il Forum, ci sarà un grande incontro per iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il terrorismo". Anche nel 2013 il Forum Sociale Mondiale fu una grande manifestazione popolare con la giovane democrazia tunisina. Si svolse poco tempo dopo gli omicidi dei dirigenti della sinistra Chokri Balaid e Mohamed Brahmi, fu il più grande evento autorganizzato di società civile mai realizzato nella regione, e aiutò il paese a evitare la destabilizzazione. La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una terza via fra l'oscurantismo e l'autoritarismo che imperversano, non solo nella sponda sud del Mediterraneo. Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla, denunciando i governi europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla - continuando a imporre il pagamento del debito contratto da Ben Ali, impedendo così investimenti per il lavoro e lo sviluppo, imponendo i trattati di libero scambio, interessati solo al profitto e a bloccare i migranti fuori dai nostri confini. Le organizzazioni sociali che guidano il Comitato Organizzatore del FSM, il sindacato UGTT e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali, hanno fatto parte del Quartetto di società civile al quale Governo e Parlamento affidarono il compito di risolvere lo stallo istituzionale al tempo dello scontro sulla nuova Costituzione, che rischiava di portare il paese alla guerra civile. Dopo il successo di quell'impresa, la loro autorevolezza si è ulteriormente accresciuta. Il Forum Sociale Mondiale sarà l'occasione per l'incontro dei principali attori sociali democratici del mondo intero. Servirà a consolidare e allargare le alleanze internazionali, a preparare l'agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni. Saranno a Tunisi molti sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi centrali associative, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni folte dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l'ISIS, agli iracheni e siriani), le famiglie politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari di molti paesi e parlamentari europei. Saranno presenti delegazioni anche di Syriza e di Podemos. A Tunisi si preparerà la mobilitazione mondiale che avrà luogo a Parigi a dicembre in occasione della Conferenza Onu sul Clima. Si consoliderà l'alleanza europea per il sostegno alla Grecia e contro l'austerità. Si incontreranno i movimenti contro la povertà, 2 contro l'accaparramento della terra, dell'economia sociale, per i diritti sociali, civili e democratici. Si terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il tema dei migranti sarà uno dei cuori pulsanti del Forum. Dall'Italia partiranno centinaia di attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti politici e istituzionali. Moltissime le associazioni e i movimenti presenti. Anche l'Arci parteciperà con una folta delegazione. Legata alla società civile tunisina da una relazione storica e permanente, l'Arci e la sua ONG Arcs lavoreranno a Tunisi su diversi temi e campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie per un'Alternativa Mediterranea e per un'Europa diversa. Crediamo che solo con un grande investimento pubblico di risorse intorno a un piano strategico di sviluppo, solo con un New Deal mediterraneo finalizzato al lavoro, alla democratizzazione, alla transizione ecologica sia possibile tagliare alla radice la destabilizzazione della regione, a nord e a sud. Crediamo sia necessario chiudere i rubinetti del commercio delle armi, un grande piano di disarmo, il superamento di ogni logica di potenza, un vero impegno negoziale per la pace e la democrazia in tutte le aree di conflitto - e la fine dell'occupazione della Palestina. Crediamo che il Mediterraneo non possa continuare a essere un enorme cimitero di migranti, chiediamo corridoi umanitari per i profughi e la possibilità per i migranti di arrivare legalmente in Italia e in Europa in cerca di lavoro. In particolare, l'Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il FSM, una rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia. http://www.huffingtonpost.it/raffaella-bolini/non-cediamo-il-passo-alterrore_b_6932694.html?utm_hp_ref=italy All’interno la fotogallery della manifestazione Da Redattore Sociale del 24/03/15 "Non cediamo il passo al terrore", a Tunisi si apre il Forum sociale mondiale Circa settantamila persone provenienti da tutto il mondo impegnate in seminari, convegni, eventi culturali. A pochi giorni dall'attentato che ha scosso la Tunisia l'evento sarà aperto oggi pomeriggio dalla "grande marcia dei popoli contro il terrorismo" ROMA - "Non cediamo il passo al terrore". Con questo messaggio prenderà il via oggi pomeriggio la manifestazione d'apertura del Forum Sociale Mondiale di Tunisi, che fino al 28 marzo vedrà circa settantamila persone provenienti da tutto il mondo impegnate in seminari, convegni, eventi culturali. A pochi giorni dall'attentato terroristico che ha scosso la Tunisia l'evento sarà aperto dalla "grande marcia dei popoli contro il terrorismo" che terminerà davanti al museo del Bardo. Moltissime le delegazioni internazionali che hanno confermato la propria presenza: dalla Cina agli Stati Uniti, dal Brasile all'India. Anche l'Arci parteciperà con una folta delegazione. L'associazione è infatti legata alla società civile tunisina da una relazione storica e permanente e, insieme alla sua Ong Arcs, lavorerà a Tunisi su diversi temi e campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie per una Alternative Mediterranea e per una Europa diversa. "In particolare - sottolinea l'associazione - l'Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il Fsm, una 3 rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia". Sempre oggi in piazza Duomo a Milano, in contemporanea con l’apertura del Forum Sociale Mondiale di Tunisi, con cui la piazza si collegherà, si terrà una manifestazione per dire tutti insieme “I popoli del mondo contro il terrorismo”. Tra le varie iniziative previste dal Forum vi è quella relativa alla stesura della "Carta Internazionale Altermondialista contro il terrorismo" che inizierà nel corso di un incontro nel campus universitario Al Manara. L'ultima edizione del Forum Sociale Mondiale (2013) si svolse a pochissimo tempo di distanza dagli omicidi dei dirigenti politici della sinistra Chokri Balaid e Mohamed Brahmi, fu il più grande evento autorganizzato di società civile nella regione mai realizzato, e aiutò il paese a evitare la destabilizzazione. "La Tunisia - sottolinea l'Arci - con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una terza via fra l'oscurantismo e l’autoritarismo che imperversano nella regione - e non solo nella sponda sud del Mediterraneo. Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla - e denunciano i governi europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla. Le organizzazioni sociali che guidano il Comitato Organizzatore del Forum Sociale Mondiale, fra cui il sindacato Ugtt e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali, hanno fatto parte del quartetto di società civile al quale Governo e Parlamento affidarono il compito di risolvere lo stallo istituzionale al tempo della discussione sulla nuova Costituzione, che rischiava di portare il paese alla guerra civile". Il Forum Sociale Mondiale sarà l’occasione per l’incontro dei principali attori sociali democratici del mondo intero e servirà a consolidare ed allargare le alleanze internazionali, a preparare l’agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni. Sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l'Isis, agli iracheni e siriani), le famiglie politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei: tutti saranno a Tunisi insieme alle delegazioni di Syriza e di Podemos. "Il tema dei migranti sarà uno dei cuori pulsanti del Forum - conclude l'Arci - .Dall’Italia partiranno centinaia di attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti politici e istituzionali. Moltissime le associazioni e i movimenti presenti". Da Vita.it del 25/03/15 Al via il Forum sociale di Tunisi con la marcia contro il terrorismo di Redazione Alle 16 iniziano i lavori dello storico appuntamento delle associazioni di tutto il mondo, tra cui Arci: "Proporremo la nascita di una rete mondiale sulle persone scomparse nelle migrazioni". L'edizione tunisina è ancora più signifificativa perché si apre pochi giorni dopo la strage del museo del Bardo La manifestazione di apertura de Forum Sociale Mondiale si terrà a Tunisi martedì 24 marzo. Inizierà alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà davanti al museo del Bardo. Tutte le delegazioni internazionali hanno confermato la loro presenza, da tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti al Brasile e l’India. Tutte le attività sono confermate - seminari, 4 convegni, eventi culturali. Settantamila persone pronte a dare vita a un’altra edizione del Forum Sociale Mondiale, che si tiene a Tunisi dal 24 al 28 marzo. Il 26 marzo, nel campus universitario Al Manara, dove il Forum avrà luogo, si terrà un grande incontro per iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il terrorismo”. L’ultima edizione del Forum Sociale Mondiale (2013) si svolse a pochissimo tempo di distanza dagli omicidi dei dirigenti politici della sinistra Chokri Balaid e Mohamed Brahmi, fu il più grande evento autorganizzato di società civile nella regione mai realizzato, e aiutò il paese a evitare la destabilizzazione. La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una terza via fra l’oscurantismo e l’autoritarismo che imperversano nella regione - e non solo nella sponda sud del Mediterraneo. Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla - e denunciano i governi europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla. Le organizzazioni sociali che guidano il Comitato Organizzatore del Forum Sociale Mondiale, fra cui il sindacato UGTT e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali, hanno fatto parte del Quartetto di società civile al quale Governo e Parlamento affidarono il compito di risolvere lo stallo istituzionale al tempo della discussione sulla nuova Costituzione, che rischiava di portare il paese alla guerra civile. Il Forum Sociale Mondiale sarà l’occasione per l’incontro dei principali attori sociali democratici del mondo intero. Servirà a consolidare ed allargare le alleanze internazionali, a preparare l’agenda dei prossimi anni e le future campagne e mobilitazioni. Saranno a Tunisi un gran numero di sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l’ISIS, agli iracheni e siriani), le famiglie politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei. Saranno presenti delegazioni anche di Syriza e di Podemos. A Tunisi si preparerà la mobilitazione mondiale che avrà luogo a Parigi a dicembre, in occasione della Conferenza Onu sul Clima. Si consoliderà l’alleanza europea per il sostegno alla Grecia e contro l’austerità. Si incontreranno i movimenti contro la povertà e contro l’accaparramento della terra. Si terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il tema dei migranti sarà uno dei cuori pulsanti del Forum. Dall’Italia partiranno centinaia di attivisti sociali, dirigenti associativi e sindacali, esponenti politici e istituzionali. Moltissime le associazioni e i movimenti presenti. Anche l’Arci parteciperà con una folta delegazione. Legata alla società civile tunisina da una relazione storica e permanente, l’Arci e la sua ONG Arcs lavoreranno a Tunisi su diversi temi e campagne, legate in particolare alla costruzione delle alleanze necessarie per una Alternative Mediterranea e per una Europa diversa. In particolare, l’Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il FSM, una rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia. A Milano, il 24 marzo alle 18, in piazza Duomo, in contemporanea con l’apertura del Forum Sociale Mondiale di Tunisi, con cui la piazza si collegherà, si terrà una manifestazione per dire tutti insieme “I popoli del mondo contro il terrorismo”. 5 Da Adn Kronos del 24/03/15 Al via il Forum sociale mondiale, marcia a Tunisi fino al Bardo "Siamo qui alla marcia, sotto la pioggia. Siamo tanti, di tutti i colori e di tutti Paesi, contenti di partecipare a questa manifestazione inaugurale del Forum sociale mondiale per dare un messaggio chiaro contro ogni violenza e contro la violenza terrorista che si è abbattuta sulla Tunisia". A parlare è Simona Capocasale, responsabile Paese in Tunisia di Gvc, Gruppo di volontariato civile, raggiunta telefonicamente dall'Adnkronos a Tunisi. La marcia diretta verso il Bardo, teatro dell'attentato di qualche giorno fa. "Il museo è stato riaperto oggi per questa occasione - spiega Capocasale - Siamo tanti e il corteo è anche partito prima del previsto proprio perché non riusciva ad accogliere tutte le persone nella piazza. Nonostante la pioggia nessuno ha desistito". Al corteo "anche molta gente comune oltre agli esponenti delle varie associazioni. Presenti il Movimento delle donne, gli iracheni, i curdi e rappresentanti da tutto il mondo". La marcia si è poi conclusa davanti al museo del Bardo. "E' stata una manifestazione grandissima" dice Raffaella Bolini, coordinatrice delle relazioni internazionali Arci, raggiunta al telefono dall'Adnkronos. "C'era il diluvio universale, rivoli d'acqua dappertutto ma anche un fiume di gente che arrivava da tutte le strade. Davvero tanta gente, anche di Tunisi". Nello striscione d'apertura anche "la solidarietà alle vittime del terrorismo contro tutte le forme di violenza e oppressione. Al corteo c'erano bambini, giovani e donne. E' stato cantato l'inno tunisino, anche da non tunisini, e scanditi slogan come 'la Tunisia non fa un passo indietro'". Una grande marcia a voler dire "noi ci siamo e non ci arrendiamo". "La manifestazione è poi terminata davanti all'ingresso del Bardo dove c'era uno striscione che salutava i partecipanti al Forum. Dentro al museo c'è stata una cerimonia - riferisce Bolini - a cui sono stati invitati componenti del consiglio internazionale del Forum e delle diverse delegazioni". La presenza delle forze dell'ordine "era molto visibile, tutte dalla parte dei manifestanti ovvero a proteggere noi". http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2015/03/24/via-forum-sociale-mondiale-marciatunisi-fino-bardo_M9xB8kseHFEnpwRnT4CE3K.html Da Radio Articolo 1 del 25/03/15 Oggi, ore 15:05 - Elleesse - Un altro mondo è possibile. Voci dal WSF di Tunisi. Con R. Bolini, Arci Da Radio Città Fujiko del 24/03/15 Al via il Forum Sociale Mondiale a Tunisi Dal 24 al 28 marzo una nuova edizione del Forum, si scriverà la "Carta contro il terrorismo". La manifestazione di apertura del Forum Sociale Mondiale si terrà a Tunisi martedì 24 marzo. Inizierà alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà davanti al museo del Bardo. Fino al 28 marzo sono attese a Tunisi settantamila persone provenienti da tutto il mondo per dare vita a seminari, convegni ed eventi culturali. "Non cediamo il passo al terrore", è lo slogan scelto per il Forum Sociale Mondiale di quest'anno, che si terrà a Tunisi dal 24 al 28 marzo. La manifestazione di apertura avrà 6 inizio alle 16, sarà una “grande marcia dei popoli contro il terrorismo” e terminerà davanti al museo del Bardo. A pochi giorni dall'attentato che ha sconvolto la Tunisia, oltre settantamila persone da tutto il mondo - dalla Cina agli Stati Uniti al Brasile e l’India prenderanno parte a questa nuova edizione del Forum. Il terrorismo sarà al centro di un altro appuntamento, il 26 marzo nel campus universitario Al Manara, dove si terrà un grande incontro per iniziare a scrivere la "Carta Internazionale Altermondialista contro il terrorismo”. "La Tunisia, con la sua complessa ma resistente transizione democratica, rappresenta una terza via fra l’oscurantismo e l’autoritarismo che imperversano nella regione - spiega una nota dell'Arci, che prenderà parte all'evento con una folta delegazione - Gli attori sociali di tutto il mondo vanno a Tunisi per difenderla, e denunciano i governi europei e la comunità internazionale che non ha mosso un dito per aiutarla". Saranno a Tunisi un gran numero di sindacati europei, magrebini ed africani, le principali reti sociali di movimento, le grandi associazioni nazionali e mondiali, inclusa la Caritas internazionale, delegazioni dei paesi in conflitto (dalla Palestina ai Kurdi che hanno fermato l’Isis, agli iracheni e siriani), le famiglie politiche della sinistra e della socialdemocrazia, parlamentari nazionali ed europei. Saranno presenti delegazioni anche di Syriza e di Podemos. Il Forum sociale mondiale di Tunisi sarà il terreno che preparerà la mobilitazione mondiale che avrà luogo a Parigi a dicembre, in occasione della Conferenza Onu sul Clima. "Si consoliderà l’alleanza europea per il sostegno alla Grecia e contro l’austerità - spiega l'Arci - si incontreranno i movimenti contro la povertà e contro l’accaparramento della terra. Si terranno grandi assemblee di donne e di giovani. Il tema dei migranti sarà uno dei cuori pulsanti del Forum". In particolare, l’Arci è fra i promotori del processo che farà nascere, durante il FSM, una rete mondiale sulle persone scomparse durante le migrazioni, che sono migliaia e migliaia in tutto il mondo. A Tunisi partirà la campagna per una sessione speciale del Tribunale Permanente dei Popoli dedicato a rendere loro, e alle loro famiglie, verità e giustizia. Intervista a Filippo Miraglia http://www.radiocittafujiko.it/news/al-via-il-forum-sociale-mondiale-a-tunisi Da Globalist del 24/03/15 Tunisi alza la testa: belle bandiere sotto il diluvio La Tunisi ferita che non si arrende sfila fino al Bardo. Cronaca di una giornata di lotta e bandiere sotto il diluvio. [Antonio Cipriani] Antonio Cipriani mercoledì 25 marzo 2015 09:37 Belle le bandiere che nel pomeriggio di Tunisi sono salite verso il cielo grigio, sfidando la pioggia e carezzando con i tanti colori del mondo il Bardo. Alla sfida del terrore ha risposto la sfida corale e vivace della vita. Lungo le strade, a viso aperto, hanno marciato da Bab Saadoune fino ai cancelli chiusi e segnati dal filo spinato del museo, le ragazze e i ragazzi della meglio gioventù tunisina, i fratelli arrivati da tutto il Maghreb, dall'Italia, da tutta l'Europa, dall'America. Per dire: non abbiamo paura del terrorismo, figuriamoci del diluvio. Ma non solo. Come racconta Mikel, finlandese che ha vissuto a lungo a Roma, e a Tunisi per il Forum Sociale Mondiale: siamo qui non solo contro il terrorismo, ma per la pace, per la giustizia e la solidarietà tra i popoli. Per dire al mondo degli indifesi che non sono soli, che non sono 7 dimenticati, e non prevarrà questo sistema di violenze su violenze, nel silenzio assoluto. Per essere al fianco di Hamed che ha un figlio disperso nel mare di Lampedusa nel marzo 2011; disperso, non morto. Perché di lui e di tanti altri non si sa più niente. Al fianco di Imed che da quattro anni dedica la sua vita ai migranti dispersi sulla rotta della speranza con la sua associazione La terre pour tous. La Tunisi che ha accolto i partecipanti del Social Forum è una città ferita. Lungo le stradine del suq, nei localini dove si fuma il narghilè, si beve caffè forte e the zuccherosissimo alla menta, l'esistenza scorre lenta. Tutto sembra sospeso. Le persone fanno la fila al forno per il pane caldo, il traffico è caotico come sempre, i motorini sfrecciano tra pedoni, gatti, pozzanghere, ragazzini che giocano. Però dove la Tunisi popolare lascia il posto a quella istituzionale, si percepisce un tono diverso. Transenne ovunque a impedire passaggi. Polizia, mitra in mano, sguardi tesi a scrutare lo scorrere dei manifestanti che si muovono con i loro cori verso il Bardo. Nel portabagagli aperto di una macchina dei corpi speciali sono seduti armati e incappucciati due poliziotti armati fino ai denti. Si vedono solo gli occhi: uno sguardo torvo e uno intenso, scuro, di giovane tunisina. Il contrasto è incredibile. Lo sguardo dell'agente somiglia a quello di cento mille ragazze in piazza. Col velo, senza velo. Cuori ruggenti che credono nella rivoluzione. Che si battono per rendere reali parole come democrazia, giustizia sociale. Per cancellare la parola sfruttamento, emarginazione, segregazione. Ragazze e ragazzi con un sogno, che vengono dopo quelli dalla primavera e non si arrendono. Volontarie vere (mica quella roba da schiavetti di Expo), perché un altro mondo sia possibile per davvero e non solo sulla carta. O con truffe mediatiche a far credere una finalità etica a coprire come una foglia di fico cementificazioni, speculazioni, ricchi affari per pochi fregando il prossimo allegramente. Il fatto interessante è rappresentato dalla presenza di tanti giovanissimi, una carica di diciottenni. I fratelli minori dei ragazzi della primavera dei gelsomini tunisini, che quattro anni fa avevano 13-14 anni e che ora sono in prima fila, a testa alta, sulle strade. Dall'Italia sono arrivati in tanti. Un segno di attenzione e di vicinanza forte. Il dramma del mare che ci divide e ci unisce agisce su questa rotta. Da una parte le decisioni politiche europee e italiane che hanno causato una serie di danni e vittime a non finire; dall'altra i cittadini, le associazioni che si battono per i rifugiati, per non spegnere i riflettori sulla barbarie del Mediterraneo. Ci sono quelli dell'Arci, di Legambiente, della Fiom, di El Mastaba, della Cgil e tanti altri. Qualcuno si interroga sulla presenza o meno dei media tradizionali italiani. Interessante, quanto inutile, domanda. Forse all'interno di "un altro mondo è possibile", occorrerebbe inserire la possibilità che chi lo scandisce, lo pensi. E possa guardare alla costruzione di un sistema alternativo che non abbia alcuna dipendenza da quello attuale e ufficiale. Tunisie horra horra. Risuonano i canti di lotta e di resistenza. Canti popolari, belli in ogni parte del mondo. Gli slogan scanditi in coro. Tanta voglia di Palestina libera espressa da ogni delegazione dei paesi. Bellissimi, immobili con le tante mani dipinte su uno striscione ci sono Artists for Palestine. "Siamo davanti al Museo che è stato bagnato dal sangue del terrore - dice Adbelhamid Khairi dell'Associazione tunisina Terre des Hommes - e diciamo che i terroristi quello che temono di più è la cultura. Senza conoscenza un popolo è facilmente manovrabile. Noi siamo contenti di avere qui con noi tutte queste associazioni che testimoniano interesse per la cultura". Non solo contro il terrorismo, però. Questo appare chiaro anche nella discussione preparatoria di questa manifestazione. Perché il Forum Sociale Mondiale ha un suo percorso fatto di idee, di pensiero che si muove contro l'appiattimento di senso del pensiero unico. Un appiattimento che porta le persone a vivere le paure come parte 8 integrante di un sistema di rinunce e conformismo. Attraverso un immaginario impoverito che rende sempre meno liberi. Poi il cielo, che per qualche tempo aveva dato tregua alla manifestazione, si è dipinto di un viola intenso. E una bufera d'acqua e vento si è riversata su Tunisi, trasformando le strade in fiumi, bagnando ogni manifestante dalla testa ai piedi. Così le belle bandiere sono rimaste nei cuori di chi c'era. Negli occhi delle tante persone che applaudivano al passaggio dai loro giardini, dalle finestre, da fuori i bar. E la notte si è alzata con le sue luci tenui, il traffico impazzito, i taxi attesi per ore, i sorrisi degli sconosciuti. Eravamo in tanti? Chiede una ragazza di Torino bagnata come un pulcino. Non si sa, risponde un ragazzo che camminava al suo fianco, eravamo giusti. http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=71218 Del 25/03/2015, pag. 25 Il ballo della Milano liberata L’idea per festeggiare il 25 Aprile «Il sole indugiava ancora all’orizzonte e le rondini garrivano nel cielo del Castello che già le avanguardie del pubblico affluivano verso i viali del Parco ad assicurarvisi posizioni di favore....». Comincia così l’articolo del Corriere d’Informazione del 15 luglio 1945, un minuscolo colonnino (ma tutto il quotidiano, per scarsità di carta, usciva con due sole pagine in quell’anno di pace appena ritrovata dopo cinque anni di guerra), dedicato al grande ballo collettivo organizzato il giorno prima al Castello Sforzesco di Milano per festeggiare la fine delle ostilità. L’iniziativa ebbe un successo strepitoso, tanto da restare incisa nella memoria della città. Ed è per questo che, per celebrare il 70° anniversario della Liberazione, Radio Popolare ha avuto l’idea di replicare la festa di allora allargandola però a tutta l’Italia (case, piazze, strade, teatri, ovunque ci sia la voglia di ballare e cantare). «Abbiamo chiesto la collaborazione di Arci, Anpi (l’associazione partigiani) e Insmli (gli istituti di storia della resistenza) — spiega Danilo De Biasio a nome dell’emittente milanese — per lanciare l’idea: tra un mese esatto, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, dalle 10 in poi, cercheremo di far ballare più gente possibile in tutte le città e i paesi, fino a intonare, tutti insieme, allo scoccare della mezzanotte, un canto collettivo. L’iniziativa, che si chiama “Liberi anche di cantare e ballare”, ci è sembrata un modo non scontato per celebrare tutti coloro che hanno lottato per la nostra libertà. Non abbiamo ancora scelto la canzone, ma probabilmente sarà Bella ciao che in tutto il mondo è identificata con la resistenza italiana al nazifascismo». Settant’anni fa l’idea di far ballare la città dopo i lutti e gli odi della dittatura e della guerra civile fu di Antonio Greppi, il primo sindaco socialista della Milano liberata. Noi oggi festeggiamo la liberazione il 25 aprile, ma, per chi la visse, quella giornata di 70 anni fa tutt’altro che una festa: per le strade si sparava ancora, era in corso la caccia a nazisti e fascisti, ci furono allora e nei giorni successivi giustizia e vendetta che culminarono in piazzale Loreto con i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi appesi a testa in giù alla longarina di un distributore di benzina. Greppi decise quindi che in qualche modo era ora di chiudere la stagione dell’odio e di festeggiare, nel vero senso della parola, il ritorno alla libertà. Come luogo delle danze fu scelto il Parco Sempione e come giorno il 14 luglio, la festa nazionale francese per la presa della Bastiglia, in segno di solidarietà e amicizia con i maquisards , i partigiani francesi che avevano combattuto contro tedeschi e collaborazionisti del governo di Vichy. 9 L’organizzazione della «Festa della fraternità e del popolo» (questo il nome completo, un po’ magniloquente ma l’epoca lo esigeva) fu affidata da Greppi a Paolo Grassi (in quel momento critico teatrale del quotidiano socialista l’Avanti ) e Giorgio Strehler, che poi con il Piccolo Teatro sarebbero diventati due giganti della cultura italiana. Le poche foto dell’epoca mostrano l’Arco della Pace imbandierato con i vessilli delle Nazioni alleate (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica) e con il tricolore italiano. La celebrazione partì con gli inni nazionali, poi la Canzone del Piave, quindi l’Inno dei lavoratori (vietato da anni e le cui parole erano di Filippo Turati). Poi iniziò la festa «vera», cui parteciparono migliaia di persone. Così la descriveva un articolo dell’ Europeo : «Al Parco sette piste da ballo, nove orchestre, tre palloni frenati e fuochi d’artificio. Ma lo spettacolo più vivo fu in periferia, con decine di orchestre e di bande che percorrevano la città in autocarro. Fisarmoniche, violini, chitarre, grammofoni suonavano nelle piazze. E la gente ballava. Ballavano ricchi e poveri, vecchi e bambini. Tutta Milano ballò nelle strade, fino oltre l’alba, sotto i lampioncini e le bandiere...». Chissà se tra un mese succederà lo stesso. A Radio Popolare ci sperano. In sedici città (per ora), da Milano a Lecce e da Reggio Emilia a Barletta, i circoli Arci si stanno muovendo per organizzare le danze. «Abbiamo aderito — spiega Francesca Chiavacci, presidente dell’Arci — perché ci sembra una bella iniziativa che riporta tra noi in modo un po’ più fresco l’ora della Liberazione». E anche la macchina organizzativa dell’Anpi è in azione. «È un’iniziativa simbolicamente forte — dice Carlo Smuraglia, numero uno dell’Associazione — che si aggiunge a quelle tradizionali e che dà il senso di una comunità viva e vivace che vuole andare avanti con fiducia e coraggio». Da il Secolo d’Italia del 25/03/15 I quotidiani del 25 marzo visti da destra. 10 articoli da non perdere di Renato Berio Sulle prima pagine di oggi, 25 marzo, domina la notizia dello schianto dell’Airbus della Germanwings che ha provocato 15o vittime: si dà conto della difficoltà dei soccorsi, dello choc dei parenti e dei paesi coinvolti, delle possibili cause di un disastro che ha commosso l’Europa facendole ancora una volta rivivere l’incubo del terrorismo. Per la politica la notizia di rilievo è quella del sì alla prescrizione con l’astensione dei centristi di Alfano. Per quanto riguarda la cronaca due gli avvenimenti principali: il braccio destro di Zingaretti, Maurizio Venafro, dimissionario perché coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale e il ritrovamento secondo i pm delle “mazzette” destinate al supermanager Incalza: buste nascoste tra i libri dell’indagato Adorisio, socio della Green Field. Grande spazio sui giornali anche alla decisione di Angelina Jolie di farsi asportare le ovaie per non ammalarsi di cancro. 1) La gita maledetta della classe di liceali cancellata nell’impatto (la Repubblica, p.4) Andrea Tarquini racconta il dolore dei ginnasiali di Haltern dopo la tragedia dell’aereo caduto sulle montagne della Provenza. “Mazzi di fiori, rosse candele funebri accese, animali di pelouche dell’infanzia: i simboli del lutto sono ovunque al Joseph-KonigGymnasium di Haltern am See… ovunque scritte coi gessetti o con gli spray ‘vi vogliamo bene’, ‘ci mancherete sempre’, ‘non vi dimentichiamo’. Il dolore ha cancellato ogni altra sembianza della scuola”. 2) La partita delle low cost (Il Sole 24 Ore, p.1) Gianni Dragoni spiega che le compagnie a basse tariffe hanno raggiunto in Europa una quota di mercato del 32%. Le compagnie tradizionali inseguono dunque questo modello, 10 con taglio di costi e procedure che i piloti contestano. Ora il piano Lufthansa di puntare su Germanwings (che costa il 20% in meno) dovrà fare i conti con la tragedia dell’Airbus 320 che “con 24 anni di servizio è uno dei più vecchi della flotta del gruppo”. 3) Ecco le sei inchieste sulla metro di Roma (Il Tempo, p.1) Il quotidiano romano dedica l’apertura e due pagine interne alle inchieste della magistratura sui costi e i lavori delle linee B e C della metro. Sei indagini sono state aperte dalle procure in due città. I magistrati di Firenze si concentrano su Ercole Incalza, i pm romani stanno invece valutando costi e modalità dei lavori per costruire la linea C. 4) Indagati, faide e pugnalate alle spalle. E se l’Impero di Renzi finisse a Roma? (Il Giornale, p.1) Vittorio Macioce in un editoriale sottolinea che Roma è il tallone d’Achille di Matteo Renzi. La zona “oscura e melmosa” che rischia di oscurare la sua fortuna. Una “discarica di malaffare” che potrebbe travolgere Renzi perché nella Capitale il Pd è il “partito Stato” vittima di correnti e clientelismi, con un sindaco che naviga a casaccio e la Regione di Zingaretti che affonda nella palude degli scandali. 5) De Girolamo: “Renzi ci deve rispettare altrimenti noi usciamo” (La Stampa, p.9) Intervistata da Francesca Schianchi la capogruppo dell’Ncd alla Camera Nunzia De Girolamo ipotizza l’appoggio esterno al governo se il premier dovesse ostinarsi a non accettare “le idee che caratterizzano la nostra presenza al governo”. Dopo il caso del ddl sulla prescrizione i rapporti vanno chiariti. “A Renzi abbiamo donato il sangue e lui ne ha avuto tutti i vantaggi, da quello elettorale a quelli mediatici. Ora deve avere più rispetto di noi”. 6) Tv, se il dolore fa disinformazione (Avvenire, p.23) Roberto I.Zanini scrive dell’indagine dell’osservatorio di Pavia su 300 ore di trasmissione centrate su fatti di cronaca nera di sei canali. I punti critici di questo tipo di informazione sono due: raffigurazione strumentale del dolore e spettacolarizzazione seriale del dolore. Tra i programmi promossi Unomattina e I fatti vostri, tra quelli bocciati Chi l’ha visto? e Pomeriggio cinque. 7) Paura di dirsi cristiani a Londra (Il Foglio, p.1) Matteo Matzuzzi informa i lettori di un rapporto della commissione Pari opportunità della Gran Bretagna che ha raccolto duemila casi di insulti e derisioni ai cristiani che avevano testimoniato la loro fede. Si va dalla “bambina umiliata davanti a tutta la classe perché ha osato dire che l’universo è stato creato da Dio” agli impiegati che nascondo in ufficio i simboli della loro religione (rosari, crocifissi) perché dal 2010 è vietato esibire la propria confessione per evitare “discriminazioni” a danno di altre fedi. 8) Gassman: “Il paese muore di corruzione, Barracciu lasci” (Il Fatto, p. 9) Intervista all’attore Alessandro Gassman protagonista di un battibecco su twitter con la sottosegretaria del Pd Francesca Barracciu, alla quale ha chiesto pubblicamente di dimettersi perché indagata per peculato. “Barracciu – dice l’attore – ha dimostrato tutta la sua arroganza. Ma è quello che volevo. Ha risposto che avrei dovuto imparare a fare l’attore prima di chiedere il biglietto agli spettatori. Non cambio idea: tutte le persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e sono indagate devono farsi da parte”. 9) Il ballo della Milano liberata. L’idea per festeggiare il 25 aprile (Corriere della sera, p. 25) Paolo Rastelli racconta dell’idea di Radio Popolare, emittente milanese, che assieme all’Anpi nella notte tra il 24 e il 25 aprile vuole far cantare e ballare “più gente possibile in tutte le città” fino a intonare un “canto collettivo” a mezzanotte che non potrà essere che Bella ciao. Un’idea discutibile viso che quella data fu segnata da lutti e sangue in ricordo dei quali c’è poco da ballare e cantare. Per ora sono sedici le città coinvolte grazie ai circoli Arci. 11 10) La Littizzetto sfotte le sue ma ne esce con le ossa rotte (Libero, p. 1) Bruna Magi commenta l’infelice battuta di Luciana Littizzetto contro le clarisse di Napoli che hanno accolto con “eccessivo” entusiasmo papa Francesco (“Non si sa se non avevano mai visto un Papa o un uomo”). Ma la vera notizia è stata la replica delle suore, giunta via Facebook e assolutamente pertinente: “Aggiorna il tuo immaginario manzoniano”. Littizzetto voleva accusare le suore di essere retrograde, è lei invece a stare “ferma” all’Ottocento. http://www.secoloditalia.it/2015/03/i-quotidiani-25-marzo-visti-destra-10-articoli-nonperdere/ Da Vita.it del 24/03/15 Per un'estate fuori dagli schemi... pensaci adesso Di Antonietta Nembri Sono tantissime le possibilità offerte da ong e associazioni di trascorrere un periodo da volontari in un workcamps, in Italia o all'estero. Occasione per incontrare altri giovani e approfondire la conoscenza del mondo che ci circonda. Iscrizioni aperte... affrettatevi La primavera è appena iniziata ed è già ora di pensare a cosa fare la prossima estate. Anzi per chi vuole trascorrere le vacanze in modo diverso: divertendosi e allo stesso tempo rendendosi utile anche agli altri il tempo per decidere è adesso. Marzo è del resto il momento in cui le diverse realtà, associazioni e ong, che organizzano i campi di volontariato presentano programmi e progetti, proposte ogni anno con qualche novità. E gli slogan che vengono scelti acchiappano l’occhio di chi gira su siti e social, anche perché l’online è il mezzo più utilizzato dalle organizzazioni per far conoscere i propri progetti. Tra le prime realtà ad aprire le iscrizioni ci sono Fondazione Arché Milano e l’associazione Amani che hanno come meta l’Africa. Arché anche quest’anno offre l’opportunità di vivere un’esperienza di solidarietà e condivisione nella tradizionale meta dello Zambia, dove i volontari hanno anche l’opportunità di monitorare l’andamento del progetto “Zambia: istruzione per la vita”. I volontari sono ospitati nella missione gesuita di Chikuni e accompagnati sul territorio dal comitato locale che gestisce il progetto a favore degli orfani. Arché non chiede quote di partecipazione, a carico del volontario ci sono i costi del viaggio aereo e l’assicurazione. Per la copertura delle spese di vitto i volontari sono invitati a lasciare un’offerta libera ai missionari. Il campo si svolgerà nel mese di agosto, i posti vanno a esaurimento e chi volesse partire con Arché è invitato a iscriversi al più presto chiamano il numero di Milano 02.6688521 oppure scrivendo a: [email protected] Kenya e a Lusaka in Zambia. Chi parteciperà ai campi promossi da Amani s’immergerà nella realtà delle due città africane, condividendo la vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi accolti a Kivuli Centre e al Mithunzi Centre, o delle bambine e ragazze della Casa di Anita. Il periodo del campo è agosto e prima della partenza i volontari sono invitata a un percorso di formazione della durata di 5 weekend che precedono la partenza. Le spese di viaggio sono a carico dei volontari, mentre per vitto e alloggio viene richiesto un contributo di 10 euro al giorno. Tutte le informazioni sul sito dell'associazione o scrivendo a campi[at]amaniforafrica.it. “Estate selfie? No grazie, estate workcamps!” è questo l’invito che arriva da Lunaria, una Aps impegnata nella promozione e organizzazioni di campi di volontariato dal 1992. In 12 poco più di vent’anni sono oltre 20mila i volontari italiani e stranieri coinvolti. Solo lo scorso anno circa mille giovani si sono impegnati in 52 Paesi del mondo. Lunaria partecipa alla rete internazionale di associazioni riunite nell’Alliance of International Voluntary Service Organization. Oltre 2mila i progetti disponibili sul sito dell’associazione ai quali possono partecipare ragazzi italiani dai 15 anni su. Due le novità dell’estate 2015: la prima consiste nella possibilità di partire con un gruppo di italiani coordinato da un volontario esperto per due progetti in Kenya e Uganda. Una seconda novità riguarda la possibilità di ottenere un certificato di riconoscimento delle competenze partecipando al Post Camp Event, previsto in ottobre, per chi ha partecipato a un workcamp. Per quanto riguarda la possibilità di viaggi in gruppo il periodo previsto è per l’Uganda dall’1 al 16 luglio, mentre in Kenya il campo si terrà dal 10 al 25 luglio. Per chi intende partecipare a questi due campi è previsto anche un training residenziale a maggio. Chi fosse interessato può avere maggiori informazioni scrivendo a: workcamps[at]lunaria.org Per conoscere gli oltre 2mila progetti di volontariato internazionale nei campi di impegno e supporto sociale, cultura, eventi e festival, ma anche ambiente e agricoltura e i più antichi e tradizionali campi di costruzione e manutenzione il consiglio è quello di andare sul sito oppure scaricare l’App (iOs e Android). Il suggerimento che arriva da Lunaria è quello di scegliere in base alle proprie inclinazioni e sensibilità. Un accorgimento, trattandosi di campi internazionali la conoscenza dell’inglese o della lingua del paese ospitante è indispensabile. Italia, Europa e perché no il mondo sono le mete scelte per i campi 2015 da Ibo Italia, l’associazione italiana soci costruttori ong membro di Focsiv che quest’anno, accanto ai campi tradizionali riservati ai maggiorenni (in Italia ed Europa) o agli over 21 (le mete extraeuropee) viene fatta la proposta anche agli adolescenti tra i 14 e i 17 anni di partecipare a esperienze in campi di lavoro e solidarietà in Italia e in Europa. Quattro le mete italiane: a Biancavilla (CT), in una realtà di accoglienza per persone in difficoltà, a Salvatonica (FE) partecipando alla ricostruzione di un villaggio danneggiato dal recente terremoto, che ospiterà mamme e bambini in stato di bisogno. Oppure a San Leonardo di Cutro (KR) e Vernazza (SP) dedicandosi alla tutela della legalità e del paesaggio con ragazzi di tutto il mondo. Diverse le mete per l’estate 2015, tutte le informazioni e i format per iscriversi sono online al sito dell’ong. Prima di partire sono previsti incontri pre-campo per conoscere le realtà in cui ci si reca e la cultura del posto. Per quanto riguarda i costi c’è una quota di iscrizione che è di 160 euro per i campi in Italia ed Europa e 210 euro per quelli fuori Europa, a questo costo va aggiunto il volo (nel caso) e a volte degli extra da dare alla comunità ospitante. Ma tutte le spese sono segnalate al momento dell’iscrizione. Un centinaio i posti a disposizione per partecipare al progetto “Terre e libertà” proposto dall’ong delle Acli Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli) che da oltre vent’anni opera nel settore della cooperazione internazionale. Sono quattordici le località previste per campi di animazione a favore di bambini dai 6 ai 14 anni in Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo. Moldova, Kenya, Mozambico e Senegal. Al progetto partecipano anche gruppi di scout che si recheranno nelle mete europee di Kosovo e Bosnia Erzegovina. Età minima per partecipare ai campi è 18 anni per le mete europee, mentre per le destinazioni africane si richiedono almeno 22 anni. È prevista anche un’età massima consigliata che è di 50 anni. Del resto l’età media dei campisti è di 24/25 anni. I campi, della durata di due / tre settimane nei mesi di luglio e agosto. Due date di chiusura per le iscrizioni: il 27 aprile per le mete extra-europee, mentre per tutti gli altri campi è il 15 giugno. Slogan dell’estate 2015 è l’invito: “Porta i tuoi piedi fuori dai luoghi comuni…”. I volontari che partecipano ai progetti di Ipsia saranno divisi in équipe composte da un numero minimo di 6 a un massimo di 9 volontari, in ogni équipe vi sarà un responsabile della ong. La formazione è obbligatoria, avvisano gli organizzatori, si 13 tratta di due incontri pre-partenza e uno al termine dell’esperienza. Gli incontri formativi si terranno il 20 e 21 giugno e il 4 e 5 luglio. Tutte le informazioni, e i particolari dell’iscrizione (tramite format elettronico) sono online al sito del progetto: www.terreliberta.org.(la foto di copertina è tratta dalla pagina Fb di Terre e LIbertà ed è stata scattata nell'estate scorsa in Kosovo) Una proposta di volontariato all’estero rivolta ai giovani quella che arriva dall’associazione Bambini in Romania che da alcuni anni organizza campi estivi di volontariato internazionale negli istituti e nelle comunità in Romania e in Repubblica Modolva. Si tratta di quindici giorni di attività di animazione e ricreative con bambini e ragazzi dai 3 ai 20 anni. Tre i turni previsti per l’estate 2015: 4-18 luglio, 18 luglio -1 agosto e 1-15 agosto. Le iscrizioni chiudono il 28 aprile. Un hashtag caratterizza la proposta di Libera per i campi estivi 2015 in Italia #estateliberi. Si tratta di campi di volontariato che vengono organizzati sui terreni confiscati alle mafie e che prevedono momenti di lavoro agricolo o di risistemazione del bene, di formazione e, infine, di incontro con il territorio per uno scambio interculturale. Per pubblicizzare questi campi su Youtube è presente anche un video girato la scorsa estate alla Fattoria della Legalità a Isola del Piano (PU). Aggiornamenti e informazioni sulla pagina ad hoc di Libera. Non sono ancora note le mete per la prossima estate proposte da Arcs e Arci che dal 2007 promuove accanto ai classici campi formativi anche dei workshop di reportage tenuti da fotografi professionisti con l’obiettivo di avvicinare i giovani italiani a realtà e problematiche attraverso lo strumento fotografico. Mete principali sono il sud America, il Nord Africa, il Medio Oriente e i Balcani. I campi dell’estate 2015 – fanno sapere dall’organizzazione – saranno incentrati sui workshop fotografici che offrono l’occasione di coniugare passione artistica e impegno sociale. I dettagli delle mete, le attività previste e le quote di partecipazione saranno resi noti sul sito di Arcs http://www.vita.it/it/article/2015/03/24/per-unestate-fuori-dagli-schemi-pensaciadesso/131846/ Da Repubblica.it del 24/03/15 Due giorni di cinema e cultura con Antonietta De Lillo di PAOLO DE LUCA Un anniversario e un’anteprima per Antonietta De Lillo, per due giorni dedicati a cinema e cultura. La regista napoletana sarà infatti giovedì 26 alle 15 alla succursale del liceo Pansini (in via Sangro), per assistere alla proiezione de “Il resto di Niente”, la sua trasposizione cinematografica del capolavoro di Enzo Striano, a dieci anni esatti dall’uscita in sala. L’indomani, venerdì 27 alle 21, il cinema Astra in via Mezzocannone accoglierà in anteprima nazionale la visione del suo ultimo docufilm “Let’s go”. La pellicola, con montaggio di Giogiò Franchini e musiche di Daniele Sepe, è prodotta da Marechiarofilm, in collaborazione con Rai Cinema. Presentata al Torino Film festival e in programmazione già dalle prossime settimane, racconta una delle tante facce del Paese, stremato dalla crisi. E lo fa attraverso storia di Luca Musella, fotografo, operatore e scrittore, esodato. Luca attraversa un impasse professionale che, inevitabilmente, si ripercuote anche sulla sua vita emotiva. Ma non si lascia abbattere. Il protagonista ripercorre la propria vita in un 14 testo-lettera scritto da lui stesso e in un viaggio reale e ideale attraverso Napoli, sua città natale e Milano, il luogo della sua nuova esistenza. Luca infatti si rialza. Il film racconta proprio questo: “Non tanto la volontà - spiega la stessa De Lillo - di raccontare la "caduta" di Luca, quanto il desiderio di mostrare l'incapacità della collettività di sostenere chi è in difficoltà. Le cadute fanno parte della vita, siamo noi a essere diventati troppo fragili per accettarle”. L’anteprima all’Astra rientra nella programmazione di “Astradoc”, rassegna dedicata al cinema documentario, a cura di Arci Movie e Parallelo 41 con l’università Federico II. http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/03/25/news/due_giorni_di_cinema_e_cultura_con_ antonietta_de_lillo-110415730/ Da la Nazione del 25/03/15 (Livorno) Un vagone di cibo per i bisognosi Cordata di benefattori dà una mano al Comune: la distribuzione Alimenti per famiglie bisognose Alimenti per famiglie bisognose Livorno, 25 marzo 2015 - PASTA, pane di semola a fette, panini, merendine, sughi pronti, cipolle borlotti, fagioli, lenticchie, orzo, legumi per un totale di una tonnellata e 500 chili. Tutti donati dalla catena di supermercati Penny e benefattori anonimi. Questi alimenti sono stati consegnati al Comune che ieri li ha distribuiti (attraverso la protezione civile) alle associazioni che sostengono le famiglie in difficoltà: Livorno per Tutti, Arci Solidarietà (si presenterà però giovedì), Opera Santa Caterina, Salesiani, Don Nesi, la Croce Rossa Croce. LA ASSOCIAZIONE Livorno per tutti ha sede in via della Gherardesca 11/A (zona Ardenza) all’interno di un fondo messo a disposizione dalla Croce Rossa. La presiede Mario Atteritano. Si può contattare al 347-0484350 per segnalazioni e richieste di aiuto. «Abbiamo organizzato un emporio solidale – spiega il presidente – che sarà operativo a breve». Intanto ha già preso in consegna venti famiglie (su segnalazione delle chiese Evangeliche) che le hanno selezionate in base all’Isee perché beneficino delle donazioni di alimenti. Opera Santa Caterina ha settanta famiglie in carico. Ce lo dice la presidente Angela Dalena. «Il 60% sono livornesi e crescono di numero ogni giorno. Le selezioniamo in base all’Isee e collaboriamo con gli assistenti sociali che spesso ci contattano chiedendo il nostro aiuto perché il Comune ha meno soldi per le emergenze sociali». Opera Santa Caterina consegna pacchi alimentari che bastano al sostentamento delle famiglie per un mese. «Tutto frutto di donazioni tra cui quelle della sezione femminile del Libertas Tennis Club sempre in prima linea per aiutarci». Le famiglie con figli «sono assistite per sei mesi poi viene fatta una verifica. Gli anziani a tempo indeterminato; tutti gli altri per tre mesi a rotazione». La sede è in piazza Anita Garibaldi 2. La consegna avviene il martedì dalle 17 alle 19 e il secondo e quarto lunedì del mese dalle 16.30 alle 18.30. Infine Anna Braccini presidente della sezione di Livorno e provincia della Croce Rossa racconta: «Gestiamo 250 famiglie per un totale di 2000 persone». I pacchi alimentari sono consegnati dalle 10 alle 12 nella sede di via Masi 7. «Aiutiamo stranieri e soprattutto livornesi. A Tutti chiediamo l’Isee e collaboriamo con gli assistenti sociali e le altre associazioni per evitare che le stesse persone facciano il giro di più punti di distribuzione». Monica Dolciotti http://www.lanazione.it/livorno/pasta-poveri-1.792889 15 Da Avvenire del 25/03/15, pag. 9 Migranti, 5 su 100 muoiono in mare Alessia Guerrieri Proteggere le persone, prima dei confini. Perché davanti all’aumento delle «vittime delle frontiere», la risposta deve essere un sistema permanente d’accoglienza. Un canale umanitario, insomma, in cui la parola d’ordine sia mobilità transnazionale e integrazione, non Cara (Centro d’accoglienza per richiedenti asilo) e Cie (Centro d’identificazione ed espulsione). Due realtà, queste, che verranno poste sotto la lente d’ingrandimento «già da questa settimana» dalla Commissione d’inchiesta parlamentare, «finalmente messa in condizione di lavorare», dice uno dei membri, il deputato Paolo Beni (Pd), durante l’incontro Protect people not borders, organizzato alla Lumsa di Roma dall’associazione studentesca Good morning, youth e dal "Comitato 3 ottobre". Una commissione istituita alla Camera a fine novembre, ma ancora non operativa, in cui 21 deputati avranno tempo un anno per analizzare le condizioni di permanenza dei migranti in queste strutture – in Italia i Cara sono 14 e i Cie 13, ma attualmente attivi solo 5 – il loro sistema di gestione e le procedure di affidamento della direzione dei centri. Parallelamente però, Italia ed Europa, dovranno ripensare le politiche sull’immigrazione e sull’asilo. Va innanzitutto superata la logica dell’approccio emergenziale, secondo la portavoce Acnur per il Sud Europa Carlotta Sami, prendendo coscienza tuttavia dell’aumento del numero delle persone «che fuggono dal terrore» e che muoiono attraversando il Mediterraneo «perché non hanno alternative, né un canale legale per venire nel nostro continente». Dall’inizio dell’anno, infatti, le vite perse in mare sono più di 400, «5 ogni 100 migranti, mentre nel 2014 il rapporto era 2 ogni 100». In sostanza, «lavorare per la pace», «istituire un canale umanitario», più che concentrarsi «sulla tutela dei confini», sono per il rappresentante dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, le azioni politiche su cui Bruxelles dovrebbe orientarsi. Altrimenti si continuerà a «fare scelte sbagliate» aggiunge Sami, a crearsi alibi, «a non cercare una strategia comune per l’asilo». Il che significa non risolvere il problema. L’Unione Europea, difatti, nel periodo 2008-2013 ha stanziato il triplo dei fondi per la protezione delle frontiere rispetto a quelli destinati all’accoglienza: un miliardo e 820 milioni contro 630 milioni. «Una sproporzione» dicono i ragazzi di Good morning, youth, che dimostra come «la comunità internazionale sia in realtà più un’individualità internazionale». Il tema dell’immigrazione, invece, gli fa eco il rettore dell’ateneo che ha patrocinato l’evento, Francesco Bonini, «consente di guardare in prospettiva e in profondità» il mondo attuale, «costruendo relazioni» attente alla persona e ai cambiamenti. «Occorre dunque un progetto di lungo periodo per proteggere la vita» per Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre – nato proprio dopo la tragedia a largo di Lampedusa del 2013 in cui morirono 368 stranieri – perché l’indifferenza è costata già «20mila morti negli ultimi dieci anni». Dietro ogni rifugiato e ogni migrante c’è appunto una storia «che ha più punti di contatto con noi di quello che immaginiamo», ammette Donatella Parisi, responsabile comunicazione del Centro Astalli. Quindi dopo anni in cui si parla solo di accoglienza – aggiunge – bisogna iniziare a lavorare sull’integrazione «dando opportunità a queste persone di mostrare il meglio che hanno da offrire». 16 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 25/03/15, pag. 2 Il Social forum nel posto giusto al momento giusto Giuliana Sgrena TUNISI «Je suis Bardo». La manifestazione contro il terrorismo e a fianco dei tunisini che ieri, sotto un nubifragio, ha aperto il Forum sociale mondiale. Voci, slogan e colori – dal giallo di Amnesty al rosso delle bandiere tunisine – che danno il senso di quello che da oggi sarà la kermesse ospitata nel campus universitario del Manar Un violento nubifragio, che ha oscurato il cielo di Tunisi e trasformato le vie in torrenti in piena, ha messo a dura prova i partecipanti al Forum sociale mondiale che hanno voluto aprire la kermesse proprio con una manifestazione di solidarietà con i tunisini contro l’attacco terroristico che una settimana fa ha colpito il museo del Bardo. La manifestazione, partita da Bab Saadoun, aveva come obiettivo il luogo dove si è consumato il terribile attentato che ha provocato la morte di ventidue persone, tra cui quattro italiani, e decine di feriti. Ma all’entrata del museo i manifestanti non si sono potuti nemmeno avvicinare per le ingenti misure di sicurezza che dovevano proteggere l’apertura simbolica del Bardo con un concerto riservato a personalità invitate. Tra i privilegiati che ieri hanno varcato il cancello del museo vi era anche il ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni, che ha anche visitato le due italiane ancora ricoverate in ospedale. La solidarietà palestinese Due anni fa, l’edizione precedente del Social Forum si era conclusa con una manifestazione per la Palestina aperta da un’enorme bandiera palestinese, per l’appunto. La stessa bandiera, retta, tra gli altri, dal noto esponente palestinese Mustafa Barghouti, ha aperto anche la marcia di ieri. «Siamo qui come palestinesi per esprimere la nostra solidarietà al popolo tunisino, ma anche per promuovere la nostra lotta contro l’apartheid imposto da Israele e contro il terrorismo: quello perpetrato da Israele contro il popolo palestinese è il peggior terrorismo», ha detto Barghouti. «La violenza non ha patria e distrugge i popoli», recitava uno striscione. E mentre la bandiera palestinese diventava sempre più pesante sotto gli scrosci d’acqua, gli slogan urlati a squarciagola incrociavano la solidarietà con la Tunisia a quella con altri popoli sotto la minaccia del terrorismo globalizzato dell’Isil e non solo. Senza dimenticare che una delle prime vittime del terrorismo è stato nel febbraio del 2013 un leader politico del Fronte Popolare, Chokri Belaid, seguito, in luglio, da Mohamed Brahmi. Due anni fa, il ricordo di Chokri, assassinato meno di due mesi prima dello svolgimento del Forum, era vivo e le sue immagini coprivano la centrale Avenue Bourghiba. Ieri invece mi ha fatto tristezza incontrare Basma, la vedova, quasi al fondo del corteo con alcuni familiari e con un solo ritratto del marito. Tra le magliette con bandiere e slogan non mancavano quelle con la scritta «Je suis Bardo», diventato ormai lo slogan internazionale per sostenere le vittime del terrorismo. Voci, slogan e colori – dal giallo di Amnesty al viola delle donne della Marcia mondiale, al rosso prevalente nelle bandiere tunisine, ad altri ancora – davano il senso di quello che sarà il Forum che si aprirà oggi nel campus universitario del Manar. Un appuntamento 17 fortemente voluto e mantenuto dagli organizzatori tunisini nonostante le difficoltà provocate dall’attentato terroristico, che però non ha messo in ginocchio la Tunisia. Anzi. Certo sono aumentate le misure di sicurezza, all’aeroporto la fila al controllo passaporti è particolarmente estenuante, soprattutto con gli arrivi in massa di questi giorni. La città invece non appare assolutamente militarizzata, ieri per la manifestazione erano solo chiuse alcune vie, ma immaginiamo che le misure di sicurezza saranno più evidenti per la marcia di domenica prossima alla quale parteciperanno leader politici a livello internazionale. L’Italia ci sarà, ha assicurato ieri Gentiloni al ministro degli esteri tunisino. La gratitudine per gli stranieri A rendere percepibile la gratitudine dei tunisini nei confronti degli stranieri che, nonostante il terrorismo, vengono a Tunisi, erano le persone che sostavano sui marciapiedi, uscivano dai negozi o guardavano dai balconi applaudendo e salutando i manifestanti. Il Forum sociale mondiale non poteva scegliere una sede migliore. E l’arrivo di decine di migliaia di partecipanti al Fsm è stata anche un’ottima risposta ai cittadini che hanno lanciato l’hashtag #visit Tunisia esibito su cartelli ieri mattina davanti al museo del Bardo. La pioggia inclemente – dopo giornate primaverili – non aveva dissuaso nemmeno i tunisini che fin dal mattino si erano ritrovati per testimoniare il loro sdegno, la rabbia, ma soprattutto la determinazione a opporsi a chi vuole distruggere la loro rivoluzione. Erano semplici cittadini: molti giovani che hanno approfittato delle vacanze scolastiche, ma anche persone anziane, mamme con i figli. Meriem con in braccio Mohammed, un bambino di un anno, inutilmente cercava di calmare il suo pianto e resisteva sotto la pioggia: «Non posso rinunciare al futuro per mio figlio». Intanto i giovani agitavano la bandiera tunisina e cantavano l’inno nazionale. La pioggia era anche l’occasione per esibire l’ombrello con la scritta «I love Tunisia». La scenografia era perfetta. Menem e Aziza hanno appena quattordici anni, sono studentesse del liceo Pasteur. «Non dobbiamo cedere alla paura, altrimenti avrebbero già vinto i terroristi», mi hanno detto. E Aziza ha aggiunto che i terroristi sono ragazzi ai quali è stato fatto il lavaggio del cervello per costringerli con i soldi a sfruttare le persone che vivono nella miseria. E Ali, padre di Menem, spuntato alle sue spalle ha aggiunto: «Anche se avessimo paura, non dobbiamo assolutamente trasmetterla ai nostri figli». Per l’occasione c’era anche una banda folkloristica e qualcuno aveva addirittura portato dei cammelli. L’obiettivo, oltre che esorcizzare la paura, è anche quello di salvare una delle risorse più importanti del paese: il turismo. E lo è anche per il governo che però ha deciso di rinviare l’apertura del museo. A poter varcare i cancelli del Bardo ieri erano in pochi, autorità e invitati, per noi, come per tutti gli altri accorsi all’appuntamento non resta che aspettare una migliore occasione. Cadono le prime teste Tutta l’area che comprende il museo e l’assemblea nazionale (parlamento) ora è sotto stretto controllo, ma così non era prima, poiché sono cominciate a cadere le teste dei capi dei servizi di sicurezza. Per fortuna i terroristi non hanno fatto in tempo ad azionare la carica di esplosivo che portavano addosso, ha affermato il presidente tunisino Beji Caid Essebsi, perché sono stati colpiti prima. Cominciano anche a circolare voci su possibili ripercussioni dell’attentato sul governo. Non sono mancate critiche al partito islamista Ennahdha che, durante il governo della troika aveva dato ampia copertura alle frange estremiste e al reclutamento di jihadisti da inviare in Siria. Ora Ennahdha ha un ministro nel governo costituito in maggioranza da Nidaa Tounes, partito laico di centro. Il presidente Essebsi nelle interviste dei giorni scorsi ha dichiarato che «il terrorismo non ha una tradizione in Tunisia. La crescita del jihadismo nel 18 paese è avvenuta negli ultimi anni» grazie «al lassismo delle autorità, durante il governo islamista». È la fine della luna di miele tra laici e islamisti, come si chiede il quotidiano Le Temp? Da Vita.it del 24/03/15 Tunisia Forum Sociale Mondiale, si parte Di Giada Frana Insieme al proseguimento della rivoluzione dei diritti e della dignità, per un migliore mondo possibile, a fare da collante per i partecipanti dell’edizione 2015 ci sarà anche la lotta la terrorismo. Per questo in apertura ci sarà una grande manifestazione in ricordo delle vittime del museo Bardo Mancano ormai poche ore alla cerimonia di apertura della 13esime edizione del Forum Sociale Mondiale. La marcia simbolica di apertura sarà dedicata alle vittime dell’attentato del museo del Bardo e a tutte le vittime del mondo che sono cadute per mano del terrorismo. La lotta contro il terrorismo diventa così un ulteriore collante per i partecipanti all’edizione 2015 del Forum Sociale, insieme al proseguimento della rivoluzione dei diritti e della dignità, per un migliore mondo possibile. Fino a sabato, il campus universitario El Manar sarà in pieno fermento culturale. Il programma delle diverse giornate sarà suddiviso in tre momenti: spazio ai dibattiti dalle 8.30 alle 11.00, poi dalle 11.30 alle 14.00, per riprendere nel pomeriggio dalle 15.00 alle 17.30. In ogni momento, i partecipanti avranno l’imbarazzo della scelta nel decidere a quali dibattiti prendere parte: si parlerà di tematiche inerenti a cittadinanza, economia, diritti dell’uomo, tematiche ambientali, immigrazione e giustizia sociale. Inoltre dal 25 al 27 marzo, presso il cinema «Le Colisée» , dalle 19.30 alle 22.30, si svolgerà la cosiddetta “tavola della controversia”, durante la quale, attraverso diverse conferenze, degli specialisti affronteranno tematiche economiche e politiche presentando tesi e antitesi. http://www.vita.it/it/article/2015/03/24/forum-sociale-mondiale-si-parte/131848/ 19 ESTERI del 25/03/15, pag. 18 Boko Haram rapisce centinaia di donne e bambini Scoperto in Nigeria un nuovo sequestro di massa compiuto dagli estremisti. Sabato si vota per le presidenziali PIETRO DEL RE STAVOLTA hanno sequestrato tra le quattro e le cinquecento persone, tutte donne e bambini. E’ questa l’ultima fra le nefandezze degli islamisti Boko Haram venuta alla luce: è stata compiuta nel villaggio di Damasak, nel nord della Nigeria, lo stesso riconquistato pochi giorni fa dalle truppe di Niger e Ciad, dove prima di partire gli islamisti avevano sgozzato e buttato in un pozzo un centinaio di civili. Souleymane Ali, testimone del rapimento di massa, ha detto alla Reuters: «Hanno sequestrato 506 persone tra bambini e giovani donne. Ne hanno uccise una cinquantina prima di andarsene. Non sappiamo se hanno anche ammazzato altre persone dopo aver lasciato la città». Lo scorso aprile, nel vicino villaggio di Chibok, la setta aveva assaltato una scuola e rapito trecento liceali, di cui da allora si è persa ogni traccia, anche se è verosimile che le ragazze se le siano spartite come bottino di guerra le soldataglie islamiste. Damasak era stata riconquistata all’inizio di marzo durante l’offensiva in grande stile condotta dalle forze congiunte di Niger, Ciad, Camerun e Nigeria. Le perdite nei combattimenti erano state pesanti: circa 200 miliziani uccisi e almeno dieci morti e 20 feriti fra le truppe ciadiane. Il maxi sequestro venuto alla luce ieri è solo l’ultima barbarie firmata dai jihadisti che in quella regione vorrebbero creare un Califfato e che con i loro ripetuti attacchi hanno costretto il governo di posticipare le elezioni del più popoloso Paese d’Africa a sabato prossimo. Due giorni fa, il presidente Goodluck Jonathan ha dichiarato che basterà un mese per sconfiggere definitivamente Boko Haram. Ma molti temono che quella del presidente nigeriano sia solo una promessa elettorale scarsamente credibile. Dopo i 13mila morti provocati negli ultimi 6 anni dalla jihad, la questione della sicurezza è fondamentale per una parte dei 68,8 milioni di elettori nigeriani, in particolare per quanti vivono nel nord del Paese a maggioranza musulmana, chiamati sabato prossimo a eleggere il nuovo presidente e il nuovo parlamento. Se il corrotto esercito nigeriano, sostenuto dalle truppe dei Paesi vicini, ha registrato diversi successi contro gli islamisti nelle ultime settimane, nessuno ha dimenticato la colpevole inerzia di Jonathan durante il resto del suo mandato. Il suo principale sfidante, l’ex generale Muhammadu Buhari, ricordato per il pugno di ferro con cui guidò una giunta militare a metà degli anni Ottanta, ha promesso, in caso di vittoria ai seggi, di fare della lotta a Boko Haram una delle sue priorità. 20 del 25/03/15, pag. 18 Libia, presidenza a tre e spazio a tutte le fazioni Ecco il piano dell’Onu per salvare il paese dalla crisi ROMA . Il mediatore dell’Onu Bernardino Leon fa ancora un passo in avanti, e rivela le sue idee su come dovrebbe essere formato il nuovo governo di unità nazionale in Libia. Ma nel frattempo dappertutto nel paese continuano gli scontri militari e gli attentati. Ieri sono state mostrate in tv le immagini del Mig-23 delle forze aeree di “Alba della Libia”, la coalizione che controlla Tripoli, abbattuto dai miliziani legati al governo di Tobruk. A Bengasi invece è stata una giornata di battaglia: due attentatori kamikaze dell’Islamic State si sono fatti esplodere contro un posto di blocco dell’esercito del generale postgheddafiano Khalifa Haftar, uccidendo sette soldati. I kamikaze dovevano vendicare l’uccisione di un leader jihadista, Bouka Al Arabi, ucciso dagli uomini di Haftar. In molti quartieri della città si è combattuto pesantemente, un razzo sparato contro un palazzo ha ucciso molti civili, fra cui una ragazza di 17 anni. Ma veniamo al piano politico preparato da Leon: il mediatore Onu ha deciso di accelerare al massimo per contrastare la fazione di Tobruk guidata dal generale postgheddafiano Haftar che vuol far saltare i negoziati. L’altra sera Leon, reduce dagli incontri di Bruxelles, è volato prima a Tobruk e poi a Tripoli. A Tobruk il presidente del parlamento Saleh non ha voluto neppure riceverlo, lo ha costretto ad incontrare il ministro degli Esteri all’aeroporto. Ma Leon ha reagito rendendo pubbliche le linee-guida, le idee raccolte dalle parti libiche durante il negoziato. La prima scelta è quella di confermare sostanzialmente il parlamento di Tobruk uscito dalle elezioni del giugno 2014, come camera sui cui fondare la ripresa politica. Per Leon sarà «l’organo legislativo di tutti i libici, con piena applicazione dei principi di legittimità e inclusione». Il governo di unità nazionale sarà formato da un presidente e da due vice-premier che formeranno un “Consiglio di Presidenza” «non affiliato a nessun gruppo e accettabile da tutte le parti e da tutti i libici». Questa dirigenza “collettiva” della presidenza del governo dovrebbe coinvolgere le parti in un organismo che a sua volta guiderà il governo. Leon ha accettato anche l’idea di creare un Consiglio di Stato ispirato ad istituzioni che esistono in altre democrazie. Non è chiaro quale sarà il ruolo preciso di questo nuovo organismo, ma è intuibile che sia necessario per assorbire la rappresentanza del Parlamento di Tripoli, che nel nuovo assetto verrebbe cancellato. L’Onu conferma poi l’Assemblea costituente che deve redigere la nuova costituzione e che in effetti è già al lavoro a Beida. (v. n.) del 25/03/15, pag. 3 Popolo Sahrawi, il governo si ritirerà dalla missione Onu Francesco Martone 21 Italia. Nel decreto «missioni all'estero» allarmanti misure anti-terrorismo «The devil is in the detail», il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Viene da pensarlo leggendo l’ultimo decreto sulle missioni militari all’estero e lotta al terrorismo in discussione alla Camera, che nasconde sviluppi gravi per procedure e merito. E il burocratese della relazione introduttiva svela un dettaglio allarmante. Di fatto il governo italiano disconoscerebbe il ruolo dell’Onu nella gestione del conflitto nel Sahara Occidentale annunciando l’intenzione di ritirare a breve quel pugno di carabinieri da anni integrati nella missione Minurso. Con un colpo di spugna suppostamente ispirato a imperativi di bilancio si gettano dalla finestra il popolo Sahrawi con le sue legittime rivendicazioni di riconoscimento, il referendum e un ruolo centrale dell’Onu. Proprio quando dal Polisario e non solo veniva chiesta a gran voce l’estensione del mandato della Minurso (un campo, nella foto di Gilberto Mastromatteo) per monitorare le violazioni dei diritti umani Ancora, il capitolo di bilancio del decreto prevede una spesa di poco più di 130 milioni di euro per la lotta a «Daesh» cifra ben superiore alle necessità di copertura per la missione nel Kurdistan iracheno. Una sorta di argent de poche, magari per irrobustire la già forte presenza di navi e commandos italiani al largo della Libia? Altro che lotta al terrorismo o corridoi umanitari, quelle navi sono lì per proteggere i terminali dell’Eni, pronte ad essere inserite nel quadro di Active Endavour l’operazione Nato di pattugliamento dei mari lanciata dopo l’11 settembre e ancora presente nel Mediterraneo per la quale ci sono soldi anche in questo decreto missioni. Che fin dal governo Prodi, è stato considerato un decreto «omnibus» per diplomatici in cerca di guarentigie, cooperazione internazionale, Comites, funzionari della difesa ansiosi di smaltire eccedenze di armi, ecc. Oggi il quadro si evolve ed il decreto viene dedicato alla lotta al terrorismo, con articoli che introducono norme antiterrorismo, definiscono chi è terrorista e chi no, la portata delle pratiche di monitoraggio e controllo della rete, le attività dei servizi di sicurezza; sulle orme di provvedimenti di altri paesi Ue, accolti con grande preoccupazione dalle organizzazioni per i diritti umani. Ce n’è uno che colpisce, riguarda la possibilità «per le Agenzie di intelligence, consentendo loro, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di effettuare, fino al 31 gennaio 2016, colloqui con soggetti detenuti o internati, al fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale;». E quali controlli verrebbero messi in atto per evitare che tali «colloqui» degenerino? Né c’è alcun riferimento all’obbligo di assicurare il rispetto degli articoli 10 ed 11 della Convenzione Onu contro i trattamenti inumani e degradanti (la tortura), né il Parlamento viene informato sui protocolli che verrebbero seguiti i «colloqui». Per un paese che da anni dibatte ma non adotta una legge contro la tortura le garanzie dovrebbero essere d’obbligo. E qui si apre l’altro piccolo grande dettaglio Giacché si dovrebbe immaginare che questioni relative ai diritti ed alla politica estera del paese vedano un ruolo centrale delle commissioni competenti, ossia la Commissione Affari Costituzionali e la Commissione Esteri. Così non è, anzi le due Commissioni vengono solo chiamate a dare un parere. Chi vota invece e decide stavolta sono la Commissione Giustizia e la Commissione Difesa, significando così due cose: che nella lotta al terrorismo si può fare a meno delle garanzie costituzionali; e che la politica estera ormai plasmata all’imperativo della lotta al terrorismo, è questione per i militari non per i diplomatici. Dicevamo un cambio di passo notevole. Infine, se il diavolo è nei dettagli, che diavolo significa quel dono al governo eritreo, di materiale ferroviario dell’Aeronautica Militare? E a chi andranno i razzi «regalati» al governo iracheno? Non certo ai Peshmerga, come fu il caso delle armi allora stoccate a La Maddalena e sequestrate ad un mercante di armi anni or sono. Già perché queste armi sono parte dell’impegno italiano contro Isis decretato sotto il sole d’agosto quando lo scorso anno le Commissioni vennero chiamate a deliberare rischiando una seria gaffe 22 diplomatica giacché negli stessi minuti in cui le Camere si riunivano Matteo Renzi era a Baghdad per concordare i dettagli con il governo iracheno. Altro che «dettaglio». del 25/03/15, pag. 3 Netanyahu spia Obama Michele Giorgio GERUSALEMME Israele/Stati Uniti. Il Wall Street Journal rivela che il premier israeliano avrebbe fatto arrivare informazioni ai parlamentari Usa sui negoziati in corso con Tehran per aizzare il Congresso contro il presidente Usa, favorevole a un accordo sul nucleare iraniano. Tel Aviv nega con forza. Il governo israeliano nega, smentisce con forza le rivelazioni pubblicate ieri dal Wall Street Journal sulle sue presunte operazioni di spionaggio dei negoziati in corso sul programma nucleare iraniano, fatte a danno della linea del dialogo con Tehran portata avanti dalla Casa Bianca. Giorno dopo giorno lo scontro tra Barack Obama e Benyamin Netanyahu emerge in tutta la sua complessità. E pare destinato destinato ad aggravarsi, ma senza mettere in alcun modo a rischio gli stretti rapporti strategici e di sicurezza esistenti tra Washington e Tel Aviv. «L’ostilità tra Netanyahu e Obama non ha precedenti nelle relazioni tra i due Paesi», notava ieri Arutz 7, l’agenzia di informazione della destra israeliana, puntando nel suo report l’indice contro il presidente Usa. Obama ha non pochi motivi per essere infuriato. Alti funzionari della Casa Bianca hanno riferito al Wsj che l’anno scorso Israele ha spiato i negoziati in corso tra Tehran, gli Stati Uniti e gli altri Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania. Un’operazione che, secondo il giornale, rientrava in una campagna del premier israeliano per ostacolare la possibile firma di un accordo e realizzata passando le informazioni segrete a parlamentari americani. Il fine sarebbe stato quello di aizzare contro Obama il Congresso, ora nelle mani dei Repubblicani stretti alleati di Israele. E proprio a deputati e senatori statunitensi Netanyahu ha parlato tre settimane fa denunciando la politica del presidente e l’intesa con l’Iran in dirittura di arrivo. «Una cosa è lo spionaggio reciproco (tra gli Usa e Israele), un’altra è il furto di segreti per poi passarli ai parlamentari Usa per minare la diplomazia americana», ha detto uno degli anonimi funzionari al Wsj, giornale che, peraltro, è vicino a Israele e di solito schierato contro le politiche di Obama. La Casa Bianca ha scoperto l’operazione quando le agenzie di intelligence americane hanno intercettato comunicazioni tra funzionari israeliani con dettagli che, secondo gli Usa, potevano provenire solo dai colloqui riservati. Da parte loro gli israeliani hanno negato di avere spiato direttamente i negoziatori americani, spiegando di avere ricevuto le informazioni attraverso altri canali, come la sorveglianza dei negoziatori iraniani. Sdegnata la reazione del ministro degli esteri israeliano Lieberman. «Noi – ha detto — non spiamo gli Stati Uniti, né direttamente, né per vie traverse…Quelle informazioni non sono giuste. Con gli Stati Uniti manteniamo un atteggiamento di completa trasparenza». Il ministro della difesa Moshe Yaalon da parte sua ha sottolineato che Israele «non ha ricevuto alcun richiamo formale da parte degli Usa su presunte operazioni di spionaggio a danno di esponenti americani». Netanyahu non ha commentato le rivelazioni del Wsj ma il suo ufficio ha avvertito che quelle informazioni sarebbero state diffuse nell’intento di danneggiare le relazioni fra Israele e Stati Uniti. Dalle nuvole è caduto John Boehner, speaker del Camera dei Rappresentanti e principale alleato di 23 Netanyahu ai vertici delle istituzioni statunitensi. «Sono sbalordito perchè non mi è mai stata rivelata alcuna informazione segreta (sui negoziati con l’Iran)», ha affermato Boehner che il 31 marzo sarà a Gerusalemme, “casualmente” nell’ultimo giorno utile per il raggiungimento dell’accordo con Tehran. Quel giorno assieme Netanyahu potrebbe lanciare un nuovo pesante attacco alla politica di Obama. La vicenda, secondo alcuni, spiegherebbe la determinazione con la quale due giorni fa il capo dello staff di Obama, Denis McDonough, ha attaccato Netanyahu durante il suo intervento alla conferenza annuale dell’associazione ebraico americana J Street. La Casa Bianca, ha detto McDonough, insiste sulla nascita di uno Stato palestinese e, quindi, sulla soluzione dei “due Stati per due popoli” e ha affermato che l’amministrazione Usa continua a considerare inquietanti le dichiarazioni fatte da Netanyahu in campagna elettorale con le quali ha categoricamente escluso la creazione dello Stato di Palestina per poi fare una parziale retromarcia subito dopo il voto del 17 marzo. del 25/03/15, pag. 3 Afghanistan, altro che ritiro: 10mila marine restano nel 2015 Giuliano Battiston Usa. Ieri l'annuncio del presidente degli Stati Uniti nella conferenza stampa con Ashraf Ghani, da alcuni giorni in visita negli Stati Uniti Obama ci ha ripensato. «Circa diecimila soldati americani rimarranno in Afghanistan per tutto il 2015». È quanto annunciato ieri dal presidente degli Stati Uniti nella conferenza stampa alla Casa Bianca con l’omologo afghano, Ashraf Ghani da alcuni giorni negli Stati Uniti per la sua prima visita da quando si è insediato, il 29 settembre scorso. Ad accompagnarlo c’è il quasi «premier» Abdullah Abdullah, con cui condivide la leadership di un governo di unità nazionale. Nei giorni scorsi i due hanno incontrato i più alti esponenti dell’amministrazione Obama: il segretario di Stato John Kerry, il segretario alla Difesa Ashton Carter, il segretario al Tesoro, il capo della Cia, i funzionari del Dipartimento di Stato. In primo luogo per battere cassa. E Carter ha promesso infatti che chiederà al Congresso i soldi necessari per mantenere i 350.000 membri delle forze di sicurezza afghane fino al 2017. Ma gli incontri servono anche a ristabilire e mostrare pubblicamente un clima di reciproca fiducia. Sin dal primo giorno dal suo insediamento, Ghani ha cercato di rimediare agli strappi del suo predecessore, Hamid Karzai, che ha chiuso la presidenza sparando a zero sull’alleato americano. Non a caso, uno dei primi atti di Ghani è stata la firma del trattato bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, la cornice giuridica da cui dipende la presenza delle truppe americane in Afghanistan. E proprio di truppe si è parlato ieri, nell’incontro che Obama ha avuto alla Casa bianca con Ghani e Abdullah. Nella successiva conferenza stampa, è arrivata la comunicazione ufficiale del ripensamento di Obama. «Circa 10.000 soldati rimarranno per tutto il 2015». Un bel cambio di marcia, rispetto a quanto annunciato nel celebre discorso del 27 maggio 2014, quando il presidente Usa aveva dato tempi e numeri precisi del ritiro: 9.800 truppe americane alla fine del 2014, ridotte a 5.000 entro la fine del 2015, per arrivare a una presenza minima, per tutelare l’ambasciata, alla fine del 2016. In meno di un anno, la decisione di raddoppiare il numero dei soldi a stelle e strisce per il 2015. La notizia non sorprende del tutto. Da settimane infatti il presidente afghano rilascia interviste in cui 24 chiede maggiore «flessibilità» nel ritiro degli americani: un modo per far apparire il cambio di marcia di Obama come un benevolo cedimento alle richieste degli afghani. La verità è che gli Stati Uniti hanno paura: sanno che l’Afghanistan è ancora un paese in guerra, e che le timide aperture dei Talebani nei colloqui di pace non sono soltanto molto lontane dal garantire un cessate il fuoco, ma potrebbero rivelarsi perfino controproducenti. Quanto più i Talebani si mostrano inclini al dialogo con il governo di Kabul, tante più probabili sono le spaccature interne alla variegata galassia dei barbuti. E mentre Ghani enfatizza il pericolo dello Stato islamico in Afghanistan, gli studenti coranici continuano a colpire: ieri sono state uccise 13 persone che viaggiavano su un bus, nella provincia di Wardak. Del 25/03/2015, pag. 21 Truppe saudite schierate al confine con lo Yemen Pronta l’azione militare RIAD Crisi in Yemen, si muove l’Arabia. Truppe saudite, con mezzi pesanti, si stanno ammassando lungo il confine. Si accelerano così i tempi dell’intervento di una coalizione di «Paesi volenterosi» sunniti del Golfo. Il «significativo» contingente di truppe, blindati, e artiglieria da impiegare sia in chiave difensiva che offensiva. Potrebbero essere pronti anche attacchi aerei, secondo una fonte del governo americano. Ma sempre da Washington si registrano anche perplessità sull’efficacia di un intervento esterno. Ieri il presidente sunnita dello Yemen, Abd Rabbu Mansour Hadi, aveva chiesto in una lettera inviata al Consiglio di Sicurezza Onu di approvare una risoluzione che autorizzi l’immediato intervento armato di «Paesi volenterosi» per fermare l’avanzata a sud (su Aden dove è rifugiato) delle milizie sciite Houthi che dallo scorso settembre controllano la capitale Sana’a. Intanto si sono registrate altre vittime nel Paese del Golfo. Almeno sei persone sono state uccise in Yemen quando miliziani sciiti Huthi hanno aperto il fuoco contro manifestanti ostili alla loro avanzata verso il sud del Paese, riferisce Al Jazeera . Gli incidenti sono avvenuti a Torba, nella provincia di Taiz, gran parte della quale, compreso l’aeroporto, è stata conquistata domenica scorsa dagli Huthi. Anche nel capoluogo Taiz, 200 chilometri a sud della capitale Sana’a, vi sono state manifestazioni e scontri, con un bilancio di decine di feriti, riportano fonti mediche. Altri 12 morti negli scontri tra i ribelli sciiti e sunniti a sud di Mareb e 20 vittime ad al Baydha dopo un attacco delle tribù sunnite contro i ribelli dell’imam Abdel Malik al Huthi. L’offensiva più violenta riguarda però proprio la zona di Mareb, che i ribelli sciiti intendono conquistare per controllare i pozzi petroliferi presenti nell’area. Gli Huthi, sostenuti dall’Iran, sono scesi lo scorso anno dalla loro regione originaria nel Nord del Paese e hanno conquistato in settembre Sana’a. Da qui hanno continuato ad avanzare verso Aden, nel Sud del Paese, dove ha trovato rifugio il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, Abed Rabbo Mansur Hadi. 25 Del 25/03/2015, pag. 17 Qatar, nuovi schiavi in nome del Dio pallone FRANCIA, LA ONG SHERPA DENUNCIA LA FILIALE DEL GRUPPO VINCI PER “RIDUZIONE IN SCHIAVITÙ”: GLI OPERAI LAVORANO 66 ORE A SETTIMANA PER 176 EURO AL MESE Anshu testimonia con un finto nome perché teme di finire in prigione. Ha 40 anni, è indiano e lavora come operaio per la QDVC, la filiale in Qatar del gruppo Vinci, gigante francese delle costruzioni, sul cantiere della metropolitana di Lusail City, la nuova città che si costruendo da zero, con 38 miliardi di euro a una quindicina di chilometri da Doha. Anshu è uno dei nuovi schiavi che tirano su gli stadi e le altre faraoniche infrastrutture che ospiteranno nel 2022 i Mondiali di calcio. Si sveglia alle 4 del mattino e lavora 66 ore a settimana in condizioni estenuanti per 2000 riyal, circa 500 euro del mese. Ma lui è un operaio specializzato. I non specializzati ricevono se va bene 700 riyal, 176 euro. I documenti gli sono stati confiscati: “Impossibile rompere il contratto, lasciare il paese o cambiare attività senza il permesso del datore di lavoro. Siamo senza passaporto e senza libertà”. Quella di Anshu è una delle tante storie di sfruttamento nel ricchissimo emirato del Golfo. Come lui sono circa 1, 2 milioni di operai poveri (l’ 80 % degli abitanti) che arrivano da India, Nepal, Bangladesh e finiscono col vivere in baraccopoli per poi andarsi ad ammazzare sui cantieri della Coppa del mondo. Tanti muoiono di stenti. I 50 gradi all’ombra che ci sono in estate hanno già ucciso molti operai (mentre la Fifa ha rinviato la competizione sportiva all’inverno per evitare il caldo torrido a pubblico e calciatori). Le condizioni disumane di lavoro sono state già denunciate da Amnesty International o Human Right Watch. Ora l’organizzazione non governativa francese Sherpa ha denunciato Vinci per “lavoro forzato” e “riduzione in schiavitù”. “È LA PRIMA VOLTA che viene sporta una denuncia di questo tipo contro una multinazionale”, ha detto a Le Parisien la direttrice dell’associazione Laetitia Liebert. Un’inchiesta è stata aperta a Nanterre. Per la Sherpa è solo l’inizio: “Il gruppo ha ottenuto diversi milioni di contratti, e impiega migliaia di persone direttamente o tramite società in subappalto. Questa prima azione – ha aggiunto Libert – deve aprire una breccia verso la fine della violazione dei diritti umani da parte delle multinazionali in Qatar”. Nel dicembre scorso l’Unione delle confederazioni sindacali e 90 associazioni per la difesa dei diritti umani avevano già contato 1200 decessi. “Facciamo sforzi permanenti per migliorare la sorte dei lavoratori migranti”, hanno riferito dall’ambasciata del Qatar in Francia. Si promettono più ispezioni nei cantieri. Si starebbero riformando le condizioni di vita e di lavoro, a partire dal versamento degli stipendi via bonifico bancario fino ad un allentamento della “kafala” (“sponsorizzazione”), il sistema che appunto toglie al lavoratore ogni libertà di movimento. Il direttore della QDVC, Yanick Garillon, non vuole sentire parlare né di lavori forzati né di schiavitù: “Non abbiamo avuto un solo incidente mortale negli ultimi quattro anni”, ha detto. Vinci, che impiega 3500 persone in Qatar, ha annunciato che sporgerà una contro denuncia contro la Sherpa per diffamazione: “A più riprese abbiamo aperto i nostri cantieri a ong e giornalisti – si legge in una nota – e hanno potuto constatare che facciamo del nostro meglio per rispettare il diritto locale del lavoro e i diritti fondamentali”. 26 del 25/03/15, pag. 13 Prove tecniche di Guerra Fredda È il Nord il nuovo fronte di Putin Scandinavia e Paesi baltici alzano le difese. La Nato: Mosca potrebbe tentare l’attacco Oltre 100 violazioni degli spazi aerei internazionali dall’inizio della crisi ucraina Monica Perosino «Quando il numero e la frequenza degli incidenti è di questa entità non si può più parlare di caso, ma di schema». L’ultimo «incidente» è di ieri mattina: 4 caccia russi hanno sorvolato il Mar Baltico, nello spazio aereo internazionale, volando con il transponder spento. Lo hanno annunciato fonti militari svedesi: «I velivoli erano due bombardieri Tu-22M e due caccia Su-27». È il 101esimo «incidente» in un anno, dal 18 marzo 2014, data dell’annessione della Crimea alla Russia. Tutti si sono concentrati in un’area specifica compresa tra i Paesi baltici e la Scandinavia. Di questi, 13 sono stati classificati come «gravi» e «a rischio escalation», 3 ad «altissimo rischio». Solo domenica scorsa un sottomarino russo si sarebbe impigliato in una rete di un peschereccio scozzese nel mare del Nord. Lo «schema» di Putin Mosca preme ai confini Nato, ammassa truppe, organizza esercitazioni, simula bombardamenti sulle navi del patto Atlantico (senza autorizzazione, né preavviso), viola costantemente gli spazi aerei e marittimi internazionali: «A questo punto – ha detto il generale Adrian Bradshaw, comandante Nato in Europa - Vladimir Putin potrebbe tentare di invadere e impadronirsi di un territorio della Nato». La risposta europea I primi ad alzare la guardia sono stati i Paesi baltici: la Lituania ha reintrodotto la leva obbligatoria, in Estonia sono cresciute le adesioni alle unità paramilitari, mentre i Paesi Scandinavi stanno militarizzando le aree «cuscinetto» più a rischio. La Svezia ha stretto nuove alleanze militari con Danimarca e Finlandia, ha varato un programma di riarmo da 700 miliardi di dollari, e ha inviato truppe (era dai tempi della Guerra Fredda che non succedeva) a presidiare la pittoresca isola di Gotland, nel Mar Baltico, vicino all’enclave russa di Kaliningrad. La Norvegia ha appena messo in piedi «Joint Viking», la più imponente esercitazione militare dai tempi dal 1967: cinquemila unità militari presidiano la regione del Finnmark «per accumulare esperienza di reazione immediata sul territorio spiega il generale Morten Haga Lunde - in operazioni congiunte tra marina, aviazione ed esercito». I comunicati ufficiali sostengono che l’esercitazione è stata decisa prima della crisi ucraina, ma «l’attuale situazione in Europa - aggiunge Lunde - mostra che la nostra presenza militare è più necessaria che mai». E mentre Oslo riapre anche la base di difesa aerea di Magero, la Russia non sta con le mani in mano e risponde alla Norvegia con una manovra che impegna 45.000 soldati - sottomarini e caccia compresi - in un’esercitazione che coinvolge gran parte del Paese. Anche in questo caso «la più massiccia operazione dalla Guerra Fredda». Il fronte diplomatico Secondo il rapporto annuale dell’intelligence svedese, la minaccia più grande contro il Paese viene dalla Russia: «Mosca sta raccogliendo in modo illegale informazioni sulla difesa, la tecnologia militare e i nostri rifugiati politici. I servizi russi hanno tentato di sottrarre materiale militare e di reclutare agenti sul territorio». 27 Dopo la crisi diplomatica che ha coinvolto la Danimarca - sabato l’ambasciatore russo a Copenhagen ha «avvertito» che le navi danesi diventerebbero obiettivo nucleare russo se il Paese si unisse allo scudo anti missile Nato - ora tocca alla Finlandia tremare: l’ex capo dell’intelligence russa Nikolai Patrushev è convinto che i nazionalisti finlandesi stiano per infiltrarsi nella repubblica di Carelia e che la Finlandia stia diventando sempre più revanscista e anti-russa. Patrushev ha esortato Mosca a «prepararsi a tutelare i propri interessi nazionali». A molti, l’analogia con la Crimea, non è sfuggita. del 25/03/15, pag. 7 Perché è tedesca la corruzione greca Pavlos Nerantzis ATENE Grecia. Un fiume di tangenti è passato da aziende della Germania a ex ministri e parlamentari di Nea Dimokratia e Pasok e a pubblici amministratori La corruzione — ovvero le bustarelle a politici, dirigenti pubblici e liberi professionisti — è considerata una delle cause della crisi greca. Ed è vero che spesso un nuovo scandalo terremoti il mondo politico e imprenditoriale. Una festa di milioni di euro, tutto denaro sporco che è stato intascato da gente corrotta, aggravando il bilancio dello Stato ellenico. Pochi finora gli incriminati, — l’immunità parlamentare tuttora in vigore è di per sé uno scandalo — ancora meno quelli che negli ultimi anni sono finiti in galera. Tra di loro l’ex ministro della difesa Akis Tsochatzopoulos, braccio destro di Andreas Papandreou e l’ex sindaco di Salonicco, Vassilis Papageorgopoulos, ex ministro di Nea Dimokratia. Ambedue le parti coinvolte, multinazionali europee e politici greci, corruttori e corrotti hanno agito in nome della difesa del Paese e di uno sviluppo mai giunto. Armamenti, autostrade, ponti, aeroporti, metro, telecomunicazioni, ospedali sono i «campi d’azione» dove le tangenti sono all’ordine del giorno e i protagonisti sono, oltre ai politici greci, di solito aziende multinazionali — quasi sempre — tedesche. Siemens, Deutsche Telecom, Krauss-Maffei Wegmann (Kmw), Mercedes, Bmw, ma anche Lidl, Praktiker, ecc. sono alcune delle 120 imprese di interesse tedesco, presenti in terra ellenica Grecia. A 7,9 miliardi di euro risalivano le importazioni dalla Germania nel 2008; a 4,7 miliardi sono calate nel 2012 a causa non soltanto della crisi del bilancio, ma anche di una preferenza ai prodotti di casa da parte dei consumatori greci. Investimenti e evasioni fiscali La questione delle tangenti, nel caso che vengano coinvolte aziende germaniche, raramente arriva ai vertici politici. Non ne parlano nemmeno i quotidiani tedeschi, per loro è tutta colpa dei «greci pigri e propensi alla corruzione». E se magari come sempre accade in uno scandalo viene coinvolto un funzionario tedesco, allora non è questione di bustarelle ma di «cattiva amministrazione». Ad Atene, invece, la gente e i media locali ne parlano di corruzione in questi giorni, non soltanto in occasione della visita di Alexis Tsipras a Berlino, o del debito greco, ma anche perché due aziende automobilistiche, la Mercedes e la Bmw hanno evaso alcuni milioni di euro di tasse. Secondo gli ispettori di fisco della Sdoe ad Atene, a causa di fatture false presentate dalle due societá tedesche – i prezzi di fabbrica erano ridotti del 200% — lo stato greco ha perso 10 milioni di euro. «In altri termini, un’auto Bmw che in Italia veniva sdoganata a 22 mila euro, in Grecia “passava” per 8 mila euro» scrive il settimanale 28 Agorá, che ha rivelato lo scandalo. Inoltre, proprio nell’ambito delle riforme richieste dai creditori internazionali, dopo un incontro tra Claudia Nemat, responsabile della Deutsche Telecom (Dt) per l’Europa e i ministri delle finanze Yanis Varoufakis e del tesoro Yorgos Stathakis, è stato reso noto che la Dt é pronta a investire almeno 1,2 miliardi di euro nei prossimi quattro anni per la modernizzazione della rete delle telecomunicazioni dell’Ote (Ente delle telecomunicazioni di Grecia). I greci ne parlano perché si ricordano della «Siemens corrotta» e perché sono stanchi di essere sempre considerati il capro espiatorio degli affari oscuri di grandi società. Negli ultimi anni, infatti, grazie alle richieste di alcuni magistrati di Atene, è stato dimostrato che c’è stato un fiume di denaro sporco passato da aziende tedesche ai conti correnti oppure a società off-shore o ancora nelle mani di alcuni ex ministri, parlamentari della Nea Dimokratia e del Pasok, di alti dirigenti della pubblica amministrazione e funzionari privati. L’alibi, per tutti, è stato la crescita economica del Paese, ma dietro le quinte invece si lavorava contro il cosiddetto sviluppo (mancato) e a favore dell’arricchimento illecito personale e aziendale. Le mille vie della Siemens In cima alla lista delle «società corotte», la multinazionale Siemens. In Grecia il suo nome é strettamente collegato ai sistemi di sicurezza per l’Olimpiade di Atene del 2004, che sono costati tre volte di piú rispetto al preventivo. La società era nota fin dagli anni ‘90, quando aveva vinto il concorso per la digitalizzazione della rete telefonica ellenica e la modernizzazione dei sistemi di comunicazione dell’esercito greco (progetto Ermes). Nel 2011, nel momento in cui la Grecia stava entrando nella strettoia del memorandum il governo di Yorgos Papandreou, dopo un’inchiesta parlamentare, ha chiesto alla Siemens 2 miliardi di euro come «indenizzo per gli scandali di corruzione e per i danni provocati dall’azienda tedesca». Siemens, che aveva già versato oltre ai 600 milioni alle autoritá tedesche, altri 800 milioni alle autorità americane e 100 milioni a ong anti-corruzione, ha definito «ridicola e esagerata» la richiesta greca. Questo però non ha impedito alla Siemens di cercare nuove vie di collaborazione con Atene. Anche perché nel frattempo si è «autopurificata», cambiando amministrazione. Non più bustarelle ai politici e alti dirigenti che poi avrebbero appoggiato le proposte tedesche alle commissioni, ma soltanto progetti che «mirano alla creazione di nuovi posti di lavoro. Il nuovo accordo dovrebbe dimostrare che la Grecia é un partner affidabile, in cui gli investimenti non si disperdono piú per vie traverse». Almeno cosi scriveva la Suddeutsche Zeitung quando ai primi mesi del 2012 il governo pro-memorandum di Lukas Papadimou (coalizione tra socialisti, conservatori e ultranazionalisti di Laos) stava discutendo il lancio di nuovi progetti della Siemens in territorio ellenico pari a 90 milioni di euro. La Grecia secondo i tedeschi era ancora debitrice alla Siemens di 150 milioni di euro (dei quali 70 milioni per lavori realizzati per l’Olimpiade di Atene), ma poteva risparmiare gli 80 milioni se il governo greco promuoveva nuovi accordi con la azienda. Uno sconto, insomma, un hair-cut di un debito il quale a suo tempo con il consenso di alcuni funzionari greci corrotti era stato «sovrafatturato». Il caso Christoforakos Ovviamente nessuna parola da parte della multinazionale tedesca per i 100 milioni di euro – a questa cifra, secondo gli inquirenti tedeschi, ammonta il denaro scomparso — offerti dai suoi ex dirigenti ai politici e funzionari greci. Intanto e nonostante gli indizi per un numero grande di politici corotti, soltanto due finora sono stati incriminati: nel 2008 Teodoros Tsoukatos, braccio destro dell’ex premier Kostas Somitis e nel 2010 l’ex ministro socialista Tassos Mantelis. Ambedue hanno sostenuto che il denaro sporco (1 milione di marchi e altri 500 mila di marchi) intascato dalla Siemens erano finiti alle casse del Pasok. Invece, Michalis Christoforakos, responsabile della 29 Siemens in Grecia, l’uomo che distribuiva le bustarelle ad Atene, è fuggito a Monaco, mentre la giustizia tedesca insiste a non soddisfare la richiesta dei magistrati greci per la sua estradizione. Di fatto dopo nove anni di indagini da parte dei magistrati di Atene il caso Siemens made in Greece è ancora aperto. Nel novembre scorso nel momento in cui la troika chiedeva ulteriori misure di austerity per coprire i buchi neri delle finanze greche, è stato chiesto il rinvio a giudizio per ben 55 persone, di cui 19 dirigenti tedeschi della Siemens, accusati di corruzione e riciclaggio di denaro sporco. Il danno che avevano prodotto all’azienda greca di telecomunicazioni Ote risale a 70 milioni di euro. I governanti riescono quasi sempre a farla franca; i governati vengono chiamati a pagare i danni delle loro malefatte. L’affare sporco degli armamenti Il campo degli armamenti è sicuramente il più amato dalle società tedesche e visto che la Grecia tra i paesi europei da decenni tiene il primato delle spese militari, le tangenti sono sempre all’ordine del giorno. Sotto i riflettori quattro sottomarini ordinati nel 2000 dal ministero della difesa greco alla Marine Industrial Enterprises S.A., succursale della società germanica Ferrostaal. Nel gennaio del 2014 sono stati arrestati due dipendenti pubblici, Sotiris Emmanouel e Yannis Beltsios, collaboratore dell’ex ministro Tsochatzopoulos, accusati di corruzione e di riciclaggio di denaro sporco (hanno intascato 24 milioni di euro dalla Hdv e la Ferrostaal). A dicembre del 2013, intanto, era stato incarcerato un altro dirigente del ministero della difesa greco. Antonis Kantas aveva ricevuto 1,7 milioni di euro come tangenti per promuovere l’acquisto di 170 carri armati Leopard. Anche stavolta il corruttore é una società tedesca: la Krauss-Maffei Wegmann. Che ci sia proprio una festa di bustarelle nel settore della difesa militare lo ha rinconfermato il leader del partito nazionalista Anel (Greci indipendenti) e partner di governo, Panos Kammenos, attuale ministro della difesa, che si è dichiarato pronto ad aprire indagini fino in fondo. del 25/03/15, pag. 7 Incidenti, scioperi e utili giù Soffre il modello Lufthansa Piloti sul piede di guerra e una sciagura evitata a novembre E ieri i piloti di Germanwings hanno bloccato trenta voli Luigi Grassia Lufthansa è uno dei simboli dell’efficienza della Germania. Però la compagnia aerea subisce un’erosione degli utili, è stata funestata nel 2014 e nel 2015 da scioperi che mal si conciliano con la sua immagine, e adesso arriva quest’incidente a Germanwings. Forte spia di disagio è che ieri almeno 30 voli di Germanwings sono stati cancellati perché dopo la tragedia i piloti si sono rifiutati di salire a bordo. La compagnia low cost ha 85 aerei, quasi tutti Airbus 319 e 320. Si tratta di jet mediamente giovani, ma qui ha messo lo zampino la sfortuna: quello precipitato in Provenza era un A-320 vecchio, visto che portava il numero 147 in una famiglia di velivoli che dal 1988 ha raccolto 7.597 ordini. L’anzianità non vuol dire che quell’A-320 fosse pericoloso: un jet decolla sempre al massimo dell’efficienza, a prescindere dall’età. Semplicemente, se è più vecchio richiede una manutenzione più lunga e più costosa. Cosa che, peraltro, è in contraddizione con la filosofia low cost. E ieri sera correva voce che l’aereo il giorno prima avesse manifestato problemi tecnici. 30 Per farsi un quadro completo c’è da mettere nel conto anche l’altra tragedia sfiorata da un Airbus, un A-321 (derivato dall’A-320) non di Germanwings ma della casa madre Lufthansa, nel novembre scorso. Dovrebbe accendersi una spia rossa su questi particolari Airbus? O forse c’è qualche anomalia da tenere d’occhio in Lufthansa? «Gli A-320 sono sicuri» Gregory Alegi, docente di gestione della compagnie aeree alla Luiss Business School e direttore di DedaloNews.it, risponde con un «no» ai dubbi sugli Airbus e con un «no, ma...» a quelli su Germanwings e Lufthansa. Capitolo Airbus: Alegi osserva che «nel mondo decolla un A-320 ogni 2,5 secondi. E in 27 anni ne sono andati persi solo 11 o 12 in volo. Sono aerei sicurissimi». Quanto alle compagnie tedesche, secondo l’esperto «è lecito chiedersi, non solo per Lufthansa o per Germanwings ma per tutti i vettori aerei mondiali, se la corsa al taglio dei costi, che si è accelerata negli ultimi anni, abbia eroso i margini di sicurezza». Li ha erosi? «No, non li ha erosi. Le statistiche indicano che gli incidenti aerei sono in calo. Però andrebbe analizzato, per esempio, se certe cose che prima si facevano in casa e adesso vengono acquisite come servizi esterni conservino gli stessi standard di qualità. Bisognerà prendere spunto da questo incidente per fare un check-up a tutte le compagnie». Del 25/03/2015, pag. 20 «Europa protagonista a Cuba» Mogherini apripista all’Avana Incontro con Raúl Castro. Accordo di cooperazione entro il 2015 L’AVANA La sfida è ambiziosa: «abbattere l’ultimo muro della storia contemporanea» e far sì che l’Europa sia protagonista del processo di trasformazione a Cuba. Federica Mogherini, primo Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue a visitare l’isola, ha lasciato ieri l’Avana con grande soddisfazione, dopo una giornata fitta di colloqui ai massimi livelli, tra cui vari ministri e il presidente Raúl Castro. «Incontri eccellenti che hanno confermato la necessità che l’Unione Europea accompagni il processo di riforme economiche a Cuba e apra la strada ad investimenti importanti in vari settori, dal turismo alle energie rinnovabili», ha commentato. Una mano tesa che gli interlocutori cubani sembrano ben disposti ad accettare. Il processo di actualizacion del socialismo, come lo ha definito Raúl Castro, che nel 2008 ha ereditato dal fratello Fidel la guida del Paese, necessita di 2.500 milioni annui di investimenti stranieri. Il modello di riferimento, come ha lasciato intendere ieri il ministro dell’Economia Marino Murillo Jorge, è quello vietnamita: cauta e graduale apertura alle privatizzazioni, per ora attraverso le micro-imprese a gestione familiare, e agli investitori esteri ma senza rinunciare ad un forte e più efficiente apparato economico statale e al sistema sociale d’impronta socialista. Nessun accenno, per ora, ad aperture democratiche. «La nostra volontà è di lavorare insieme», ha confermato il ministro degli Esteri Bruno Rodriguez Parrilla, che il 22 aprile ricambierà la visita a Bruxelles: «Sono convinto che se il processo di dialogo si svilupperà su un piano di eguaglianza sovrana e di mutuo rispetto arriveremo a un finale proficuo per tutti». L’obiettivo dichiarato di Mogherini è accelerare i negoziati bilaterali in corso per giungere «entro la fine del 2015» ad un accordo politico e di cooperazione fra Unione Europea e Cuba. Processo avviato nel febbraio dell’anno scorso e ripreso con rinnovato impulso dopo lo storico annuncio in dicembre del disgelo 31 fra Cuba e Usa. Se da un lato infatti l’Europa plaude all’apertura del dialogo fra i due ex nemici, e anzi punzecchia Washington a muoversi rapidamente — «non c’è alcuna ragione perché resti in vigore l’embargo», ha ribadito Mogherini — dall’altro il messaggio lanciato ieri dall’Alto rappresentante è chiaro: «Siamo amici di Cuba da 25 anni, il primo partner commerciale e il principale investitore straniero. La nostra relazione è e resterà molto forte». Il primo, tangibile segnale è stata la ratifica congiunta con il ministro del Commercio Estero Rodrigo Malmierca Diaz di un pacchetto di finanziamenti per la cooperazione da 50 milioni di euro, già varato dall’Ue per il periodo 2014-2020, e la proposta di un nuovo possibile canale di investimenti attraverso il Life, lo strumento finanziario dell’Ue per l’ambiente. Anche i Paesi europei più refrattari ad un intesa con l’ultimo regime comunista dell’America latina si sono infatti resi conto che la politica dei piccoli passi rischia di far loro perdere spazio, e appetibili occasioni economiche, negli scenari geopolitici che si stanno delineando nella regione. In fondo, Cina e Russia non stanno certo a guardare. In contemporanea con Federica Mogherini, è sbarcato all’Avana il ministro degli Esteri di Putin, Serghej Lavrov, preannunciando importanti investimenti. Non stupisce, dunque, che la questione dei diritti umani sia rimasta ieri sullo sfondo. Se la politica è fatta anche di «chimica», il momento più alto della maratona diplomatica di Mogherini a Cuba è stato però l’incontro con il cardinale Jaime Ortega che ieri ha insistito per parlare in italiano, e a lungo, del ruolo della Chiesa cattolica, di riforme sociali ed economiche ma anche dei possibili sviluppi politici sull’isola, riservando parole di apprezzamento per l’atteggiamento molto più disponibile del nuovo Líder máximo Raúl. Sara Gandolfi del 25/03/15, pag. 12 L’America riscopre la fucilazione “Più umana delle iniezioni letali” Legge nello Utah sulla pena di morte: il plotone serve se non ci sono farmaci Francesco Semprini Due pile di sacchi imbottiti di sabbia, sul modello di quelli usati per fortini e trincee, affiancano una sedia in ferro grigio con cinghie di cuoio all’altezza di piedi, braccia e testa. È questa l’immagine della camera delle fucilazioni del penitenziario di Draper, in Utah, pubblicata per la prima volta nel 2010, e oggi tornata di prepotente attualità su giornali, tv e siti Internet, dopo la reintroduzione del plotone di esecuzione da parte dello Stato. Seconda scelta Non una prima scelta, ma solo il «rimedio» nel caso in cui, come sovente accade, manchino i farmaci utilizzati dal «boia». Il ritorno del plotone di esecuzione, dopo dieci anni dalla soppressione, è stato decretato dal governatore Gary Herbert, che ha apposto la sua firma al provvedimento votato dal parlamento statale. Herbert, repubblicano, ha spiegato che l’Utah è uno Stato che prevede la pena capitale e pertanto necessita di un metodo di esecuzione di riserva nel caso persista la carenza dei farmaci letali. «Preferiamo utilizzare il metodo dell’iniezione - spiega il portavoce del governatore, Marty Carpenters -. Ma in ogni caso rendere esecutiva la pena è un nostro dovere». Già altri Stati americani contemplano il ricorso a metodi alternativi. In New Hampshire l’impiccagione può sostituire l’iniezione in caso di mancanza di farmaci, mentre nello stato di Washington il condannato può chiedere di ricorrere al «cappio». In Oklahoma, Stato che 32 ha il controverso primato del numero di esecuzioni pro capite, la sedia elettrica è già il metodo alternativo, seguito dalla fucilazione, se l'iniezione letale dovesse essere abbandonata. Armati di Winchester La patria dei mormoni è il solo Stato Usa ad aver fatto ricorso al plotone di esecuzione da quando la pena di morte è stata reintrodotta nel 1976. L’ultimo a essere giustiziato con una pallottola è stato Ronnie Lee Gardner, un uomo accusato di aver ucciso un barista, e successivamente di aver ammazzato un avvocato e ferito un ufficiale giudiziario nel tentativo di scappare dall’aula di tribunale nella quale stava affrontando il processo, nel 1985. Gardner fu condannato prima del 2004, anno dell’abolizione del plotone di esecuzione, e non si poté sottrarre alla fucilazione. del 25/03/15, pag. 13 “Falkland a rischio invasione” Londra rinforza le sue difese Alessandra Rizzo Più di trent’anni fa si sono fatte la guerra e oggi le tensioni tra Gran Bretagna e Argentina intorno alle isole Falkland tornano altissime: Londra ha annunciato che rafforzerà le difese militari per proteggere l’arcipelago dal rischio di una nuova invasione e garantirne «il diritto a restare britannico». Ma oggi ci potrebbe essere un terzo incomodo nella partita diplomatica e militare che si gioca nel Sud dell’Atlantico, la Russia. Giorni fa, rispondendo all’ennesima denuncia da parte di Londra dell’annessione russa della Crimea, il deputato Alexei Pushkov, capo della commissione esteri della Duma, aveva detto: «La Crimea ha più ragioni di essere in Russia che le Falkland di far parte della Gran Bretagna». E secondo il «Sun», Buenos Aires starebbe trattando con Mosca per dodici bombardieri a lungo-raggio. Il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha detto alla Bbc che «quel particolare accordo non è stato confermato, ma la minaccia rimane». Difese rafforzate Londra ha annunciato che intende aggiornare i sistemi di difesa aerea e comunicazione, investire 180 milioni di sterline (268 milioni di euro) per modernizzare le infrastrutture, e inviare due elicotteri Chinook nel 2016. Resterà invece invariato il numero di truppe, circa 1200 soldati, con una piccola flotta di elicotteri Sea King e jet da combattimento Typhoon. «Posso assicurare che difenderemo le isole Falkland per sempre», ha giurato il primo ministro David Cameron. L’Argentina non ha mai smesso di rivendicare la sovranità delle isole che chiama Malvine, nonostante la rovinosa sconfitta del 1982, quando le forze britanniche in meno di tre mesi respinsero l’invasione delle truppe inviate dalla junta argentina. Anzi, Buenos Aires ha rafforzato le sue pretese da quando sono stati trovati giacimenti di petrolio nei mari intorno alle isole. 33 INTERNI del 25/03/15, pag. 12 Forza Italia, epurazione alla Camera Il fittiano Chiarelli attacca il “cerchio magico” berlusconiano. Brunetta lo rimuove da capogruppo in commissione Ma la censura scatena la polemica dentro il partito, il deputato pugliese riunisce i suoi e prepara la scissione CARMELO LOPAPA ROMA . La rottura definitiva con Berlusconi — e dunque l’ennesimo scisma in Forza Italia — è solo questione di tempo. E l’incidente verificatosi tra le due fazioni, stavolta nel pieno di una delicata votazione in aula, è stata solo l’ultima miccia. Raffaele Fitto scalda i motori per candidarsi in Puglia contro il partito, riunisce i suoi parlamentari a Roma, la nascita di gruppi autonomi è ormai alle porte. «Ma cosa aspetta a farlo? Guardate: non vedo l’ora che lui e i suoi se ne vadano, sarà il più grande regalo che possano farci», è sbottato Silvio Berlusconi al telefono da Arcore quando Brunetta e gli altri dirigenti gli hanno raccontato nel pomeriggio quanto avvenuto a Montecitorio. Succede che Gianfranco Giovanni Chiarelli, deputato pugliese di Forza Italia (fittiano), viene incaricato di fare la dichiarazione di voto a nome del partito, da capogruppo in commissione Giustizia: si vota la riforma della prescrizione. Lui prende la parola e a sorpresa attacca a testa bassa due fedelissimi del cosiddetto “cerchio magico”, Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi: «Impegnano le loro giornate a fare strategie per epurazioni e per distruggere quanto Berlusconi ha fatto in questi anni. Non ho avuto modo di confrontarmi con loro — rincara Chiarelli annunciando il voto contrario di Fi — perché a loro non interessa nulla del partito. Mi scuso di questa divagazione, il mio intervento lo consegnerò alla Bergamini in modo che chi va in televisione possa dire cose sensate». Da quel momento scoppia la guerriglia interna. Jole Santelli, berlusconiana doc, prende subito le distanze in aula: «Non si scherza sulla giustizia, non la si utilizza per colpire i colleghi». Ma è solo l’inizio. Brunetta informa Arcore e ne riceve l’autorizzazione a silurare seduta stante, con semplice nota, Chiarelli dal ruolo di capogruppo in commissione. Raffaele Fitto si aggira in Transatlantico, è a Montecitorio per tenere a rapporto i suoi. Esprime solidarietà all’amico defenestrato e attacca di nuovo: «Cosa siamo diventati? Che situazione avvilente. Da partito liberale di massa, siamo diventati il partito delle censure, dei commissariamenti, delle sostituzioni, delle epurazioni ». E la sua è la reazione più moderata. Al termine della riunione dei fittiani è un fuoco d’artificio. Saverio Romano: «Quante altre castronerie e gaffe politicoistituzionali può commettere il capogruppo di Fi senza pagarne le conseguenze?» Maurizio Bianconi: «Ormai siamo a metà tra l’Isis che taglia le teste e gli ultimi giorni di Salò». Daniele Capezzone: «La censura pagina triste per chi la pratica» (sottinteso Brunetta). Pietro Laffranco: «Così va quando finisce l’impero». Per lo strappo definitivo occorre ancora qualche giorno. Lunedì, a Firenze per una manifestazione politica, Bianconi confidava agli amici che «ci mancano ancora cinque o sei per dar vita al gruppo alla Camera » (dove ne occorrono venti). Al Senato (dieci) invece i numeri ci sarebbero. I big chiamati in causa replicano a muso duro. «Restiamo un partito serio — dice Giovanni Toti — nonostante qualcuno si stia impegnando a fondo per trasformarlo nell’opposto, stiamo con Brunetta ». E la Bergamini: «Mai visto nulla del genere e questa storia non depone a favore di chi l’ha montata». Sia Toti che la Bergamini voleranno oggi a Berlino assieme a Tajani per incontrare i vertici Cdu. 34 Silvio Berlusconi invece rientrerà oggi a Roma anche per cercare di spegnere i vari incendi. Ancora in stand by l’incontro e l’accordo con Salvini e la Lega. Tanto che l’annunciato Ufficio di presidenza potrebbe ora slittare alla prossima settimana. Dal capo del Carroccio a Verona nuova mano tesa: «In Veneto, speriamo Forza Italia ci sia. Le nostre porte sono spalancate, tranne a chi governa con Renzi». Con Berlusconi si vedranno entro fine settimana. Ma l’ex Cavaliere pretende patti chiari: candidature concordate anche in Liguria e Toscana. Sarà dura. Proprio in Liguria, Salvini ha già lanciato Edoardo Rixi, in Forza Italia accarezzano ora l’idea di sostituirlo con Giovanni Toti. del 25/03/15, pag. 14 Pisapia, il perché di un addio “Preferisco la rotazione è meglio della rottamazione” La scelta fatta in poche ore, con Renzi neppure una telefonata Colpita dall’affaire Pirelli, per la “città del potere” è un doppio shock CARLO VERDELLI MILANO . Il lungo addio di Giuliano Pisapia è stato breve. La decisione l’ha presa sabato sera, ci ha dormito sopra, la mattina dopo ha controllato che in città non stessero succedendo casini particolari, ed evidentemente non ha considerato un “casino particolare” la notizia della contemporanea cessione della Pirelli ai cinesi o l’ha digerita come un fatto ineluttabile, vedi il recente passaggio dei grattacieli di Porta Nuova agli arabi del Qatar. Poi dopo pranzo ha chiamato i suoi assessori per avvertirli del blitz, ha chiesto allo staff di organizzare al volo una conferenza stampa per le 17 e qualche minuto prima di andare in scena ha messo all’erta anche i reprima, dei social network. Uno di loro gli ha chiesto se doveva preoccuparsi. Lui ha scelto con cura le parole per rispondere: al posto di uno “stai sereno” dal beffardo sapore renziano, un pacato “stai tranquillo” alla milanese. Quindi, vestito da pomeriggio festivo, con un informale maglioncino beige, in mezz’ora ha spiegato quel che stava sospeso nell’aria da almeno mezzo anno, e cioè che non si sarebbe ricandidato, e quindi non sarà lui il tredicesimo sindaco di Milano, ma che fino alla fine del mandato, cioè alle Comunali del maggio 2016, avrebbe continuato il suo lavoro come anzi meglio di prima, perché d’ora in avanti nessuna delle sue decisioni potrà essere letta in chiave pre-elettorale. Scusate il disturbo, buon fine week-end a tutti. Telefonate con il premier Renzi? Nessuna, né prima né dopo. Giusto un accenno indiretto: “Il termine rottamazione non mi piace. Preferisco rotazione”. E lui, che il 20 maggio compirà 66 anni, come del resto aveva già promesso a inizio mandato, si prepara a roteare via prima che a qualcuno venga l’idea di rottamarlo. Sommando il forzista Giovanni Toti che gli dà dello Schettino “che abbandona la nave a poche settimane dall’Expo” e i quattro minuti di applausi dalla sua maggioranza nel primo consiglio comunale, il giorno dopo, lunedì, Giuliano Pisapia esibisce un sorriso ancora più soave del solito e l’aria di chi ha fatto la cosa giusta nel momento giusto. Non è stata la stanchezza a spingerlo, men che meno gli scogli che ha davanti (la grande città metropolitana, il taglio violento ai fondi per amministrare le povertà crescenti, con una disoccupazione passata dal 6 all’8%, e gli sviluppi necessari a una metropoli europea). Il fatto è che ormai era diventato un tormento, persino i bambini delle scuole gli chiedevano conto di cosa avrebbe fatto. I tempi non gli permettevano di indugiare oltre: il 15 aprile 35 uscirà per Rizzoli il suo libro “Milano, città aperta” ed andava evitato ogni sospetto di voler trainare il debutto; il 1° maggio parte l’Expo e guai a disturbare. Rimandare a dopo, a esposizione finita, cioè a novembre? Troppo tardi, sia per organizzare delle primarie sia per immaginare una coalizione capace di vinsponsabili cere anche senza un leader che oggi avrebbe 12 punti di vantaggio su un’eventuale ancorché azzardata candidatura di Matteo Salvini e addirittura 18 sul ciellino Lupi, oltretutto calcolati prima della caduta. In più, il gentile ma non sprovveduto Pisapia percepiva che le sue fila si stavano ingarbugliando, che erano cominciati personalismi tra assessori e consiglieri, e che i rapporti con l’ex collega di Firenze diventato premier non volgevano al bello, complicati se possibile dalla questione del registro delle nozze gay o dalle tensioni sui fondi lesinati per la sfida dell’Expo. Meglio sgombrare la nuvolaglia subito, e quando sarà vinca il migliore, purché sia chiaro anche ai migliori che vincere qui può non essere così automatico come sembra. Quando sarà, cioè fra 14 mesi: per l’anatra che si è auto- azzoppata, il cammino è ancora lungo. Resta il fatto che a 37 giorni dall’inaugurazione dell’Expo, incrociando le dita visto l’avanzamento dei lavori, Milano perde in un colpo altri due pezzi: il più significativo sindaco “arancione” e una delle poche multinazionali nate in casa, la Pirelli, fondata proprio qui nel 1872, l’azienda col grattacielo, il Pirellone, simbolo laico del boom anni Sessanta. Sarà un caso ma la città che con la sua provincia garantisce ancora il 10 % del pil nazionale al governo non ha rappresentanti. Aveva un ministro, il milanese Maurizio Lupi, e adesso neanche quello. Sottosegretari, zero. Fine di un’epoca, cambio di stagione. Quando il 27 maggio 2011, il variegato popolo che sosteneva Pisapia sindaco si riunì in piazza Duomo per l’ultimo comizio prima della liberazione dalla Moratti e da un ventennio di dominio berlusconiano e leghista, un arcobaleno benaugurante benedì la follìa politica di quella folla, un mix che andava dal centrista Tabacci alla battagliera sinistra vendoliana, includendo borghesia e gran borghesi desiderosi di cambiamento ma anche movimenti civici e giovani movimentisti. Domenica scorsa, quando il vincitore di allora ha annunciato il suo passo a lato, se non indietro, pioveva umido e il cielo neanche si vedeva. In superficie, poco o nulla cambia. Milano ha ancora un sindaco e la Pirelli non si muoverà da dove sta, alla Bicocca, almeno fino al 2021. Eppure domenica 22 marzo, quinta di Quaresima, non è stata una giornata così banale. Due eventi variamente annunciati promettono di avere conseguenze più forti di quanto il sottotono con cui sono stati presentati lasci presagire. Con Giuliano Pisapia in uscita e la China National Chemical Corporation in entrata per comandare Pirelli, Milano lascia sul campo sia un pezzo pregiato di storia industriale e culturale sia un’ipotesi politica, quella “arancione”, che solo qui, rispetto a Genova, Cagliari o Napoli, ha avuto la sua espressione più compiuta. E poco importa che il sindaco uscente sogni per la “sua” città un domani politico in continuità col presente, cioè senza alleanze col centrodestra, insomma una riedizione aggiornata del “modello Milano” che ha, tra gli altri, il piccolo difetto di non somigliare per niente al “modello Italia” impostato da Renzi. Come conta relativamente che Tronchetti Provera manterrà la carica di amministratore delegato del gruppo e il quartier generale non si sposterà a Pechino o altrove. Restano due effetti visibili da subito. Il primo è che andrà ritoccata al rialzo la percentuale delle società italiane quotate in Borsa in mano a gruppi stranieri: fino a domenica 22 marzo era intorno al 43 per cento, ora di più. Il secondo è che, inevitabilmente, è già cominciata la volata per chi sarà il primo cittadino della Grande Milano Metropolitana a maggio 2016. “Battendo legno, come dicono gli inglesi, quello di questa giunta è stato finora un percorso netto, senza scandali né pasticci giudiziari”, lascia intendere Pisapia, marcando la differenza con chi l’ha preceduto. Certo, dal 2011 il paesaggio politico è cambiato parecchio, e quindi è possibile che Matteo Renzi, che non 36 chiama, non telefona, non manda sms, consideri il laboratorio arancione dell’alchimista Giuliano un esperimento fastidioso e quindi da archiviare. Possibile anche che il nervosismo crescente tra molti cavalieri dell’Arcobaleno nasca proprio da qui. “Ma il timore di perdere, ricompatta. O almeno si spera”. E questo spiega, in breve, il lungo addio. Quanto al Pirellone, consegnato alla storia patria da una foto di Uliano Lucas, con un immigrato sardo in posa davanti alla “fiaba verticale” con una valigiona nella mano sinistra e una grande scatola di cartone sulla spalla destra, adesso ospita il Consiglio regionale e, da primo, è sceso a quinto grattacielo della città. Se qualcuno vuole una cartolina da Milano, può andare in piazza Gae Aulenti. C’è una torre 100 metri più alta, è degli arabi, dov’è il problema. 37 LEGALITA’DEMOCRATICA del 25/03/15, pag. 1/23 Nei quartieri a est della città le giovani ronde dei clan terrorizzano gli abitanti Decine di colpi esplosi all’impazzata mentre donne e bambini cercano di mettersi al riparo Ecco l’ultima follia svelata da un video-shock I ragazzini con la pistola per le strade di Napoli quelle scene da Gomorra che superano la fiction ROBERTO SAVIANO ACCADE spesso che realtà rincorra, superandola, la creazione cinematografica. Vedendo il video diffuso dai carabinieri della compagnia di Torre del Greco si resta talmente increduli da credere di stare guardando un mafia-movie. I commenti che in pochi minuti sono giunti sui social network ovunque tracciavano un’interpretazione: «Sembra Gomorra ». L’espressione “sembra un film” descrive qualcosa di straordinario e spettacolare. Talmente spettacolare da ricordare l’esagerazione filmica, da non poter essere considerata un evento reale. Questa espressione nasce da un equivoco, la differenza tra film e realtà è solo questione di diottrie. La vicinanza al dettaglio spesso è possibile solo in una costruzione scenica e per questo motivo quando un evento, che sia un terremoto o un omicidio, viene ripreso nei suoi dettagli immediatamente fa pensare a un film. Perché la realtà la immaginiamo antagonista della tv o del cinema, la pensiamo distante o non catturabile. La realtà che percepiamo è fluida e, accade sempre, distante. La immaginiamo possibile da registrare solo nella memoria. La ricostruzione invece la sentiamo lenta, vicinissima e rassicurante. La realtà ci spaventa, la ricostruzione ci incuriosisce. Questi sono i vecchi codici ma sempre più non è così. Le telecamere nascoste e la capacità degli obiettivi rendono possibile raccontare la realtà nel dettaglio talmente preciso che spinge spesso a far credere alla messa in scena dinanzi a un fatto reale osservato. La precisione con cui la realtà viene narrata ribalta i canoni che abbiamo descritto prima e crea immediatamente un effetto cospirazione in molti osservatori. Pensiamo: la cronaca non può esser descritta e ripresa così bene. Immaginiamo che la realtà sia diversa e crediamo quindi che sia stata costruita o ricostruita. La tendenza a considerare tutte le immagini dei “falsi” costruiti nasce dalla diversa percezione che abbiamo della realtà che immaginiamo confusa, non scenica. Anche questo è falso. La realtà spesso è assai più scenica della sua ricostruzione fantasiosa ma non solo, sta cambiando la dialettica tra schermo e realtà . La presenza disseminata di telecamere, cimici; la diffusione di dispositivi in grado di riprendere tutto con precisione riscrive l’immaginario a cui si appella il cinema. Si vive e si recita alla stessa maniera, ci si influenza vicendevolmente e spesso inconsapevolmente. Non c’è bisogno di possedere talento registico o cinematografico, gli smartphone hanno la capacità di catturare foto di qualità o video raramente sfocati, quindi anche sul piano della qualità realtà e finzione iniziano a essere immagini identiche. Quindi bisognerebbe ribaltare il commento, quando si guarda la tv o un film al cinema bisognerebbe dire “sembra la realtà”. Il rapporto tra film e realtà è lo stesso che passa tra 38 una tela e una fotografia, certo dipende dallo stile del pittore e del fotografo ma nell’obiettivo della ricostruzione sceni- ca non c’è un calco della realtà ma la realizzazione di una profondità. Guardando questo video si ha la sensazione di una sorta di prova scientifica di quanto si era raccontato nella serie Gomorra. Il video dei carabinieri mostra una tipica scena di inseguimento sugli scooter, uno dei camorristi al posto del passeggero spara in aria, poi spunta sulla destra una sentinella che spara correndo, persone che stanno scappando e un bambino alla sua sinistra. Lungo la traiettoria dello sparo c’è una persona che fugge terrorizzata. Scappano tutti, uomini e animali, si vede un cane, forse un gatto, fuggire. “Sembra Gomorra”, titolano i primi siti mentre scrivo. In realtà ci si è accorti di tutto questo attraverso il racconto, ma scene come queste ci sono sempre state, ma non avevano cittadinanza nell’attenzione nazionale. Il video mostra come dopo la sparatoria la vita torni normale, come se si mettesse in conto che per le strade di Ponticelli ci si può imbattere uno scontro tra bande e che, nel caso, bisogna semplicemente accelerare il passo. Non vedete una somiglianza con l’abitudine di chi vive sotto il tiro dei cecchini? Alcune scene di “Gomorra, la serie” del resto, sono girate a Ponticelli. Questa è la guerra dimenticata del paese che qualche volta viene ripresa dalle telecamere nascoste e costringe quindi per un attimo a non voltarsi. Una guerra che abbiamo deciso di narrare oltre l’emergenza e con lo strumento dell’arte. D’istinto mi verrebbe da dire: ma non ero io ad aver inventato queste cose? Non eravamo stati noi con la serie ad aver esagerato, sporcato la città? È la realtà che ora in molti tenderanno a liquidare dicendo che succede ovunque, che ci sono più reati in Belgio che in Italia, che in fondo lo stesso sta accadendo anche a Buenos Aires o Parigi ma che si insiste su Napoli per mangiarci sopra. È quell’omertà alleata dell’impotenza (o forse della codardia) che genera questi commenti. Qui non c’è da sottovalutare questi episodi, qui c’è solo da ribadire che il Sud vive un abbandono, assenza di progetto, assenza di risorse, assenza di visione, assenza di attenzione. Il lamento del Mezzogiorno verrà descritto come se fosse soltanto un languido lamento e un’infantile richiesta d’attenzione e assistenza. Qui si consuma un dramma che abbiamo iniziato a sopportare come il più ordinario dei modi di vivere. Naturalmente queste cose accadono, ma quel meccanismo che fa immaginare una realtà spaventosa e la trasforma in una ricostruzione curiosa crea una pericolosa distanza. Queste immagini rischiano di essere percepite come messa in scena di una guerra lontana che non interessa, tutto diventa sopportabile e al massimo attira la curiosità di un video visto come decine di altri sullo smartphone postato da qualche amico. La realtà non è peggiorata dal suo racconto ma, al contrario, la sua rappresentazione ne restituisce i codici e prova a darle un senso. Il punto è un altro: se si rimane solo spettatori hanno fallito sia l’arte del cinema e della fiction sia il video diffuso dai carabinieri di Napoli. Del 25/03/2015, pag. 14 Corruzione, la stretta di Padoan e Cantone sulle partecipate Il responsabile del piano La mappa dei rischi Il sistema di controllo Via al piano con rotazione dei dirigenti, mappa delle aree a rischio e un «responsabile per la prevenzione» 39 ROMA Un piano anticorruzione con l’individuazione di un responsabile della prevenzione degli illeciti nelle società partecipate e controllate dal Tesoro e in quelle pubbliche (comprese quelle partecipate dagli enti locali). La mappa delle aree a rischio. La tutela di chi denuncia illeciti dall’interno della pubblica amministrazione. E la rotazione degli incarichi in enti e società, fondazioni e associazioni di enti locali. Sono alcune delle linee guida della lotta all’illegalità presentate ieri dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, che puntano sulla prevenzione. Per ora le regole sono «sospese per le società quotate in Borsa e per quelle che emettono strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati». Per il ministro è «una profonda riforma strutturale: so che non resterà lettera morta». «È una rivoluzione, ma si tratta di una semina con raccolto nel lungo periodo», dice Cantone che sottolinea sui reati di corruzione: «Nessuno può pensare di mettere in discussione le regole sulle intercettazioni: non credo sia un tema in agenda. Al massimo si può pensare di rafforzarle per la corruzione». «Altra cosa è parlare della pubblicazione o della troppa pubblicità — aggiunge — specie se si tocca la vita privata». Figura chiave delle linee guida sarà il «responsabile per la prevenzione della corruzione», incaricato di redigere il piano per prevenire gli illeciti: dovrà essere un dirigente interno, caratterizzato da un comportamento «integerrimo». Tra i suoi compiti, la stesura di una «mappa dei rischi»: le aziende dovranno innanzitutto individuare in quali aree o settori di attività potrebbero più facilmente verificarsi i reati. E l’ambito di applicazione del provvedimento è particolarmente vasto: in base ai dati del Mef del 2012, le partecipate dall’amministrazione centrale sono 423, cui si aggiungono le 17 partecipate dagli enti previdenziali. A questi bisogna aggiungere i 7.726 enti collegati a Regioni, Province e Comuni. Il documento prevede inoltre un rigido «sistema di controlli». E se le società ne fossero sprovviste, dovranno essere introdotti nuovi principi e strutture ad hoc . C’è anche un «codice di comportamento» orientato alla prevenzione. Inoltre è stabilito che «gli incarichi dirigenziali non potranno essere conferiti in caso di condanna per reati contro la P.a. o di contemporanei incarichi politici». Da notare il «divieto di assunzione per gli ex dipendenti pubblici che nei tre anni precedenti abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali» per la P.a. E gli incarichi dirigenziali «saranno conferiti a rotazione». Francesco Di Frischia Del 25/03/2015, pag. 5 Mafia Capitale, si dimette l’uomo di Zingaretti ACCUSATO DI TURBATIVA D’ASTA PER UNA GARA AGGIUDICATA A UNA COOP VICINA A BUZZI: LASCIA IL CAPO SEGRETERIA DEL PRESIDENTE DEL LAZIO Il numero due del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, si dimette. Maurizio Venafro, capo di gabinetto della Regione, è indagato per turbativa d’asta nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale della Procura di Roma. Così prima che la vicenda diventi un boomerang per la giunta Zingaretti, Venafro ha deciso di fare un passo indietro e ieri ha inviato una lettera di dimissioni dove ha spiegato che le indagini degli inquirenti sono “(purtroppo) incompatibili con i tempi della politica, dell’informazione e, infine ma non per ultimo, con quelli della mia personale dignità”. A TIRARE in ballo Maurizio Venafro nell ’ 40 inchiesta che ha scoperchiato una presunta mafia a Roma, sono stati anche alcuni testimoni che sentiti come persone informate sui fatti avrebbero ricostruito le fasi precedenti all’assegnazione di uno degli appalti più ricchi della regione Lazio: quello del Recup, il centro di prenotazione di prestazioni sanitarie della Regione, che in totale valeva 60 milioni di euro. L’appalto era stato diviso in quattro lotti, di cui uno, per circa 14 milioni, era stato assegnato in una prima fase ad una cooperativa vicina al sodalizio. Alla fine però questo appalto, oggetto anche di alcune interrogazioni in Regione come quella di Francesco Storace de La Destra, non ha avuto vita lunga. Dopo gli arresti del 2 dicembre che hanno sconvolto la Capitale quindi il presidente Zingaretti ha annullato quel bando e la gara quindi non è stata assegnata definitivamente. Il coinvolgimento di Venafro però – secondo alcune indiscrezioni sul caso nonostante il massimo riserbo della procura – ci sarebbe in un momento precedente. Ossia quando il capo di gabinetto della Regione nomina Claudio Scozzafava nella commissione che doveva assegnare l’appalto. Anche Scozzafava, già dirigente del Campidoglio e dell’ospedale Sant ’ Andrea, è stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione. I guai giudiziari per questa nomina secondo Maurizio Venafro si concluderanno con un’archiviazione: “Non ritengo finchè la mia posizione non sarà chiarita e chiusa con l’inevitabile archiviazione – scrive nella lettera di dimissioni – conseguente alla mia estraneità ad ogni ipotesi d ’ accusa, parlare pubblicamente dell’indagine, dei fatti e delle ragioni che depongono per l’assoluta correttezza e trasparenza del mio operato”. Che Buzzi volesse mettere le mani su uno degli appalti più ghiotti della Regione i magistrati romani lo avevano capito già nella prima fase delle intercettazioni. In una riunione negli uffici di Buzzi del 5 maggio 2014, Carlo Guarany ritenuto dai pm collaboratore del ras delle coop, fa riferimento ad una gara da 60 milioni. Fabrizio Testa ribatte: “Bhe in Regione Lazio… (inc)… Luca” e Carminati rassicura: “In Regione c’avemo… c’è Luca”. Carlo Guarany sembra non convinto: “Si ma io voglio di’… questi qui la gara de 60 milioni di euro l’avranno vista, no?”. Poco dopo interviene di nuovo Massimo Carminati: “No, ma Luca sicuramente è stato interessato… però capito se dobbiamo arrivacce alla cosa ce arrivamo in un’altra maniera”. Il Luca a cui si fa riferimento come chiariscono i pm nell’ordinanza è Luca Grama-zio, indagato anche lui nell ’ inchiesta sul ‘ mondo di mezzo ’ per brogli elettorali e figlio dell’ex senatore Domenico. “In merito ad una non meglio precisata gara da 60 milioni, – scrivono i pm – Massimo Carminati ricordava ai presenti che in Regione Lazio potevano contare anche sull’appoggio di Luca Gramazio”. Poi con il proseguire delle indagini, gli inquirenti hanno scoperto che la gara da 60 milioni di cui parlava il gruppo poteva essere quella Recup. In aiuto ai pm anche una seconda intercettazione, captata il 2 settembre 2014, tra la segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito e Claudio Caldarelli, punto di collegamento tra l’organizzazione e la politica. La Cerrito dice: “A Clà, ma l’avemo vinto quel discorso de ‘ Formula Sociale ’ per dei Cup, de Recup, che era?”. Caldarelli risponde: “Stiamo.. ce va a pranzo oggi!”. La segretaria si informa ancora. “Ma è buono come appalto?”. E Caldarelli: “14 milioni”. DA QUESTE intercettazioni sono stati avviati una serie di accertamenti non solo acquisendo documenti ma anche ascoltando in questi mesi diverse persone in Regione. I dettagli della vicenda non sono ancora nitidi. Perchè Carminati faccia riferimento a Luca Gramazio in questo appalto specifico è ancora da chiarire, come pure mancano i dettagli del coinvolgimento del numero due in Regione. Che intanto ha rassegnato le dimissioni. 41 Del 25/03/2015, pag. 15 I cronisti, “Falcone spiato” e la vocetta che disinformava BOLZONI RICORDA LE SOFFIATE “SOSPETTE” DI LA BARBERA E ALTRI FONTI DELLO STATO Arnaldo La Barbera? “Nel 1989 mi consegnò l’informativa sui telefoni intercettati nell’ufficio di Falcone, il capo della polizia Parisi confermò la notizia al mio collega Giuseppe D’Avanzo (l’inviato editorialista scomparso nel 2011, ndr) e Repubblica uscì con il titolo ‘ Falcone spiato’, ma non era vero: quel rapporto non portò da nessuna parte’’, risponde Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica che ha deposto ieri a Caltanissetta nel processo Capaci bis rievocando quegli anni. E l’identikit dello stesso killer dell’Addaura e di Capaci pubblicato a sole tre settimane dalla strage dell’autostrada? “Gli identikit me li diede La Barbera, ma a dirmi della corrispondenza di volti fu un alto personaggio, La Barbera mi smentì la notizia, ma io la scrissi proprio per l’autorevolezza della fonte”. Notizie velenose diffuse da fonti che a distanza di anni “cambiano direzione” e che hanno ammorbato l’informazione nella stagione più misteriosa della lotta alla mafia, gli anni delle microspie nell’ufficio di Falcone, dell’Addaura, delle lettere del Corvo, degli strani avvistamenti di Buscetta a passeggio per Palermo: anni di soffiate di servizi segreti e di strategie mediatiche sotterranee di pezzi degli apparati antimafia ferocemente contrapposti. L’inviato di Repubblica le chiama “campane sotterranee, che poi tanto sotterranee non erano: alcuni informavano, altri smentivano”, per arrivare a una conclusione: “Anni dopo con D’Avanzo ci siamo resi conto che in alcune di quelle vicende siamo stati oggetto di disinformazione”. E non solo di quegli anni: tra le indagini “strane”, viziate da soffiate interessate, Bolzoni cita anche “la prima indagine palermitana su Berlusconi per mafia”. Notizia diffuse ad arte per mettere sotto pressione Giovanni Falcone? “Ci sono varie interpretazioni – ha risposto Bolzoni – ce n’è una malevola, secondo cui qualcuno lo voleva sotto pressione, gli voleva fare sentire il fiato sul collo. Ma ci può essere un’interpretazione benevola, e cioè qualcuno che aveva deciso di attirare l’attenzione su di lui, in quel momento al centro di forti tensioni”. E chi diffondeva quelle voci contro Falcone? “Ambienti dell’alto commissariato antimafia, Falcone non si fidava di un sacco di persone dentro le istituzioni. Qualche nome? Bruno Contrada, D’Antone”. Sono gli anni dell’attentato fallito all’Addaura: “Facendo brillare l’innesco cancellarono la possibilità di risalire all’artificiere – ha proseguito Bolzoni – Falcone si sorprese molto e si adirò”. Vicende che “mi turbarono”, dice Bolzoni, come quando La Barbera e un’altra fonte lo portarono nel bunker di Falcone all’ammezzato del palazzo di Giustizia di Palermo, “dove uomini con la tuta bianca controllavano i fili del telefono’’: “c’era qualcosa di strano perché il giorno dopo smentirono tutti con D’Avanzo ritenemmo poi che quella vicenda fosse stata costruita a tavolino: non si ebbe mai la prova che quei telefoni erano intercettati”. Non fu la sola, in quegli anni: “Con altri colleghi abbiamo avuto informazioni da ambienti ostili a Falcone e lo stesso Falcone si adirò. Siamo stati a casa del personaggio che avrebbe incontrato Buscetta, e ci siamo resi conto di avere subìto una campagna di disinformazione. Poi, in anni più recenti, da altre fonti ci siamo ricreduti: forse non avevamo tutti i torti”. L’inviato di Repubblica ha ricordato di esser stato poi sentito alla Dna e dai pm di Caltanissetta che oggi indagano sui veleni di quegli anni: “Ho un ricordo vago d’esser stato chiamato in via Giulia dal procuratore Grasso per parlare delle foto 42 dell’identikit nell’articolo che avevo scritto poco dopo la strage. Mi sconcerta che tre settimane dopo Capaci potessi aver scritto quelle cose che rilette a distanza di anni fanno impressione”. 43 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 25/03/15, pag. 14 I fondi per i migranti spesi in fiere di paese e contratti ai parenti Caltagirone, inchiesta sul ”Cara” di Mineo Fabio Albanese E dire che non lo volevano. E pensare che quando nel 2011 l’allora premier Berlusconi e l’allora ministro dell’Interno Maroni vennero a visitarlo e annunciarono che quella mega struttura di Mineo, ormai abbandonata dagli americani di Sigonella, sarebbe diventata il Cara (Centro accoglienza per richiedenti asilo), più grande d’Italia, poco ci volle che alzassero le barricate: «Qui non vogliamo migranti - dissero gli amministratori dei comuni della zona - potrebbero portare malattie e causare problemi di ordine pubblico». E invece, man mano che le procure di Catania e Caltagirone vanno avanti con le rispettive inchieste, dal Cara di Mineo, che ospita oltre tremila richiedenti asilo, l’unica malattia emersa è quella del malaffare: non dei migranti ma di chi li dovrebbe assistere. Le risorse Una delle due inchieste della procura di Caltagirone sull’«affare Cara» riguarda l’uso di risorse destinate al centro e usate invece per sagre e manifestazioni locali e per l’assunzione, sia nel Cara sia nelle strutture del Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) della zona, di decine, forse centinaia di persone, imparentate con politici e amministratori dei 9 comuni che aderiscono al Consorzio «Calatino Terra d’Accoglienza». Il Consorzio gestisce il Cara e il ricco budget; l’ultima gara d’appalto, 97 milioni in tre anni, è stata giudicata «illegittima» dal presidente dell’autorità anticorruzione Cantone ed è da mesi sotto la lente della Dda di Catania, che ha avviato l’indagine dopo aver ricevuto dalla procura di Roma atti dell’inchiesta su “Mafia Capitale” con, al centro, il ruolo di Luca Odevaine, il quale aveva un incarico anche al Cara di Mineo. E’ in questa inchiesta che sarebbe indagato anche l’attuale sottosegretario all’agricoltura Giuseppe Castiglione (Ncd), ai tempi in cui da presidente della provincia di Catania fu soggetto attuatore della gestione del Cara (Castiglione nega di aver ricevuto un avviso di garanzia). La procura di Caltagirone ha aperto questa seconda indagine, al momento «contro ignoti», dopo una serie di esposti anonimi e di denunce e dopo l’acquisizione di atti: il procuratore Giuseppe Verzera deve far luce sull’uso di una parte dei fondi per l’assistenza ai migranti, usati invece per contribuire all’organizzazione di manifestazioni come una sagra dell’uva a Licodia Eubea, la festa di Santa Lucia a San Cono, il Natale di Mirabella Imbaccari, il presepe vivente di Vizzini: solo nell’ultimo anno 200mila euro destinati a “progetti di integrazione” dei migranti, in minima parte utilizzati per i richiedenti asilo, «in scena» come partecipanti o spettatori. L’occupazione C’è poi il capitolo assunzioni. Attorno al business Cara-Sprar, controllato dal Consorzio, ruotano un migliaio di posti di lavoro. Molti occupati sono imparentati con sindaci, assessori ed ex assessori di tutti gli schieramenti. Posti di lavoro che, in comuni piccoli come questi, possono spostare i voti sufficienti a fare eleggere un candidato o un altro. 44 del 25/03/15, pag. 6 Brescia, cariche contro i migranti Manuel Colosio * BRESCIA Diritti. I manifestanti chiedevano il riconoscimento del permesso di soggiorno Ci sono voluti quattro giorni di repressione con cariche, arresti, fermi ed espulsioni di migranti per ottenere la possibilità di manifestare a Brescia e in piazza Loggia. Questa città ha vissuto un clima di repressione e militarizzazione del centro cittadino e della sua piazza simbolo, fino a ieri transennata e occupata dalla polizia. Tutto questo a causa della volontà di impedire ai migranti e alle associazioni che li sostengono di manifestare per il permesso di soggiorno e contro il risultato della sanatoria 2012, che a Brescia ha prodotto un numero di rigetti che non si sono registrati in nessuna altra città italiana. Qui la prefettura ha respinto quasi l’80% delle oltre 5.000 domande inoltrate, ribaltando in pratica le statistiche nazionali dove invece l’80% dei richiedenti ha ottenuto il permesso. Una situazione che obbliga quindi migliaia di immigrati, che spesso vivono da anni in città, a lavorare senza un contratto di lavoro e di affitto, senza la residenza, l’iscrizione al servizio sanitario e rischiando in ogni istante l’espulsione. Da qui la rabbia di chi si è sentito vittima di una propria truffa: alle migliaia di euro spesi per la regolarizzazione si aggiungono adesso anche quelli per ricorrere al Tar locale, ingolfato proprio dai ricorsi. Una ingiustizia che ha visto diverse realtà che da anni lottano a fianco dei migranti, come l’Associazione Diritti per Tutti, l’ufficio immigrati della Cgil, la comunità senegalese di Brescia e l’associazione islamica Muhammadiah, scendere in piazza per manifestare e chiedere che si rivedessero tutte le pratiche rigettate illegittimamente. La risposta però è stata quella di portare il livello del confronto sul terreno dell’ordine pubblico: vietare la partenza da Piazza della Loggia per la manifestazione di sabato scorso, blindando la piazza ed effettuando cariche prima e durante il corteo, sgomberare domenica di prima mattina il presidio che aveva passato la notte in piazza Vittoria, realizzando diversi fermi che si sono tradotti per 3 migranti nella detenzione in un Cie e per un quarto il rimpatrio forzoso; migranti e antirazzisti però non demordono e lunedì decidono di tornare a presidiare la piazza, ma ad attenderli però ancora una volta la polizia in assetto antisommossa, che ha caricato per l’ennesima volta il presidio sul nascere ed effettuando anche in questo caso 4 fermi, un arresto e provocando 4 feriti tra i manifestanti. Il tutto ordinato dal responsabile di piazza della questura, Domenico Farinacci. «Siamo in una città governata dalla polizia e in stato d’eccezione» ha denunciato a più riprese Diritti per tutti, al quale si è aggiunge il commento della Camera del Lavoro di Brescia, che per bocca del segretario generale Damiano Galletti definisce la situazione «inaccettabile» e chiede che si torni al dialogo. Ampia la solidarietà ricevuta da tutta Italia: attestati di vicinanza sono giunti da diverse città, tra le quali Bologna (dove ieri si è tenuto anche un presidio nel pomeriggio), passando per la Valle di Susa per scendere fino a Napoli. mentre ieri il senatore bresciano del M5S Vito Crimi ha chiesto al governo di spiegare il perché di questa assurda gestione dell’ordine pubblico. Forte della solidarietà e di una sempre maggiore partecipazione, la lotta quindi non si è certo arrestata, anzi: ieri si è tornati a manifestare nel tardo pomeriggio e al grido di «Brescia libera» centinaia di persone hanno riconquistato prima piazza Loggia e poi la libertà di manifestare, muovendosi in corteo per le vie del centro. Tornati in presidio in piazza della Loggia si sono susseguiti gli interventi per chiedere l’apertura di un tavolo di trattative sui rigetti e si 45 è denunciata, attraverso la riproduzione su grandi cartelli delle fotografie e la proiezione dei video, la repressione e la sospensione dei diritti dei giorni precedenti. In mattinata si era tenuto, tra l’altro, un incontro tra migranti e associazioni di solidali con il sindaco del Pd Emilio Del Bono, che dopo tre giorni di latitanza e deleghe agli altri componenti della giunta, ha dichiarato di ritenere legittime le motivazioni della protesta, ma ha anche ammesso allo stesso tempo di avere sostenuto l’inopportunità di manifestare nella centrale piazza cittadina. Il movimento di lotta però resiste e rilancia: per sabato 28 marzo è prevista una nuova grande manifestazione che unirà le richieste specifiche dei migranti e degli antirazzisti a quelle di tutti i bresciani di poter manifestare liberamente in città e nella sua piazza simbolo, quella ferita dalla strage fascista e di stato del 28 maggio 1974. * Radio Onda d’urto del 25/03/15, pag. 25 L’Asmi è la prima associazione di lupetti musulmani: conta 200 iscritti. La vicepresidente è stata formata dall’Agesci: “Così impariamo a migliorarci” Ecco gli scout di Allah “Ma nei nostri giochi i maschi e le femmine non si toccano mai” ZITA DAZZI MILANO . Come tutti gli scout del mondo, indossano il fazzoletto arrotolato al collo, amano la vita all’aria aperta, condividono i valori dell’amicizia e della pace. E credono in dio. Che poi questo dio sia Allah e non Gesù Cristo non cambia. Loro non ci vedono niente di strano e nemmeno i responsabili nazionali dell’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani) che li hanno accolti come fratelli e “formati” perché potessero cominciare a fare attività educative, col metodo del movimento internazionale ispirato agli scritti di Robert BadenPowel, padre dei milioni di “lupetti” e “coccinelle” che in tutto il mondo esplorano i boschi in “squadriglie” e fanno giochi nella natura per imparare la solidarietà e i rispetto delle regole. Il primo scout musulmano d’Italia era un ex cattolico di Udine convertito all’Islam, che non aveva voluto rinunciare alla sua passione di quando era ragazzino. Era il 2007 ed era un’eccezione assoluta. Adesso è nata l’Associazione scout musulmani d’Italia, circa 200 iscritti, tutti figli di immigrati e in contatto diretto con l’Agesci. La vicepresidente è una ragazza immigrata di seconda generazione, Sarah, 26 anni, quinta figlia di una famiglia di egiziani trapiantata in Italia, studentessa di farmacia a Milano, una ragazza solare e allegra, col suo hjiab colorato ben calcato in testa. È stata lei a frequentare un corso Agesci per organizzare un percorso da scout Doc per un gruppetto di 20 bambini di religione islamica, anche loro figli di arabi e nordafricani che vivono a Milano. «Il Profeta Mohammed, pace e benedizione su di lui, viveva anche lui una vita da scout — ha raccontato Sarah ai giornalisti della rivista “Scarp de tenis”, vicina alla Caritas Ambrosiana, che esce questa settimana con un servizio sul tema. «L’Islam come religione combacia con il movimento scout e si può dire che lo scoutismo è Islam perché Maometto viaggiava per diffondere il suo messaggio e viveva in modo molto umile, davanti ad un pasto abbondante non doveva saziarsi, si accontentava di poco, viveva nella natura, e anche nei momenti più difficili era sempre disponibile verso tutti. Sapeva ascoltare, era al 46 servizio di tutti, bambini, donne e anziani, cercava di trasmettere il messaggio dell’Islam a tutti ». Sarah in questi giorni è in Egitto per una breve vacanza, ma appena tornerà riprenderà le sue uscite in giro per la Lombardia, con i bambini al seguito. «Hanno chiesto di fare solo alcune piccole modifiche alle regole generali — spiega Matteo Citterio, responsabile delle relazioni internazionali Agesci — Per esempio, le ragazze portano il velo sul capo e non indossano i pantaloni corti. Nei giochi di gruppo si evita il contatto fisico fra maschi e femmine, come prescrivono i precetti della loro religione. Comunque, noi li sosteniamo nelle loro attività e nella creazione di un percorso per i bambini. Fare formazione a loro è stata un’esperienza interessante». A Milano per altro, con 100mila islamici residenti, non è cosa insolita trovare bambini musulmani anche negli oratori, tanto che l’arcivescovo Angelo Scola, recentemente, ha dato loro il benvenuto: «Se pregano nelle nostre parrocchie, non c’è problema. La vera integrazione si costruisce così». Sarah è d’accordo sul dialogo a tutto campo con i cattolici e pensa che una strada veloce per insegnare sani principi di vita anche ai più piccoli è quella che si impara andando con gli scout: «Così si arriva più vicino a Dio perché ci si distacca dalla vita movimentata di ogni giorno, dalla routine che distrae. Noi preghiamo cinque volte al giorno e anche quando facciamo le uscite tutti insieme, rispettiamo il precetto. Nell’Islam c’è questo sentimento dello “sforzo” che appartiene allo scoutismo: bisogna sempre sforzarsi in modo positivo per migliorarci, essere utili agli altri e sorridere nei momenti difficili, come dice il Profeta». 47 WELFARE E SOCIETA’ del 25/03/15, pag. 46 La dialettica giovani-anziani varia nelle diverse epoche Ma la storia antica dell’Isola di Pasqua svela che spesso sono i padri a divorare i figli Rubare il futuro la dura legge che incatena le generazioni GUSTAVO ZAGREBELSKY LE società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»). Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita? Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e d’istruzio- ne. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione precedente. E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo. A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro esistenza. 48 Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così? Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali — cioè, in pratica, tutte, salvo le società dell’utopia — gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati a se stessi. Erano i non-produttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i “malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva. Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana” della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” — pensioni e assistenza, sanità, lavoro — chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una vera e pro- pria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi. Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto questo disastro? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia. E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle 49 — un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso — occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche — la loro salvezza — era già stato usato e consumato per le teste di pietra. Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore, estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di nuovo. del 25/03/15, pag. 6 Celle illegali a Sollicciano, detenuto risarcito Eleonora Martini Carcere. Sovraffollamento e attività trattamentali inadeguate, nel penitenziario fiorentino di Sollicciano. Radicali italiani in sciopero della fame per chiedere amnistia e indulto e ricordare l’attualità del messaggio di Napolitano Quaranta giorni di sconto sulla pena e 3.840 euro a mo’ di risarcimento del danno, per essere stato recluso per 880 giorni in una cella del carcere di Firenze-Sollicciano senza quei requisiti minimi imposti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutela della dignità dei detenuti. Corte che tra qualche mese, a giugno prossimo, metterà di nuovo l’Italia sotto la lente di ingrandimento per valutare se sussistano ancora le condizioni che portarono alla condanna pilota cosiddetta «Torreggiani» dell’8 gennaio 2013. Non è la prima volta che un tribunale — in questo caso il magistrato di sorveglianza di Firenze, Susanna Raimondo — riconosce a un detenuto costretto a vivere in uno spazio a disposizione, al netto degli arredi, che si aggira tra i 3 e i 4 metri quadri, «in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu», il rimedio previsto dall’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario inserito dal legislatore nel 2014 come meccanismo compensatorio, su richiesta dalla stessa corte di Strasburgo. Risale al settembre 2014, infatti, il primo risarcimento in favore di un detenuto del carcere di Ferrara. «In Emilia Romagna è accaduto più volte — racconta Franco Maisto, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna — però c’è una parte della magistratura, sia pur minoritaria, che tende ad interpretare in modo restrittivo i requisiti necessari per accedere ai risarcimenti previsti dalla legge 117/2014, tanto che si sta pensando anche di riscrivere in modo più chiaro la norma». «In Toscana finora c’erano stati solo rigetti, speriamo che questa ordinanza faccia da apripista», commenta il garante dei detenuti regionale, Franco Corleone. Uno dei punti più controversi del meccanismo di compensazione voluto dal Guardasigilli Orlando per evitare una serie infinita di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti umani è la cosiddetta «attualità del pregiudizio», sulla quale si attende prossimamente il pronunciamento della Cassazione. Non è interpretato univocamente neppure quale sia il 50 giudice — se quello civile o il magistrato di sorveglianza — a cui presentare ricorso, quando il ricorrente è ormai un ex detenuto. Nel caso fiorentino, il magistrato Susanna Raimondo, accogliendo la richiesta di un uomo di 44 anni condannato nel 2011 per reati legati agli stupefacenti, ha riconosciuto la violazione dei diritti umani commessa a Sollicciano malgrado l’amministrazione penitenziaria del carcere non abbia risposto — come spesso avviene — in modo preciso ed esaustivo alle richieste di chiarimento del giudice riguardo le attività trattamentali offerte al detenuto. Perché, come si legge nell’ordinanza, se a disposizione di ciascun recluso c’è uno spazio inferiore ai 3 mq, deve essere considerata violata la giurisprudenza della Corte europea e il trattamento inumano e degradante è da ritenersi accertato. Se invece lo spazio vitale è superiore ai 3 mq ma inferiore ai 4 mq, «vanno valutati altri aspetti delle condizioni carcerarie quali ad esempio il rispetto o meno delle esigenze sanitarie di base, l’aerazione disponibile, le attività trattamentali praticate, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la possibilità di permanere in spazi aperti per un congruo numero di ore». Peraltro, scrive Raimondo, «va considerato che nella determinazione dello spazio fruibile deve essere detratto l’ingombro costituito dal mobilio fisso mentre non devono essere scomputati gli arredi rimovibili, come sgabelli o tavolini. Anche la superficie del letto è ininfluente, essendo utilizzato per distendersi di giorno e per dormire la notte e dunque rientrante nello spazio concretamente disponibile dal detenuto». «L’ordinanza di Raimondo rappresenta un barlume di lucidità nella giustizia italiana: speriamo che a questa sentenza ne seguano altre e che si riesca a compensare la totale inerzia delle istituzioni, nazionali e locali», commentano i Radicali fiorentini sottolineando l’iniziativa della segretaria del partito, Rita Bernardini, che «è in sciopero della fame proprio per ricordare il messaggio alle Camere del presidente Napolitano (ottobre 2013, ndr)». Anche Marco Pannella è intervenuto ieri di nuovo sulla questione da Radio Radicale, annunciando iniziative nonviolente per «chiedere immediatamente amnistia e indulto». Provvedimenti tesi, sostiene Pannella, soprattutto a «salvare Cesare». Perché, «come aveva previsto Napolitano nel suo messaggio alle camere, senza provvedimenti come amnistia e indulto, sarebbe proseguita la condizione tecnicamente criminale, direi assassina e torturatrice, di Cesare, dello stato italiano». del 25/03/15, pag. 6 Opg, Veneto inadempiente. «Ma le sanzioni non bastano» Eleonora Martini Intervista a Nerina Dirindin, della Commissione Sanità del Senato. «Va promosso quel dialogo troppo carente tra le strutture sanitarie e la magistratura» Ci sono regioni che si sono attivate appena qualche settimana fa, quando hanno capito che non ci sarebbe stata nessun’altra proroga. Ma c’è anche chi, come il Veneto di Luca Zaia, ha scelto deliberatamente di non prestare particolare attenzione ad un evento considerato “storico” come la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. E a sei giorni dall’ora X che per legge scatta a fine marzo, continua a non predisporre alcun piano. «Purtroppo c’è qualcuno che tende a considerare un optional ciò che è imposto per 51 legge», commenta la senatrice Pd Nerina Dirindin, che per la commissione Sanità ha effettuato in questi giorni una serie di sopralluoghi per verificare il processo di dismissione degli Opg. Qual è la situazione? Finalmente questo percorso è stato avviato in tutte le regioni, tranne il Veneto. Alcune si sono attivate prima, altre dopo, come il Piemonte che lo ha fatto solo recentemente. Ma ora l’importante è che in questo percorso, che sarà lungo e ad ostacoli, si evitino certe scorciatoie: non si trasferiscano semplicemente le persone da una struttura degradata ad una solo un po’ più bella, si attuino effettivamente percorsi riabilitativi terapeutici personalizzati, si rispetti la dignità di queste persone che sono al contempo rei e folli. Per le regioni che non rispettano i termini di scadenza è previsto il commissariamento… Sì, c’è un commissario nazionale, unico per tutte le regioni, per fare in modo che ci sia omogeneità nell’attuazione della riforma. Nessuna sanzione? Guardi, io credo che sia inutile sanzionare, perché le sanzioni non possono che essere minuscole. Mentre invece bisogna creare una cultura nuova: accompagnare, monitorare, supportare, arrabbiarsi magari… Nella legge abbiamo scritto che il rispetto delle scadenze sugli Opg sarebbe stato considerato uno degli indicatori per maturare il diritto alla quota integrativa del Fondo sanitario nazionale, però non credo che la sanzione sia un deterrente. Il Partito Radicale insieme ad alcuni deputati di Alternativa libera denunciano il mancato rispetto, di fatto, della scadenza del 31 marzo. Guardi a me non interessa che il 1° aprile chiudano gli Opg e buttino via la chiave, perché questa è la cosa peggiore che potremmo fare. Sappiamo che non siamo tutti pronti e se pure resterà un solo internato bisognerà che per lui sia predisposto il migliore piano di cura personalizzato. Allora, tutta questa furia nel denunciare l’arretratezza del processo io la utilizzerei per dare una mano a non creare allarmismi, a sostenere la cultura del rispetto, cosa che per altro i Radicali hanno sempre fatto. Io però non sono per la repressione, ma per la sensibilizzazione, la formazione, la creazione di una cultura positiva. Come si stanno attrezzando i Dipartimenti di salute mentale? I Dsm sono già in sofferenza perché in questi anni di forti restrizioni economiche sono stati spesso trascurati. Perciò sono previste risorse per i concorsi e per l’assunzione del personale, e ci auguriamo che tutte le regioni si attivino immediatamente. Però c’è anche bisogno di formare e creare motivazione nel personale, perché da troppi anni le strutture sanitarie si sono disinteressate agli internati. E la stessa cosa vale anche per la magistratura che finora ha spesso utilizzato gli Opg a mo’ di ripiego rispetto alle carenze dei servizi. Davanti ad un’amministrazione sanitaria che non garantisce una risposta adeguata per qualsiasi motivo, presunto o reale, la magistratura non ha avuto sufficiente attenzione e consapevolezza che si tratta di omissione di atti d’ufficio. Come si scardina questa prassi? Abbiamo visto ovunque una scarsa abitudine al dialogo tra l’amministrazione sanitaria e quella giudiziaria ma ora quasi dappertutto si stanno attivando tavoli e sottoscrivendo protocolli per rimettere in moto una collaborazione più proficua, sia nell’interesse del malato che degli operatori e delle comunità. Nella legge 81 però è stato introdotto anche qualche elemento di novità importante che potrà condizionare il comportamento dei magistrati. Uno per tutti, il concetto di pericolosità sociale, che non può essere ricondotto in alcun modo alla condizione economico-sociale degli internati. Doveva accadere prima per gli Opg, dovrà accadere d’ora in poi per le Rems, le residenze che li sostituiranno. 52 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 25/03/2015, pag. 12 ACQUA PUBBLICA ADDIO OGGI BOLLETTE SALATE MA IL FUTURO È PEGGIO BEFFA REFERENDUM Il governo punta alla creazione di grandi gruppi regionali. I Comuni senza soldi non vedono l’ora di cedere le loro quote ai privati Votato da molti, tradito subito dopo da tutti. Il referendum sull’acqua doveva togliere il profitto dai servizi idrici ed estromettere in futuro i privati dalla gestione. Non se n’è fatto nulla, i prezzi sono saliti, gli investimenti si sono fermati e ora, passata la buriana, qualcosa si muove in senso opposto: dopo quattro anni, l’affare per i privati torna a farsi interessante. L’ultimo allarme, comitati e forum l’hanno lanciato sulla legge delega di riforma della Pubblica amministrazione: “Se applicata, cancellerà il voto di 26 milioni di Italiani”, denunciano. Preoccupa la norma che premia i Comuni che fanno gare aperte (anche ai privati) per gestire i servizi locali. I testi sono vaghi, ma il combinato disposto con le ultime novità de governo di Matteo Renzi – che quel voto non lo ha mai digerito – ha scatenato il tam tam. Il futuro tracciato dallo Sblocca Italia La via scelta è quella tracciata dal decreto Sblocca Italia: un gestore unico dei servizi locali per ogni ambito territoriale, partendo da chi ha almeno il 25 per cento dell’utenza. “Un modo per favorire le grandi multiutilities quotate in Borsa”, denunciano i comitati per l’acqua pubblica: la bolognese Hera, la milanese A 2 a, l’emiliana Iren e la romana Acea, nate nell’alveo dei Ds, ora Pd, e poi passate al padrone di turno. La svolta, però, è arrivata con la legge di Stabilità, che rende impossibili gli affidamenti a società in house e assegna i contributi pubblici ai gestori che si fondono, garantendo loro anche la possibilità di prolungare le concessioni (come già fatto per i signori delle autostrade). La scelta di vendere le partecipazioni rimane per ora ai Comuni, ma chi lo fa viene premiato con la possibilità di usare il ricavato fuori dai vincoli del patto di stabilità: le casse disastrate degli enti locali ne hanno un bisogno disperato. Tanto più che il panorama non è cambiato rispetto al giugno del 2011: il 70 per cento dei gestori, infatti, è ancora in mano pubblica, in un groviglio di migliaia di Comuni-azionisti. Solo nel comparto idrico, il volume d’affari sfiora gli 8 miliardi di euro. Considerando anche gas ed energia elettrica si arriva a 33 miliardi: è il “capitalismo municipale” su cui la Cassa depositi e prestiti guidata dal renziano Franco Bassanini ambisce a giocare un ruolo sempre più da protagonista: presta soldi ai gestori (3 miliardi) e punta a catalizzare gli investimenti privati, visto che le casse pubbliche sono vuote e le infrastrutture sono un disastro. Per farlo però servono le fusioni, che facciano lievitare il valore delle società. Al resto ci pensano i rincari in bolletta che garantiscono gli introiti. Nell’agosto del 2013 lo scenario attuale era stato messo nero su bianco da un report della Fondazione Astrid, presieduta proprio da Bassanini: “L’obiettivo – si legge – è la costituzione di realtà di medie e grandi dimensioni, verso cui “non manca la domanda e il consolidamento / privatizzazione sembra essere la soluzione più probabile”. Tanto più che “l’aggregazione consente di raggiungere una massa critica capace di attrarre investitori privati”. È la strategia che Federutility, l’associazione dei gestori, propone da anni. Per i “referendari” è il preludio a un esproprio che potrebbe completarsi con la modifica del titolo quinto 53 prevista dalla riforma costituzionale. Per ora nessuno nel governo parla apertamente di privatizzazioni, anche se l’unico ostacolo è rappresentato, almeno sulla carta, dal referendum. Matteo Renzi non ha mai fatto mistero di avversare la campagna per l’acqua pubblica (“bloccherà gli investimenti privati”) e oggi a Firenze si paga la bolletta più alta d’Italia (“ma abbiamo investito molto”, si giustifica il Comune). Per i cittadini aumenti fino al 74 %, ma non è finita Perché tanto interesse? Il motivo è semplice: dal 2008 a oggi le tariffe sono salite del 74 per cento, in dieci anni sono raddoppiate, e cresceranno ancora: i rincari sono assicurati, pubblica o privata che sia la gestione. E con loro i ricavi. A sentire i comitati a tradire il referendum è stata l’Autorità per l’energia e il gas, a cui il governo di Mario Monti consegnò a fine 2011 i poteri di controllo, chiudendo il vecchio comitato di vigilanza dei servizi idrici (Con-viri). Gli elettori avevano votato contro la “remunerazione del capitale investito” dei gestori (“fino al 7 per cento” non si fanno profitti sull’acqua”), ma nel nuovo metodo tariffario la voce si è tramutata in “costo degli oneri finanziari”. Nomi diversi, stessa sostanza”, accusano le associazioni dei consumatori. Certo è che nel 20142015 le bollette saliranno di un altro 10 per cento. “E ‘ un metodo innovativo – spiegano dall’Autorihy – perché copre solo i costi efficienti, secondo il principio europeo del full cost recovery. I gestori l’hanno ritenuto perfino troppo oneroso. Se vogliamo che l’acqua rimanga un bene pubblico i costi vanno coperti”. Secondo Federutility, tra il 2010-2014 per colpa del voto, gli investimenti, in un settore che ne ha disperatamente bisogno si sono fermati. Eppure le bollette non hanno mai smesso di lievitare. Secondo l’autorità servono 65 miliardi nei prossimi 20 anni, di cui 6 subito per evitare che l’Ue sanzioni l’Italia per le carenze nella depurazione, con una multa da 485 milioni all’anno. “La scelta di Monti è stata un regalo ai gestori – spiega Roberto Passino, ex presidente del Conviri – L’Autorità non aveva competenze in materia e si è dovuta rivolgere alle risorse interne di Federutility. Una roba da Paese delle banane”. Secondo Passino, il Conviri era stato ostacolato ma aveva messo in piedi un database con i dati dei gestori, ignorato dall’Authority. È il grande equivoco di un referendum che ha fotografato le inefficienze del sistema, disinnescato il giorno dopo: “L’acqua non può essere gestita come il gas o l’energia elettrica. In un settore senza concorrenza, l’unico controllo pubblico è quello comparativo tra i gestori, per premiare i migliori e penalizzare i peggiori. Nulla di tutto questo è stato fatto, e così le bollette saliranno sempre, come è successo per gli altri settori”. Alle società è stato permesso di farsi rimborsare anche gli investimenti pubblici (1, 2 miliardi dal 2008, il 36 % del totale), così il consumatore paga due volte. “Il metodo è neutrale, altrimenti sarebbe stata una scelta politica”, spiegano dall’Autorità, che giustifica la scelta dei dirigenti: “Le competenze vanno ricercate dove si trovano”. Nel 2014 ha sanzionato 1. 250 concessionari tagliando loro del 10 % le bollette. Motivo? Non avevano consegnato i dati minimi di bilancio. Se fossero private, sarebbe intervenuta la magistratura. La commistione tra controllori e controllati ha generato mostri. Il conflitto di interessi dei Comuni è enorme, molti hanno usato l'acqua per gestioni clientelari, e nessuno ha pagato per le voragini nei conti visto che le decisioni sono collegiali”, denuncia Passino. Il Tar della Lombardia ha bocciato i ricorsi dei comitati contro il nuovo metodo tariffario e ora la parola finale spetta al Consiglio di Stato. In caso di bocciatura si tornerebbe al punto di partenza. Dalla Boschi a D’Angelis, l’ascesa dei renziani idrici L'ipotesi di sottrarre spazio ai privati è rimasto lettera morta. A oggi, l'hanno fatto solo due sindaci su ottomila: a Napoli e Reggio Emilia. A Ferrara, il Comune ha ceduto 8 milioni di azioni di Hera, la multiutility che riscuote le bollette di gran parte dell'Emilia Romagna e del Nord, mentre diversi Comuni, guidati dal sindaco di Bologna, sono pronti a far scendere il controllo pubblico sotto il 51 per cento. In Campania, i sindaci protestano contro la Gori, azienda partecipata da Acea che rifornisce 76 Comuni tra Napoli e Salerno. La società, da due mesi guidata dall'ex deputato cosentiniano Amedeo Laboccetta, indagato per favoreggiamento nell'inchiesta sul re delle 54 slot Francesco Corallo, dal 2002 ha contratto un debito colossale con la Regione: 283 milioni di euro. La giunta di Stefano Caldoro ha condonato i primi 70 rateizzandone altri 200, ed è pronta ad approvare una legge che - denunciano i comitati per l'acqua - le spianerebbe la strada. Negli anni ha messo a bilancio crediti dubbi, frutto di un piano tariffario contestato e ora ha ottenuto un conguaglio di 110 milioni di euro dalle bollette, cresciute del 40% negli ultimi 5 anni. L'apertura ai privati, con affidamento diretto ad Acea è arrivata nel 2001 con Alberto Irace presidente dell'Ato di riferimento (l'associazione dei Comuni che affidano il servizio). Nel 2007 è passato proprio in Acea, dove oggi è amministratore delegato. Grande amico di Marco Carrai, consigliere e finanziatore di Matteo Renzi, ha guidato la toscana Publiacqua ai tempi in cui nel cda sedeva anche Maria Elena Boschi. Giorgio Napolitano ha scritto la prefazione del suo libro (Come riparare l'Italia), pubblicato insieme a un altro dirigente renziano ex Publiacqua, Erasmo D'Angelis, ora a Palazzo Chigi per gestire il dissesto idrogeologico e le infrastrutture idriche. “Servono 20 miliardi per evitare le sanzioni Ue, 400 milioni l’anno li metterà lo Stato, il resto arriverà dai privati –ha spiegato ieri D'Angelis – Le bollette saliranno di 10-20 euro, ma sono le più basse d’Eu - ropa. Per coprire il fabbisogno di investimenti servirebbero 50 euro ad abitante”. Solo a Napoli il pubblico si è ripreso la gestione Solo Napoli ha deciso di tornare indietro, trasformando la vecchia Arin spa in una società speciale: Acqua bene comune che non ha fini di lucro e persegue il pareggio di bilancio. “Abbia - mo avviato un difficile percorso di risanamento - spiega il presidente Maurizio Montalto, animatore dei comitati campani - Ma la Regione, dopo aver condonato 70 milioni a Gori ne contesta a noi 50”. A fine 2014 il Comune si è preso gli utili (16 milioni) nonostante l’opposizione dell’azienda. Per ora gli investimenti sono fermi, così come gli stipendi dei dipendenti, “ma nei prossimi mesi presenteremo il piano industriale: i lavori da fare sono tanti, molti enti locali non pagano e dovremo rivolgerci alle banche, ma siamo un’azienda sana, l’unica della Regione”. In Sicilia 17 Comuni della provincia di Agrigento non hanno accolto la privata Girgenti Acque, che si è aggiudicata la concessione per 5 milioni di euro (la prima gara, andata deserta, ne prevedeva 30) e le bollette sono cresciute più del doppio. A Roma, il Comune vuole vendere alla controllata Acea (partecipata anche dal gruppo Caltagirone) la quota in Acea Ato 2, che gestisce l'acqua nella Capitale. La partita è aperta. 55 INFORMAZIONE del 25/03/15, pag. 12 EDITORIA/ LA SVOLTA DOPO LA CRISI Arriva il sì del tribunale l’Unità torna in edicola ROMA . «Buone notizie per giornalisti e lettori: via libera del Tribunale alla riapertura dell'Unità! Anche questa è #lavoltabuona». Così su Twitter il tesoriere del Partito democratico, Francesco Bonifazi dà l’annuncio del via libera del Tribunale all’operazione editoriale che riporterà il quotidiano in edicola. Gli fa eco il vice segretario dem, Lorenzo Guerini che sempre su Twitter commenta: «Bene la decisione del Tribunale: ora L’Unità può ripartire. Bravo a Francesco Bonifazi per il lavoro svolto!». L’Unità ha chiuso le edizioni nell’agosto scorso. E c’è stata una lunga trattativa prima del via libera al nuovo editore e al suo piano di rilancio che vedrebbe a Milano la sede principale del giornale. «Il ritorno del quotidiano L’Unità in edicola è prossimo. Il Pd ha perseguito tenacemente questo obiettivo, grazie al tesoriere Francesco Bonifazi. Con una Unità rinnovata il mondo dell’informazione sarà più ricco», ribadisce la senatrice Laura Cantini, della direzione dem. Del 25/03/2015, pag. 26 Facebook diventa edicola (virtuale): ospiterà gli articoli del New York Times L’ipotesi di un accordo destinato a cambiare l’informazione globale. Tra opportunità e dubbi La rivoluzione che potrebbe cambiare per sempre il volto del giornalismo comincerà per un inammissibile ritardo: di otto secondi. Quanti ne passano, in media, dall’istante in cui clicchiamo sul link a un articolo su Facebook a quello in cui quel pezzo appare davanti ai nostri occhi, nel sito di un giornale. Per la società fondata da Mark Zuckerberg, quell’attesa è una seccatura inaccettabile imposta ai lettori. E, per superarla, basterebbe fare in modo che le storie non fossero sui siti dei vari giornali, ma direttamente sul social network. In altri termini: permettendo agli utenti, mentre stanno condividendo immagini o scambiandosi messaggi, di leggere interi articoli senza uscire da Facebook. Il cambiamento può sembrare minimo. Non lo è, e per una serie imponente di motivi. Il primo riguarda le dimensioni di Facebook: 1,4 miliardi di utenti, un quinto della popolazione del pianeta. Il secondo è che, secondo il New York Times , la proposta di inglobare articoli prodotti da diversi giornali non è teorica, i test inizieranno nei prossimi mesi, e i primi giornali a partecipare dovrebbero essere lo stesso New York Times , BuzzFeed e il National Geographic . Il terzo è che, davanti a queste indiscrezioni, il social network si è trincerato dietro a un «no comment», non a una smentita: e questo ha aperto un dibattito tra integrati e apocalittici nei media di mezzo mondo. 56 In realtà, la faglia apertasi ieri porta alla luce un sommovimento in corso da mesi. «Lo scorso anno, Facebook invitò una serie di editori americani a parlare delle difficoltà che stavano fronteggiando. A dicembre, tornò da loro con quattro idee. E ora ne tira fuori una quinta», spiega Jeff Jarvis, giornalista, docente alla City University of New York e grande esperto di media. «C’è da scommettere che avrà colloqui anche con testate europee. Si parla già del Guardian , ad esempio. I giganti della tecnologia stanno cercando alleati tra chi produce notizie». A un primo sguardo, le ragioni per una collaborazione sono evidenti. I social network (da Facebook a Twitter, a Snapchat) vogliono che i lettori passino più tempo possibile sulle loro piattaforme, ed evitare che vi si diffondano notizie false: avere la garanzia di contenuti di qualità permetterebbe di centrare entrambi gli obiettivi, senza doversi impelagare nel difficile (e costoso) mestiere dell’editore «diretto». E i giornali? Da un lato, avrebbero di fronte una platea non solo immensa (900 milioni di utenti attivi ogni giorno) ma per loro sempre più difficile da raggiungere. Una ricerca pubblicata pochi giorni dal Media Insight Project spiega che, negli Usa, l’88% dei giovani accede alle notizie regolarmente tramite Facebook; e non manca chi crede che, tra 5-10 anni, gli internauti leggeranno notizie quasi solo sui social. Dall’altro lato, la piattaforma di Zuckerberg sarebbe pronta a dare ai giornali una parte dei ricavi pubblicitari derivanti dagli articoli inglobati sulla sua piattaforma. Si tratterebbe di una svolta clamorosa. I nodi, però, non sono pochi. «In questo modo, si incoraggiano le persone a leggere notizie su Facebook. Facendone, di fatto, il guardiano della sfera pubblica: e questo pone dei problemi, dal punto di vista della libertà di stampa», spiega Emily Bell, in passato a capo dell’edizione digitale del Guardian e ora docente alla Columbia University. «In base a quale algoritmo Facebook deciderebbe quali contenuti mostrarci, e in che modo? E quali poteri negoziali avrebbe un giornale se le modalità di presentazione di un suo contenuto sulla piattaforma non lo convincessero?». Non solo: «Ipotizziamo che il numero di utenti di Fb continui a crescere. Chi oserà, a quel punto, rimanere fuori da un accordo che permette ai suoi concorrenti di avere accesso a miliardi di utenti?». Ma il punto vero, per Jarvis, è un altro. «Ciò che conta sono i dati. Per decenni siamo andati avanti a scrivere un articolo, a impacchettarlo e a pensare che potesse andare bene per tutti. Quel modello di informazione è finito. I social sanno il nostro nome, il nostro compleanno, dove viviamo, chi sono i nostri amici e le nostre preferenze. Se dare articoli a Facebook garantirà ai giornali l’accesso a quei dati sui lettori, allora i media potranno finalmente imparare a fornire servizi personalizzati. A creare una relazione, non informazione di massa». C’è da aver paura? No, per Jarvis: i giornali non possono ignorare un’opportunità del genere. «Ma occorre saper negoziare: o l’accesso ai dati dei lettori, o nulla». E alcuni giornalisti del Guardian avrebbero suggerito agli altri giornali di non procedere ad accordi separati, o diventerà poi difficilissimo tornare indietro. Per loro, la rivoluzione degli otto secondi può (anzi, deve) attendere. Del 25/03/2015, pag. 8 Nei talk show c’è spazio solo per i due Matteo IN UN MESE SALVINI È STATO IN VIDEO PER OLTRE SEI ORE, IL DOPPIO DI RENZI Ci sono solo due certezze nei salotti televisivi e in rete: Matteo Renzi e Matteo Salvini. Tutti gli altri leader o presunti tali arrancano, rincorrono. O magari brillano per assenza 57 nelle classifiche delle presenze tv o in quelle della presenza sul più popolare a livello politico dei social network, come Twitter. SECONDO I DATI di Geca Italia (il Laboratorio di indagine sulla comunicazione audiovisiva a cui si affida spesso anche l’Agcom), tra il 10 febbraio e il 10 marzo nella top ten delle presenze nei talk show di Rai, Mediaset e La 7 il primo è il leader della Lega (ha parlato per complessive 6 ore e 25 minuti). Doppia quasi Renzi (3 ore e 47 minuti), che però da premier ha un vantaggio (tutti lo vogliono e tutti lo cercano) ma pure uno svantaggio (anche se lui vorrebbe, non può andare sempre e ovunque). Ma compensa con conferenze stampa ed eventi in diretta streaming che riempiono i tg. È la tv che fa il leader o è il leader che va in tv? Sono gli ascolti che portano voti o sono i voti che fanno scalare le vette dei talk show? A scorrere la classifica Geca, la risposta non è semplice. Al terzo posto c’è Giorgia Meloni, che nei sondaggi è sotto il cinque per cento. Poi, ci sono gli urlatori di professione, come Gasparri e la Santanchè, apprezzati proprio per questo. È il format che comanda. Ma anche Giovanni Toti di Forza Italia e Francesca Puglisi del Pd. Che non bucano lo schermo, ma sono necessari a un contraddittorio. E qui, ecco un dato inaspettato: tra le donne, nell’ultimo mese, la prima è la Meloni (con 3 ore e 6 minuti), segue la Santanchè (2 ore e 35). Solo terza è la prima donna del Pd, la Puglisi (2 ore e 4 minuti). Responsabile Scuola, certo. Ma dove sono i veri volti femminili del governo? Maria ElenaBoschi o MariannaMadia? Non pervenute. Nella top ten non c’è neanche un’altra democratica. Eppure il Pd è il partito di governo, e quello con più parlamentari. Che non reggano la tensione del piccolo schermo? Manca Maurizio Landini: il suo personaggio tv è ancora in ascesa. Tra le assenze interessanti quella di Silvio Berlusconi: letteralmente sparito. Come Beppe Grillo, che però ne ha fatto una sorta di battaglia culturale. Il leader dei Cinque Stelle compensa (in parte) con Twitter: secondo la classifica stilata da Pokedem (il sito che monitora i politici su Twitter e sui social media) è il sesto più twittato con 55. 969 cinguettii negli ultimi 30 giorni. Mentre B. per Twitter è un estraneo. AL TOP DELLA CLASSIFICA la stessa coppia della tv: al primo posto di gran lunga Renzi, con 648. 385 cinguettii. Segue Salvini (173. 185). I due Mattei sanno come farsi seguire da ogni tipo di media. Poi la Meloni (131. 013). E i ministri Stefania Giannini (89. 626) e Andrea Orlando (66. 299). Una piccola rivincita di B. nella classifica dei più citati sui media online: secondo solo a Renzi, batte Salvini. Si parla ancora di lui, ma i talk quasi lo ignorano, i social non lo conoscono. Se serviva una conferma che è un leader in discesa, eccola. Del 25/03/2015, pag. 11 QN, QUEL FEUDO DI CARTA CHE PIACE A CALTAGIRONE E A DELLA VALLE IL RISIKO EDITORIALE Il patron della Tod’s tace sui riassetti di Rcs, un “investimento sbagliato”. Potrebbe vendere e puntare sui quotidiani locali MontiRiffeser Mentre incalza la resa dei conti finale su Rcs in vista del 29 marzo quando scadranno i termini per la presentazione delle liste dei candidati per il rinnovo del cda, i riflettori del risiko editoriale si sarebbero accesi anche su un altro grande impero di carta: la Monrif 58 della famiglia Monti-Riffeser, presente sul mercato attraverso la Poligrafici Editoriale con il circuito QN (Quotidiano Nazionale), Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. IL BOCCONE è ghiotto: conquistare la galassia QN significa entrare in giornali fortemente radicati sul territorio. A Firenze, per esempio, la Nazione è il quotidiano della città per le notizie di cronaca locale ed è ancora molto letto soprattutto per le pagine dei necrologi nonché per quelle dedicate allo sport a livello provinciale. Ma mettere le mani sulla proprietà non è facile finché c’è l’inossidabile Marisa Monti, nata a Ravenna che ha ereditato dal padre Attilio (soprannominato “Artiglio” per la determinazione negli affari sparsi fra zuccherifici, alberghi, raffinerie e giornali) il Resto del Carlino costruendoci poi attorno un polo editoriale. Ancora oggi Marisa è presidente del gruppo, ne possiede il controllo e fra una cena e una convention nella tenuta senese di Bagnaia (la cittadella esclusiva che l’Osservatorio dei giovani editori ha trasformato in capitale convegnistica del giornalismo), riceve in pellegrinaggio i suoi direttori. Nel 2005, era l’estate dei “furbetti del quartierino” che volevano mettere le mani sul Corriere della Sera, in un’intervista a Panorama liquidò una domanda sul rischio che Rcs fagocitasse la Monrif: “Non lo temo perché non vendo. Sono un osso duro, oddio tutto ha un prezzo. Trovassi un Ricucci che mi fa un’offerta super…”. Chissà se oggi ha cambiato idea. I pretendenti non mancherebbero. Gli ultimi rumors raccolti nell’ambiente editoriale, puntano il dito in particolare su Francesco Gaetano Caltagirone che – ecco le voci – vorrebbe “annettere” i quotidiani di QN al suo gruppo che edita già il Messaggero, il Mattino di Napoli e il Gazzettino di Venezia. L’obiettivo sarebbe quello di arrivare a coprire il territorio fino a Piacenza, escludendo però il Giorno che, sostengono le stesse fonti, se fosse acquistato dall’ingegnere difficilmente potrebbe sopravvivere in autonomia, visto che a Milano con il Corriere, il Giornale e Libero il mercato è saturo. Altre fonti guardano invece al possibile interesse da parte di un investitore americano, deciso a entrare sul mercato tricolore. Ma in partita potrebbe entrare a sorpresa anche un altro imprenditore appassionato di editoria. In molti hanno notato lo strano silenzio di Diego della Valle sulla partita Rcs. Mister Tod’s si sarebbe riavvicinato al dominus di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Proprio quell’ “arzillo vecchietto”, con cui per altro sono indebitati i treni Italo di Ntv, che nelle grandi manovre di via Solferino è schierato dalla parte opposta degli Agnelli. Non è un caso se gli ultimi attacchi sulla gestione operativa di Rcs arrivano dal picconatore Della Valle ma dall’amico Urbano Cairo, editore de La 7. La posizione improvvisamente defilata dell’imprenditore marchigiano ha lasciato spazio ad alcune ipotesi. Forse ha deciso di vendere una parte o tutta la sua quota in Rcs che, ha detto del resto lui stesso in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, “è stato un investimento tutto sbagliato, non sono riuscito quasi a toccare palla”. O forse, aggiungono altre fonti, Della Valle si è stancato di fare il ribelle nel salotto di via Solferino occupato dalla Fiat e ha deciso di sparigliare i giochi, uscire, fare cassa e spostare l’investimento su giornali per lui (per la Tod’s e per la sua Fiorentina) forse più strategici almeno a livello territoriale come quelli della Poligrafici Editoriale. Di cui, per altro, il fratello Andrea è già azionista con circa il 10 % acquistato nel 2010 proprio da Rcs per 9, 5 milioni di euro. FANTAEDITORIA? Chissà. Le trattative, se mai ci saranno, andranno comunque fatte con Andrea Riffeser Monti cui la madre Marisa ha affidato il timone operativo di Monrif-Poligrafici e che, secondo quanto si sussurra nelle redazioni di Qn, vorrebbe anche vendere ma non senza il via libera della capo-famiglia. Intanto, spetta a lui licenziare i direttori. E il turnover in casa Qn è altissimo: nel 2012 Mauro Tedeschini è stato licenziato in tronco dalla direzione del quotidiano La Nazione di Firenze perché, secondo il cdr del quotidiano che per protesta aveva proclamato un giorno immediato di sciopero, l’editore non avrebbe condiviso l’impostazione scelta da Tedeschini sullo scontro tra la Fondazione Mps e l’allora sindaco di Siena Franco Ceccuzzi per il ritardo dei finanziamenti al Comune. Stessa sorte è toccata di recente a Marcello Mancini, 59 sostituito da Pierfrancesco De Robertis al timone de La Nazione dopo meno di un anno. A far discutere, nelle redazioni del gruppo, è stata però anche un’assunzione. Quella di Bruno Vespa (già collaboratore) che a novembre 2014 è stato nominato nuovo direttore editoriale del Quotidiano Nazionale. La mossa era stata accolta con “profondo sconcerto” dal coordinamento dei comitati di redazione dei giornali del gruppo, già alle prese con piani di riorganizzazione aziendale, che avevano contestato la scelta di affidare “un incarico superfluo” a una figura esterna. Sul fronte dei conti 2014, Monrif ha aumentato il fatturato a 225, 7 milioni (+ 8, 7 %) grazie ai 20, 1 milioni incassati con la vendita della sede della Nazione a Firenze ma i ricavi pubblicitari sono scesi del 4, 4 % a 62, 8 milioni. Quanto alla controllata Poligrafici Editoriale, ha chiuso in utile il 2014 con 87, 8 milioni di ricavi (-0, 9 %) grazie anche all’aumento di 0, 1 euro del prezzo in edicola. “La crisi si fa sentire per tutti e, come per le banche, anche il settore editoriale sta cercando una nuova fase di consolidamento in modo da alimentare le sinergie e ammortizzare i costi”, commenta un analista. Il che, tradotto, significa nuovi matrimoni e alleanze alla ricerca della preda giusta. Come Monrif? 60 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 25/05/15, pag. 11 L’orizzonte obbligato delle unità di apprendimento Andrea Capocci Formazione. Le scuole primarie tra innovazione della didattica e tagli di bilancio. La proposta finlandese di abolire l’insegnamento in base alle materie disciplinari riapre la discussioone sullo stato dell’arte della situazione della scuola italiana Basta con le materie. Non si andrà più a lezione di matematica, storia, inglese e così via. Si studierà per argomenti interdisciplinari come «Il tempo in Europa», in cui le lingue straniere e la geografia si imparano nella stessa ora. Dove succederà? In Finlandia, la «solita» Finlandia. Ormai nelle scuola la chiamano così. Perché ogni volta che si discute di come migliorare le nostre scuole, c’è sempre qualcuno che cita il paese di Babbo Natale come modello da seguire. Da anni, gli alunni finlandesi si piazzano ai primi posti delle classifiche mondiali per livelli di apprendimento, mentre i nostri arrancano nelle posizioni medio-basse. Le scuole finlandesi sono diventate meta di pellegrinaggio per gli esperti di didattica di tutto il mondo, alla ricerca dell’arma segreta. I soldi, certo, contano. La Finlandia investe nell’istruzione circa il 7 per cento del Pil, contro il 4 per cento dell’Italia. Ma in termini assoluti non ci sono grandi differenze: se si esaminano gli investimenti per studente escludendo l’università, entrambi i paesi sono allineati nei pressi della media Osce. Se si osserva l’organizzazione del sistema, invece, le distanze aumentano. Le scuole finlandesi sono piccole, gestite in grande autonomia ma con un clima collaborativo tra docenti, presidi, alunni e famiglie. Niente test Invalsi e massima libertà sulla definizione dei programmi di studio. Dalle conoscenze alle competenze Talvolta può ricordare la scuola «Marylin Monroe» del film «Bianca» di Nanni Moretti. Per esempio la decisione di abbandonare l’insegnamento della scrittura a mano in favore della tastiera del computer a molti è sembrato un inutile nuovismo. Anche la nuova proposta di abolire le materie non riscuote apprezzamenti unanimi nella stessa Finlandia. Ma il governo non ha fretta: del resto, ogni cambiamento, sin dalla riforma del 1972 da cui è partito il rilancio finlandese, è stato attuato con estrema gradualità e costanza. In realtà, l’innovazione di cui si sta discutendo oggi non è poi così rivoluzionaria. Persino in Italia, i famigerati programmi ministeriali sono stati aboliti già nel 2010 dalla riforma Gelmini, in favore di più flessibili «indicazioni nazionali». La riforma poneva l’accento sullo sviluppo e la valutazione delle «competenze» degli studenti, più che delle «conoscenze». Non è solo un gioco di parole. Secondo la ricerca didattica contemporanea (che si basa in gran parte sul «costruttivismo» di John Dewey, elaborato anni Trenta del Novecento), le competenze si possono valutare solo quando le conoscenze vengono applicate in contesti autentici, ad esempio nello studio di un problema tecnico concreto. Ma per essere autentico, un contesto deve necessariamente essere interdisciplinare, perché la realtà in genere si presenta simultaneamente sotto diversi punti di vista. Da questa riflessione nasce la proposta di superare la scansione tradizionale delle materie, da rimpiazzare con «unità di apprendimento» interdisciplinari. 61 A ben guardare, nella lodatissima scuola primaria italiana questo approccio è sempre stato ampiamente adottato, complice anche il ridotto numero di docenti per classe. Le aule dei nostri bambini sono piene di cartelloni su temi come «l’acqua» o «il terremoto», affrontati da diverse angolature e solitamente con lavori di gruppo. Non a caso, quando a Tullio De Mauro (linguista, studioso dei sistemi educativi ed ex-ministro dell’istruzione) è stato chiesto un parere su #labuonascuola, si è limitato a dire: «Renzi copi la primaria». Agli insegnanti italiani, tuttavia, la riforma Gelmini è risultata indigesta perché qualunque innovazione didattica, accompagnata da tagli pesantissimi al bilancio delle scuole (otto miliardi in meno), è destinata a fallire. Le «unità di apprendimento», dunque, sono ancora poco diffuse e la valutazione delle competenze si limita per lo più a qualche crocetta apposta a fine scrutinio. Le sperimentazioni didattiche, dunque, sono per lo più autogestite dai docenti volenterosi e fanno fatica a diventare sistematiche. In Finlandia, gli insegnanti disposti a tentare nuove strade ricevono aumenti di salario. Il bluff delle classifiche Per altro, sull’efficacia di queste innovazioni vi sono anche dubbi legittimi. Lo storico della matematica Giorgio Israel, che pure ha collaborato con Mariastella Gelmini, ha parlato apertamente di «bluff», a proposito delle performance degli studenti finlandesi. «Le classifiche Ocse-Pisa dicono soltanto una verità parziale circa le abilità matematiche dei bambini finlandesi» mentre «le conoscenze matematiche dei nuovi studenti hanno subito un declino drammatico». Gli studenti finlandesi di oggi, infatti, fanno fatica a rispondere ai quesiti che venivano somministrati loro trent’anni fa. Dunque, i risultati sbandierati dipendono da come sono elaborati i test, che invece vengono spacciati per oggettivi. Basta parlare di scuola, e anche la matematica diventa un’opinione. Del 25/03/2015, pag. 10 DIETRO LE VACANZE DI POLETTI STUDENTI GRATIS IN AZIENDA ALTRO CHE “TROPPE FERIE”: ECCO COSA C’È SOTTO L’ULTIMA USCITA DEL MINISTRO Un apprendistato gratis oppure pagato al 10 per cento del dovuto. Per capire che quella del ministro Giuliano Poletti sulle vacanze scolastiche – “sono troppi tre mesi” – non è una boutade tra le tante, basta andarsi a leggere i testi dei provvedimenti legislativi in via di approvazione. Due, in particolare: il terzo decreto attuativo della legge delega chiamata Jobs Act, quello sulle “Tipologie contrattuali” e il disegno di legge che riforma la scuola. Se letti all’unisono i due documenti offrono un’idea molto precisa del rapporto tra scuola e lavoro immaginato dal governo Renzi e dell’obiettivo di far lavorare di più i giovani in età di studio, di pagarli meno, molto meno o, addirittura, di non pagarli per niente. NON SIAMO PROPRIO al ritorno a Oliver Twist ma, anche nei riferimenti immaginifici – “i miei figli scaricavano le cassette al mercato”, dice il ministro Po-letti – si conferma che il progetto sociale dell’attuale governo è il ritorno alla stagione antecedente al 1970, alla conquista dello Statuto dei lavoratori ma anche alla stagione dei diritti sociali. Quando il ministro dice che “non si distruggerebbe” un ragazzino se invece “di stare a spasso per le strade della città va a fare quattro ore di lavoro”, dice qualcosa che ha già impostato sia nel Jobs Act che nel disegno di legge sulla Scuola. Il terzo decreto attuativo del Jobs Act, quello che 62 deve ancora passare in Parlamento – e che è ancora nei cassetti del governo come se la fretta iniziale fosse esaurita – è finito sotto i riflettori soprattutto per la parte che riguarda la soppressione delle tipologie lavorative “precarie” (in realtà, solo i Co. co. pro., l’associazione in partecipazione e il job sharing). In quel testo, però, c’è un articolo, il 41, che introduce “l’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale”. IL FINE È QUELLO di “coniugare la formazione sul lavoro effettuata in azienda con l’istruzione e formazione professionale svolta dalle istituzioni formative”, cioè gli enti di formazione. Questo apprendistato riguarda i giovani “che hanno compiuto i 15 anni di età” e la durata del contratto “è determinata in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire” e non può essere superiore ai tre anni oppure a quattro nel caso del diploma professionale. Per attivare la tipologia lavorativa, i datori di lavoro sottoscrivono un “protocollo” con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto in base a uno schema definito da un decreto ministeriale che definisce anche il contenuto e “l’orario massimo del percorso scolastico che può essere svolta in apprendistato”. I profili sono poi regolati dalle regione. Ognuna delle quali ha stabilito livelli di formazione annua differente: sono 1. 000 ore in Emilia Romagna, 990 in Piemonte, Toscana e Liguria ma scendono a 400 in Lombardia e Campania. Secondo il Jobs Act, la formazione esterna all’azienda “non può essere superiore al 60 % dell’orario per il secondo anno e del 50 per cento per il terzo e quarto anno”. Quanto alla retribuzione, “per le ore di formazione svolte nella istituzione formativa” il datore di lavoro “è esonerato da ogni obbligo retributivo”. Per quanto riguarda invece, le ore di formazione a carico del datore di lavoro, “è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 % di quella che gli sarebbe dovuta”. Trattandosi di un apprendista, si tratterebbe comunque di una retribuzione inferiore di almeno due livelli di categoria di quelli di un dipendente regolare. Nella legislazione vigente, per la qualifica e per il diploma professionale, si riconosce una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione “almeno nella misura del 35 % del relativo monte ore complessivo”. Il peggioramento è evidente. LO COMPLETA quanto previsto dal disegno di legge su “La buona scuola” dove, all’articolo 4, si parla di “Scuola, lavoro e territorio”. In questa sede si prevedono 400 ore di alternanza scuolalavoro (200 per i licei) negli istituti tecnici; L’alternanza è prevista nei periodi di sospensione dell’attività didattica (Natale, Pasqua, estate) e viene inserita la possibilità dei contratti di apprendistato per la qualifica. Finora le sperimentazioni avviate non hanno funzionato. Anche per questo, nella Buona scuola, sono previsti 100 milioni per finanziare gli incentivi alle imprese. Studiare meno, lavorare tutti. 63 CULTURA E SPETTACOLO del 25/05/15, pag. 10 La tessitrice di parole Alessandra Pigliaru Christa Wolf. «Parla, così ti vediamo», uscito con la casa editrice e/o, raccoglie i pensieri, le lettere, i discorsi della scrittrice tedesca. Da ciò che si affolla nella mente alla sapiente orditura del testo «Sapete, mi piacerebbe scrivere come succede nella testa. Nella testa le cose più disparate accadono simultaneamente, ma purtroppo si può scrivere solo in modo lineare. La mia immagine ideale di scrittura è un tessuto. Vorrei creare un tessuto in cui i fili si intrecciano e si sovrappongono, e poi nasce una trama che non è la risultante di un filo solo». È il 14 giugno del 2010 e Christa Wolf rilascia una lunga intervista a Susanne Beyer e Volker Hage – pubblicata su Der Spiegel – che diviene pretesto per imbastire una conversazione appassionata sulla politica e la letteratura, punti fondamentali attorno a cui si concentra l’ultimo e imperdibile Rede, daß ich dich sehe (Verlag, 2012) ovvero Parla, così ti vediamo (edizioni e/o, pp. 176, euro 17), nella traduzione di Anita Raja. La tessitura di cui accenna, cioè il piacere che affiora da ciò che si affolla nella testa e arriva alla disciplina sapiente del dare conto di sé, è il controcanto di ciò che per Christa Wolf è sempre stata accurata ricerca verso una parola che non cedesse a disordini né a confusioni. Parola sessuata, progetto di desiderio e di conoscenza dove fosse chiaro che «scrivere è fare le cose grandi», dove cioè «le cose si superano solo scrivendole», la meraviglia della scrittura di Christa Wolf si dipana a questa altezza lungo dodici brevi scritti tra saggi, interviste, lettere e discorsi preparati dal 2000 al 2011. In Parla, così ti vediamo, tratteggiata l’esperienza dello scrivere e l’andirivieni della lingua, emergono il rigore degli affetti e dei legami così come l’osservazione critica della temperie in cui Wolf è vissuta, una complessità che ancora può interrogare il presente e la sua violenza strutturale, domandare giustizia, decifrare le falle e le rinunce di una contemporaneità apparentemente senza scampo e fondata sul profitto e sull’ottusità. Si potranno così seguire alcune considerazioni e interlocuzioni collocabili tra Thomas Mann, Paul Parin, Egon Bahr, Günter Grass, nominati e incontrati in specifiche occasioni. Di Mann, Wolf ricorda la caratura in occasione di un premio che riceve nel 2010 e che è a lui intitolato; poi la descrizione dell’incontro con Uwe Johnson. Fin dalla condivisione di uno spazio affascinante e simbolico come il Meclemburgo, Wolf ne restituisce gli accesi scambi, sì che le serate trascorse a chiacchierare di letteratura e politica scorrano insieme al ritratto di uno scrittore appassionato e combattuto per cui centrale è stato «essere infinitamente vulnerabile e contemporaneamente pretendere con impazienza la perfezione, da sé e dagli altri». Sullo stesso crinale della generosità critica, avanza la figura di Günter Grass che utilizza le parole come fossero cipolle – riprendendo il titolo di un suo scritto — e decide di mettere in questione le fratture, gli oneri e le contraddizioni del suo percorso di «ritrovamento di sé», porgendo a Wolf la possibilità di riflettere sull’autobiografia e i suoi rischi. Consapevole che i punti dolenti di una comunità si possano riconoscere proprio dal fatto che se ne tace sia in pubblico che in privato, la scrittrice analizza in più di un passaggio il rapporto ambivalente con la Rdt – che innerva quasi tutti gli scritti compreso il celebre discorso dedicato al «punto cieco» tenuto nel 2007 al Congresso internazionale di psicoanalisi, svoltosi a Berlino per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Parole puntuali sono per esempio dedicate al momento iniziale del movimento rivoluzionario nella 64 Rdt, indimenticato perché all’inizio sorretto da una forte utopia. Domandarsi se l’errore di valutazione delle possibilità offerte dalla situazione storica non possa forse definirsi anch’esso il «punto cieco» di quei soggetti che ne sono stati coinvolti, consente a Wolf di concludere che «la piena comprensione di tutti i nessi e di tutte le conseguenze di una realtà contraddittoria paralizzerebbe ogni necessario movimento». Il ricordo insieme al tema del ripetere e rielaborare caratterizza il processo psicoanalitico ma anche il lavoro di Wolf e serve per precisare alcuni motivi su cui si è soffermata, al contempo proponendo uno sfondo che è quello della letteratura considerata in gran parte «il serbatoio della memoria di un popolo». Brecht, Proust, Tabori, Hesse e Silvia Bovenschen, sono i nomi attraverso cui Wolf allestisce una breve storia della parola ricordo nella scena letteraria. La considerazione politica è tuttavia che siamo in presenza di una marea che si muove tra la dimenticanza e l’assillo per la conservazione senza soluzione di continuità e soprattutto senza una rappresentazione efficace nel tempo presente. Infine, se «lo spirito del tempo si impossessa dei nostri ricordi», questi ultimi si declinano in molti modi: simili a una corrente scura che trascina rituali, retoriche, estorsioni e blocchi rivelano una vasta risacca tra perdita e dimenticanza. Il riferimento principale va all’esperienza dei tedeschi che dopo il secondo conflitto mondiale hanno operato una «massiccia perdita del ricordo», quasi al limite di una negazione di consapevolezza. La memoria «cede, e si vieta l’irruzione del ricordo dei massacri». Eppure, tenendola viva, forse occorre farci i conti per diventare se stessi, «con ogni energia diventare se stessi». 65 ECONOMIA E LAVORO del 25/03/15, pag. 5 Landini chiama, Camusso risponde Massimo Franchi In piazza sabato. Il segretario Cgil alla manifestazione che prosegue la mobitazione contro il Jobs act. Landini chiede di cambiare le pensioni: ci si deve andare a 62 anni senza penalizzazioni. La coalizione sociale tornerà dopo Pasqua: grande assemblea a Roma per lanciare una struttura federale in ogni Comune Sabato pomeriggio a piazza del Popolo con la Fiom ci sarà anche Susanna Camusso. Le divergenze sulla Coalizione sociale vengono messe da parte di fronte all’unità della Cgil e alla battaglia comune contro il governo Renzi e il Jobs act. La notizia la dà Maurizio Landini nella conferenza stampa di presentazione della manifestazione e viene confermata dalla stessa Susanna Camusso: «Io ci sarò, non c’è dubbio, ma non abbiamo ancora ragionato sul comizio». Il segretario generale della Cgil la mattina sarà a Reggio Calabria per un precedente impegno, ma tornerà a Roma in tempo. Se deciderà di parlare dal palco, chiuderà la manifestazione. Se invece sceglierà di non parlare o delegherà ad un altro segretario confederale Cgil, sarà Landini a chiudere la manifestazione. Cosa già accaduta per le manifestazioni della Fiom a piazza San Giovanni il 18 maggio 2013 (parlò Nicola Nicolosi) e il 9 marzo 2012 (parlò Vincenzo Scudiere), ma entrambe le volte Camusso non partecipò al corteo. Il riavvicinamento fra Landini e Camusso è dovuto anche a ragioni tattiche: la battaglia contro il Jobs act sarà lunga e difficoltosa. Se per un eventuale referendum abrogativo servono almeno due anni di tempo (e i testi definitivi su molte questioni, ad esempio la cassa integrazione, non saranno approvati prima dell’estate) anche i ricorsi giudiziari in Italia e in Europa già annunciati da entrambi necessitano almeno di un anno di tempo. Per tutti questi motivi dividersi adesso e rimanerlo per anni non gioverebbbe a nessuno: per primi ai lavoratori. D’altro canto, come ha sottolineato Landini, «la piattaforma della manifestazione è totalmente sindacale» e dunque non crea divisioni in Cgil. Non a caso lo slogan scelto è «Unions»: oltre a riecheggiare la parola sindacato in inglese, porta Landini a ricordare come «oggi sia necessaria la massima unità del lavoro». Il segretario generale della Fiom ha poi ribadito come molti punti programmatici siano stati decisi «dallo stesso direttivo della Cgil». «È la continuazione della battaglia contro il Jobs act», precisa per poi snocciolare il lungo elenco di richieste: «Che ai anche i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti dopo un po’ di tempo dovranno avere le tutele dell’articolo 18; che si lanci una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare, oltre quella sugli appalti che dia la responsabilità delle leggi e di uguali contratti e diritti all’impresa che vince, per un nuovo statuto dei lavoratori che preveda che a parità di lavoro, subordinato o autonomo, ci sia parità di salario; che ci sia un referendum fra gli iscritti Cgil per decidere se andare a più referendum abrogativi del Jobs act»|. La vera novità riguarda le pensioni: la Fiom propone «una drastica riduzione dell’età pensionabile a 60–62 anni senza penalizzazioni e con la reintroduzione delle pensioni di anzianità a partire dai lavori più usuranti». Per chiudere si punta sull’orario di lavoro: «Si 66 tolga la defiscalizzazione al lavoro straordinario e che se si vuole che far lavorare la domenica e i festivi non si usi il “modello Melfi” con un aumento di orario, ma gli accordi firmati alla Continental, alla Carraro, alla Ducati dove in cambio c’è una quinta squadra e si lavora 32 ore pagate 40 per l’aumento di produttività». Infine la richiesta di «una politica industriale che eviti i casi Ansaldo e Pirelli» e che «si arrivi ad una legge sulla rappresentanza che riprenda il modello della certificazione nella pubblica amministrazione aggiungendo il referendum confermativo sul contratto, un contratto così fatto potrebbe avere valore per tutti, erga omnes». Ma «come ogni manifestazione della Fiom» quella di sabato «sarà aperta a tutti e dal palco parleranno studenti, insegnanti precari, partire Iva e immigrati». Il corteo che ricalca interamente quello della “Via Maestra” di sabato 12 ottobre 2013 partirà da piazza Esedra alle 14 per arrivare a piazza del Popolo. «Abbiamo chiesto al Comune di aumentare lo spazio per i pullman da 200 a 300», ha annunciato il segretario organizzativo Fiom Enzo Masini, sintomo «di un clima favorevole come per le nostre migliori manifestazioni fatte di sabato pomeriggio». Ma la coalizione sociale rimane sempre sullo sfondo. Se ieri Landini ha specificato come sia «un percorso ancora lungo», le novità in cantiere sono tante. L’idea della Fiom — i due rappresentanti che la seguiranno direttamente al posto di Landini saranno nominati a breve — è di convocare una grande assemblea costitutiva a Roma la settimana dopo Pasqua, mentre dal punto di vista della struttura l’idea è quella di «spargersi sul territorio», in modo quasi federale. In ogni Comune associazioni e movimenti si metteranno assieme per «piani di azione» che dovranno essere definiti con obiettivi chiari e stringenti senza comunque mai diventare una lista elettorale. del 25/03/15, pag. 5 Contro il jobs act e l’art.81, tutti pronti a firmare Verso il 28 marzo a Roma. Due appuntamenti, la staffetta del 'Fronte Pop' «Aspettiamo il primo licenziamento collettivo. Alcuni, quelli con il vecchio contratto, chiederanno il reintegro. Altri, con il nuovo, non potranno. E allora vedremo che succede». La previsione– ma anche un po’ la sfida — è del giurista Nanni Alleva a proposito degli effetti del jobs act. Quella dei licenziamenti collettivi è solo una delle molte magagne della legge, tutte illustrate ieri in un incontro romano organizzato dal Pcdi. Menù del dibattito, le prossime mosse «unificanti», comepropone Giorgio Airaudo (deputato di Sel) «per rimettere al centro il lavoro». Per esempio la legge di iniziativa popolare per cancellare il pareggio del bilancio in Costituzione, la cui raccolta di firme è già in corso, spiega Stefano Fassina (Pd). Al convegno (presenti fra gli altri il fiommino di Pomigliano Ciro D’Alessio e Roberta Fantozzi del Prc, e un rappresentanteUsb) si parla del possibile referendum sul jobs act. Fra gli oratori all’ultimonon arriva il rappresentanteCgil Corrado Baracchetti. La Cgil, si fa sapere, non gradisce che il dibattito fra le altre cose sia dedicato anche alla «unità delle sinistre». La preoccupazione di non debordare nella politica (partitica), nonostante la ’pace’ con la Fiom, evidentemente si fa sentire. Intanto il primo appuntamento unitario è «Unions», la piazza della Fiom sabato a Roma. Quasi lo stesso menù per per un convegno contemporaneo che si svolge alla sede della Cgil, a pochi passi dall’altro, come un passaggio di staffetta di mano in mano. A 67 organizzarlo qui sono i promotori del «Fronte pop», che incrociano la coalizione sociale nascente con le pratiche politiche già in corso, dal parlamento fino ai territori. Anche qui arrivano Airaudo e Fassina, ma anche Michele De Palma (Fiom), Gabriella Stramaccioni (Libera), Giulio Marcon (Sel). Anche qui si distribuiscono i moduli per la raccolta di firme della legge di iniziativa popolare per cancellare il pareggio di bilancio in Costituzione. 68