Arcireport numero 40, 19 novembre 2015

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Arcireport numero 40, 19 novembre 2015
arcireport
settimanale a cura dell’Arci | anno XIII | n. 40 | 19 novembre 2015 | www.arci.it | [email protected]
Usare gli strumenti del dialogo e della
conoscenza contro l’odio e il razzismo
di Francesca Chiavacci presidente nazionale Arci
Gli attentati di Parigi suscitano dolore,
sgomento, indignazione, dimostrazioni di solidarietà, interrogativi. Queste
emozioni rischiano addirittura di risultare ipocrite se si pensa che a scatenarle
sia stato necessario un colpo al cuore
dell’Europa e non quanto è accaduto,
per esempio, poche ore prima di Parigi
a Beirut, alcuni giorni addietro nello
spazio aereo egiziano e da troppo tempo
ai danni di civili innocenti vittime di
attentati e bombardamenti.
Ma soprattutto queste emozioni e
domande partecipano alla storia di un
grande fallimento.
Il potere terroristico devastante (e attraente per molti, troppi) del Daesh,
nella sua doppia dimensione sovrana in
Medioriente ed extra territoriale nella
‘civile’ Europa, non è frutto del caso.
Ha fallito la sciagurata politica ultrabellica nata dalla reazione all’attentato
dell’11 settembre, che dopo quindici anni
può vantare il merito di aver consentito la scarsa diffusione di democrazie
e l’espansione del fondamentalismo
religioso islamista. Ha fallito la strategia di lasciare al proprio destino la
questione israelo-palestinese. Hanno
fallito le ambiguità e complicità, tanto
dell’Occidente e della Turchia quanto dei
governi corrotti del Golfo col jihadismo,
le cui conseguenze sono state pagate
pesantemente dalle forze democratiche
anti-Assad, continuano a essere pagate
da milioni di curdi, e via via nel resto del
Medioriente e in Africa. Hanno fallito, o
si sono rivelate del tutto insufficienti, le
politiche di inclusione e di promozione
dei diritti nelle democrazie europee, se
accade che i figli della nuova Francia
e dell’Europa, in nome di un brutale
totalitarismo teocratico, odiano e uccidono i loro fratelli francesi e partono
per andare a combattere con lo Stato
islamico.
Il terrorismo che arriva nel cuore
dell’Europa è il risultato di un conflitto in cui il nodo fondamentale delle
guerre dentro l’Islam tra sunniti e sciiti
è stato usato come uno strumento per
mantenere equilibri e fare affari. Si è
preferito lasciare che l’Is potesse contare su ingenti risorse finanziarie. E
come bene ha scritto Etienne Balibar:
«In questa guerra nomade, indefinita,
polimorfa, asimmetrica, le popolazioni
delle ‘due sponde’ del Mediterraneo
diventano ostaggi».
Non vogliamo rimanere ostaggi e dobbiamo lavorare perchè gli errori commessi non si ripetano. Per questo è il
momento di riflettere, di dare una mano
per una lucida analisi.
Per farlo, è necessario ricordare, essere
solidali, conoscere, mettere in luce pezzi
di verità. E questo numero di Arcireport,
dal carattere monografico, vuole, nel
suo piccolo, partecipare a fare questo.
Abbiamo chiesto a esponenti della
società civile del Mediterraneo e del
mondo, alle voci dissonanti in Italia, a
chi negli anni ha studiato e approfondito
le questioni del disarmo, a tanti nostri
compagni di strada un contributo di
analisi e di informazione che in questi
giorni ci è sembrato di non ritrovare nei
media, tranne rare eccezioni.
Perché sapere come è stato possibile
ritrovarsi a questo punto è la prima
condizione per combattere i rischi di
una pericolosissima tripla spirale.
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Quella che vedrebbe l’effetto incrociato
della sospensione della chiusura delle
frontiere e di modifiche alle libertà
generato del razzismo, le equazioni rifugiato-jihadismo/musulmano=terrorista,
quella di una decisa intensificazione
dell’intervento militare in Iraq: non
farebbe altro che sferrare altri colpi alle
democrazie europee già piuttosto deboli
per altri motivi, affondare qualsiasi prospettiva di pacificazione e sviluppo nelle
società mediorientali, gettare benzina
sul fuoco della propaganda Is.
Sapere significa far conoscere che abbiamo bisogno di ripristinare l’effettività
del diritto internazionale e dell’autorità
delle Nazioni Unite.
Sapere significa dare forza alle ragioni di
ciò che questo terrorismo dall’ideologia
terribile - che si fa scudo di una visione
distorta di un credo religioso - scuote alle
fondamenta la cultura delle democrazie
europee: la laicità che, nel momento in
cui viene sfidata, non può e non deve
smarrirsi ma mostrarsi uno dei fondamenti della libertà e dell’uguaglianza.
Riuscire a far capire che la risposta
militare non è né giusta nè efficace (e
quello che è accaduto in questi anni
lo sta a dimostrare), che gli strumenti
del dialogo e della conoscenza sono
fondamentali, far crescere il pensiero,
diffondere cultura contro l’odio e il razzismo, rappresenta il compito principale
dell’Arci, la più grande associazione
culturale laica e di sinistra esistente
in Italia.
Troveremo nei prossimi mesi gli strumenti giusti per agire tutto questo in
maniera capillare, nei territori, tra i
cittadini e al tempo stesso per far sentire la nostra voce di soggetto politicoculturale che , insieme ad altri, continua
e continuerà a manifestare le proprie
idee su tutto questo.
Dovremo far capire le ragioni della
pace, della democrazia, dell’inclusione e useremo tutte le nostre energie,
coinvolgendo le basi associative e socie
e soci, mettendo a disposizione i nostri
spazi, organizzando momenti pubblici
per la disseminazione di informazioni,
nella consapevolezza che non sarà facile,
che il 13 novembre è avvenuta una vera
e propria ‘cesura’ culturale che appare
in questi giorni sempre più pericolosa
e negativa.
Questa volta, più di altre volte, abbiamo
bisogno di sapere e raccontare cosa, e
come, è successo davvero.
A Parigi le autorità vietano
le manifestazioni in occasione
della COP21
Il comunicato della coalizione francese
La Prefettura di Polizia di Parigi ha annunciato che, a causa
dei tragici eventi avvenuti il 13
novembre, la Global Climate
March prevista per il 29 novembre e la manifestazione
del 12 dicembre non saranno
autorizzate a tenersi a Parigi.
«Ci rammarichiamo che non
si siano trovate alternative
per permettere che i nostri
programmi di mobilitazione
potessero andare avanti. Tuttavia, siamo più determinati
che mai a far sentire la nostra
voce per la giustizia climatica
durante tutte e due le settimane - ha dichiarato Juliette
Rousseau, coordinatrice della
Coalizione Clima 21, la rete
di organizzazioni di società civile che
coordina la mobilitazione - ci rendiamo
conto della gravità della situazione, ma
ora più che mai, abbiamo bisogno di
trovare idee creative per chiedere alle
persone di unirsi alle azioni per il clima».
E in effetti, nel fine settimana fra il 28 e
29 novembre, in occasione della COP21,
milioni di persone in tutto il mondo
marceranno per la giustizia climatica.
Più di 2.173 eventi si terranno in più di
50 paesi, incluse 57 grandi manifestazioni in tutti i continenti e dozzine di
marce in tutta la Francia.
Per quel che riguarda il 29 novembre
e il 12 dicembre a Parigi, la Coalizione
Francese è già al lavoro per trovare
modi creativi per agire e assicura che il
futuro accordo sul clima non sarà solo
frutto dei negoziatori governativi ma
dei popoli del mondo.
Il Citizens Climate Summit, previsto
per il 5 e 6 dicembre a Montreuil (Seine
Saint-Denis) e l’Action Zone Climate
(ZAC), previsto dal 7 all’11 dicembre a
Parigi-Centquatre dovrebbero tenersi
come programmato. Queste mobilitazione saranno due grandi opportunità
per dimostrare che la società civile è in
lotta, propone soluzioni ai cambiamenti
climatici ed è determinata a lottare
contro la crisi climatica.
«Il Paris Climate Summit non è fine a
sè stesso. Come cittadini del mondo,
continueremo a impegnarci per costruire
un movimento che dopo questo summit,
e oltre, si rafforzerà per chiedere una
necessaria riconversione energetica
per affrontare la comune minaccia dei
cambiamenti climatici» conclude il
comunicato della Coalizione francese.
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La gabbia della comunità
Intervista alla scrittrice libanese Hoda Barakat
a cura di Guido Caldiron
Tra le più note e brillanti scrittrici libanesi,
Hoda Barakat vive da oltre trent’anni a
Parigi, nella zona di Place de la République, epicentro dell’attacco terroristico che
ha colpito la capitale francese. Profonda
conoscitrice dell’opera di Marcel Proust
e Robert Musil, ma anche dei poeti arabi
del IX e del X secolo, indaga da sempre i
simboli e la storia del paese mediorientale,
restituendo della crisi di quella parte del
mondo un’interpretazione che mette al
primo posto la ricerca della libertà rispetto
alle appartenenze comunitarie, religiose,
di genere. Nata nel 1952 a Beirut da una
famiglia cristiano maronita originaria
del Monte Libano, trasferitasi in Francia
dalla fine degli anni Ottanta, città dove è
stata per oltre un decennio responsabile
della redazione giornalistica di Radio
Orient, una delle emittenti più ascoltate
tra i francesi di origine araba, Barakat
ha pubblicato cinque romanzi di grande
fascino e potenza narrativa - di cui nel
nostro paese sono stati tradotti Malati
d’amore (Jouvence) e L’uomo che arava
le acque (Ponte alle Grazie) - e la raccolta
di articoli usciti sul giornale arabo aI
Hayat, Lettere da una straniera (Ponte
alle Grazie) sulla sua esperienza di esilio
volontario. Il suo ultimo romanzo, Le
Royaume de cette terre, uscito per Actes
Sud nel 2012 è inedito nel nostro paese.
Qual è stata la sua reazione alla notizia
delle stragi a Parigi?
Ho passato tutta la notte a telefonare ai
miei figli per essere certa che stessero
bene e fossero al sicuro. Non abito lontano
dal Bataclan, per me quelli sono luoghi
familiari. Non riesco davvero a dare un
senso a ciò che è accaduto. Queste persone, questi assassini sono come automi
usciti da un film dell’orrore di cui è difficile
scorgere anche vere rivendicazioni per i
loro atti. Temo che siamo entrati in una
nuova era della storia umana, dominata
dal terrore, ma che non siamo in grado
di decifrarla appieno perché disponiamo di strumenti antiquati, superati dai
fatti. Non comprendiamo il nichilismo
dell’Isis e soprattutto non capiamo fino
in fondo come questo appello al terrore
e alla morte possa conquistare una parte
delle nuove generazioni, fare proseliti in
paesi che conoscono da tempo la guerra,
ma anche in Europa, nei nostri quartieri.
Non abbiamo a che fare con un’ideologia
che può essere sconfitta
dando questa o quella risposta. Per il momento
credo che l’unica cosa da
fare sia cercare di affinare
il nostro sguardo per capire
davvero con che cosa ci
stiamo misurando, certi
solo del fatto che si tratta
di una minaccia inedita.
Dopo la strage a Charlie
Hebdo lei ha scritto per
le Monde un breve testo
intitolato La vergogna e
il rifiuto in cui spiegava
come quegli assassini fossero figli della
violenza integralista, ma anche delle
promesse mancate della République.
Quando le Monde mi ha chiesto di intervenire non ero ottimista, perché già
intravedevo ciò che sarebbe seguito al
quel primo momento di mobilitazione
collettiva, come infatti è avvenuto. Passata
la rabbia e la paura, si è infatti smesso
subito di interrogarsi sui motivi che possono spingere giovani nati e cresciuti in
Francia a identificarsi con un’ideologia
suicida e di morte. Per molti versi sono
degli ‘orfani della République’, una delle
conseguenze più terribili e drammatiche
del fatto che la Francia democratica non
ha mai assunto fino in fondo il proprio
passato coloniale e imperiale.
Al centro del suo lavoro di scrittrice
sembra esserci il desiderio di indagare
il modo in cui i singoli possono sottrarsi
all’abbraccio fatale della comunità. Si
sarebbe portati a pensare che si tratti
di una sorta di fuga dalle appartenenze,
è così?
Per molti versi credo proprio di sì. I
miei personaggi tentano in tutti i modi
di sottrarsi alle costrizioni e alle leggi
non scritte che regolano l’appartenenza
ad una determinata comunità, gruppo
o fede religiosa e alla violenza cieca che
rappresenta spesso il terribile corollario
a questa appartenenza. Questo tentativo avviene attraverso forme diverse in
ciascuno dei miei romanzi, ma si tratta
di un tema che attraversa tutto il mio
impegno letterario. In qualche modo è
come se avessi sempre voluto prendere
in esame le forme, anche le più estreme,
che gli esseri umani possono dare alla
ricerca della libertà che è poi anche una
fuga dal male, dalla corruzione, dall’odio.
Il conflitto tra comunità è alla base della
lunga tragedia libanese che, come mostra
il terribile attentato avvenuto giovedì a
Beirut, non si è mai conclusa del tutto.
La realtà del Libano non cessa di essere
analizzata nei suoi romanzi, fino a Le
Royaume de cette terre, che evoca la
genesi dello scontro tra gruppi confessionali che porterà alla guerra civile. Ha
individuato le cause di tutto ciò?
In questo romanzo ho cercato di comprendere come si sono sviluppati quei
fenomeni che riguardano sì la società
libanese ma più in generale la vita di tutte
le minoranze culturali e religiose presenti
nel Medioriente. Si potrebbe infatti dire
lo stesso dell’Iraq o della Siria. Non si può
infatti non interrogarsi sulle derive che
hanno caratterizzato questi paesi in cui
lo stato e le istituzioni, malgrado siano
spesso sorte dai movimenti di liberazione
nazionale degli anni Cinquanta, non sono
state in grado di costituire società coese,
in grado di tenere insieme le proprie differenze senza andare in pezzi o affogare
nella violenza. Ho scelto una famiglia di
un villaggio della montagna perché è la
realtà che conosco meglio, per tentare di
capire cosa è andato storto non soltanto
in Libano, ma anche nel resto del mondo
arabo. Il risultato è che se si sostituisce
alla famiglia maronita di cui parlo una
qualunque famiglia di qualunque altra
comunità del Medioriente rintraccerete le
stesse dinamiche che conducono questo
mondo verso l’implosione.
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E ciò è avvenuto perché queste comunità non hanno mai trovato un tessuto
unificante che le facesse sentire parte di
qualcosa di più complesso.
Malgrado abbia scelto di vivere a Parigi
fin dal 1989, lei ha spesso spiegato di
non sentirsi un’esiliata, perché?
Credo che per me la condizione dell’esilio sia qualcosa di profondamente
interiore che ha poco a che fare con la
geografia. Non sono neppure sicura che
il termine abbia una connotazione del
tutto negativa, legata alla nostalgia,
alla tristezza, alla perdita di ciò che
amavamo da bambini. L’esilio può
essere anche un luogo di libertà. Ad
esempio credo di aver potuto continuare
a scrivere del Libano proprio perché
me ne sono andata, se fossi rimasta il
mio sguardo sarebbe stato meno critico,
meno radicale, più conciliante verso un
modo di vivere assurdo. Perciò posso
dire che in realtà è in Libano, negli
anni della guerra civile, combattuta tra
il 1975 e il 1990, quando era diventato
difficile e pericoloso comunicare con
chiunque che ho conosciuto una vera
forma di esilio. Per i cristiani non ero
più una buona cristiana; per i musulmani appena dicevo una cosa che non
gli piaceva, ero «la cristiana».
Allo stesso modo, per gli ambienti della
sinistra a cui appartenevo, bastava che
parlassi in modo critico di qualche
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azione violenta compiuta dai militanti
palestinesi che vivevano in Libano perché mi si considerasse di destra, visto
che ero una maronita della montagna.
Questo senza contare che all’epoca
per ottenere del pane o una bombola
di gas bisognava appartenere ad una
comunità, se no non ne avevi diritto.
E quando ti imbattevi in un posto di
blocco dovevi essere certa di mostrare
la carta d’identità giusta, visto che un
errore poteva costarti la vita.
Quando ho avuto troppa paura per me
e i miei figli, ho capito che era venuto
il momento di partire.
(per gentile concessione
de il manifesto)
L’Isis non si batte con la guerra, ma
rafforzando i valori della democrazia
e della laicità
di Giuliana Sgrena giornalista
I paradossi della guerra: l’Europa che
finora si è sempre mossa in ordine sparso trova improvvisamente l’unanimità
nell’appoggio militare - anche se in forme
diverse - alla Francia che ha dichiarato
ufficialmente guerra all’Isis, dopo i tremendi attentati del 13 novembre.
Il G20 che ha discusso degli attentati
di Parigi e di come far fronte all’Isis si è
svolto in Turchia, il paese che ha fornito
il maggiore sostegno ai terroristi dello
stato islamico.
Dalla Turchia sono passati i finanziamenti, le armi e i combattenti diretti in Siria
e i giornalisti che lo hanno denunciato,
con tanto di prove, sono finiti in carcere.
Anche la Turchia alla fine si è schierata
con il fronte anti-Isis, ma per fare la sua
guerra contro i curdi. Anzi al vertice dei
20 Erdogan aveva proposto la creazione
di una ‘fascia di sicurezza’ in Siria (non
accettata), ovvero di occupare militarmente il nord della Siria distruggendo
l’esperienza del Rojava, unico modello
democratico della regione, annientando
gli unici combattenti del Ypg-Ypj che sono
in grado di contrapporsi al fanatismo
religioso dell’Isis.
La dichiarazione di guerra non rafforza
l’Europa, anzi la indebolisce: lo si è già
visto in Germania e Belgio con la sospensione delle partite di calcio. Soprattutto
non è militarmente che si potrà distruggere l’Isis, come non si sono distrutti i
taleban: dopo quattordici anni di guerra
i seguaci di mullah Omar sono più forti
di prima. E i taleban erano cosa diversa
da quell’armata di fanatici di stampo
fascista dell’Isis, che ora è arrivata anche
in Afghanistan. Il terrorismo globalizzato usa l’arma della destabilizzazione
a livello globale. Non basta, non serve
bombardare la Siria o l’Iraq per non essere
colpiti a Parigi o Roma, anzi proprio nel
momento in cui si avvertono difficoltà
nel Califfato possono entrare in azione
le cellule sparse ovunque. L’ideologia che
sostiene l’Isis - l’estremizzazione massima
dell’islam globale - trova seguaci in tutto
l’occidente e non solo e non tanto tra i
musulmani di seconda/terza generazione,
ma anche tra gli europei e gli americani
di classe media.
Per sconfiggere l’Isis occorre innanzitutto combatterlo ideologicamente ed è
importante il supporto della comunità
musulmana, doppiamente vittima degli attentati che quasi inevitabilmente
alimenteranno l’islamofobia, ma che
meglio conosce le dinamiche all’interno
dell’estremismo islamico. E poi togliere
i mezzi che alimentano la guerra: bloccare l’esportazione di armi e boicottare
l’acquisto del petrolio estratto nelle zone
controllate dall’Isis, i sui proventi servono per gli armamenti. Naturalmente
monitorare i siti gestiti dall’Isis sia per
la propaganda che per la raccolta fondi
dovrebbe essere il primo impegno di chi
indaga su come si muovono i terroristi.
L’uso spregiudicato delle nuove tecnologie
è stato sicuramente uno dei punti di forza
dell’Isis per fare proselitismo.
Infine, ma è l’aspetto più importante,
rafforzare i valori della democrazia e
della laicità, perché i terroristi sono riusciti a trovare spazio tra quei giovani
che sentono la mancanza di valori forti
come quelli della rivoluzione francese:
liberté, egalité, fraternité.
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Le comunità islamiche
contro l’orrore
Intervista a Izzedin Elzir, presidente Ucoii:
«Abbraccio il popolo francese»
a cura di Umberto De Giovannangeli
«Vorrei anzitutto dare un abbraccio a tutto
il popolo francese, e allo stesso tempo,
esprimere la più ferma condanna, senza
se e senza ma, degli atti vili di terrorismo
compiuti a Parigi, che sono contro non
solo il popolo francese ma tutta l’umanità». A parlare è Izzedin Elzir, presidente
dell’Unione delle Comunità Islamiche in
Italia (UCOII) ed imam di Firenze.
Il mondo è inorridito e sotto shock di
fronte ai sanguinosi attentati di Parigi.
C’è chi ha messo sotto accusa il mondo
musulmano e le sue comunità in Europa,
sostenendo che fate poco o nulla per
contrastare gli estremisti.
Mi spiace che qualcuno pensi in questi
termini non sapendo, o facendo finta di
non sapere, cosa fanno i musulmani e,
in particolare, le comunità musulmane
in Europa. Per emarginare il pensiero
estremista e quanti lo professano, noi
mettiamo a repentaglio la nostra stessa vita, perché per questi violenti noi
siamo considerati dei traditori. Un po’
di rispetto verso i musulmani: è ciò che
chiediamo, e che le vittime innocenti
di Parigi non vengano usate per calcoli
politici di quanti si sono trasformati in
imprenditori di paure.
Ma in concreto, in che modo cercate di
emarginare questi estremisti?
Anzitutto, le comunità islamiche sono
parte integrante della società italiana ed
europea. E quando qualcuno di queste
comunità uccide una vita, vuol dire un
fallimento di tutti quanti noi. Perché tutti
quanti noi ci sentiamo responsabili per
ciò che è successo. Cerchiamo di fare il
nostro dovere: emarginare, dialogare,
confrontarsi, ma è importante che tutti,
per quel che compete loro, la magistratura, le forze della polizia, la politica, si
assumano le proprie responsabilità. E
questo vale anche per la società civile.
Sono convinto che se si riuscisse a stabilire
un coordinamento tra tutte queste realtà,
avremmo meno fallimenti. Quanto a noi,
voglio essere estremamente chiaro: chi
uccide una persona, secondo l’Islam, è
come se avesse ucciso l’umanità intera. In
precedenza ho invocato una assunzione
di responsabilità da parte di tutti, ma ci
tengo a ribadire che questo non significa
nel modo più assoluto venir meno alla più
ferma condanna degli attentati compiuti
a Parigi.
Attentati compiuti in nome di Allah.
Questa è un’altra bestemmia. Perché viene
usato il nome del Creatore per uccidere
le persone. Invece ‘Allahu Akbar’ (Dio è
grande) è una bellissima parola che si usa
per entrare nelle preghiere, per avere la
comunione e il dialogo con il Clemente,
il Misericordioso. Per trovare l’armonia
e la pace. Ma oggi le religioni, invece di
unire, vengono utilizzate sovente per
creare divisioni, per giustificare crimini,
per lanciare la Jihad globale. Questo vale
per una ristretta minoranza. Se non fosse
davvero così, se la maggioranza dei musulmani fossero dei pericolosi estremisti,
troveremmo violenza e terrorismo in ogni
città. Invece non è così. Le religioni sono
un prezioso strumento di convivenza e
dialogo. Lo scontro è politico, la posta
in gioco è il potere, anche se c’è chi usa
le fedi religiose come copertura.
(per gentile concessione de L’Unità )
Il Movimento Nonviolento: eccola qui la
guerra. Ora, nonviolenza o barbarie!
Ed eccola qui, la guerra. È arrivata anche
alla porta accanto. Con il suo orrore, il
terrore, il sangue, i corpi morti. Quando
la vedi con i tuoi occhi capisci davvero
perché è «il più grande crimine contro
l’umanità». È un’unica guerra che si mimetizza in varie forme, che si ciba dello
stesso odio e defeca la stessa violenza. È
sempre la stessa cosa, compiuta da eserciti
addestrati, ben armati, finanziati, le cui
vittime sono soprattutto i civili innocenti.
Ormai è una matassa ingarbugliata. Il
bandolo non lo si trova più. Non serve
sapere chi ha iniziato per primo, le ragioni
sono scomparse e rimangono solo i torti. È
una spirale perversa che si autoalimenta:
guerra - terrorismo - violenza - odio vendetta - terrorismo - guerra...
A Parigi abbiamo assistito in diretta ad
un’operazione militare: un gruppo di
soldati in armi che ha agito come un
plotone di esecuzione, attaccando civili
inermi, sequestrandoli, decimandoli,
come facevano i nazisti nella Francia del
1940, violando ogni convenzione internazionale, fuori da ogni regola... d’altronde
la guerra non ha regole, se non quella
di eliminare fisicamente il nemico. Ed è
proprio questo che i mercenari dell’odio
vogliono: che ognuno di noi si senta nemico all’altro, per innalzare il livello dello
scontro, dove alla fine rimarrà solo chi
è più spietato, chi spara l’ultimo colpo.
Già troppe volte abbiamo detto «mai
più!». Dopo la guerra del Golfo, dopo le
Torri Gemelle, dopo l’attacco in Iraq, dopo
gli attentati di Londra e di Madrid, dopo
la strage di Charlie Hebdo, dopo quella
del Bardo, dopo i bombardamenti su
Libia e Siria, dopo il raid sull’ospedale di
Kunduz in Afganistan, dopo il massacro
all’Università di Garissa in Kenya, dopo
le bombe sul corteo pacifista di Ankara …
ed oggi dopo gli attentati suicidi di Beirut
e di Parigi. Piangere i morti ed esprimere
solidarietà è importante, ma non basta se
poi tutto continua come prima.
Dobbiamo reagire. Non farci piegare dal
dolore e dalla paura. Non accettare lo
stato delle cose. Reagire.
Reagire per spezzare la spirale, ed aprire
una strada nuova. La violenza ha fallito e
se perpetuata peggiorerà ulteriormente
una situazione già tragica. La via da
seguire è quella della nonviolenza. Sul
piano personale e su quello politico. La
via del diritto, della cooperazione, del
dialogo, delle alleanze con chi in ogni luogo cerca la pace, della riduzione drastica
della produzione e del traffico di armi,
dei Corpi civili di pace per affrontare i
conflitti prima che diventino guerre, della
polizia internazionale per fermare chi si
pone fuori dal contesto legale dell’Onu. Il
terrorismo e la guerra (che è una forma di
terrorismo su vasta scala) si contrastano
con strumenti altrettanto forti, ma con
spinta contraria. Siamo anche noi dentro
il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con
soluzioni opposte a quelle perseguite
finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie!
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Loro seminano vento,
noi raccogliamo tempesta
di Messaoud Romdhani attivista dei diritti umani, Tunisia
«Dovremmo essere ben consapevoli che noi abbiamo, in
gran parte, dato vita allo Stato
Islamico e che siamo stati, da
allora, intrappolati in un circolo
vizioso» (Dominique de Villepin,
ex-primo ministro francese, settembre 2014).
«Tutti gli esseri umani sono
uguali ma …..»
«Un attacco odioso e deprecabile», è stato giustamente
descritto. Tutti hanno espresso simpatia quando la Francia
capitale dei Lumi, della cultura e della
civilizzazione è stata colpita da numerosi
barbari attacchi terroristi, che hanno
ucciso 129 persone innocenti e fatto 350
feriti. Un pesante costo umano.
L’atto è stato condannato dai leader
politici, dalle organizzazioni dei diritti umani e da importanti gruppi della
società civile. I cittadini normali sono
attoniti e infuriati. Barack Obama lo
ha considerato non solo «un attacco al
popolo francese ma a tutta l’umanità e
ai valori universali». È tutto molto vero.
Ma non è tutta la verità. Prima di Parigi,
migliaia di persone innocenti sono state
colpite dal terrorismo in Nigeria, in
Iraq, in Afghanistan, Yemen, Libia. Ma
ci sono state reazioni tiepide. O non ci
sono state affatto.
L’ultimo caso è stato in Libano. Solo
un giorno prima di Parigi, due terroristi dell’ISIS si sono fatti esplodere nel
sobborgo di Shia, vicino a Beirut. Il
pesante bilancio è stato di 44 morti e
circa 200 feriti. Qui, non si sono notate
grandi reazioni. Non è stato «un attacco
alla umanità»? Per usare una parafrasi,
usando George Orwell nella sua fattoria
degli animali, possiamo dire che «tutti
gli esseri umani sono uguali, ma ce ne
sono di più uguali degli altri».
La domanda vera è: chi trae profitto da
questa reazione da ‘due pesi e due misure’? I gruppi estremisti, che vogliono
dimostrare che i valori occidentali non
sono altro che ‘ipocrisia’, come ha detto
Dhawarhi nel suo video. Perchè, che
piaccia o no, questa gente non sono
solo fanatici con la passione di uccidere, sono capaci di costruire discorsi
coerenti, sviluppare argomenti solidi e
di comunicare.
Islamisti verso migranti musulmani
Ogni volta che c’è un attacco terrorista
in Europa, un dito accusatore si punta
verso le comunità musulmane. Per questo
esse si sentono coinvolte o ancora peggio
‘colpevoli fino a prova contraria’, e sono
i primi a denunciare questi atti come se
rigettassero una accusa. E di nuovo, qui
i terroristi accumulano punti: «i paesi
laici occidentali non hanno posto per i
musulmani», dicono.
Un argomento che condividono con la
crescente estrema destra in Europa.
Lentamente, ci avviciniamo sempre più
ai denti della trappola estremista.
Per questo dobbiamo essere molto attenti: far vivere una comunità nella paura e
nel sospetto può portare a serie conseguenze. Oltre alla marginalizzazione, si
possono produrre sentimenti di rivolta
e di vendetta. E non mancano esempi.
La guerra al terrore: il metodo Bush
La Ligue de
l’Enseignement
risponde al
messaggio di
solidarietà della
presidente Arci
Grazie, Francesca, per le vostre parole
di solidarietà.
La violenza cieca che ha colpito tanti
cittadini deve essere combattuta con
molta lucidità e coraggio
Continuiamo a pensare come voi
che la libertà vincerà solo con lo
sviluppo democratico, culturale, e
con il rispetto delle diverse opinioni
e pensieri. Resistere per fare società,
condividere le nostre esperienze per
essere insieme più forti!
Grazie a tutti i compagni di Arci e
a presto.
Se il terrorismo è un flagello che
deve essere affrontato per proteggere la civilizzazione, i diritti
umani e le persone innocenti,
la domanda più importante è:
come?
Quando i terroristi attaccano Parigi, Londra, Madrid o Tunisi,
essi hanno uno scopo in mente:
portare i paesi in guerra, una
guerra con un nemico invisibile
e sfuggente. Una guerra che essi
pensano smantellerà, nei tempi
lunghi, i principi di democrazia e
di coesistenza. Una guerra dove ci siano,
come ha detto Bin Laden, «due campi
nel mondo, quello dell’Islam e quello
dei non credenti».
Gli statunitensi caddero nella trappola.
Dichiararono la guerra al terrore ovunque nel mondo. Ricordiamo la risposta
di Bush. Divise il mondo in due campi
«quelli che sono con noi e quelli che
stanno con il terrorismo». Lo stesso
falso specchio.
Il risultato? Decenni di guerra assurda,
che ha generato più estremismo e più
terrore.
Lo Stato Islamico non sarebbe esistito
se non ci fosse stata l’invasione dell’Iraq,
presentata come «eliminare un dittatore
e costruire una democrazia pionieristica
nel mondo arabo», così come i Talebani
non si sarebbero sviluppati senza l’invasione dell’Afghanistan. Se i governi
occidentali non trarranno lezioni da
questi esempi, i terroristi riusciranno
in quello che hanno pianificato.
Ma Daesh non è solo il prodotto di
sbagliate e donchisciottesche guerre al
terrorismo.
Le ingiustizie producono umiliazione. E
l’umiliazione è terreno fertile per l’estremismo: da decenni di colonialismo, di
tacita e aperta protezione dei dittatori,
di sostegno incondizionato ad Israele, i
terroristi non mancano di trarre ‘convincente retorica’.
E allora il punto è: fino a quando il diritto
internazionale non sarà applicato in ogni
paese nella stessa identica maniera, fino
a quando l’ingiustizia rimarrà piantata
in Medio Oriente, nè misure di sicurezza
nè armi sofisticate saranno abbastanza
per fermare il terrorismo.
È come una sabbia mobile: se non capiamo come evitarla, finirà per risucchiare
tutti i nostri valori umani.
A buon intenditor…
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Vigilare sulla tutela dei diritti civili
ed il rispetto dei diritti umani
per tutti
di Francesco Martone Un Ponte per...
La strage di Parigi impone uno
scenario che ci chiama, in quanto
pacifisti, ad un grande sforzo
di collaborazione e proposta
collettiva, ed uno sguardo alle
dinamiche politiche e geopolitiche può aiutare a definire le
direttrici per un rilancio delle
iniziative contro la guerra ed il
terrorismo di DAESH (o ISIS).
Poche ore prima delle stragi di
Parigi, a Vienna nell’incontro
sulla Siria tra il segretario di
stato Kerry ed il suo omologo russo
Lavrov si è concordata una possibile
uscita di scena di Assad – l’elemento
che impediva fino ad allora un cambio
di passo – assieme all’opera di mediazione dell’ ONU verso i soggetti e le
fazioni in lotta tra di loro, ed un lavoro
di ricognizione degli attori in conflitto
per identificare possibili interlocutori e
‘nemici’ da ‘gestire’ con la forza.
Presto per cantare vittoria vista la complessità delle ambizioni geopolitiche anche contraddittorie, tra Russia, Turchia,
Iran, Arabia Saudita. Si è formata poi
un’inedita alleanza militare tra Russia
e Francia in una situazione di balcanizzazione dei conflitti tra varie fazioni
islamiste, foraggiate più o meno da interessi esterni, la resistenza anti-DAESH
e legittime rivendicazioni di autonomia
democratica da parte dei Kurdi del
Rojava osteggiata dalla Turchia che
vorrebbe ‘blindare’ il suo confine sud.
Eppoi la svolta nelle relazioni tra Obama e Putin (già attivo militarmente a
fianco di Assad ed ancor di più dopo il
tremendo attentato all’aereo di linea in
Sinai) al minimo storico a causa della
crisi ucraina.
La strage di Parigi porta ad un’accelerazione di scelte di tipo militare che
rischiano di incrinare sul campo il già
labile equilibrio raggiunto a Vienna.
E poco si è sentito sull’urgenza di impegnarsi di più per ricucire le
lacerazioni tra mondo sunnita
e sciita in Irak, altro brodo di
coltura per DAESH.
Il G20 di Antalya tenutosi pochi giorni dopo i fatti di Parigi
ha prodotto accanto al tradizionale comunicato su scenari
economico-finanziari, la collaborazione nel settore bancario,
e la gestione dei flussi migratori, un
comunicato contro il terrorismo. Su
questo sfondo nostro compito potrebbe
essere quello di elaborare e condividere
proposte di gestione ‘altra’ del conflitto
attraverso strumenti di diplomazia dal
basso, creando ponti con le vittime
prime del conflitto, escluse dai giochi
della politica e della geopolitica, quelle
popolazioni civili e le reti sociali che in
Siria o Irak lavorano per la pace. La
questione migranti è un altro fronte che
implica il monitoraggio delle politiche di
gestione delle frontiere - intenzione di
Hollande è di chiedere che le frontiere
europee di fatto vengano sigillate - e
prevenire, attraverso la costruzione di
relazioni e ponti con il mondo di religione
musulmana e le seconde generazioni,
una possibile deriva xenofoba ed antimusulmana.
E l’Italia nel quadro possibile di operazioni militari? Ad oggi, la cautela
di Renzi fa il pari con la decisione di
prolungare la missione in Afghanistan e
rafforzare la presenza di addestratori per
i peshmerga irakeni. L’Europa potrebbe
rappresentare una svolta non proprio
in senso positivo.
Il Presidente Hollande ha infatti chiesto
ed ottenuto l’applicazione di una clausola
di comune difesa che impegna gli stati
membri a fornire collaborazione di vario
tipo su base bilaterale. Già si parla di
un possibile avvicendamento di
contingenti tedeschi a sostituire
quelli francesi che attualmente
combattono in Mali.
Il Presidente del Consiglio non
nasconde le sue intenzioni di
giocare un ruolo di primo piano
nella crisi libica – tuttora irrisolta, vista l’esito della mediazione
ONU - anch’essa in parte inquadrabile nella lotta al DAESH. La
UE prenderà anche decisioni
riguardo la tracciabilità dei conti
bancari, ed il controllo su circolazione
di armi nell’Unione, ma non basta.
Dovremo chiedere un embargo sulla
vendita di armi ai paesi della regione,
ed aggredire le fonti di finanziamento
derivanti dai profitti del contrabbando
di petrolio in Turchia e paesi limitrofi.
Paesi che dovrebbero invece essere centrali per un negoziato a tutto campo che
veda anche partecipi Unione Europea,
Francia Inghilterra, Russia, Cina e Stati
Uniti. Dovremo poi vigilare sullo stato
di diritto e sulle torsioni che lo stesso
rischia a seguito delle misure contro il
terrorismo che di fatto introducono uno
stato di ‘eccezione’.
Ciò riguarda non solo il discorso di Hollande subito dopo gli attentati nei quali
invoca una riforma della Costituzione
per permettere l’estensione dello stato
di emergenza e poteri speciali ma anche
- a casa nostra - le ricadute possibili
di scelte quali quella di dotare le forze
speciali di poteri simili a quelli dei 007
quindi agire in operazioni undercover
che riportano alla memoria le rendition
del post-11 settembre. Vigilare quindi
sulla tutela dei diritti civili ed il rispetto
dei diritti umani per tutti.
Insomma uno scenario nel quale le
sfide sono plurali, ma che potrebbe
fornire l’occasione per un lavoro di
mobilitazione dal ‘basso’, e di creazione di reti e condivisione tra realtà e
soggetti non tradizionalmente
legati all’arcipelago ‘pacifista’
propriamente detto.
Per permetterlo sarà necessario un
grande sforzo di fantasia e condivisione, di costruzione di strumenti di
lavoro collettivi, di messa in comune
di conoscenze e competenze, e di
pratiche di ‘autogestione’ decentrata delle mobilitazioni.
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Appello per una mobilitazione
nazionale e un piano d’azione
delle organizzazioni sociali
contro il terrorismo e la guerra
Il 17 novembre, in un’affollata assemblea
che si è tenuta a Roma, è stato discusso
e approvato l’appello che riportiamo
di seguito.
Esprimiamo profonda solidarietà alle
vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la
popolazione francese per il dolore e il
lutto che hanno subito, ma non scordiamo
l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano,
iracheno o nigeriano. Condanniamo nel
modo più netto e deciso la follia distruttiva
della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio
Oriente e l’Africa.
La guerra è dentro le nostre società. È
dentro il nostro quotidiano. È dentro il
nostro modello di sviluppo.
La nostra società si arricchisce con la
produzione di armi che servono per fare
le guerre che poi condanniamo e che
vorremmo reprimere con nuove armi
e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea
di società e di convivenza universale,
fondata sugli stessi valori che oggi sono
stati brutalmente attaccati in Francia:
libertà, uguaglianza, fratellanza.
Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali, cui tutti noi abbiamo delegato
la sicurezza, il rispetto dei diritti umani,
che non hanno fatto leva su diplomazia
e cooperazione per prevenire e gestire
i conflitti.
Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la
pace e fermare la spirale di violenza e di
follia umana con il diritto, le libertà, il
dialogo, la solidarietà, la cooperazione,
la giustizia sociale, il lavoro dignitoso,
il rispetto dell’ambiente, la costruzione
di una difesa comune europea, a partire
dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili
Europei di Pace.
Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza
e favoritismi politici, di deroghe ai principi
fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo
gli interessi universali, di giustificare le
occupazioni, i regimi autoritari per non
disturbare i mercati o il prezzo del petrolio.
Basta produrre e vendere armi per fare
zioni sociali a organizzare a partire da
domani iniziative, momenti di riflessione,
assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro,
nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali,
nelle parrocchie per definire dal basso e
a partire dai territori un piano di azione
nazionale contro il terrorismo, le guerre
e il razzismo.
le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra.
Il razzismo e i predicatori d’odio vanno
fermati per impedire che la paura e la
violenza dilaghino e che in nome della
sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà e le conquiste
democratiche.
Va contrastata concretamente la deriva
politico culturale che spinge l’Europa
verso un ritorno al passato, dove erigere
muri e indicare lo straniero, il migrante,
il rifugiato, come nemico serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre
l’opinione pubblica dai problemi interni.
L’islamofobia rischia di diventare un
sentimento diffuso e di alzare dentro le
nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo
una parte della popolazione, soprattutto
le giovani generazioni, a ricercare identità
e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali
concepite come inconciliabili tra loro.
Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che
già abbiamo a disposizione: le armi del
diritto e della democrazia. Per evitare
che l’Europa, il pianeta intero e i suoi
abitanti vengano travolti in una spirale
distruttiva irreversibile, a partire dagli
impegni che gli stati debbono assumere
alla COP21 che si terrà proprio a Parigi,
dal 30 novembre prossimo, vero banco
di prova del cambiamento necessario ed
indispensabile.
Abbiamo bisogno di fare società, tessere
relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi
di confronto e di scambio culturale.
Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e
i propri affetti a causa delle guerre che
non ha voluto e della follia che non ha
potuto fermare.
Per questo invitiamo tutte le organizza-
Adesioni: Acli, Act, Action, Adif, Aifo,
Alefba, Alisei Ong onlus, Amici del Guatemala onlus, Amici dei popoli Bologna,
Ansps, Antigone, Aoi, Archivio Memorie
Migranti, Arci, Asgi, Assemblea genitori
e insegnanti delle scuole di Bologna,
Associazione Altramente, Associazione
Arcobaleno, Associazione ambientalista
Ambiente e lavoro, Associazione D/Striscio, Associazione Il portico, Associazione
La lucerna, Associazione per la pace,
Associazione Radiocora, AssoRinnovabili,
Auser, Camera del Lavoro Metropolitana
di Firenze, Cemea del Mezzogiorno, Centro Astalli, Centro Interculturale a Roma,
Cgil, Cild, Cinevan, Cipsi, Cittadinanza e
Minoranze, Cnca, Cocis, Comitato Nuovi
Desaparecidos, Comitato Pace Convivenza
e Solidarietà ‘Danilo Dolci’, Cooperativa Il
pungiglione, Cooperativa sociale Progetto
Con-Tatto, Donne in nero contro la guerra
di Alba, Fiom Cgil, Flai Cgil, Flc Cgil,
Focsiv, Focus-Casa Dei Diritti Sociali,
Fondazione Angelo Frammartino Onlus,
Fp Cgil, Forum Ambientalista, Forum Sad,
Forum Terzo Settore, Green Cross Italia,
Grt Italia, Habeisha, Lasciatecientrare,
Legambiente, Libera, Liberacittadinanza,
Link, Lip Scuola, Lunaria, Movimento
di Cooperazione Educativa, Movimento
Federalista Europeo, Movimento Nonviolento, Netleft, Nidil Cgil, Parma per
gli altri, Peoplefree, Redazione del Post
Viola, Rete Antirazzista Fiorentina, Rete
della Conoscenza, Rete degli Studenti
Medi, Rete della Pace, Rete G2 Seconde
Generazioni, Rete Primo Marzo, Rete
Roma senza frontiere, Rete Scuole senza
permesso, Sei/Ugl, Sos Razzismo Italia,
Spi Cgil, Tavola della Pace, Transform!
Italia, Uds, Udu, Ulaia Artesud onlus di
Roma, Un Ponte Per, Wilpf Italia
Aderiscono inoltre: Altra Europa con
Tsipras, Altra Trento a sinistra, PCdL,
Rifondazione comunista, Sel, Sinistra
Italiana
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Il cuore pulsante del Califfato è in
Iraq e Siria, dove «governa»
di Emanuele Giordana giornalista, Lettera22
La nascita ufficiale del Califfato lanciata
da Al Bagdadi è del giugno 2014 ma un
anno prima, nel giugno del 2013, già
circolava su internet una mappa delle
ambizioni territoriali di Daesh (lo Stato islamico). Non è chiaro chi l’abbia
compilata e, secondo alcuni studiosi, si
tratta dell’opera di qualche simpatizzante,
oltretutto a digiuno di Storia visto che
vi includeva il Nord della Spagna, la
Slovacchia o l’Austria (mai state sotto
dominazione islamica) e vi escludeva ad
esempio la Sicilia.
La mappa riproduce però a grandi linee
le ambizioni espansive di un ‘impero’
islamico che dall’Occidente europeo si
spinge sino al Khorasan (geograficamente
l’altipiano iranico e zone limitrofe) e che
nell’ipotesi di Daesh include anche il
subcontinente indiano. Una mappa che
invece esclude il meridione del Sudest
asiatico dove Indonesia, Malaysia, Brunei
e Sud della Thailandia contano oltre 250
milioni di musulmani. Ma al di là delle
mappe e delle ambizioni, dov’è la forza
reale dell’auto proclamato Stato islamico?
Il suo cuore pulsante sta, com’è noto, tra
la Siria e l’Iraq dove oltre a combattere
Daesh ha anche un vero e proprio controllo territoriale.
Nel resto del mondo si va da piccole zone
a macchia di leopardo a cellule più o meno
attive e mobili. In questo momento, la
minaccia più reale si potrebbe collocare
a cavallo di Pakistan e Afghanistan, dove
Daesh guadagna terreno anche grazie ai
reclutamenti tra movimenti islamisti attivi
nel Nord del Caucaso o nelle repubbliche
centroasiatiche ex sovietiche che, quando
non hanno cellule attive nei propri Paesi,
forniscono combattenti.
A Ovest di Raqqa (Siria) - la capitale
ufficiale per il momento - il califfato
proietta la sua ombra su una vasta area
che comprende l’Egitto, dove Daesh può
contare soprattutto sulla regione del Sinai
(Ansar Bayt al-Maqdis e Jund al Khilafah
Kinana), il Nord della Libia (Ansar al
Sharia), l’Algeria (Jund al Khilafah). Più
a Sud la mira è su una vasta area africana
Il comunicato del Forum
Civico Europeo
Venerdì scorso - dopo Beirut, Ankara, l’aereo russo che volava sopra il
Sinai - la città dove il Forum Civico
Europeo ha la sua sede è stata colpita
da una azione terroristica.
Da allora, in Francia come in tutta
Europa, tante persone continuano
a ritrovarsi insieme per esprimere
il loro cordoglio, la tristezza, la solidarietà. Da allora, molto è stato
scritto e detto.
In Francia, molte associazioni hanno preso posizioni pubbliche per
riaffermare i valori in cui crediamo.
Hanno ribadito l’urgenza di opporsi
al terrore ribadendo la forza del vivere insieme in società aperte, plurali
e solidali - società della convivenza.
Esattamente la società che le pallottole hanno voluto colpire.
Queste associazioni credono che la
proposta di reagire alla guerra con la
guerra può solo portare a un vicolo
cieco, alla fine della società basata
sui valori in cui crediamo.
Il collegamento fatto da alcuni leader
europei fra il terrorismo a Parigi e
l’accoglienza dei rifugiati in Europa
che fuggono dalla guerra rischiando
la morte nel Mar Mediterraneo è la
concretizzazione della nostra più
grande paura: un’offerta politica
guidata dalle guerre fra religioni,
da guerre civili, da guerre di tutti
contro tutti.
Il Forum Civico Europeo si impegna
a continuare il lavoro con le associazioni che condividono i valori di
uguaglianza, solidarietà, inclusione e
democrazia in Europa per proporre
un punto di vista condiviso ai cittadini che vivono nel nostro continente e
non solo. Una proposta comune che
tenga conto di elementi di riflessione
nel dibattito pubblico e dia forza agli
ideali che guidano la nostra azione.
che si estende dalla Somalia alla Nigeria
dove Daesh può far leva soprattutto su
Boko Haram (Wilayat Gharb Afriqiyah)
vicino alle sue posizioni dal luglio 2014.
Nella penisola arabica c’è invece Al Qaeda
in the Arabian Peninsula che ha aderito
a Daesh nell’agosto 2014.
A Est del cuore del Califfato le cose si
fanno più confuse: in Afghanistan si va
dall’Hezb islami del vecchio signore della
guerra Hekmatyar, la cui simpatia verso
Daesh sembra in realtà solo un modo
per distanziarsi dai Talebani di mullah
Mansur, a varie formazioni minori che
attraggono talebani insoddisfatti e che
sono attive nell’area orientale del Paese
a cavallo col Pakistan, dove parte dei
talebani locali del Therek Taleban Pakistan appoggiano - ma al prezzo di forti
divisioni interne - lo Stato islamico. Fan
da corollario piccole nuove formazioni o
vecchie organizzazioni settarie anti sciite
molto ben viste da Desh. Infine c’è la
galassia jihadista centroasiatica - attiva
sia nei propri Paesi di origine sia in Afghanistan, Pakistan, Siria, Irak - tra cui
l’organizzazione più nota è il Movimento
islamico dell’Uzbekistan, alleato dal 2015.
In India Daesh non fa molta strada se si
esclude la cellula di Ansar-ut Tawhid fi
Bilad al-Hind, attiva dal 2013 ma solo
sul piano di propaganda e reclutamento
mentre in Bangladesh (va menzionato il
caso dell’uccisione dell’italiano Cesare
Tavella) sono fuori legge almeno sei gruppi
islamisti tra cui Jamaat-ul-Mujahideen
Bangladesh o Ansarullah Bangla, di cui
non sono chiari i collegamenti con Daesh:
il Paese rimane comunque una possibile
area di reclutamento. Più ci si sposta a
Est e a Sud meno l’influenza di Al Bagdadi si fa sentire anche se Filippine e
Indonesia sono due Paesi a rischio: nel
primo l’area turbolenta di Mindanao
è piena di gruppuscoli contrari a far
pace col governo e dunque sensibili ai
richiami di Daesh. Mentre nell’arcipelago
indonesiano alcune centinaia di islamisti
avrebbero ascoltato il richiamo jihadista
per andare a combattere in Iraq e Siria.
Il quadro è dunque in via di definizione
ma il contagio è tutt’altro che contenuto:
secondo il centro studi Jane’s, solo negli
ultimi mesi di quest’anno gli attacchi di
Daesh sono aumentati a dismisura: 1.086
tra luglio e settembre e cioè circa 12 al
giorno contro gli 8 registrati tra aprile e
giugno. 2.978 vittime con un salto di oltre
l’80% rispetto a un anno prima.
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Logiche geopolitiche nel Vicino
Oriente e l’espansione dello
stato islamico
a cura dell’Istituto Archivio Disarmo
Logiche mediatiche portano a considerare il fenomeno dell’Isis come di natura
principalmente religiosa. Certamente
questo aspetto è preponderante soprattutto tra i miliziani arruolati negli
ultimi tempi. Ma una lettura puramente
confessionale della crisi sirio-irachena
non basta, sono troppe le contraddizioni
che ne risultano. Per comprendere le
cause e la natura delle tensioni nel
Vicino Oriente non si può prescindere da un’analisi storica e geopolitica
della zona.
Innanzi tutto bisogna considerare che
gli attuali confini tra i Paesi furono decisi da francesi e inglesi, all’indomani
della caduta dell’Impero Ottomano, in
chiave di contenimento nei confronti
della Turchia.
La Siria si ritrovò ad avere al suo interno, dislocate soprattutto al nord, una
molteplicità di popoli di varie etnie e
confessioni: minoranze fino ad allora
non tenute in considerazione dall’Impero e che ora potevano tenere sotto
controllo i principali alleati dei Turchi
all’interno della Siria, i turcofoni. Nel
contempo si faceva strada l’antico sogno
di una Grande Siria, al quale si cominciò
a credere prima con l’alleanza tra Siria
ed Egitto e in seguito con la salita al
potere di Hafiz al-Assad (a cui successe
nel 2000 il figlio Bashar).
I rapporti di forza interni alla Siria, tra
sostenitori e nemici del regime di Damasco, non sono dunque spiegabili con
motivazioni di carattere confessionale.
Per comprendere le motivazioni che
stanno alla base della complessità di
alleanza e strategie messe in campo
dai vari attori hanno più efficacia le
analisi svolte sulla base di ragionamenti
storici e politici, e ciò non vale solo per
la Siria, ma anche per l’Iraq.
Per comprendere il contesto in cui
ha potuto nascere e svilupparsi l’Isis
bisogna prendere come punto di riferimento il 2003, anno in cui è scoppiata la
guerra che ha portato alla destituzione
di Saddam.
La gestione della fase post-guerra da
parte degli Usa ha fatto crescere il
malessere sociale, creando così il terreno fertile per l’espansione dello Stato
Islamico.
Il governo presieduto da Al-Maliki,
sciita, appoggiato soprattutto da Usa e
Iran, ha preso una svolta autoritaria, basata sulle divisioni etnico-confessionali.
Con l’andar del tempo è iniziato un
percorso nel quale è emersa la volontà
di al-Maliki di accentrare sempre maggior potere, fino ad essere accusato da
varie parti di agire alla stregua di un
dittatore. Anziché risolvere i problemi
del paese, ha fatto ricorso alla violenza
per sfruttare le risorse economiche e
corrompere gruppi e personalità di
rilievo. In questo modo, al-Maliki ha
creato un terreno fertile nel quale sono
cresciuti e si sono attivati i gruppi terroristici nella provincia di al-Anbar e
nell’area di Mosul. Nel tempo i problemi
che il governo centrale non ha voluto
affrontare si sono aggravati. Tra questi
la questione del petrolio, la possibilità
di dare al governo curdo il diritto di
esportare i suoi prodotti, i territori
contesi e il rapporto con l’esercito del
Kurdistan (i peshmerga). Sono queste le
condizioni che ha trovato l’Isis quando
ha attaccato la città di Mosul, caduta
senza troppa resistenza
Lo scontento creato dal governo ha
quindi permesso all’Isis di acquisire
un sempre maggiore appoggio dalla
popolazione e di espandersi in un breve
tempo.
Inoltre lo Stato Islamico può far affidamento su cospicue risorse economiche,
alimentate da vari canali: il petrolio,
estratto dagli stabilimenti che si trovano
dei territori conquistati; il finanziamento che giunge dai Paesi del Golfo
(soprattutto Arabia Saudita e Qatar),
ma anche dall’Asia sud-orientale; le
raccolte fondi che avvengono tramite
i social network. Inoltre l’Isis controlla risorse agricole e idriche. Le forze
dello Stato Islamico presenti in Siria,
tra l’altro, hanno potuto usufruire del
finanziamento destinato da vari Paesi
alle forze ribelli che combattono contro
il regime siriano.
Ciò ha permesso alle forze jihadiste di
crearsi un notevole arsenale, in un’area
geografica da sempre centro strategico
del commercio mondiale di armi.
Sono poche e frammentarie le notizie
riguardanti le armi dell’Isis. Sembrano
essere principalmente tre i canali attraverso i quali le forze jihadiste riescono
a rifornirsi di armi e munizioni.
Innanzi tutto l’Isis ha potuto contare
sul finanziamento della coalizione che
appoggia i ribelli in lotta contro il regime di Assad in Siria (ossia Stati Uniti,
Turchia, Arabia Saudita e Qatar), che
ha fornito ai terroristi armi, veicoli,
equipaggiamento e addestramento
specializzato. Non è più un segreto
che questi Paesi svolgono azioni di
sostegno ai ribelli siriani, purtroppo
non riuscendo sempre a discriminare tra
moderati ed estremisti. Ad esempio gli
Stati Uniti forniscono sia addestramento
specializzato, sia armi e munizioni e
seppure dichiarino di armare solo i
ribelli ‘moderati’, gli Stati Uniti non
possono sottovalutare la possibilità che
le armi possano cadere nelle mani delle
forze filo-Isis e quindi essere trasferite
in Iraq, dove verranno utilizzate contro
il governo di Baghdad, che è alleato di
Washington.
Un secondo canale riguarda l’appropriazione degli arsenali lasciati incustoditi
in seguito alla conquista di un obiettivo.
È successo con la conquista di Mosul,
dove l’Isis ha potuto mettere le mani su
vari arsenali appartenenti all’esercito
iracheno, dotati soprattutto di armi di
nuova fabbricazione fornite dagli Usa.
Tali appropriazioni hanno avuto luogo
anche in Siria, dove i ribelli hanno
potuto far affidamento sui depositi di
armi e munizioni soprattutto di origine sovietica e cinese, dato l’appoggio
che questi Paesi forniscono da tempo
alla Siria.
Un ultimo esempio è dato anche dall’arsenale dell’ex raiss libico Gheddafi.
I suoi depositi sono diventati una preoccupazione da quando l’Isis ha ampliato
la portata dei suoi obiettivi, fuoriuscendo dai territori siriano ed iracheno.
continua a pagina 11
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
segue da pagina 10
Infine, sono stati troppi gli ‘errori’
commessi dall’aviazione, soprattutto
statunitense, nel rifornire le forze che
hanno aderito alla coalizione anti-Isis:
casse di armi paracadutate nei territori controllati dall’Isis e che erano
indirizzate invece ai gruppi che vi si
contrappongono.
Sono diverse le voci in tal senso e che
riportiamo in quanto presenti nella
stampa internazionale.
Ma perché gli Stati Uniti avrebbero
interesse a sostenere un’organizzazione
terroristica come l’Isis? Le motivazioni, secondo alcuni analisti, sarebbero
principalmente tre.
La prima sarebbe data dai profitti derivanti dal commercio di armi, sia con
i jihadisti sia con le forze che li combattono.
La seconda riguarderebbe invece la
strategia statunitense di balcanizzare
la zona, alimentando forze come quelle
jihadiste per rimuovere governi ostili,
tipo quello di Assad in Siria, alleato di
Iran e Russia.
La terza, infine, sarebbe la volontà degli
Stati Uniti di realizzare un disegno geopolitico venuto alla luce all’indomani
dell’invasione dell’Iraq nel 2003, ossia
il progetto della divisione del Paese in
tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro ed uno sciita al sud, tutti
sotto un grande, debole ombrello Iraq.
Comunque, indipendentemente dalle
accuse più o meno fondate, attualmente
è disponibile una ricerca che offre informazioni più attendibili.
I primi dati certi di cui possiamo disporre
ci sono forniti da uno studio finanziato
dall’Unione Europea e condotto dal
Conflict Armament Research, un’or-
weareparis
ganizzazione che si occupa del traffico
di armi.
La ricerca è stata condotta sui campioni
di bossoli raccolti sui territori di guerra
tra Siria e Iraq. Sono stati prodotti due
report, uno riguardante le armi e uno
le munizioni. Dalla ricerca risulta che
la maggior parte delle cartucce sono di
fabbricazione cinese, russa e statunitense, mentre il campione di munizioni
recuperate in Iraq è soprattutto di fabbricazione statunitense. Il commercio
legale e illegale di armi può quindi
facilitare la formazione e l’espansione
di gruppi terroristici, di cui l’Isis è solo
l’esempio più eclatante. Ciò è possibile
constatarlo anche in un altro luogo dove
il traffico di armi è da sempre presente,
ossia l’Africa, dove si sono formati nel
tempo molteplici gruppi terroristici,
come quello di origine nigeriana di
Boko Haram.
Sostenere le iniziative civiche sul clima
Per costruire un mondo di giustizia, sostenibilità e solidarietà.
Un appello di personalità internazionali e organizzazioni francesi
Le popolazione di Parigi e di Beirut
hanno sofferto massacri rivoltanti.
Esprimiamo la nostra tristezza, il sostegno a tutte le vittime, e siamo determinati a ergerci contro gli assassinii
pianificati di civili innocenti.
Che cosa vogliono i terroristi? Vogliono terrorizzarci e portarci a reagire in
modo cieco e brutale, facendo cose che
avrebbero il solo risultato di alimentare
la spirale di violenza. ISIS ci ha colpiti
nei luoghi dove viviamo e dove ci incontriamo, per creare paura, spirito
di vendetta, violenza, e spingerci ad
odiare. Vogliono che ci uniamo a loro
nel loro gioco sanguinario, nella loro
logica di guerra.
Siamo tutti bersagli ma non abbiamo
paura. Non soccomberemo all’ansia, così
come non accettiamo la ‘terapia dello
shock’ che consiste nell’approfittare di
catastrofi umane, sociali e ambientali
per dare il via a ogni forma di regressione, per restringere le nostre libertà
fondamentali e generali e produrre
ripiegamento. Vogliamo che la risposta
a questi crimini sia più giustizia, più
solidarietà e più determinazione per
combattere qualsiasi cosa si frapponga
alla costruzione condivisa della nostra
società.
Ci appelliamo alla nostra unità e al
desiderio di vivere insieme. Pensia-
mo sia essenziale affrontare le cause
profonde: ingiustizia, miseria, guerra,
diseguaglianza, razzismo, intolleranza,
violazione dei diritti umani, saccheggio
ambientale e devastazione climatica.
Sosteniamo le iniziative civiche che si
terranno a Parigi durante la COP21:
la Marcia del clima il 29 novembre, il
Summit cittadino per il clima, il Villaggio
globale delle alternative il 5 e 6 dicembre,
e la protesta del 12 dicembre. Questi
eventi sono occasioni per invertire la
tendenza attuale e vincere il fanatismo.
Sono la prova che un altro mondo sta
cominciando a vivere. Una dinamica
la cui forza costituente - che emana
dai cittadini di tutto il mondo - decide
di agire per preservare i nostri beni
comuni e costruire un mondo giusto,
sostenibile, basato sulla solidarietà.
Sosteniamo ciò che condividiamo e ciò
che ci tiene insieme.
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
La costruzione di un mondo di
pace è responsabilità di tutti
di don Francesco Soddu direttore della Caritas Italiana
L’11 settembre 2001, una data che ha reso
evidenti nuove contrapposizioni dopo le
speranze precedenti. Lo scenario entro
cui collocare il fenomeno del terrorismo
internazionale non può non considerare
alcuni frutti velenosi del progresso umano, sempre più evidenti: aumento delle
disuguaglianze, accaparramento delle
risorse, conflitti. Papa Francesco definisce
in modo sintetico questo scenario «terza
guerra mondiale a pezzi». Ogni pezzo
ha ricadute e interconnessioni tangibili,
sempre più incidenti sulla vita delle
persone a livello globale.
Lo dimostrano le stragi del 13 novembre a
Parigi, che chiedono a tutti noi uno sforzo
di discernimento, di decifrazione dei segni
dei tempi per interpretare i cambiamenti
nello scenario internazionale. La reazione
monodirezionale al terrorismo, a cui già
si assiste, fa saltare ruolo e utilità delle
istituzioni internazionali e avvia un’escalation reattiva senza regole né limiti, se
non quelli fissati da chi la promuove. Gli
appelli per una pace fondata sul diritto
dei popoli cadono nel vuoto. L’idea che
il mondo non possa fare a meno della
guerra si diffonde. Ad essa si adeguano
le scelte di molti governi, servizi di intelligence, prevenzione e repressione sui
fronti interni, fino a misure selettive di
identificazione delle persone, in base alla
loro nazionalità o alla loro confessione
religiosa. Senza computare le conseguenze
nel tempo di tali scelte nelle relazioni tra
persone e popoli. Certo, siamo di fronte
ad un conflitto frammentato e globale, che
coinvolge in particolar modo il mondo
musulmano, in Medio Oriente e altrove.
Se i cristiani sono le vittime più numerose,
le persecuzioni colpiscono anche altre
minoranze etniche e religiose in varie
parti del mondo, popoli che senza alcuna
colpa si trovano ad abitare un territorio
dove non sono ‘voluti’ dalla maggioranza.
Le stragi e le persecuzioni sono portate
alla ribalta dei media internazionali dagli
attentati, dalle brutali torture e decapitazioni eseguite dagli uomini dell’ISIS,
e non solo. Molta dell’attuale visibilità
è dovuta alle capacità comunicative dei
seguaci dello Stato islamico, in grado
di diffondere attraverso i social media
un’efficace strategia del terrore.
Occorre però una riflessione più profonda:
da un verso è vero che molte violenze
hanno il colore odioso della persecuzione
religiosa ed è altrettanto vero che questo
tipo di violenza sta crescendo; tuttavia ne
va denunciata la facile strumentalizza-
zione. Dall’altro, va compreso che c’è un
clima di violenza diffusa finalizzata alla
pura gestione del potere e delle risorse
economiche, a prescindere dalle appartenenze religiose, che diventano solo uno
strumento per scopi molto terreni.
Ma quale guerra ha mai risolto i problemi? E chi ne trae profitto? E soprattutto
evitiamo le semplificazioni che prevedono
come ineludibile lo scontro di civiltà o
semplicemente l’impossibilità di vivere
insieme tra culture diverse.
Ecco dunque la sfida: testimoniare una
via di pace attenta alla dignità di ogni
persona, di ogni popolo, di ogni cultura.
Questa sarà possibile se riusciamo, come
ha indicato il Papa, a «pensare e agire
in termini di comunità, di priorità della
vita di tutti sull’appropriazione dei beni
da parte di alcuni», se ci impegniamo a
«lottare contro le cause strutturali della
povertà, la disuguaglianza, la negazione
dei diritti sociali e lavorativi», se sappiamo «far fronte agli effetti distruttori
dell’Impero del denaro: le emigrazioni
dolorose, la tratta di persone, la droga,
la guerra, la violenza e tutte quelle realtà
che tutti siamo chiamati a trasformare».
La costruzione di questo ‘nuovo edificio’
è responsabilità di tutti, nessuno escluso.
Non è l’Occidente la sola vittima
del terrorismo
di Francesco Vignarca Rete Disarmo
I recenti fatti di Parigi hanno di nuovo portato all’attenzione dell’opinione
pubblica la questione dei confitti che,
in diversi modi e su diversi territori,
infiammano il globo. Probabilmente
sarebbe stato meglio accorgersene prima,
ma è chiaro che le coscienze si smuovono più facilmente quando qualcosa di
drammatico ci colpisce più ‘da vicino’.
Se vogliamo però iniziare un percorso che
porti alla composizione di tutte queste
fratture dobbiamo capire che la testa è
più importante del cuore. Servono dati
ed analisi da cui partire.
Due considerazioni mi paiono importanti. La prima riguarda il terrorismo
e la sua diffusione. In questi giorni si
sente dire che siamo ‘sotto attacco’, quasi
evocando la fandonia dello ‘scontro di
civiltà’ che già molti danni ha fatto. La
realtà è ben diversa: secondo i recenti
dati dell’Institute for economics and
peace di Sidney l’80% delle vittime del
terrorismo (in forte crescita) nel 2014
hanno perso la vita in Pakistan, Afghanistan, Irak, Siria e Nigeria. È in quei
luoghi che si gioca davvero la partita di
questa guerra globale: altro che guerra
all’Occidente! Il rischio è invece che la
nostra politica e la nostra opinione pubblica si fermi a scelte dettate solamente
da autoreferenzialità.
Anche perché siamo noi (inteso come
paesi UE e occidentali in genere, ma
anche in particolare come Italia) responsabili degli invii di armamenti in
quelle aree. In spregio a molte delle
nostre leggi ma soprattutto a qualsiasi
logica di vera soluzione dei problemi. La
legge 185/90 che da venticinque anni
dovrebbe regolare l’export militare è
stata col tempo fortemente depotenziata
e svuotata.
Con i dati diffusi oggi un parlamentare (e
chi dalla società civile vuole trasparenza)
non può più esercitare un reale controllo.
Nell’ultimo quinquennio le autorizzazioni
all’export di armi da guerra a paesi non
Ue né Nato sono salite al 62,9% e tra i
primi 20 destinatari solo 7 sono «democrazie incomplete» secondo la classifica
del Democracy Index dell’Economist.
Cinque sono regimi autoritari, due sono
ibridi. In testa Algeria e Arabia Saudita, ma tra i nostri acquirenti troviamo
anche Kuwait, Emirati Arabi, Nigeria,
India, Pakistan. Ogni anno vendiamo
armi per circa 3 miliardi di euro, e negli
ultimi 25 anni il totale ha superato i 53
miliardi di euro.
È davvero questo il modo con cui vogliamo contribuire alla costruzione della
pace nel mondo?
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Stop ai pregiudizi
e all’intolleranza contro l’Islam
Il Forum dei Giornalisti iracheni senza
frontiere condanna con fermezza il giornale italiano Libero e il titolo (Bastardi
Islamici) dato all’articolo pubblicato
dopo la recente strage a Parigi, senza
che venisse identificata l’origine del
terrorismo come ‘Daash’ e ‘Al Qaeda’ o
altre organizzazioni terroristiche.
Questa pratica contrasta con la filosofia
di tolleranza e coesistenza tra culture,
alimentando ulteriori tensioni e conflitti e non coadiuvando intellettuali e
giornalisti a leggere l’Islam in maniera
oggettiva e lontana dai pregiudizi. Per
le popolazioni islamiche il terrorismo è
il primo intruso, e noi che siamo in Iraq
viviamo da più di un decennio la guerra
contro le organizzazioni terroristiche
sostenute da diversi paesi.
Ricordiamo, inoltre, che la stampa
e la cultura italiana mantengono
relazioni reciproche con gli iracheni da decenni, che si fondano
sulla diffusione dello spirito di
amore e di pace tra le diverse
culture dei due paesi.
Dunque è sbagliato generalizzare e dichiarare che la libertà di
espressione possa coincidere con
la mancanza di rispetto per gli altri
nelle loro religioni o nazionalità.
E abbiamo già sottolineato la
necessità di affrontare il terrorismo
e i terroristi e difendere i musulmani
del mondo da attacchi e abusi a cui
vengono ripetutamente esposti dopo
ogni incidente di sicurezza o dopo un
attentato terroristico o a seguito di azioni
armate da parte di alcuni che affermano
l’appartenenza alla religione islamica.
Si torna a dire che il motivo è l’assenza
di un dialogo continuo tra l’Occidente
ed i musulmani moderati che vivono
e lavorano in varie parti del mondo, il
cui numero è stimato in centinaia di
milioni, che differiscono completamente
dagli estremisti che hanno stravolto
ed abusato dei dettami della religione
islamica e dell’essere musulmani.
Devono esserci ecclesiastici ed intellet-
tuali dei paesi occidentali ed islamici
abbastanza coraggiosi per sedersi allo
stesso tavolo e sviluppare piani per
sbarazzarsi di questi dilemmi ricorrenti
che rendono il divario intellettuale, culturale e sociale talmente ampio al punto
da portare il mondo intero sull’orlo
dell’esplosione. La prova di ciò è proprio
quello che sta accadendo ora in alcune
città europee, dai crimini terroristici
perpetrati da estremisti islamici contro
i civili alle reazioni delle estreme destre
europee. Il giornalista e conduttore di
programmi del canale satellitare Al
- Fayhaa, Falah Alfadhli, commenta:
«Penso che ci sia stato un vero e proprio
incitamento all’odio e alla violenza,
condito dall’ignoranza del giornalista
italiano, sulla natura della religione
islamica, delle sue radici, delle
ideologie di fatto aliene all’Islam
e delle posizioni di quei paesi
europei, in particolare quei paesi
che sostengono queste credenze
‘esotiche’».
Infine, la giornalista Ahrar Zalzali, capo redattore della Mirror
Foundation, condanna ciò che il
quotidiano italiano ha pubblicato
e il suo giornalista, che avrebbe
dovuto innanzitutto essere professionale nel proprio lavoro.
La petizione per radiare Belpietro
dall’Albo dei Giornalisti
Ha raggiunto oltre 105mila firme la
petizione promossa online su Change.
org diretta al presidente dell’Ordine
nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino,
in cui si chiede la radiazione dall’albo di Maurizio Belpietro, che sabato
mattina, dopo gli attentati in Francia,
ha aperto la prima pagina di Libero,
quotidiano da lui diretto, con il titolo
«Bastardi islamici». «Dopo l’ignobile
titolo fatto in prima pagina da Libero all’indomani della strage di Parigi,
chiediamo la radiazione immediata
di Maurizio Belpietro dall’Ordine dei
giornalisti» recita l’appello. Contro la
scelta di Libero è stata presentata una
querela in questura a Milano da Maso
Notarianni, direttore del quotidiano
online PeaceReporter.
«Un giornale non è Facebook, dove
prevale la pancia e non la testa. Un
giornale ha dei tempi di preparazione
ben più lunghi, ed è uno strumento di
riflessione che dovrebbe fornire al lettore degli approfondimenti. Chi ha fatto
quel titolo lo ha fatto consapevolmente
e sapendo che i mezzi di informazione
possono influenzare l’opinione di decine
di migliaia di persone: un titolo criminale
che istiga all’odio» sottolinea a LaPresse
Notarianni. Starà ora al pubblico ministero valutare se c’è un fondamento alla
querela, e quindi un seguito alle accuse.
Intanto sono decine le persone che
sull’esempio di Notarianni, a Milano,
si sono recate in questura. «Chi fa il
nostro mestiere - continua Notarianni - deve sapere che sono decine di
migliaia le persone che leggono ciò che
scriviamo. Una consapevolezza che non
deve venire mai meno. E che sono certo
non sia venuta meno neanche a chi ha
scritto quel titolo, volontariamente. Un
titolo che insulta e incita all’odio non ha
giustificazioni, nemmeno in Italia, Paese
con un livello di giornali e di giornalismo
tra i più bassi in occidente. Da noi si
parla sempre in modo superficiale: in
radio, in televisione, sui giornali, per le
strade. Ovunque si vada, in Europa e
nel mondo, si nota immediatamente la
qualità ben più alta dei mass media».
Per firmare: su change.org cercare
la petizione Radiazione di Maurizio
Belpietro dall’Ordine dei Giornalisti.
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Parigi non val bene nessuna Messa
di Andrea Satta Tètes de Bois
Un concerto e un massacro. Perchè?
Perché la Francia, perché il rock e la
musica, perché lo spazio laico, perché?
C’è di mezzo la religione, la religione
che impone proselitismo e non parlo
della spiritualità, ma della religione che
converte e salva, che condanna chi non
crede, che fa la lista degli eletti e dei
maledetti. E questa è stata anche in parte
la storia della Chiesa Cattolica, non c’è
bisogno di fare esempi. E perfino le chiese
laiche hanno fatto della perpetuazione
di se stesse e del loro sistema di potere
la vera finalità.
La musica e l’arte non possono essere
conformismo. A volte le parole hanno
significati che si colgono scandendo con
attenzione le sillabe. Anti conformismo
vuol dire che sono così perché così voglio
essere e non perché, in qualche modo,
condizionato. A me va bene qualunque
Dio, purché non ci sia il giusto e lo sbagliato, il peccatore e il salvato e l’obbligo
della conversione. I mostri nascono da
lì. E un integralista in questo concetto
di laicità vede il male.
La libertà interiore e la convivenza di
scelte differenti sono pensieri forti, come
forte era il pacifismo di Ghandi schierato
in opposizione alla violenza. E il luogo e il corpo dove questo pensiero
brilla è avverso e odiato. Il
piacere non può esistere.
Non può esistere per gli
integralisti, neppure per
quelli cattolici. Ricordate la mortificazione della
carne, il sacrificio fisico, la
penitenze, le flagellazioni e
tutte le sofferenze invocate
per la conversione di chi
non crede? Vi sembra che
da privazioni, automutilazioni e cose del
genere possa nascere uno spirito di comprensione? Vi sembra questa la premessa
per apprezzare la differenze? Poi, nella
deriva più estrema, si fanno saltare in
aria gli invasati, i disperati, i criminali
e con loro tanta povera gente. E prima
di tutto questo, c’è quello che sappiamo
da sempre, ma, come sempre, noi che
viviamo da questa parte delle telecamere
e delle scrivanie non sappiamo mettere
in fila le prove dei traffici delle banche,
degli intrighi internazionali, delle armi
che l’occidente vende ai contendenti in
guerra, indifferentemente.
Essere liberi e felici, provare ad esserlo,
non va bene, spaventa, significa essere
incontrollabili, non ricattabili.
Io raramente sono felice come certe volte sul palco e raramente lo sono come
quando, da pubblico assisto, partecipo
e mi immergo in uno spettacolo. E lì sto
bene e non ho bisogno di altre promesse,
non voglio essere promosso, riscattato,
salvato, non dipendo, non ne ho bisogno
e questa felicità mi regala l’immortalità
dell’istante e mi rende libero finalmente
e, per un momento, quasi divino. Ecco,
Parigi non vale bene nessuna Messa,
proprio nessuna.
L’anteprima di Left in edicola sabato
Il terrore produce morte e allo
stesso tempo si
comporta come
fosse una qualsiasi holding.
L’Isis infatti
punta al profitto, fa soldi con
il petrolio, le
opere d’arte, il
mercato del porno. Un’inchiesta spiega voce per voce
il ‘lucro’ di chi, come scrive il direttore
Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale, ha
«un modo di non pensare gli uomini
e le relazioni, persino la vita umana».
Ma c’è chi cerca di mettere in campo
un’altra arma, quella del dialogo e della
battaglia culturale. Come l’avvocato
tunisino Abdelaziz Essid premio Nobel
per la Pace 2015 insieme al cosiddetto
Quartetto del dialogo nazionale. «Si
possono individuare strategie insieme,
bisogna dare fiducia agli altri. Se un
europeo crede ancora che i tunisini o
gli egiziani, essendo arabi, sono vicini
ai terroristi non andiamo da nessuna
parte», dice Essid.
In Società Left intervista Maurizio Landini che rilancia: un nuovo Statuto dei
diritti dei lavoratori e i referendum
abrogativi per cancellare leggi sbagliate
come il Jobs Act del governo Renzi.
«Dobbiamo riformare il sindacato ponendoci un nuovo orizzonte che deve
provare a rappresentare tutto il lavoro,
compreso quello autonomo», dice il
segretario Fiom. Cosa accadrebbe se passasse la legge che legalizza la cannabis?
Left anticipa un’inchiesta del mensile
Test dove si analizza con dati ed esperti
uno scenario che prevede un giro d’affari di 8,5 miliardi di euro. E ancora: la
riapertura delle indagini sulla morte di
David Rossi, capo della comunicazione
del Monte dei Paschi, archiviata come
un suicidio e l’esperimento pugliese sul
reddito minimo varato dal governatore
Michele Emiliano.
Negli Esteri un reportage dalla ‘terra
dei neri’, il Sud Sudan, il giovane Stato
africano preda dei signori della guerra.
E ancora: la radiografia di Eurogendorf,
la Gendarmeria europea messa a punto
nell’ultimo vertice di Malta. Ampi poteri legati ai governi nazionali e non ai
parlamenti. Left ritorna poi in Messico,
un anno dopo la strage dei 43 studenti
di Ayotzinapa. E in Irlanda, il laboratorio perfetto della Troika, altro che la
riottosa Grecia. Un paradiso fiscale per
le imprese internazionali e un inferno
per i suoi lavoratori.
È madre di un ragazzo che si caccia nei
guai, Isabella Ferrari, nell’ultimo film
di Mimmo Calopresti Uno per tutti. A
Left si racconta a 360 gradi: da Parigi, al
rapporto con i figli al suo essere attrice.
Un tuffo nella storia e nel presente con
lo storico francese Christian Ingrao che
fa il raffronto tra giovani nazisti e giovani jihaidisti. Infine, il nuovo metodo
scientifico che può scaturire dai Big
data sul patrimonio genetico e per gli
spettacoli l’intervista al giovane cantante
Gianluca De Rubertis, diventato famoso
con Pop Porno.
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arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
weareparis
Alcune iniziative di solidarietà
PONTEDERA - A Pontedera il 15 novembre una marcia per la pace organizzata
dall’Arci e dalla comunità marocchina, alla
quale hanno partecipato adulti e bambini,
che hanno sfilato sventolando la bandiera
della pace, esibendo cartelli con slogan che
invitano al rispetto e alla tolleranza e con
la scritta «No al terrorismo».
TERNI - Arci Terni ha aderito al presidio
di solidarietà per le vittime di Parigi, per
la pace e contro il terrorismo. Il sit-in,
organizzato da Cgil Cisl e Uil, si è tenuto
sotto la Prefettura di Terni mercoledì 18
novembre alle ore 17.30.
COMO - Il 16 novembre in piazza Volta
manifestazione di solidarietà con le vittime
dell’attentato di Parigi: in prima fila, oltre
al Comune di Como, rappresentanze dei
sindacati comaschi Cgil, Cisl, Uil, Arci,
Acli e numerose altre associazioni presenti
sul territorio.
FOGGIA - In piazza per dire no alla violenza fondamentalista a poche ore dagli
attentati di Parigi: sobrio e silenzioso il sit
in organizzato nella serata del 14 novembre
in piazza Cesare Battisti da sindacati ed
associazioni. Davanti al Teatro Giordano
le bandiere dei sindacati confederali, Cgil
Cisl e Uil, di Arci, Legambiente, Libera
ed Acli.
MANTOVA - Pd, Sel, Partito Socialista
Italiano, Comunità e Territori, Cgil, Cisl
e Uil, Arci Mantova, Arci Servizio Civile
Mantova hanno invitato i mantovani a
una manifestazione in piazza Mantegna
il 14 novembre.
FIRENZE - Alle 11 del 14 novembre
davanti al Consolato Francese in piazza
Ognissanti, manifestazione di solidarietà
contro gli attentati a Parigi. Presente l’Arci
di Firenze.
MILANO - Il 14 novembre alle 16 alla
Darsena il presidio di solidarietà dopo
la strage di Parigi. Hanno aderito Arci,
Anpi, Acli, Camera del Lavoro di Milano,
Emergency, Amnesty International, Altra
Europa, Pd, Prc, Sel, con l’invito di portare
un fiore per le vittime.
LIGURIA - Arci Genova e Liguria hanno
organizzato nel capoluogo un presidio
il 14 novembre alle ore 15 per invitare i
cittadini a sconfiggere la paura e scendere
in piazza. A Savona appuntamento alle 18
in piazza Mameli dove la campana della
chiesa ha ricordato gli uomini e le donne
uccise a Parigi. Bandiere francesi e italiane
hanno accompagnato il corteo partito alle
17.45 da piazza Mentana alla Spezia per
arrivare nella sede storica dell’agenzia
consolare francese. A Sarzana invece il
presidio si è tenuto in piazza Matteotti
dalle ore 17. Restiamo umani, il terrorismo non prevarrà lo slogan lanciato da
Arci Val di Magra.
BOLOGNA - Il Comune ha lanciato
un presidio solidale il 14 novembre alle
17.30 all’interno del Cortile d’Onore di
Palazzo d’Accursio. Hanno aderito alla
manifestazione Cgil, Cisl, Uil, Arci, Anpi
e Libera Bologna che con un comunicato
comune «esprimono profondo sgomento
e sconcerto per il vile attentato terroristico
che ha colpito Parigi».
REGGIO CALABRIA - Cgil, Cisl e Uil
di Reggio Calabria, insieme a Libera e
Arci Reggio Calabria, hanno promosso
un sit-in di solidarietà di fronte al Teatro
Comunale, domenica 15 novembre.
PESCARA - Il 15 novembre alle 11.30
a Piazza Salotto si è tenuto un sit in a
cui hanno aderito, tra gli altri, l’Arci,
SO.HA, Collettivo studentesco Pescara,
Emergency, Amnesty International, Associazione Lavoratori Immigrati Senegalesi,
Libera, Anpi, Associazione degli studenti
e lavoratori nigeriani, Cgil, Pd e Sel.
VERONA - Hanno dipinto il simbolo
della pace con delle candele, perché «la
luce della tolleranza vinca sull’odio». Poi
hanno esposto la bandiera francese e il
motto della Republique: Liberté, egalité,
fraternité. Così la Rete degli Studenti e
l’Udu hanno manifestato davanti alla
Prefettura di Verona la loro solidarietà
ai parigini. Con gli studenti, anche altre
associazioni, tra cui Arci e Libera.
CREMONA - Tavola della Pace, con il
sostegno del Comune, ha organizzato,
il 15 novembre alle 18 in Piazza del Comune, la mobilitazione cittadina Siamo
tutti Parigi, con interventi di: Gianluca
Galimberti sindaco di Cremona, esponenti
di Cgil, Cisl e Uil, un rappresentante del
centro islamico La Speranza e don Mario
Aldighieri. Presente anche l’Arci.
TERAMO - L’Arci Teramo ha promosso
un’iniziativa di commemorazione delle
vittime di Parigi contro ogni barbarie
terroristica e contro chi incoraggia la logica
dello scontro di civiltà. Appuntamento
giovedì 19 novembre alle 19 a Largo San
Matteo, dinanzi la Prefettura di Teramo.
BERGAMO - Il 16 novembre alle 17.30
in piazza Matteotti si è tenuto un presidio
a Palazzo Frizzoni, con un fiore per le
vittime. Presente anche l’Arci Bergamo.
arcireport n. 40 | 19 novembre 2015
In redazione
Andreina Albano
Maria Ortensia Ferrara
Direttore responsabile
Emanuele Patti
Direttore editoriale
Francesca Chiavacci
Progetto grafico
Avenida
Impaginazione e grafica
Claudia Ranzani
Impaginazione newsletter online
Martina Castagnini
Editore
Associazione Arci
Redazione | Roma, via dei Monti
di Pietralata n.16
Registrazione | Tribunale di Roma
n. 13/2005 del 24 gennaio 2005
Chiuso in redazione alle 18
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