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L’impianto d’imbottigliamento della Coca-Cola a Carepa, in Colombia, è un brutto edifcio di mattoni appena usciti da un’infuocata e sonnolenta cittadina caraibica. Per arrivarci si percorrono strade sudice,
si vedono cani tristi intenti a scacciare le mosche, uomini che caricano yucche e banane su carretti a pedali e variopinti chivas scoperti che
arrancano lasciandosi dietro una scia di fumo. Tutt’intorno allo stabilimento i campi si estendono a perdita d’occhio, punteggiati di palme e
banani. L’unico elemento che addolcisce il paesaggio è una madonnina
solitaria lungo la strada, nei pressi di un parcheggio sterrato; la statua
sembra benedire chi lascia la città.
La mattina del 5 dicembre 1996 una moto con due uomini in sella
imboccò il vialetto d’accesso al parcheggio1, fece un paio di giri e si
fermò davanti al cancello. Al di là della rete, piuttosto malconcia, c’era
un cortile pieno di casse di bibite che attendevano di essere caricate sui
camion. A destra e sinistra c’era un muro di mattoni color rosa acceso
con il logo della Coca-Cola dipinto. Un angusto casottino sulla destra,
protetto da sbarre metalliche, affacciava sul parcheggio.
Il conducente della moto rimase a motore acceso, mentre l’uomo
sul sedile posteriore scese, arrivò alla rete e si rivolse al guardiano, un
uomo magro e leggermente scuro di pelle, con occhi color caffè, baff
e folte sopracciglia. Il suo aspetto corrispondeva alla descrizione che
gli era stata fatta, ma l’uomo della moto doveva essere sicuro che fosse
lui.
«È lei Isidro Gil?».
«Sì. Perché?», rispose l’altro, dopo un attimo di esitazione.
«Dobbiamo entrare per vedere un cliente».
«Aspetti un momento», fece Gil. Proprio in quel momento un
camion attraversava rombando il cortile. «Lascio uscire il camion e
sono da lei».
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Coca-Cola
Gil non aveva altro da fare che il suo lavoro: aprì il lucchetto e spostò le due ante del cancello per far passare il camion. Forse aveva capito
il pericolo ed era rassegnato al suo destino; o, più probabilmente, si sentiva meno esposto ai rischi: per il suo ruolo di sindacalista, per le assicurazioni sulla sicurezza date dalla direzione dello stabilimento e per
l’ora, le nove del mattino, quando in un luogo pubblico come quello
passava tanta gente.
La moto non era la prima stranezza notata da Gil quel giorno.
Mezz’ora prima un’altra moto era passata al chiosco dove gli operai, prima e dopo il turno, si fermavano a bere una Coca-Cola. Gil
aveva visto uno dei suoi colleghi indicare verso di lui e il centauro
annuire e andarsene. Quando apparve la seconda moto Gil era ancora inquieto.
In Colombia una moto non è solo una moto. È il mezzo di trasporto tipico degli squadroni della morte, gruppi paramilitari che prendono
di mira i guerriglieri e chiunque abbia a che fare con essi anche solo alla
lontana, o sia comunque schierato dall’altra parte del fronte, nella guerra civile strisciante che dura da trentacinque anni. A Medellín in quegli anni era vietato portare qualcuno sul sedile posteriore di una moto,
perché spesso accadeva che premesse il grilletto.
Ma Gil non era tipo da farsi indietro. Aveva ventotto anni e tra i colleghi era un leader naturale2. Socievole e carismatico, nei fne settimana organizzava battute di pesca e tornei di calcio o di baseball. Aveva
cominciato lavorando nella produzione, ma nel 1994 – più o meno
nello stesso periodo in cui i paramilitari avevano fatto la loro sinistra
apparizione nella zona – era stato messo a lavorare all’ingresso principale dello stabilimento.
Gli squadroni della morte attaccavano i guerriglieri, che si avvalevano della posizione geografca del posto per importare armi da Panama o per tassare le spedizioni di droga dirette a nord. Ma i guerriglieri
erano bersagli diffcili, nascosti nel folto della giungla. Perciò i paramilitari rivolsero presto la loro attenzione ai civili sospettati di fancheggiare la guerriglia: un lungo elenco di politici di sinistra, accademici,
operatori sanitari e dei diritti umani, insegnanti e sindacalisti.
Il Sinaltrainal, l’organizzazione sindacale dei lavoratori Coca-Cola,
era un obiettivo naturale. Quando Isidro Gil fu nominato segretario
generale e incaricato di rinegoziare il contratto collettivo con l’azienda di imbottigliamento, erano già stati uccisi due capi sindacali. Il 18
novembre 1996 il Sinaltrainal presentò le sue proposte per il nuovo con-
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tratto, rivendicando aumenti di salario e altri benefci, garanzie contro
i licenziamenti e nuove misure di sicurezza per proteggere i sindacalisti
dalla violenza3.
I dirigenti locali dello stabilimento e la proprietà in Florida avevano tempo fno a quel giorno per rispondere alla richiesta del sindacato.
Quella mattina, mentre lavorava all’ingresso, Gil si preparava mentalmente alla riunione di quel giorno con l’azienda. Non sapeva che la riunione non ci sarebbe mai stata. Non appena aperto il cancello per far
uscire il camion, Gil tornò dietro la portineria. Il camion passò fragorosamente, con il suo logo Coke rosso vivo che brillava al sole del mattino. Ma prima che Gil richiudesse il cancello, il visitatore entrò, estrasse
una 38 Special4, la puntò e gli sparò in mezzo agli occhi5.
Apparentemente, Isidro Gil era solo l’ennesima vittima nella lunga
e cruenta guerra civile di un paese del Terzo Mondo: guerra che negli
ultimi vent’anni aveva provocato decine di migliaia di morti, tra cui
2.500 iscritti al sindacato6. Per i leader nazionali del Sinaltrainal, però,
l’episodio andava ben oltre: era parte di un piano, orchestrato dall’impresa d’imbottigliamento e dalla Coca-Cola Company, per stroncare
l’attività sindacale. A Carepa quel piano avrebbe provocato l’assassinio
di otto leader sindacali e la scomparsa del Sinaltrainal. Secondo queste accuse, nel migliore dei casi la Coca-Cola era stata a guardare, senza
muovere un dito, mentre nel peggiore dei casi i dirigenti dell’impresa
imbottigliatrice avevano coordinato la campagna di violenza riunendosi periodicamente con i paramilitari nella sede stessa dello stabilimento.
Si tratta di accuse terribili per un’impresa che nella sua pubblicità
presenta una delle più irresistibili visioni di pace e di armonia mondiali mai conosciute. Eppure, non è l’unica accusa recentemente rivolta
alla Coca-Cola, che avrebbe sottratto acqua a villaggi indiani e messicani, annientato i sindacati in Turchia e in Guatemala, spinto all’obesità
innumerevoli ragazzini americani ed europei e raggirato i consumatori
persuadendoli a mandar giù la sua acqua Dasani, tanto magnifcata, che
in realtà non era altro che acqua dei rubinetti messa in bottiglia.
Forse non è poi così sorprendente che la Coca-Cola sia accusata di
questi soprusi. In quest’epoca cinica è diventato normale pensare che
le grandi aziende, da Halliburton a ExxonMobil, abituate dalla ricerca di proftto a chiudere gli occhi di fronte alle peggiori conseguenze delle loro azioni, siano capaci di commettere ogni sorta di malefatta. La Coca-Cola rappresenta però un caso particolare: è un perfetto
esempio di multinazionale americana di dimensioni gigantesche, e al
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Coca-Cola
tempo stesso un simbolo prediletto della cultura di massa, che ha speso
miliardi di dollari per costruirsi un’immagine all’insegna della salute
e dell’armonia e riscuotere le simpatie di milioni di persone in tutto il
mondo. Sentir accusare di omicidio la Coca-Cola è come sentir accusare di pedoflia Babbo Natale.
Com’è potuto accadere che un’azienda che (sono sue parole) «esiste per
portare ovunque ristoro e benessere» sia ritenuta responsabile di siccità, malattie, sfruttamento e uccisioni? Per capire questa contraddizione occorre tornare alle origini della Coca-Cola, nata alla fne dell’Ottocento nel sud degli Stati Uniti come bevanda «neurotonica» contenente
cocaina. È qui che vanno cercate le radici della sua spinta inesauribile a crescere sempre più, e delle decisioni che le hanno consentito di
disconoscere qualsiasi responsabilità per le azioni degli imbottigliatori
in tutto il mondo. È questa l’essenza della Coca-Cola, defnita da uno
dei suoi leggendari dirigenti «l’essenza del capitalismo».
Entriamo dunque nella «macchina Coca-Cola».
Note
1
Questa ricostruzione dell’accaduto si basa sulle testimonianze oculari di Luis
Hernán Manco Monroy, Oscar Alberto Giraldo Arango e Luis Adolfo Cardona
Usma, intervistati dall’autore.
2
Secondo quanto riferito da Martin Gil, intervistato dall’autore.
3
Querela (Docket Entry 1), Sinaltrainal, et al. v. The Coca-Cola Company, et al.,
United States District Court for the Southern District of Florida, 1:2001-cv-03208
(da qui in avanti Sinaltrainal v. Coke), p. 23.
4
Perizia balistica del 2 dicembre 1998 nell’ambito dell’indagine sull’omicidio
di Isidro Gil, Fiscalía de la Nación, Unidad de Derechos Humanos, Radicado Preliminar No. 164, República de Colombia (da qui in avanti Gil), vol. 2, pp. 72–76.
5
Relazione sull’autopsia di Gil, 10 dicembre 1996 (Diligencia de Necropsia,
No. UCH-NC-96-412), Gil, vol. 1 p. 87.
6
Human Rights Watch, World Report 2009-Colombia, 14 gennaio 2009.