La moseca nuova

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La moseca nuova
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La moseca nuova
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n uno dei suoi film più divertenti e famosi, Totò si definisce maestro di «moseca»; in questa storpiatura del sostantivo ho sempre
colto il germe di una possibile fenomenologia della musica, una
prima grande distinzione tra la musica vera e la sua imitazione, la differenza che passa tra le armonie che suonano e interpretano i veri maestri e le altre che ne sono l’approssimata controfigura, appannaggio
dei repertori delle bande di paese e dei direttori animati dalla passione ma poco sorretti da capacità artistiche adeguate all’ambizione. La
musica, in realtà, voleva dire Totò con il gioco polemico della sua deformata allitterazione, si pronuncia in un modo solo, perché è un’entità
sola, anche se poi c’è bisogno di un termine che valga per indicare quello che il suo disfacimento produce, il percolato che riesce tutt’al più a
mantenerne l’umore mentre, come accade nel residuo organico mandato in discarica, fino a un attimo prima ancora vitale, la forma si scompone e i succhi trasudano fino a essiccarlo. Totò, però, non intendeva
limitare la sua avvelenata definizione ai dilettanti; ancora di più, probabilmente, voleva prendersela con i musicisti che a lui, principe dell’avanspettacolo – e come tale bene attento a lisciare il pelo di un pubblico dai gusti facili –, sembravano aver distrutto le grandi melodie
dell’ottocento, sostituendole con le stridule e ancora incomprensibili dissonanze la cui eco dalle scuole dell’avanguardia era giunta fin sui
palcoscenici dei teatri del varietà, diventando parte del racconto tea187
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trale e cinematografico di un attore che, pure, aveva già trovato il modo di coniugare vivacità popolaresca e stralunata gestualità comica di
impronta inequivocabilmente novecentesca. Totò, in sostanza, faceva torto a se stesso e alla sua vera dimensione culturale che gli consentiva, forse senza che lui stesso ne cogliesse le implicazioni, di porsi in
mezzo, e non ai margini come irridente spettatore, al cammino che
tutte le arti fin dall’esordio del secolo avevano già intrapreso per entrare nella profondità di un mondo che stava perdendo ogni principio di individuazione e quindi la fiduciosa certezza in se stesso e nel
proprio destino.
La musica è un sostantivo solo, ma ammette molti aggettivi, a dispetto di chi lo vorrebbe sempre e solamente assoluto, da pronunciare con enfasi mistica o da vergare esclusivamente con l’iniziale maiuscola. Questa semplice verità l’ho capita sul serio frequentando il conservatorio, un luogo che se vincerà la sfida del cambiamento ci riuscirà
proprio perché, soprattutto in questo ultimo decennio, è riuscito a
moltiplicare gli attributi con cui qualificare la musica, aprendosi a tutti i suoni del nostro tempo e spingendo sempre più in avanti i confini
del rumore, secondo la geniale intuizione di Luigi Russolo, il futurista che di questa nuova estetica, e di quelle che da essa successivamente
nacquero, dettò in un manifesto le prime regole.
Più volte, in questi anni, mi è tornata in mente la fenomenologia
musicale di Totò osservando la diffidenza appena mascherata che i docenti delle discipline della tradizione nutrono nei confronti delle materie più nuove e dei loro insegnanti, come se ritenessero le prime più
prossime a campi che con la musica hanno interferenze del tutto accidentali, o quasi, e i secondi vicini, più che a quella di musicista, a fi188
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gure professionali tecniche, appartenenti al ramo degli ingegneri acustici, o a forme d’arte e a tipologie spettacolari sul tipo della performance con cui suoni, parole e gesti che esaltano le sonorità della voce
e del corpo si sommano e confondono in un unico atto creativo. La
diffidenza, naturalmente, non fa difetto nemmeno all’interno delle
schiere degli innovatori, ma questi sopportano meglio la rivalità, dal
momento che registrano dalla loro il favore degli studenti, i quali scelgono sempre meno i corsi classici e riempiono le aule dei nuovi; a Frosinone, per esempio, più della metà degli iscritti al nuovo ordinamento
appartiene alle classi di jazz o della popular music, della musica elettronica o delle percussioni, e in tutti i conservatori italiani sta avvenendo che le cattedre degli strumenti della musica colta vengano congelate o trasformate per fronteggiare la crisi delle iscrizioni e aprirsi alle nuove adesioni adeguando l’offerta alla richiesta. Da noi, uno degli
insegnamenti che incuriosiscono e attraggono di più gli studenti è
quello della musica elettronica, tenuto da un gruppo di docenti che si
raccolgono intorno ad Alessandro Cipriani, un giovane maestro il quale, come ho constatato direttamente più volte, gode di un grande prestigio presso tutti i suoi colleghi di disciplina, che sui suoi libri studiano e sulle opere musicali da lui composte fanno esercitazioni didattiche. Il suo lavoro mette insieme suono elettronico, video, parola
scritta e parlata, creando un’estensione unica con cui sensi e cervello
dello spettatore sono totalmente coinvolti, anche se poi ogni singola
traccia ha un suo sviluppo autonomo ed è perciò un testo a sé. Ho
ascoltato e visto il suo poema Still Blue, dedicato al geniale cineasta inglese Derek Jarman; è un’onda sonora e visiva che dal blu marino lascia comporre ed emergere il busto di un uomo adagiato e ferito che
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si completa poi, seguendo il movimento dei flutti di un acquario, in
un corpo trasportato da una sorta di liquido amniotico: una citazione evidente del film del regista londinese che vede per protagonista,
in una delle scene essenziali, il corpo del Caravaggio pugnalato a morte e una citazione, allo stesso tempo, del suo dipinto Deposizione. La
ricerca della musica elettronica, mi ha spiegato lo stesso Alessandro,
con il quale dall’iniziale simpatia siamo passati a una bella amicizia, si
esercita soprattutto sul timbro, quel parametro musicale che permette di identificare se l’identica nota viene suonata con il violino, o con
il pianoforte o con qualsiasi altra fonte, qualcosa che assomiglia al colore che ci fa percepire un oggetto, per esempio un tavolo, uno differente dall’altro pur essendo la stessa cosa.
Un esempio classico è il Bolero di Ravel che è sempre la stessa melodia il cui timbro si evolve continuamente con il succedersi degli strumenti che la riprendono e ripetono fino al finale clamoroso in cui tutti stanno e suonano insieme: una costruzione semplice ma con esiti
straordinari. Se ho capito bene, questo significa che con la musica prodotta oggi attraverso sistemi elettronici è possibile moltiplicare i timbri, condurre cioè un’operazione che equivale a inventare all’infinito
nuovi strumenti; negli anni cinquanta dello scorso secolo John Cage,
ma chissà quanti altri che non conosco, provò la stessa strada cercando di aggiungere nuovi timbri a uno stesso strumento, ponendo bulloni e viti su un pianoforte «preparato»; la musica elettronica si libera
del vincolo dello strumento e dà vita, grazie all’artificialità di quella
sorta di super strumento che può essere un computer «preparato», a
tante fonti di suono, ciascuna provvista di una propria microindividualità che il musicista inserisce in un flusso sonoro che sfugge a ogni
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compiutezza formale. Alessandro, qualche anno fa, ha composto la
colonna sonora di un film, Lorenza in the world of silence, dedicato alla regista Lorenza Mazzetti, che nella prima metà degli anni cinquanta ha realizzato alcune delle pellicole più interessanti del Free cinema
inglese. Ho avuto la fortuna di conoscere Lorenza, e di essere conquistato dalla sua intatta freschezza intellettuale, in un’occasione che racconto in un’altra parte di questo libro; è lei l’autrice di alcune pellicole la cui colonna sonora venne composta da Daniele Paris, e proprio
il suo viaggio a Londra agli inizi di questo secolo, affrontato per ripercorrere i luoghi e le atmosfere di questi suoi film, è il soggetto del
documentario. Una delle inquadrature più lunghe segue un battello
che scorre lungo il Tamigi; la colonna sonora è la rielaborazione del fischio della sirena di una barca che, passata attraverso vari filtri, lascia
indovinare una trama sonora, non un semplice rumore; una parvenza di melodia che può essere quasi intonata, allo stesso modo di una
musica tradizionale, fondata sull’altezza delle note. Più di recente,
Alessandro ha completato una trilogia sul canto religioso, confrontandosi con musicisti d’ogni fede e con l’idea di ritrovare, attraverso
l’elettronica, una comune sorgente classica, capace di rivolgersi all’universalità degli uomini con la stessa intensità mistica e morale del
messaggio religioso. Questo per dire che l’accusa di incomunicabilità
elitaria, o addirittura di gratuita pretestuosità, che spesso pesa come
una spada di Damocle sulla musica elettronica, è forse comprensibile ma piuttosto affrettata.
Il rinnovamento della musica, di cui quella elettronica è una delle
grandi piste, come pure l’elettroacustica e la musica concreta, che si
muovono nello stesso ambito con differenze però non trascurabili, an191
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che se non è agevole distinguerle e forte è la tentazione di confondere
tutto, esplode nel secondo dopoguerra e trova una sede che l’alimenta e la propaga nei corsi musicali di Darmstadt. Secondo il racconto
di Alex Ross, si trattò di una felice iniziativa americana in terra tedesca, a metà tra l’operazione militare in tempo di pace e quella di intelligence, per minare e sventrare – pare suggerire il musicologo americano nel suo Il resto è rumore – una volta per tutte la turgida e malsana vena sentimentalista, cupa di ideologie, della musica europea che,
nonostante il suo colto elicere, non aveva salvato il secolo da orrori e
catastrofi. In un passaggio famoso dei suoi Minima moralia, Theodor
Adorno, che ha accompagnato teoricamente la sperimentazione di
quegli anni, scrive che «la nuova musica ha preso su di sé tutta la tenebra e la colpa del mondo; tutta la sua felicità sta nel riconoscere l’infelicità; tutta la sua bellezza nel sottrarsi all’apparenza del bello». Queste premesse chiariscono bene da cosa partano le preoccupazioni maggiori dei nuovi musicisti e perché essi siano portati a sottrarsi, disinteressandosene del tutto, alla prova dell’ascolto. Per Alessandro, oggi
non è più così. La grande guerra contro la decadenza del consumo musicale di massa si è conclusa, tutto sommato, con un nulla di fatto, e
con il tempo è perciò riemersa l’idea di poter entrare in sintonia con
un pubblico, di riscattare, in un certo senso, la socialità dell’esperienza musicale, una volta che gli effetti delle sue partiture casuali o delle
rigide e sofisticate architetture razionali lungo le quali si era andata divaricando la ricerca americana ed europea, l’hanno messa al riparo da
tutte le sue tentazioni retoriche.
Di questo discorso, naturalmente, un osservatore curioso, ma nulla
più, come posso essere io riesce a seguire il filo generale, ma è in realtà
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molto complicato cercare di acchiapparne tutti i nodi. Io mi domando,
per esempio, quale sia il progetto che si pone un musicista elettronico;
mi chiedo anche quando la potenzialmente infinita riproduzione di nuovi timbri possa appagarsi in un prodotto musicale compiuto. In una
sinfonia tradizionale riusciamo bene o male a seguire lo svolgimento e
a capire la conclusione, ma in queste esercitazioni che sfuggono a qualsiasi traduzione, potremmo dire analogica, come si fa? Come riusciamo
ad accorgerci che il senso della composizione è ormai del tutto maturato e la fine arriva al punto giusto, oppure che c’è qualcosa ancora da aggiungere, qualche ulteriore elaborazione da attuare? Non credo che ci
siano risposte sicure; la comunità dei musicisti elettronici è dispersa in
tutto il mondo e non si porta dietro l’assillo delle tradizioni locali; i pezzi di un siciliano, un canadese o un indiano vengono da una landa comune virtuale ma ognuno lavora in modo diverso. C’è chi si basa su un’idea formale iniziale e va avanti secondo un suo piano che prevede cosa
deve accadere nelle fasi successive; chi passa da un’elaborazione all’altra
finché tocca quella che dice esattamente la sua emozione; alcuni cominciano da rumori presi dalla vita quotidiana, li registrano e li inseriscono dentro una struttura creata elettronicamente; altri ancora rifiutano ogni contaminazione. Si arriva a un certo punto, dice Alessandro,
in cui la forma ti sembra completa e allora ci si ferma, ma si sa anche che
il tempo continua a camminare e perciò quello che pare un punto di arrivo non lo è davvero, la forma è infatti un’entità organica che non interrompe mai la sua evoluzione e si rinnova a ogni ascolto in ogni spazio diverso.
I giovani che frequentano il corso di musica elettronica hanno bisogno di molte competenze tecniche; gli esami di ammissione sono se193
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veri e numerosi sono i candidati che non superano l’ostacolo, quasi
sempre non perché siano scarsi nell’uso dei computer ma perché difettano nel solfeggio o non riescono a collocare storicamente il pezzo
che viene loro proposto di ascoltare, come prescrive il programma d’esame. Ho chiesto a Cipriani di indicarmi che cosa si insegna nel corso,
quello che segna la particolarità della musica elettronica rispetto alle
altre scuole. Mi ha risposto che tutto il lavoro consiste nel tentare di dare ai ragazzi gli strumenti per capire e far uscire la loro voce, senza imporre nulla; l’insegnante deve limitarsi ad aiutarli prima di tutto a capirsi e poi a rimuovere i blocchi che spesso imprigionano la loro fantasia e impediscono di arrivare dove il loro talento consentirebbe.
Negli ultimi tempi il corso si è allargato perché abbiamo costruito
un centro di produzione audiovisiva, tre ambienti con una sala di ripresa per suonare ed essere registrati e, ai lati, due sale regia più piccole fornite di mixer digitali con i quali si missanno i prodotti registrati.
Mi è capitato di sentir esaltare dal docente di un conservatorio di una
città del Sud questo nostro centro, della cui realizzazione condivido il
merito con il direttore, in un convegno che si è svolto alla fine del 2011
a Bologna per celebrare il ventennale dell’istituzione del Garr, il consorzio per la rete della ricerca e dell’università nato all’inizio degli anni novanta dello scorso secolo grazie all’iniziativa di Antonio Ruberti,
uno dei migliori ministri dell’università e della ricerca scientifica che
il nostro paese abbia mai avuto. Quest’opera ci ha permesso di istituire un nuovo corso per tecnici di sala di registrazione che offre a chi lo
frequenta molte possibilità di lavoro. Francesco Paris, il docente cui
abbiamo affidato il compito di curarne il funzionamento, mi ha fatto
da guida un pomeriggio che per curiosità gli ho chiesto di assistere a
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una sua lezione con un gruppo di studenti del primo anno. In quelle
tre sale, riunito in un sistema di registrazione digitale supportato da
software e hardware molto avanzati, in uso anche al più alto livello professionale, si trova tutto ciò che nell’analogico era distribuito in luoghi di produzione diversi; un cd la cui realizzazione, fino a non molto
fa, passava attraverso le lavorazioni di più stabilimenti, dalla registrazione al missaggio alla masterizzazione, esce invece già pronto dal nostro centro, che con felicissima sintesi i nostri docenti hanno chiamato Crea, frutto di un solo computer dotato del supporto digital audio.
Crea è l’acronimo per Centro di ricerca ed elaborazione audiovisiva,
ma nello stesso tempo è un verbo che avverte che i procedimenti che
si svolgono dentro quelle aule non rinunciano alla creatività artistica
solo perché compiute con l’aiuto di tecnologie moderne. Chi arriva
qui di solito ha manifestato già la sua predisposizione e si è messo alla
prova con piccoli laboratori di service elettroacustico o di registrazione sonora e video. Tra gli studenti, per esempio, ce n’è uno che ha lavorato per alcuni anni come addetto alle amplificazioni su navi da crociera che organizzano concerti per i loro passeggeri; un altro è capace
di costruirsi da solo un microfono a nastro, che sta assemblando per
ottenere il microfono perfetto, dopo aver richiesto e comprato i singoli componenti in ogni parte del mondo con la stessa maniaca perseveranza che Glenn Gould metteva nella ricerca del pianoforte perfetto. Quello che questi ragazzi cercano in conservatorio, dunque, è certo un approfondimento del loro bagaglio tecnico, che come dice Paris ha bisogno di essere ripulito da errori e incrostazioni dovute all’approccio artigianale. Ma soprattutto, questi giovanotti, che con tranquilla fiducia attorniano il loro docente e uno alla volta eseguono il
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compito loro assegnato per scoprirne i difetti e correggersi, in conservatorio ci stanno per dare un senso al lavoro che hanno scelto, che non
è solo quello di far funzionare al meglio un’apparecchiatura di presa e
registrazione ma di catturare attraverso di essa l’anima di un suono, lucidandolo di ogni impurità provocata dall’ambiente o dagli stessi meccanismi di riproduzione, per riavvicinarlo alla sua essenza, per ritrovare la nota che risuona, dissoltosi il rumore.
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