Recensioni - Rivista di Psichiatria

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- Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 78.47.27.170 Wed, 15 Mar 2017, 17:03:31
Recensioni
Michele Tansella e Graham Thornicroft
Per una migliore assistenza psichiatrica
CIC Edizioni Internazionali, Roma
2009, pagine 206, € 35,00
La prima impressione avuta leggendo il
testo di M. Tansella e G. Thornicroft è
stata: «Ecco un libro su cui avrei dovuto studiare negli anni della Scuola di
Specialità!». Questo testo dovrebbe essere adottato nelle Scuole di Specialità
per colmare il divario ancora esistente
tra insegnamento accademico e psichiatria di comunità. Qui infatti il lettore può trovare non solo informazioni
relative alla valutazione, alla evidence
based mental health e all’approccio public health, ma soprattutto un metodo,
una griglia mentale per lavorare nei
servizi di salute mentale e migliorarne
l’attività.
Gli autori non hanno voluto solo raccogliere e aggiornare la letteratura
scientifica nel campo della valutazione: il loro fine dichiarato è quello di
migliorare la pratica clinica della psichiatria di comunità, rendendone più
efficaci i trattamenti. I cardini su cui
basare questo miglioramento sono, in
ordine gerarchico, i principi etici, le
evidenze scientifiche e la pratica clinica. L’ordine gerarchico pone giustamente in primo piano un tema, quello
dei principi etici, che negli ultimi anni
ha subito un’eclissi, nonostante sia stato il motore principale della chiusura
dei manicomi e della promulgazione
della Legge 180. L’altra polarità è data
dall’esperienza clinica quotidiana, che
non viene demonizzata, come in alcune interpretazioni estremistiche della
evidence based mental health, ma è
utilizzata all’interno della cornice delle evidenze scientifiche. Le evidenze
scientifiche rappresentano l’anello di
congiunzione tra principi etici e pratica clinica, in quanto permettono di
concretizzare i principi etici e di rendere più efficace la pratica clinica.
Questo intreccio originale tra etica,
esperienza e scienza non è solo innovativo, ma rappresenta anche un mo-
dello operativo per il cambiamento nei
servizi di salute mentale.
Gli strumenti che gli autori propongono per concettualizzare prima e cambiare poi i servizi di comunità sono di
due tipi: da un lato la triade formata da
principi etici, evidenze scientifiche e
pratica clinica, e dall’altro il modello a
matrice, già illustrato nel precedente libro di Tansella e Thornicroft “Manuale
per la riforma dei servizi di salute mentale. Un modello a matrice”. In questo
modello, alla distinzione classica tra
struttura, processo ed esito si aggiunge
l’analisi “geografica” del livello su cui si
vuole intervenire: nazionale, regionale,
locale del Dipartimento di Salute Mentale e individuale del paziente.
Un merito di questo libro è quello di
chiarire al lettore italiano l’importanza
dell’approccio public health nella salute mentale, un approccio che coniuga
l’esperienza della psichiatria di comunità italiana alla concettualizzazione
della public health, nata nel mondo anglosassone. Un esempio di applicazione
è dato dall’analisi del divario esistente
tra l’impatto dei disturbi psichici e la
sua percezione a livello della popolazione, dei politici e amministratori, degli operatori sanitari: per tutte queste
figure, spesso, i disturbi psichici non costituiscono un’emergenza in termini di
salute pubblica. Un dato colpisce particolarmente: solo una minoranza dei pazienti con disturbi psichiatrici è in trattamento e la maggioranza dei bisogni di
trattamento rimane inevasa (treatment
gap). Non solo i politici o gli amministratori, ma anche gli stessi psichiatri
non sono consapevoli dell’ampiezza del
treatment gap (per quanto riguarda i
disturbi emotivi comuni ma anche i disturbi mentali gravi) e della necessità di
monitorare questo indicatore epidemiologico, così significativo in termini
di salute pubblica. I dati sull’impatto
dei disturbi psichici nella popolazione e
sul treatment gap cessano di essere aridi dati scientifici, ma diventano potenti
strumenti di advocacy. E quello dell’advocacy è un compito che negli ultimi
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anni la psichiatra di comunità ha talvolta dimenticato, sottovalutandone il ruolo. Una costante attività di advocacy da
parte degli operatori della salute mentale non serve solo a tutelare meglio i
diritti degli utenti, ma, dando più visibilità ai bisogni di salute mentale della
popolazione, serve anche a salvaguardare le risorse dei servizi.
All’inizio di questo viaggio nella psichiatria di comunità, gli autori tracciano una storia della psichiatria attraverso la storia delle sue istituzioni: dalla
nascita dell’ospedale psichiatrico fino
al suo declino e allo sviluppo della psichiatria di comunità. Il fenomeno della
deistituzionalizzazione viene legato sia
ai cambiamenti di carattere sociale e legislativo sia alle scoperte nel campo
della farmacologia e della riabilitazione
avvenute nel secondo dopoguerra. Il
confronto con le esperienze degli altri
Paesi è particolarmente fecondo per il
lettore italiano: se da un lato abbiamo
la consapevolezza di avere chiuso i manicomi e avviato in modo capillare la
community care, dall’altro proviamo
stupore quando constatiamo che nei
Paesi ad alto reddito siamo i soli a lavorare senza ospedali psichiatrici. In questo senso, il pessimismo di B. Saraceno
nell’Introduzione al volume è comprensibile: il cammino della community
care è lento e se l’Italia è riuscita, con
tutta una serie di difficoltà, a progredire su questa strada lo ha fatto anche
perché, diversamente dal resto dei Paesi sviluppati o in via di sviluppo, non si
portava sulle spalle il fardello di ospedali psichiatrici aperti e funzionanti.
Quali sono le basi etiche della psichiatria di comunità? Il tema etico riguarda
non solo la lotta allo stigma o i diritti
individuali dei pazienti (quali il diritto
allo studio, al lavoro, alla possibilità di
avere una vita affettiva), ma anche le
caratteristiche organizzative di un servizio. Queste, infatti, rappresentano la
traduzione in termini operativi dei
principi etici: ne sono esempi l’accessibilità dei servizi, la continuità della cura, il coordinamento tra strutture e
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team clinici. Il testo contiene al suo interno anche un breve manuale di programmazione sanitaria: partendo dalle
evidenze epidemiologiche si arriva a
definire non solo le strutture indispensabili per un servizio di comunità
(strutture ambulatoriali, team territoriali, reparti psichiatrici in ospedale generale, strutture residenziali e riabilitative), ma anche gli interventi basati sulle evidenze di cui queste strutture devono essere il contenitore.
Un merito di questo libro è quello di
analizzare gli ostacoli allo sviluppo della community care a livello globale, intervistando esperti provenienti non solo da Paesi ad alto reddito, ma anche in
via di sviluppo. Il libro fa proprio il
cambiamento portato dalla globalizzazione anche nel campo della salute
mentale: vi sono una costante attenzione ai diversi livelli di risorse e un richiamo al lavoro che svolge l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel favorire la diffusione della community
care e nel migliorare gli strumenti di
valutazione in questa area. La lettura è
stimolante anche per il lettore italiano,
in quanto i temi che gli autori sollevano
si ripresentano costantemente all’interno della psichiatria di comunità, in una
certa misura indipendentemente dal
grado di sviluppo del sistema. La parte
finale – le lezioni apprese – sottolinea
l’esigenza di proiettare su tempi lunghi
i cambiamenti dei servizi, di coinvolgere utenti e familiari, di proteggere il
budget dei servizi di salute mentale e,
infine, di curare in modo specifico la
formazione degli operatori.
Il livello nazionale/regionale è quello
che si situa al livello superiore, quando
viene proiettato sull’asse geografico del
modello a matrice. Questo livello è decisivo non solo per le influenze che l’atteggiamento del pubblico e l’orientamento dei politici hanno sulla legislazione psichiatrica e sull’organizzazione
dei servizi di salute mentale, ma anche
perché a livello nazionale o regionale
vengono decise le risorse assegnate al
finanziamento dei servizi di salute mentale e vengono definiti gli standard e i
curriculum professionali, decisivi per
garantire la qualità della cura. A livello
locale del servizio di salute mentale
vengono invece definite le funzioni che
il DSM svolge all’interno del proprio
territorio (la catchment area o area geografica di responsabilità). Fondamentali sono i rapporti che il servizio intrattiene con la popolazione e i principali
stakeholders. Tra questi, particolare importanza hanno pazienti e familiari:
ascoltare le loro opinioni, coinvolgere il
paziente come partner nel progetto terapeutico, utilizzare i familiari come risorsa, monitorare i loro bisogni e il loro
grado di soddisfazione, tutti questi temi
rappresentano altrettanti punti fermi
nel rapporto che si deve creare tra servizi, pazienti e familiari. L’ultimo livello è quello individuale, che riguarda
l’attività di tipo clinico diretta al paziente. Viene ribadito in modo molto
chiaro che lo scopo di un servizio è
quello di erogare ai pazienti interventi
di sicura efficacia. Questo può avvenire
solo se si rafforza il legame che lega la
pratica clinica alle evidenze scientifiche. Ne esce una posizione di grande
equilibrio tra pratica clinica e evidence
based mental health, in cui gli autori sostengono la necessità di uno scambio
bidirezionale tra queste due aree. Le
conseguenze sono importanti, anche sul
piano della valutazione e del monitoraggio: non ha più senso monitorare solo quanti interventi vengono erogati,
ma è necessario rilevare anche la loro
qualità ed efficacia.
Il secondo asse della matrice è dato
dalla triade di input strutturali, processi di cura ed esiti dei trattamenti. Per
quanto riguarda gli input strutturali e
le risorse che vengono immesse nel sistema di assistenza psichiatrica, gli autori chiariscono come le risorse siano
utili solo se contribuiscono direttamente o indirettamente a migliorare
l’esito dei pazienti e l’efficacia dei trattamenti. Migliori servizi non si ottengono solo incrementando le risorse disponibili, ma soprattutto indirizzando
quelle esistenti verso interventi efficaci. Viene sottolineato il ruolo che hanno sistemi informativi nel misurare i
processi di cura, le attività che hanno
luogo nel processo di erogazione dell’assistenza psichiatrica; vengono anche forniti esempi di indicatori utilizzabili a livello del singolo DSM. Sicuramente, il braccio della matrice che
sta più a cuore agli autori è quello che
riguarda l’esito (outcome) dei trattamenti. Spesso è stata data troppa atRivista di psichiatria, 2009, 44,
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tenzione agli input strutturali (sia legislativi sia di risorse), mentre minore
attenzione è stata dedicata all’analisi
dei processi di cura e ancora minore a
quella all’esito dei trattamenti. Questa
carenza è rilevante, in quanto la sfida
che la psichiatria di comunità dovrà affrontare nei prossimi anni sarà quella
di erogare interventi efficaci in sintonia con le evidenze scientifiche. Sarà
quindi necessaria una maggiore capacità di misurare l’esito, capacità che
oggi non è pienamente sviluppata, in
particolare
a
livello
nazionale/regionale e locale. A livello nazionale/regionale sono proposti indicatori
di esito quali i DALY’s elaborati dall’OMS, il tasso di suicidio o la mortalità, mentre a livello di servizio di salute
mentale viene consigliato rilevare il livello di occupazione e la soddisfazione
dei pazienti. Sono, invece, più sviluppate le misure di esito a livello del singolo paziente: le variabili più frequentemente utilizzate sono la gravità dei
sintomi psichiatrici, l’impatto della
malattia mentale sui familiari, la qualità della vita e il grado di disabilità, il livello di bisogni soddisfatti e non soddisfatti. Gli autori ricordano che per
misurare in modo valido l’esito è necessario utilizzare strumenti dotati di
proprietà psicometriche definite.
Più che in altre aree della medicina, i
servizi di salute mentale basano la loro
attività quasi interamente sulle risorse
umane: gli operatori hanno un ruolo
centrale nel miglioramento dell’assistenza psichiatrica. In psichiatria, dove
gli strumenti tecnici sono di importanza
limitata, la vera risorsa dei DSM sono
gli operatori. In questa ottica, è necessaria quella che gli autori chiamano una
“manutenzione” emotiva e organizzativa dei team clinici, per evitare il burn
out e la perdita di motivazione tra gli
operatori. Viene sottolineato il ruolo
della formazione sia quella prima della
laurea sia quella continua “in service”.
Anche in questo caso però non è importante la formazione in sé, ma la formazione basata sulle evidenze e dedicata alla implementazione di interventi
efficaci e alle linee-guida.
L’ultimo capitolo è dedicato alle azioni
che sono ritenute utili per migliorare
l’assistenza psichiatrica. Gli autori confessano una visione “ambiziosamente
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realistica” di questo miglioramento.
Identificano alcuni ostacoli al cambiamento: dai finanziamenti insufficienti
all’intrappolamento delle risorse disponibili dentro gli ospedali psichiatrici,
dalla scarsità di operatori adeguatamente formati, all’incerta leadership
dei dirigenti e alla frammentazione di
gruppi di advocacy. Non esistono ricette miracolose per superare questi problemi, ma solo un lavoro lento e costante. La valutazione svolge un ruolo
importante per favorire il miglioramento: ciò che non può esser misurato non
può essere migliorato. Accanto alla valutazione, è necessario utilizzare in misura maggiore i risultati delle evidenze
scientifiche, includendoli nei percorsi
clinici e nei protocolli di assistenza.
Secondo gli autori, realizzare un’assistenza psichiatrica migliore significa fare riferimento su quanto c’è di meglio
in termini di etica, evidenze scientifiche
e pratica clinica, ponendo una costante
attenzione all’esito dei trattamenti. La
divisione che Tansella e Thornicroft
propongono tra principi etici e strumenti tecnici è quanto mai attuale: a
trent’anni dalla Legge 180 i principi etici ispiratori sono gli stessi, ma gli strumenti (siano essi evidenze scientifiche
o pratiche cliniche) che li sostengono
sono cambiati. Molto del dibattito, che
è stato suscitato dall’anniversario della
Legge 180, avrebbe potuto trarre giovamento da quest’analisi. Cambiare gli
strumenti tecnici non significa cambiare i principi etici e mentre è doveroso
aggiornare i primi, è necessario rispettare i secondi.
Antonio Lora
Presidente della Società
Italiana di Epidemiologia Psichiatrica
Edoardo Boncinelli
Come nascono le idee
Editori Laterza, Roma-Bari 2008, pagine 153, € 10
Da dove esattamente, quando e come
nascono i pensieri non lo sappiamo.
Possiamo intanto dire che il cervello e
la mente si manifestano attraverso il
pensiero. È stato Socrate a scoprire per
primo il correlato mentale della parola,
il concetto, l’idea. Al di là di tutti i possibili usi della parola “cavallo” – sostie-
ne Socrate – c’è l’idea della “cavallinità”, cioè il concetto mentale di cavallo.
Al di sopra di tutti i possibili usi della
parola “virtù” sta il concetto di virtù. Le
idee, per Platone, sono concetti saldi,
immutabili, sono immagini, modelli
perfetti dotati di esistenza e situati in un
altro mondo – l’Iperuranio –, al di sopra
del cielo. Si tratta di un aldilà metafisico, legato al concetto di trascendenza.
Le idee nella Scolastica e nel Neoplatonismo vengono considerate come gli
oggetti dell’intelligenza (divina) e identificate con l’Intelligenza stessa (Plotino). Il Logos – afferma Sant’Agostino –
ha in sé le idee, che sono eterne, mentre
San Tommaso dichiara: “Il termine greco idea si dice in latino forma e per idea
si intendono le forme di alcune cose
esistenti al di fuori delle cose stesse”.
Il concetto di idea come rappresentazione del pensiero umano viene sostenuto da Cartesio e Kant. Le tre idee che
Kant enumera come oggetti necessari
della ragione sono l’anima, il mondo e
Dio, entità prive di realtà appunto perché sono al di là dell’esperienza. Nell’Idealismo, la nozione di idea riafferma “tutta la portata metafisica e teologica che aveva avuto nel neoplatonismo” (Abbagnano).
In realtà, il problema delle idee, della
loro natura e della loro genesi costituisce una sorta di filo conduttore nella
storia del pensiero. L’aspetto centrale
di questo problema è rappresentato dal
dilemma “innato” o “appreso”. In base
a una linea di pensiero, le idee presenti
nella mente mostrano una componente
innata. Esse preesistono dentro di noi.
Secondo un altro orientamento, sostenuto dagli empiristi inglesi, non si possono formare idee nella nostra mente
se prima non si passa dall’esperienza
dei sensi: “Nihili intellectu quod prius
non fuerit in sensu” (Hobbes). La mente viene dunque intesa come una tabula rasa priva delle minime sembianze di
una idea.
Ogni mente umana, per Dennet, “non è
solo il prodotto della selezione naturale,
ma anche di una progettazione culturale di vastissime proporzioni”. Ogni componente mentale inoltre possiede una
lunga storia che a volte copre migliaia di
anni. Secondo Dennet, le idee, la mente,
nascono con il linguaggio. È provato
che l’individuo è geneticamente prediRivista di psichiatria, 2009, 44, 5
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sposto al linguaggio. I bambini, che in
media imparano dodici parole al giorno
fino all’adolescenza, non hanno bisogno
di imparare la propria lingua perché
hanno disposizioni di “apprendimento
innato” (Chomsky) che si adattano al
contesto in cui vivono, esattamente come gli uccelli non si devono preoccupare delle loro penne per volare. Nell’acquisizione del linguaggio, le nostre idee
diventano sempre più elaborate, fino ad
arrivare alla “rappresentazione mentale”. La parola così assolve alla funzione
di prototipo del pensiero.
Attualmente, gli studi nel campo delle
neuroscienze parlano dei pensieri come
“correlati mentali” cioè di immagini
mentali, di ideazione e di elaborazione
di idee. Oggi, le moderne neuroscienze
ci stanno fornendo molte conoscenze
sul funzionamento del cervello, con riguardo alle sue capacità cognitive. In
questa linea di ricerca, particolare importanza assume il campo di studio
chiamato brain imaging o neuroimaging. Attraverso l’uso di metodiche di
visualizzazione dell’attività del cervello
(PET, TAC, RMN e RMF) noi possiamo guardare dentro la testa di una persona mentre sta eseguendo un compito.
Si è accertato così che quando un soggetto parla si attiva una regione temporale sinistra (area di Broca), mentre se
il soggetto sta ascoltando, si attiva una
regione leggermente posteriore alla
prima (area di Wernicke). Sappiamo
poi che possediamo un’area specifica
per la prima lingua e un’area per la seconda lingua.
Con l’uso di queste tecniche, abbiamo
appreso che possediamo un centro nel
cervello dedicato ai nomi propri e un
centro per i nomi comuni. Abbiamo appreso inoltre che esiste l’area dei sostantivi e l’area dei verbi. Abbiamo scoperto quale area cerebrale è coinvolta
nell’identificazione delle forme o delle
facce; quale si attiva quando si ascolta la
musica; quale quando si prova disgusto;
quale quando dobbiamo prendere una
decisione; quale quando la nostra scelta
ci è piaciuta o viceversa non ci è piaciuta. Dobbiamo precisare che le diverse
funzioni non sono compiute da un’area
specifica. Esse sono il risultato dell’attività di tutto il cervello. Possiamo tuttavia ritenere che quell’area svolga un
ruolo preminente. Il cervello non è co-
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stituito di aree indipendenti e autonome, ma di un insieme di funzioni.
Quello che siamo – chiarisce Boncinelli – è l’esito dell’azione congiunta di almeno tre componenti: quella genetica,
quella rappresentata dalle nostre esperienze e dal nostro ambiente e quella di
natura essenzialmente casuale. Esistono poi differenze fra individuo e individuo. Inclinazioni e qualità differenti si
manifestano anche in una coppia di gemelli geneticamente uguali. Non esistono dunque due cervelli identici.
L’esistenza di queste differenze interindividuali rende molto più difficile lo studio e la comprensione del cervello, della
mente e del comportamento umano. Il
pensiero deve passare per la coscienza,
che è – scrive Boncinelli – “il punto più
alto e probabilmente inaccessibile delle
nostre attività cerebrali”. La coscienza
rappresenta “il problema dei problemi”
per le neuroscienze. Nel concetto di co-
scienza confluiscono diverse componenti come la consapevolezza, l’autocoscienza e la coscienza fenomenica.
Indubbiamente, esiste una “consapevolezza” che caratterizza anche molti animali, che sono più o meno consapevoli
di ciò che stanno facendo o stanno per
fare. Esistono poi stati di coscienza, privati e soggettivi, che sono incomunicabili, ma accessibili soltanto dal soggetto, dall’io, mediante l’introspezione. È
la coscienza fenomenica.
Circa il rapporto fra coscienza ed eventi psichici inconsci, dobbiamo sottolineare che il concetto di “inconscio”
comprende tutto ciò che resta fuori da
un determinato episodio di coscienza.
Sono inconsci tutti i processi fisiologici
che hanno luogo nel nostro corpo. Inconscio designa “l’insieme dei contenuti non presenti nel campo attuale della
coscienza” (Laplanche e Pontalis), e indica uno dei sistemi definiti da Freud
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nella sua teoria dell’apparato psichico e
consiste di “contenuti rimossi cui è stato rifiutato l’accesso al sistema preconscio-cosciente mediante la rimozione”.
Per Freud, la “via regia” alla scoperta
dell’inconscio è rappresentata dal sogno. Esso costituisce il “grande serbatoio” della libido e più in generale dell’energia pulsionale. Anche all’Io e al
Super-io vengono attribuite un’origine
e una componente inconscia.
Concludendo, di che cosa si nutre la nostra mente? Di idee. Le idee sono la
grammatica del pensiero, l’elemento
mentale di ogni immagine percepita,
l’embrione di ogni discorso, progetto o
azione futura. La nostra mente ci si palesa, in sostanza, attraverso le idee.
Guido Brunetti
Collaboratore del Dipartimento
di Scienze Psichiatriche
Università La Sapienza, Roma