Working Paper n. 2007-21

Transcript

Working Paper n. 2007-21
REGIONALISMO E NEGOZIATI COMMERCIALI MULTILATERALI:
LE POSIZIONI DELLA UNIONE EUROPEA E DEGLI STATI UNITI
OSCAR GARAVELLO
Working Paper n. 2007-21
MAGGIO
2007
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE AZIENDALI E STATISTICHE
Via Conservatorio 7
20122 Milano
tel. ++39 02 503 21501 (21522) - fax ++39 02 503 21450 (21505)
http://www.economia.unimi.it
E Mail: [email protected]
Accettato per la pubblicazione negli atti del convegno AUSE 2006
Regionalismo e negoziati commerciali multilaterali: le posizioni della Unione Europea e degli
Stati Uniti.
Oscar Garavello
1) Introduzione
Si attendono con ansia i risultati delle negoziazioni commerciali multilaterali di Ginevra in sede
Organizzazione mondiale del commercio (OMC) sulla base della “Doha Development Agenda”
(1991) poiché due Conferenze ministeriali (Seattle, 1999 e Cancun, 2003) hanno dimostrato la
profondità dei dissensi fra i principali protagonisti, l’atmosfera generale delle trattative non è
soddisfacente e si avvicina a grandi passi il momento della verità, cioè della positiva conclusione o
dell'impasse definitivo 1. Tale interesse della pubblica opinione, degli operatori economici e dei
poteri statali è del tutto giustificato poiché alle attuali negoziazioni dell’OMC partecipano
centinaia di paesi, sono parzialmente cambiati i protagonisti, si affrontano per la prima volta
problemi assai spinosi ed infine, aspetto certamente non trascurabile, la copertura mediatica è di
primo piano.
Del tutto ingiustificata invece la tendenza a dimenticare quanto avviene a livello degli accordi
commerciali fra due o più paesi (RTA: “regional trade agreements”) che liberalizzano
l'interscambio di beni e servizi tramite la costituzione di zone di libero scambio, unioni doganali,
mercati unici oppure, assai meno frequentemente, unioni economiche e unioni monetarie 2. Infatti,
poco a poco, la ragnatela di accordi commerciali, definibili in senso lato regionali (ivi compresi
anche quelli bilaterali) si sta infittendo e costituisce quasi una struttura parallela rispetto a quella
multilaterale. Ad essa partecipano anche paesi che sinora erano immuni dal virus del regionalismo
e, se le previsioni si avvereranno, il pianeta sarà fra poco avviluppato in un intrico illeggibile di
accordi commerciali fra due o più paesi 3.
E’ probabile che la situazione si evolva seguendo due direzioni: da un lato, si concluderanno
le negoziazioni multilaterali di Ginevra con risultati ben lungi da quelli sperati all’inizio del “Doha
Development Agenda” che solo nel più lontano futuro si concretizzeranno; dall’altro, non cesserà
la rincorsa verso accordi regionali, alcuni dei quali operanti ed efficienti, molti in fase di continua
negoziazione ed infine i restanti solo disegnati sulla carta. Poiché il doppio binario degli accordi è
destinato a durare nel corso del tempo, non si può più far finta di niente ed occorre precisare le
relazioni esistenti fra il regionalismo ed il multilateralismo. In termini più espliciti è necessario
1
Questo scritto di prossima pubblicazione ripropone quanto presentato al Convegno annuale dell’AUSE di Venezia
(luglio 2005) ma le sue conclusioni rimangono del tutto valide anche considerando i risultati della Conferenza
ministeriale di Hong-Kong (dicembre 2005), dello stadio finale delle negoziazioni del Doha Round ( 2006) e delle
ultime schermaglie negoziali di USA, UE, India, Brasile, ecc. (aprile 2007).
2
Secondo il “Dictionary of Trade Policy Terms” del WTO, i RTA sono definiti “actions by governments to liberalize
or facilitate trade on a regional basis, sometimes through free-trade areas or customs unions”. WORLD BANK, Global
Economic Prospects: Trade, Regionalism and Development, Washington, 2005, pp. 27 preferisce la definizione di
“regional and bilateral trade agreements” ma spesso vengono utilizzate altre denominazioni come PTA (“preferential
trade agreements”), DTA (“discriminatory trade agreements”), RIA (“regional integration arrangements”), ecc.
3
Basti rifarsi alle seguenti pubblicazioni di fonte ufficiale o di singoli studiosi: WORLD BANK, Trade Blocs, New
York, Oxford University Press, 2000; SCHIFF M.-WINTERS L.A., Regional Integration and Development,
Washington, World Bank, 2003; WORLD BANK, Global Economic Prospects, etc., op.cit., 2005; WTO, Regionalism
and the World Trading System, Geneva, Wto, april 1995; WTO, Mapping of Regional Trade Arrangements, Geneva,
Wto, Secretariat Study, WT/REG/W/41, july 2000; CRAWFORD J.A.- FIORENTINO R.V., The Changing Landscape
of Regional Trade Agreements, Geneva, WTO, Discussion Paper n. 8, 2005; NEWFARMER R., Regional Trade
Agreements and Development: Upside Potential and Downside Risks, World Bank, “Trade Note”, n. 24, 13 september
2005.
1
chiedersi se i due tipi di accordi commerciali si rivelano complementari oppure alternativi e se per
caso l’economia mondiale si stia trasformando in un insieme di aree regionali dove al centro sono
presenti poche potenze ("hub"), ognuna delle quali circondata da un insieme di paesi ad essi più
strettamente collegati ("spokes"), oppure in una sorta di “spaghetti bowl” (per usare la ben nota
raffigurazione di J. Bhagwati) ove ogni paese partecipa a numerosi accordi regionali fra di loro
intersecantesi.
Nell’ambito di questa problematica, di particolare interesse è la posizione degli USA e della UE
non solo per il loro indiscutibile ruolo commerciale nello scacchiere mondiale ma anche per il
protagonismo sin qui dimostrato nelle trattative multilaterali e negli accordi regionali. L’interesse
è ancora rafforzato dalle modifiche del tradizionale approccio delle due potenze, modifiche più
marcate negli Stati Uniti ma consistenti anche nella Comunità: gli USA, da sempre partigiani del
multilateralismo, si rivolgono sempre più insistentemente ad accordi regionali che coinvolgono i
più differenti tipi di paesi; l’UE trasforma in zone di libero scambio i precedenti accordi
preferenziali ed estende il regionalismo ben al di là dei tradizionali paesi “associati”. Il
rovesciamento della tradizionale posizione degli USA viene espressa nettamente dal suo
Rappresentante negli attuali negoziati OMC (R.B. Zoellick) che, in un momento drammatico delle
negoziazioni (2005),
esprime il suo sentimento con una frase assai poco diplomatica ma
rivelatrice: “ se questo negoziato multilaterale non si può concludere, gli Stati Uniti ricorreranno ad
accordi regionali”. La posizione del Commissario europeo per il commercio (P. Lamy) è invece
assai più conciliante e, nonostante le forti obiezioni rivolti da numerosi paesi circa l’atteggiamento
negoziale della Comunità, non manca di esprimere la massima fiducia nelle trattative multilaterali
4
.
L’obiettivo del lavoro seguente si concentra sulla posizione strategica delle due maggiori potenze
(USA e UE) per quanto riguarda l’approccio regionale o multilaterale nel quadro delle attuali
trattative commerciali internazionali. Più in particolare si vuole mettere in luce come negli ultimi
anni, grosso modo dall’inizio degli anni ’90 con l’affermarsi del processo di globalizzazione, la
integrazione regionale vede aumentare il numero di accordi, si estende a paesi prima esclusi e si
allarga a nuove tematiche. Più in particolare si vuole verificare come le posizioni dei due principali
protagonisti commerciali si modifichino in senso convergente di fronte ad una economia mondiale
che sta sempre più diventando multipolare. Dapprima si mette in luce il tradizionale atteggiamento
degli Stati Uniti favorevole al multilateralismo commerciale che tuttavia riesce a giustificare dalla
fine del secondo conflitto bellico il regionalismo europeo (par. 1). Nei due successivi paragrafi si
notano le modificazioni dei due principali protagonisti negli anni più vicini a noi: gli USA da una
rigida posizione multilateralista passano alla negoziazione di numerosi e diversificati accordi
regionali, convergendo in un certo senso verso la posizione comunitaria (par. 3); pur proseguendo
nel suo approccio regionale, la UE nettamente cambia obiettivi, strategia, modalità di intervento e
contesto geografico lungo direzioni non molto distanti da quelle statunitensi (par. 4).
Poichè la problematica è assai ampia occorre mettere in luce i limiti dell’analisi seguente per
poter poi giudicare con migliore approssimazione i risultati finali. In primo luogo non si
approfondisce sino a che punto il regionalismo incide sull’entità, direzione geografica e
composizione merceologica delle correnti commerciali in modo differenziale rispetto all'approccio
multilaterale. Esistono certamente modelli per appurare gli effetti differenziali dei diversi tipi di
accordo commerciale per ogni singolo paese (gruppi di paesi) tuttavia si basano su ipotesi cosi
fortemente semplificate da far ritenere troppo incerti i risultati. Secondariamente, si analizzano
solo le posizioni dei due principali partners come se giocassero da soli la partita strategica e se
riuscissero ancora a condizionare a loro piacimento l’economia mondiale. Nel bene o nel male
4
Rispetto alla prima stesura del lavoro, sono ora cambiati i protagonisti poiché il Rappresentante commerciale
statunitense (USTR: "United States Trade Representative") è ora S. Schwab (che da poco sostituisce R. Portman)
mentre P. Mandelson guida la delegazione comunitaria. Nel frattempo, anche con l’appoggio degli Stati Uniti, P. Lamy
è Direttore generale dell’OMC.
2
molto è cambiato rispetto a solo pochi anni fa ed ora i rapporti USA-UE sono solo uno dei
tasselli delle relazioni commerciali internazionali ed anzi tali rapporti sono largamente condizionati
dalle posizioni delle restanti potenze mondiali (Cina, India, Russia, Giappone, Brasile, Africa del
Sud, ecc.). In terzo luogo l’analisi regionale si limita agli accordi di liberalizzazione
dell’interscambio di beni e servizi mentre occorre estenderla alla intera collaborazione in materia
finanziaria, monetaria e valutaria. Infatti la variazione dei tassi di cambio, la liberalizzazione dei
movimenti di capitale, il coordinamento delle politiche macroeconomiche, ecc. sono fattori di
grande rilevanza per modificare l’efficienza, la stabilità e l’equità degli scambi mondiali di beni e
servizi. La osservazione finale stigmatizza la visione esclusivamente economica del problema
quando è ben noto che molte decisioni di politica commerciale sono strettamente dipendenti da
fattori politici, militari, strategici, diplomatici, psicologici, ecc. Anche se in diversi punti della
trattazione sono presenti accenni alla problematica extra-economica, si tratta solo di rapidi accenni
per nulla sistematici che non ambiscono a mettere in luce il ruolo svolto nelle negoziazioni
commerciali dalla difesa di interessi militari e territoriali, dal tentativo di catturare il sostegno dei
paesi terzi, dalla necessità di mostrarsi cooperativi, ecc.
2) La politica commerciale degli Usa sino agli anni ‘90: il multilateralismo e l’accettazione
del “regionalismo chiuso” della Comunità europea.
Non c'è dubbio che dalla fine del secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti abbiano sposato
nelle relazioni commerciali internazionali il principio del multilateralismo anche quando sembrava
più saggio partire da un ambizioni meno universalistiche 5. E’ indubbio che alla mancata ratifica
statunitense si può fare risalire il fallimento della Carta dell’Avana e quindi dell’Organizzazione
internazionale del commercio (ITO), tuttavia si deve alla loro iniziativa la creazione del GATT
(1948) cosi come gli otto rounds di liberalizzazione commerciale iniziati nel lontano 1947 a
Ginevra sino alla costituzione nel 1995 dell’OMC 6. Per qualche decennio sino agli anni ’90, la
posizione multilaterale degli USA non viene sostanzialmente condizionata dalle differenti fasi
congiunturali passate dalla netta posizione egemonica, al crescente potere della Comunità, alla
5
Bisogna però subito dire che anche nel primo periodo postbellico, gli Usa hanno adottato un approccio multilaterale
richiedendo la convocazione di apposite conferenze internazionali sulla liberalizzazione dell’interscambio mondiale,
come poi di fatto avvenne anche se con assai scarsi risultati. Si ricorda che la clausola della nazione più favorita si
applica solo raramente sino al 20° secolo come dimostrano TAUSSIG F., A Tariff History of the US, New York,
Putnam and Sons, 1931 e, più di recente, BAIROCH P, European Trade Policy 1815-1914, in MATHIAS P.POLLARDS S.,The Cambridge History of Europe, Vol. VIII, New York, Cambridge Univesity Press, 1989 e IRWIN
D.A., Multilateral and Bilateral Trade Policies in the World Trading System: an Historical Perspective, in DeMELO
J.-PANIGARIYA A., New Dimensions in Regional Integration, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.
6
La mancata ratifica degli Stati Uniti si deve non al rifiuto dei principi basilari (multilateralismo e liberismo)
dell’interscambio commerciale bensì agli scontri continui con l'Unione sovietica che lasciano prevedere la guerra
fredda. Si vedano BROWN W.A. Jr., The United States and the Restoration of World Trade: An Analysis and
Appraisal of the ITO Charter and the GATT, Washington, Brookings, 1950; DIEBOLD W. (ed.), Trade and Payments
in Western Europe: A Study in Economic Cooperation, 1947-52, New York, Harper & Brothers, 1952 e dello stesso
Autore, The End of the ITO, London and New York, Tauris, 2002; MIKESELL R.F., US Economic Policy and
International Relations, New York, McGraw-Hill, 1952. Non bisogna tuttavia dimenticare anche le difficoltà di
regolare gli scambi fra sistemi capitalisti e socialisti che ormai ingaggiano una battaglia spietata per la supremazia
commerciale nonostante nel Progetto di Carta del Commercio e della Occupazione (Ginevra, 1947) gli art. 30-31
tentano di regolamentare il commercio di stato.
3
inconvertibilità ed al deprezzamento del dollaro, allo sconvolgimento degli shocks petroliferi,
all’allargamento della crisi del debito estero ed infine alla recessione mondiale degli anni ’80 7.
L’approccio multilaterale degli Stati Uniti sul piano commerciale non viene certamente intaccato
dai dissidi fra le potenze commerciali mondiali (soprattutto con Comunità europea e Giappone)
all’interno ed al di fuori del GATT in quanto
si possono considerare normali contrasti
commerciali che non mette conto discutere e che comunque in breve periodo trovano una
soddisfacente sistemazione 8. Anche la costituzione del sistema generalizzato delle preferenze
(SGP) al quale partecipano oltre gli Stati Uniti anche la Comunità europea, il Giappone ed altri
paesi industriali non modifica lo spirito multilaterale, essendo introdotto dal Punto IV:
“Commercio e sviluppo” del GATT, per cui si può definire, forzando un po’ i termini,
“multilateralismo regionalizzato” in linea con il Nuovo Ordine Economico internazionale 9.
L’approccio multilaterale USA concernente l’interscambio commerciale non si estende invece
ad altri aspetti che direttamente o indirettamente incentivano l’interscambio di beni e servizi quali,
ad esempio, la liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali finanziari, la regolazione
degli investimenti diretti esteri (ide), l’assistenza allo sviluppo e la gestione dei tassi di cambio 10.
Per tutti questi aspetti la politica statunitense, pur non rinnegando il principio della multilateralità,
si mantiene molto realistica e si adatta alle situazioni presenti ed alle richieste dei paesi
partecipanti. Infatti la liberalizzazione finanziaria viene lasciata alla libera scelta dei singoli paesi
in quanto richiede stringenti e specifiche condizioni per cui è impossibile stabilire in modo
uniforme il momento, l’entità e le modalità dell’apertura ai capitali internazionali 11. Gli Stati Uniti
7
Questa conclusione mostra come la posizione statunitense, come di tutti i grandi paesi industriali, sia di gran lunga
più accettabile di quanto avvenuto negli anni ‘30 come si può vedere nella nota n. 17. La spiegazione del differente e
più razionale comportamento dei paesi industriali può ricercarsi nella minore intensità delle fluttuazioni cicliche, nella
adozione di politiche keynesiane di controllo della domanda aggregata e probabilmente nel ricordo di quanto avvenuto
nel periodo fra le due guerre mondiali.Per
8
Si pensi ad esempio al contenzioso relativo a particolari beni (il pollame che dà luogo alla cosiddetta “chicken-war”,
le banane, la pasta, la carne, l’acciaio, gli aeromobili, ecc.) che, largamente pubblicizzato, veicola false impressioni di
conflitti permanenti ed irresolubili, come indicano PATTERSON G., Discrimination in International Trade: the Policy
Issues, 1945-65, Princeton, Princeton University Press 1966; McGOVERN E., International Trade Regulation: Gatt,
the United States and the European Community, Exeter, Globefield, 1986; GEBOYE D.M., The Law of International
Trade in Agricoltural Products: from GATT 1947 to the WTO Agreement on Agricolture, The Hague, Kluwer Law
International, 2002 e PRINCEN S., EU Regulation and Transatlantic Trade, The Hague, Kluwer Law International,
2002. Si tratta comunque di conflitti “tradizionali” nel senso che si occupano semplicemente della perdita delle quote di
mercato (domestico e/o estero) a causa della concorrenza estera, definita scorretta o sleale, dei partners commerciali. Si
è ben lontani dalla profondità dei conflitti attuali che vedono UE ed USA su posizioni distinti per quanto riguarda ad
esempio l'introduzione delle biotecnologie nei prodotti agricoli e la conquista dello spazio nel caso degli aeromobili e
sonde spaziali come viene esposto nella nota 40 per quanto riguarda gli aspetti quantitativi.
9
Si può anche con un gioco di parole definire il SGP come “regionalismo multilaterale” ma la scelta del nome non
cambia in nulla la sostanza economica della normativa. Il punto fondamentale si deve ricercare nella estensione del
sistema a tutti i paesi richiedenti in possesso delle richieste caratteristiche, nella sua durata limitata (ogni 10 anni i
paesi concedenti possono modificare la loro schema di concessione) e nell’obiettivo dichiarato di trasformare le
esportazioni in un motore di crescita “export-led growth” (più tardi si aggiungono la protezione dell’ambiente,
l’abbandono della produzione di sostanze stupefacenti, la lotta più efficace al terrorismo, ecc.).
10
Gli aspetti commerciali sono considerati solo un’appendice dell’intenso lavoro negoziale della Conferenza monetaria
e finanziaria di Bretton Woods (1944) forse anche per le difficoltà tecniche del compito, dei probabili conflitti fra i
paesi e della necessità di conoscere il futuro regime dei tassi di cambio. Lo stesso fenomeno accade anche dopo la fine
del primo conflitto mondiale quando la Conferenza di Ginevra (1922) si occupò prevalentemente di nuovi sistemi
monetari e dei rapporti fra le principali monete mentre i problemi commerciali vennero posposti in attesa di condizioni
più opportune.
11
Si ricorda che la liberalizzazione finanziaria viene supervisionata dal FMI che si mantiene di norma assai prudente
(e comunque non ne fa una condizione per la concessione di prestiti a scopo di stabilizzazione), prevedendo gli effetti
dirompenti sul mercato dei capitali, delle valute estere e del credito nei paesi più deboli. Sul piano teorico, fra
liberalizzazione commerciale e finanziaria esiste una ben precisa priorità, bene messa in luce dai modelli del
“sequencing”, secondo i quali la migliore allocazione delle risorse richiede una preliminare liberalizzazione del
mercato dei beni e servizi per evitare persistenti fenomeni di instabilità.
4
non riescono ad evitare il fallimento della regolazione multilaterale degli ide (sia per i cosiddetti
“fdi market seeking” rivolti a soddisfare la domanda dei territori di destinazione, sia per quelli
tendenti a delocalizzare la produzione dei paesi di provenienza) mentre estendono sempre più gli
accordi bilaterali (BIT: “bilateral investment treaty” e TIFA: ”trade and investment framework
agreements”) 12. Anche il sistema di assistenza allo sviluppo è ancora su base nazionale in quanto
ogni paese donatore è libero di determinare i paesi beneficiari, l’entità dei fondi, la loro
distribuzione settoriale e le varie modalità di utilizzazione anche se in sede OECE si tenta un
coordinamento degli sforzi nazionali tramite la costituzione del CAD (“Committe for Aid in
Development”) 13. La gestione della politica valutaria richiede un discorso assai più articolato: da
un lato, l’aggiustamento dei tassi di cambio viene affidato ad un organismo multilaterale quale il
FMI sulla base di precise, anche se non sempre rispettate, condizioni; dall’altro lato sono le
autorità monetarie delle grandi potenze ad accordarsi sui tassi di cambio “di equilibrio” nei
momenti più delicati degli squilibri strutturali della bilancia dei pagamenti 14. Gli Stati Uniti
accettano entrambe le soluzioni: in primo luogo, dopo l’inconvertibilità del dollaro (ferragosto
1979) utilizzano la collaborazione internazionale per stabilire nuovi tassi di cambio fra le principali
monete nell’ambito degli accordi smithsoniani (dicembre 1971); secondariamente, concordano su
base regionale (con Comunità europea e Giappone) due importanti accordi valutari quali
indubbiamente sono il “Louvre Agreement” (1985) ed il “Plaza Agreement” (1986).
L’approccio multilaterale degli USA nel campo delle relazioni commerciali si può certamente
spiegare con fattori extraeconomici come ad esempio volontà di mantenersi equidistanti dalle
nazioni estere specialmente se belligeranti, assenza di legami coloniali, posizione geografica assai
decentrata, popolazione proveniente dai più vari continenti, presenza sul suolo nazionale di risorse
naturali strategiche, ecc. 15. Esistono tuttavia anche considerazioni economiche di non poco conto
12
Si tratta dell’accordo multilaterale sugli ide (MAI: “multilateral agreement on investments”) negoziato in sede
OCSE dal 1995 al 1998 ma poi mai giunto in porto. Sempre nell’ambito dell’OCSE, dal 1976 le imprese multinazionali
possono sottoscrivere una serie di linee-guida il cui obiettivo è il rispetto della normativa del paese ospitante gli ide,
evitando i comportamenti che possono volontariamente o meno trarre indebiti vantaggi da una posizione di forza.
Queste linee-guida fanno parte della “Declation on International Investments and Multilateral Enterprises” nel 1976
per attivare un flusso più consistente di ide fra i paesi membri della Organizzazione.
13
La situazione oggi si sta modificando con la messa in opera del “Millennium Development Goals” (MDG) che
definisce obiettivi, strategie ed interventi dell’assistenza allo sviluppo per il periodo 2000-2015. E’ pure precisato il
contributo finanziario dei singoli paesi donatori (0,7% del GNI) ma già nei primi anni della sua attivazione si
manifestano gravi inadempienze dei maggiori paesi per cui le prospettive non sono certamente ottimistiche.
14
Indipendentemente da aspetti politici, la ragione di questa strategia a doppio binario si trova nella presenza di due tipi
di squilibri della bilancia dei pagamenti attribuibili alternativamente ai singoli paesi di piccola dimensione ed a
importanti stati o raggruppamenti di stati (Stati Uniti, Giappone o Comunità europea). Nel primo caso la variazione del
tasso di cambio non esercita effetti sistemici mentre nel secondo il mancato coordinamento valutario provoca azioni e
reazioni che possono portare ad un peggioramento sostanziale della congiuntura mondiale. Si ricorda che nella
Conferenza di Bretton Woods, gli Stati Uniti respingono un progetto del Regno Unito ("key-currencies") che propone
accordi monetari fra le maggiori potenze al quale poi avrebbero aderito i restanti paesi col miglioramento delle loro
condizioni. Anche oggi il dibattito è vivo in quanto la efficienza del FMI è sempre più messa in dubbio e si auspica da
più parti la formazione di Fondi monetari regionali che possono meglio monitorare le situazione finanziaria mondiale ed
utilizzare nel modo più adeguato le risorse disponibili (la critica più acuta si rivolge soprattutto alla utilizzazione
spropositata delle risorse del Fondo per il Brasile e la Russia).
15
Questi aspetti sono bene messi in luce dai vari rapporti ufficiali degli Stati Uniti pubblicati periodicamente fra i quali
si ricordano solo quelli iniziati nella Presidenza Kennedy sino alla scoppio dello “oil shock”: US CONGRESS,
SubCommittee on Foreign Economic Policies, US Commercial Policy: A Programme for the 1960’s, 1961; The Future
of US Foreign Trade Policy, 1967; New Realities and New Directions in US Foreign Economic Policy, 1972. In modo
più dettagliato ma sulla stessa linea di pensiero, JACKSON J.H., Restructuring the GATT System, London, Royal
Institute of International Affairs, 1990; KAHLER M., Regional Futures and Transatlantic Economic Relations, Council
on Foreign Relations Press, New York, 1995 e HILAIRE A.-YANG Y., The United States and the New
Regionalism/Bilateralism, “Journal of World Trade”, n. 4, 2004, pp. 607. Questo ultimo Autore indica le seguenti
argomentazioni che spingono gli USA ad essere ostili: 1) diversione degli scambi, 2) riduzione degli sforzi multilaterali
di liberalizzazione, 3) costi crescenti della non partecipazione, 4) elevati costi amministrativi, 5) crescente vulnerabilità
5
poiché alla lunga la formazione di aree regionali può minare la posizione egemonica degli USA in
quanto coalizza le forze di stati indipendenti tramite la formazione di alleanze con imprevedibili
effetti ben al di là di quelli, seppur importanti, tradizionali aspetti commerciali 16.
A fare
pendere la bilancia degli Stati Uniti verso il multilateralismo sicuramente contribuisce anche il
ricordo dello spettacolo deprimente degli anni trenta allorquando ogni paese europeo cercava di
creare la sua zona regionale di influenza con tariffe doganali, politiche valutarie, sussidi, divieti,
ecc. con il solo effetto di creare discriminazioni, “trade diversion” e correnti artificiali di scambio 17.
La ricordata posizione statunitense non viene sostanzialmente influenzata dalle ricorrenti puntate
isolazioniste in quanto il multilateralismo è compatibile con qualsiasi livello di liberalizzazione ed
anzi tanto più protezionista è la potenza egemone quanto più uniforme deve essere la sua politica
commerciale per non danneggiare oltre misura alcune categorie di paesi. Non sembra neppure che
le posizioni dei due principali partiti politici divergono profondamente e, se questo avviene, si
tratta solo di deviazioni da una traiettoria comune, spiegate forse dalla particolare situazione
congiunturale domestica e dai giochi di potere all’interno delle diverse Amministrazioni 18.
Certamente anche le “lobbies” degli imprenditori e dei sindacati giocano sempre un grande peso
nella definizione degli obiettivi e nella gestione della politica economica esterna ma nel periodo
considerato la loro posizione non sembra abbracciare, come avverrà più avanti, la opzione
regionale, certamente più selettiva ed incisiva per gli interessi settoriali e particolari 19.
derivante dalle preferenze regionali, 6) integrazione negli accordi di nuove componenti conflittuali come la difesa
ambientale e protezione delle condizioni dei lavoratori specialmente se, in caso di mancato rispetto, si ricorra a
sanzioni commerciali.
16
Sotto questo aspetto gli svantaggi dell’opzione regionale per gli Stati Uniti sono bene messi in luce da un importante
filone di pensiero come ad esempio, GORDON B.K., A High-Risk Trade Policy, in “Foreign Affairs”, july/august
2003, pp. 106, e dello stesso Autore, America’s Trade Follies. Turning Economic Leadership Into Strategic Weakness,
London, Routledge, 2001, secondo il quale gli accordi regionali sono fondamentalmente incompatibili con l'interesse
nazionale di qualsiasi potenza egemone. Assai interessanti sono anche le osservazioni di BERGSTEN C.F., in tre suoi
saggi: American Politics, Global Trade, in “The Economist”, 27.09.1997; America and Europe: Clash of the Titans, in
“Foreign Affairs”, march-april 1999 e The United States and the World Economy. Foreign Economic Policy for the
Next Decade, Washington, Institute for International Economics, 2005.
17
Il collasso del coordinamento delle politiche commerciali fra le principali potenze occidentali durante gli anni ’30
portò negli Stati Uniti alla tariffa Hawley-Smoot (1930), nel Regno Unito alle tariffe imperiali (1932), in Francia a più
elevate tariffe ed a contingenti sulle importazioni di prodotti agricoli (1931), ecc. per cui si può ben dire che
regionalismo e protezionismo si coniugano in modo assolutamente perfetto nel periodo qui considerato. Come
accuratamente nota IRWIN D.A., Multilateral and Bilateral Trade Policies, etc., op.cit. il ricorso al regionalismo non
porta sempre ad un maggiore protezionismo come appare dall’esperienza inglese del secolo XIX allorché il trattato
commerciale fra Gran Bretagna e Francia (1860) costringe gli altri paesi ad accodarsi alla forte liberalizzazione dei
traffici mondiali.
18
Anche se esistono stretti collegamenti fra i due concetti, non bisogna confondere fra multilateralismo politico e
commerciale. Rispetto a quelle democratiche le Amministrazioni repubblicane sono in linea di principio meno
multilaterali sul piano politico ma non per questo tendono necessariamente ad un sistema commerciale regionale. Non
c’è dubbio tuttavia che l’attuale espansione del regionalismo significhi il passaggio dal precedente sistema di Bretton
Woods tendenzialmente apolitico ad un regime commerciale più fortemente politicizzato. Con un po’ di forzatura si può
dire che mentre nei tempi più remoti la politica estera dei grandi paesi si attuava con alleanze militari regionali, oggi si
basa soprattutto sugli accordi regionali di liberalizzazione e di cooperazione economica.
19
Si tratta delle “lobbies” tradizionali (imprese multinazionali, associazioni di agricoltori, centri di ricerca, ecc.) che
nel campo delle relazioni economiche internazionali giocano sempre un ruolo assai importante. La loro posizione è
comunque ambivalente: da un lato, sono favorevoli ad un interscambio mondiale in quanto, nonostante la più intensa
competizione, aumenta il loro potere socio-politico ed economico con l’estensione geografica delle loro attività;
dall'altro lato, sono interessati ad accordi regionali in quanto permettono un più facile e sicuro inserimento sui mercati
esteri. Poichè negli Stati Uniti l’organismo incaricato della negoziazione commerciali è di piccole dimensioni e si
occupa più di questioni giuridico-amministrative che non di quelle economiche, il ruolo delle “lobbies” imprenditoriali
è sempre assai forte. Per una visione dell’influenza delle “lobbies” sulla politica commerciale statunitense si veda M.
NOLAND, Learning to Love the WTO, in “Foreign Affairs”, september/october 1999, pp. 83.
6
L’approccio al multilateralismo commerciale degli Stati Uniti subisce tuttavia una breccia in
quanto lascia ampi margini di manovra a quei paesi che decidono la formazione di integrazioni
economiche regionali. Il primo e di gran lunga più interessante tentativo concerne la regione
europea tramite la creazione della Comunità economica (CEE, 1958) e della zona di libero
scambio (EFTA,1960) alle quali poi seguono accordi regionali fra i paesi in via di sviluppo
(specialmente in America Latina ed Africa) a partire dagli anni ’60.
Iniziando da questi ultimi, gli Stati Uniti mentre da un lato non ostacolano accordi regionali fra
paesi in via di sviluppo, dall’altro lato manifestano segni di disappunto per l’emergere di precisi,
anche se confusi e comunque mai dichiarati, interessi nazionali sul piano politico e strategico.
Accordi commerciali fra paesi a più basso livello di reddito possono fare scoppiare conflitti
all’interno della zone considerata oppure suscitare leaders che facilmente tendono a favorire
tendenze populistiche: nell’uno e nell’altro caso diventa più difficile per un paese egemone ( Stati
Uniti) controllare i vari paesi (si pensi al continente latino-americano) per cui vale ancora il vecchio
motto “divide ut imperat”. A conclusioni ancora più spinte si giunge nell’aspetto internazionale in
quanto i leaders ricordati spesso delusi dai risultati domestici delle riforme invocate, tendono
all’estremismo, spostandosi su posizioni opposte a quelle degli Stati Uniti e comunque aumentando
il loro peso nelle negoziazioni internazionali tramite ben studiate alleanze.
Sul piano più strettamente economico viene messa in dubbio la applicabilità della normativa
concordata fra i paesi in via di sviluppo in presenza di un gap istituzionale così rilevante e di forti
conflitti politici, sociali ed etnici. Si insiste sul fatto che gli effetti più positivi dell’integrazione
regionale si diluiscono in quanto gli scambi commerciali fra paesi a basso livello di sviluppo sono
sempre assai deboli e quasi del tutto assenti gli scambi intraindustriali per la somiglianza delle
strutture di produzione. Secondo la convinzione degli Stati Uniti, il vero motore dello sviluppo è
invece dato dall’interscambio con i paesi di più antica industrializzazione tramite importazioni di
beni intermedi, impianti, tecnologia, sistemi organizzativi, ecc. che stimolano comportamenti
competitivi. Non corrisponde poi alla realtà l’opinione che l’apertura commerciale spinga
necessariamente i paesi in via di sviluppo a specializzarsi nella produzione primaria e comunque
anche il degrado dei “terms of trade” è tutt’altro che dimostrato per il passato ed ancora ben più
dubbio per il prossimo futuro 20. Per di più ben pochi risultati possono derivare dal coordinamento
delle politiche macroeconomiche dei paesi in via di sviluppo in quanto fortemente dipendenti
dall’impatto domestico della congiuntura internazionale. Infine, anche se gli
accordi di
integrazione regionale fra paesi emergenti possono attrarre maggiori ide, evitare doppioni di
industrie di base, limitare la costituzione di eccessiva capacità produttiva, costituire una rete
efficiente di infrastrutture di trasporto, energia, comunicazioni, ecc. non si è affatto sicuri che
all’atto pratico tali vantaggi potenziali si concretizzino 21.
Le conclusioni sono invece assai diverse per quanto concerne la valutazione degli USA degli
accordi regionali dei paesi europei e soprattutto della Comunità europea che mostra dalla sua
costituzione la volontà di andare ben al di là dei pur importanti aspetti commerciali. Nonostante il
principio generale del multilateralismo,
la posizione statunitense si dichiara favorevole al
regionalismo europeo (Nord-Nord) non solo per contrastare l’avanzata del blocco sovietico ma
20
Nel periodo ricordato economisti di grande levatura (PREBISCH, SINGER, NURKSE, ecc.) propendono per il
ricordato degrado dei “terms of trade” attribuendolo al diverso potere di mercato dei paesi offerenti e domandanti beni
primari (agricoli e minerari). Solo più tardi tale spiegazione viene messa in causa anche per effetto della forte impennata
dei prezzi dei beni primari nella seconda metà degli anni ’70. Indipendentemente dalla dinamica dei “terms of trade”
rimane sempre la necessità che i paesi primari procedano sulla strada delle diversificazione produttiva spostandosi
dapprima verso i beni primari trasformati, poi verso i beni manifatturati leggeri ed i servizi ad alta intensità di lavoro
ed infine verso le produzioni tecnologicamente più sofisticate.
21
Questa valutazione può essere condivisa in toto, esaminando i risultati dei primi accordi regionali Sud-Sud,
nell’Africa sub-sahariana e nell’America latina. Le maggiori difficoltà si debbono ricercare negli interessi
profondamente diversi dei vari paesi, determinati anche dal precedente passato coloniale, ai quali si sommano non meno
impegnative difficoltà tecniche di pianificazione.
7
anche per considerazioni esclusivamente economiche. Infatti uno spazio economico integrato di
cosi vaste dimensioni
permette una divisione internazionale del lavoro fra le due sponde
dell’Atlantico assai più vantaggiosa rispetto al precedente spezzettamento dello spazio europeo,
riduce la necessità di aiuti USA che vengono dirottati verso obiettivi più strategici e fa assumere
all’economia mondiale un carattere più equilibrato anche se le redini sono sempre tenute dal paese
più forte 22. Non bisogna dimenticare che un partner potente come la Comunità europea può
sostenere efficacemente la posizione USA nelle negoziazioni multilaterali per individuare nuovi
metodi di regolazione soprattutto in previsione della sempre più massiccia presenza di partners
turbolenti: si pensi ad esempio alle negoziazioni relative al settore agricolo, al trattamento degli ide,
alla difesa della proprietà intellettuale, alla regolamentazione ambientale, agli standards del lavoro,
ecc. Infine, non si può escludere che senza un accordo di integrazione i paesi del Vecchio
Continente pongano in essere, come negli anni ’30, “politiche di impoverimento del vicino”: per
assicurarsi maggiori quote del mercato mondiale infatti possono adottare deprezzamenti
competitivi della moneta nazionale o forme “implicite” di protezionismo, mettendo a soqquadro
l'intera economia mondiale e rendendo sempre più difficile il compito stabilizzatore di una
economia egemone 23.
Anche quando la Comunità dagli originari 6 paesi si allarga sempre più, la posizione USA
viene mantenuta sulla base non solo dei motivi precedentemente esplicitati ma anche di
considerazioni specifiche. Certamente non tutti gli allargamenti vengono salutati con lo stesso
fervore sia per le caratteristiche specifiche dei paesi entranti (si pensi solo al caso più eclatante del
partner atlantico per eccellenza, cioè il Regno Unito) sia per le sempre più grandi dimensioni della
Comunità che tendono a rendere più autonoma l’area europea dal partner statunitense 24. Oltre
Atlantico si comprende sempre più chiaramente e con malcelato disappunto la presenza del
cosiddetto “effetto domino” per cui i costi della mancata adesione alla Comunità (ci si riferisce
esclusivamente ai paesi europei) diventano tanto maggiori quanto più estesa è la dimensione
economica della unione stessa (si veda ad esempio quanto accade ora per la Turchia).
Se nelle sue prospettive generali la posizione Usa non si modifica in senso sostanziale, le
conclusioni sono più diversificate per quanto riguarda aspetti specifici 25. In generale le perplessità
aumentano quando si passa dalla fase dello smantellamento doganale alla messa in opera di
politiche settoriali che in qualche modo possono intaccare la posizione statunitense soprattutto nelle
22
Queste motivazioni vengono declinate in modi assai diversi dai vari Autori e subiscono modificazioni di un certo
rilievo ma rimangono ancor oggi sostanzialmente valide. Per una visione di come queste motivazioni vengono reperite a
livello ufficiale si vedano US CONGRESS, American Interest in the European Community, Washington, 1974;
European Community’s 1992 Economic Integration Plan, Washington, 1989; Europe and the United States:
Competition and Cooperation in the 1990s, Washington, 1992 ed infine Europe 1992 and Its Impact on American
Exporters, Washington, 1993.
23
Questa affermazione pecca certamente di semplicismo e non tiene nel giusto conto il nuovo spirito collaborativo fra i
paesi europei (e soprattutto fra Francia e Germania) che si fa già luce nel periodo della ricostruzione. Bisogna ricordare
che già nei primi anni post-bellici si hanno importanti segnali di fattiva collaborazione fra i paesi europei come ad
esempio la costituzione nel 1948 dell’Unione doganale del Benelux, nel 1950 dell’Organizzazione europea di
organizzazione economica (OECE), nel 1950 dell’Unione europea dei pagamenti (UEP) ed infine nel 1951 della
Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).
24
In realtà non tutti i successivi allargamenti della Comunità suscitano da parte degli Stati Uniti lo stesso interesse e la
stessa unanimità di giudizi. Come dimostra US Congress, British Entry to the Common Market: Its Implications for US
Foreign Economic Policy, 1972, è l’adesione del Regno Unito che maggiormente scuote l’opinione pubblica
statunitense, specialmente dopo il fallimento del primo tentativo di adesione (1956), per gli stretti legami atlantici di
carattere politico ed economico. Come dimostra la successiva esperienza di integrazione, per molti aspetti della politica
economica comunitaria (PAC, mercato del lavoro, politica della concorrenza, liberalizzazione finanziaria, ecc.) il Regno
Unito si avvicina più agli Stati Uniti che non alla Germania, Francia ed Italia facendo sorgere non pochi contrasti e
sospetti.
25
Questi timori esploderanno più avanti nel tempo almeno per quanto riguarda due aspetti cruciali nella vita della
Comunità europea: la formazione del mercato unico europeo e la nascita dell’unione monetaria.
8
industrie di punta e dei servizi. Le reazioni oltre Atlantico non si fanno certamente attendere per la
politica agricola comunitaria che di fatto chiude il mercato europeo ai prodotti statunitensi e che
consente alla produzione europea un accesso privilegiato sui mercati di una lunga serie di paesi in
via di sviluppo. Si teme poi sempre che l’Europa si trasformi in una “fortress Europe” avendo già
raggiunto una ragguardevole dimensione economica e preferendo approfondire l’integrazione
interna piuttosto che aprirsi in modo competitivo sui mercati internazionali. Solo più tardi il partner
d’Oltre Atlantico si accorgerà poi che la sequenza fra “approfondimento” della integrazione ed
“apertura verso l’esterno” è in realtà un falso dilemma nel senso che l’intensità della integrazione
rende più competitiva la produzione comunitaria e quindi spinge le autorità competenti ad una
politica di maggiore apertura verso l’esterno.
Gli Stati Uniti avallano la posizione europea anche quando la Comunità stipula accordi
commerciali con paesi a minor livello di sviluppo che da allora formano per cosi dire la cintura
esterna della Comunità e che, in mancanza di una migliore definizione, si possono chiamare
“associati” (si tratta quindi del cosiddetto “regionalismo chiuso”) 26. Ci si riferisce ai
paesi
dell’Africa, Carabi e Pacifico (poi chiamati paesi ACP) ed ai paesi del Mediterraneo (poi chiamati
paesi terzi mediterranei: PTM), molti dei quali da poco indipendenti, che vedono nella Comunità
il maggior partner commerciale e la fonte più sicura di assistenza finanziaria 27.
La posizione degli Stati Uniti può venire spiegata col fatto che i paesi “associati” da secoli sono
fortemente dipendenti dai (spesso colonie dei)
principali paesi europei (Francia, Inghilterra,
Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda ed in minore misura Germania ed Italia) e che, nonostante le
dichiarazioni altisonanti, manca ancora una efficace assistenza multilaterale (ad esempio in sede
Nazioni Unite) ai territori da poco indipendenti 28. Gli USA potrebbero indubbiamente giocare una
carta a loro favore rappresentata dalla assenza di un passato coloniale tuttavia il compito viene
ostacolato dalla scarsa conoscenza della lingua, religione, tradizioni, sistema politico,
organizzazione economica, ecc. dei territori ricordati che possono portare anche a contrasti
profondi ed estesi. Certamente non si dimentica oltre Atlantico che molti dei paesi “associati” sono
dotati di importanti risorse minerarie ma queste soggiacciono già ad importanti imprese europee
per cui le multinazionali statunitensi debbono ingaggiare lotte feroci e per di più dall’esito dubbio
per scalfire le posizioni di monopolio e di rendita dei paesi comunitari 29.
Anche se gli Usa accettano la posizione europea verso i paesi associati, indubbiamente
sorgono numerosi problemi che non si possono definire di dettaglio ma che nel complesso vengono
poi superati. Gli USA non sembrano preoccupati oltre misura del fatto che, fuoriuscendo dalla
normativa GATT, gli accordi comunitari richiedono sempre “waivers” concessi con sempre
26
La bibliografia sul primo periodo della politica comunitaria rispetto ai paesi “associati” è assai ampia per cui non si
danno riferimenti anche perché la maggior parte dei contributi tratta di problemi ormai non più all’attenzione generale.
27
Senza andare troppo addietro nel tempo, per il primo gruppo di paesi basta riferirsi agli accordi di Yaoundé (1963
con 18 paesi africani) e di Lomé (1975 con 46 paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico) prima di arrivare all’accordo di
Cotonou (2000, comprendente ben 77 paesi ACP). Per il secondo gruppo di paesi che si possono chiamare
genericamente mediterranei si passa da accordi tipicamente commerciali degli anni ’60 di tipo bilaterale (comprendenti
anche Grecia, Portogallo e Spagna) alla formulazione della politica globale mediterranea (1972) e della nuova politica
mediterranea (1989) che precede di poco la Conferenza di Barcellona (1995).
28
Non dobbiamo tuttavia dimenticare la Conferenza di Bandoeng (1955) che nella “Dichiarazione per la promozione
della pace nel mondo e la cooperazione” dichiara una equidistanza fra USA ed URSS anche se esistono forti tentativi di
avvicinarsi alla posizione del mondo socialista. Si ricorda che pochi anni dopo (1981) si tiene la prima conferenza del
movimento dei non-allineati europei contro colonialismo, imperialismo e neo-colonialismo, alla quale oltre ai paesi
afro-asiatici partecipano l’URSS ed il Giappone ma non l’USA ed i paesi europei.
29
Si ricorda che, escludendo pochi prodotti strategici, la offerta dei beni primari è soddisfacente come del resto
dimostra la caduta dei prezzi dei beni primari e comunque non si manifestano negli Stati Uniti carenze significative dei
prodotti ricordati. E’ nella seconda metà degli anni '70 che scoppia lo spauracchio della carenza di materie prime
essenziali e quindi spinge da un lato l’Amministrazione statunitense ad una politica estera assai più attenta ai paesi con
specializzazione primaria e dall’altro le grandi imprese multinazionali ad effettuare investimenti nella scoperta,
valorizzazione e produzione dei prodotti considerati.
9
maggiori difficoltà ed ostacoli 30. I veri problemi che preoccupano gli Stati Uniti sono ben più forti
degli aspetti giuridici che assumeranno aspetti più cogenti qualche decennio dopo con l’avvento
dell’OMC. Si tratta in primo luogo della diversione dei traffici dei paesi “associati” a sfavore non
tanto della produzione statunitense
quanto dei
paesi emergenti più deboli e di quelli
31
maggiormente collegati agli Stati Uniti . Inoltre gli accordi europei prevedono preferenze
commerciali della Comunità che si sovrappongono a quelle del sistema generalizzato di preferenze
(SGP), al quale partecipano sia gli Usa sia la Comunità europea, per cui gli operatori commerciali
dei paesi beneficiari trovano difficoltà nella scelta del più opportuno regime doganale e viene
alterata la più corretta specializzazione produttiva. Non per niente la politica comunitaria viene
frettolosamente denunciata dagli Stati Uniti come “sistema di preferenze imperiali” per ricordare un
trascorso certamente non fausto per l’economia mondiale 32. Infine, gli accordi comunitari si basano
su una decisa assistenza non solo finanziaria ma anche tecnologica, educativa, alimentare,
infrastrutturale, ecc. accusata dagli Stati Uniti di essere fonte di sprechi, inefficienze e corruzione e
di rendere i paesi beneficiari sempre più dipendenti dai paesi donatori 33.
3)La strategia regionale degli USA in materia commerciale dopo gli anni ’90.
La tradizionale posizione multilaterale degli Stati Uniti poco a poco si frantuma per un insieme
di fattori fra i quali spiccano quelli politici che riducono la portata delle argomentazioni strategiche
messe in luce qualche decennio prima 34. Non è facile mettere in luce gli aspetti più strettamente
30
Al GATT vengono richiesti ed accordati “waivers” non solo per quanto concerne le convenzioni della Comunità
europea con i paesi “associati” ma anche per l’accordo di cooperazione economica fra gli USA e 21 paesi
dell’America Centrale e dei Caraibi (CBERA) e l’accordo di libero scambio fra il Canada e 18 paesi caraibici
(CARIBCAN). Su tali aspetti si vedano PICONE P.-LIGUSTRO A., Diritto dell’OMC, Padova, Cedam, 2002, pp. 526
e segg. e per un aspetto specifico ma rivelatore, LANNON E., The Compatibility of the Euro-Mediterranean Regional
Integration with the Multilateral Rules, in DEMARET P.-BELLIS J.F.-GARCIA JIMENEZ G., Regionalism and
Multilateralism After the Uruguay Round, Brussels, European Interuniversity Press, 1997.
31
Questo avviene anche se non soprattutto per alcuni prodotti coperti da particolari protocolli (carne, banane, zucchero,
ecc.). I conflitti maggiori fra i paesi in via di sviluppo tuttavia si manifestano qualche tempo dopo nell’OMC per
l’applicazione dell’Accordo sull’agricoltura (1995) che prevede nel corso del tempo una parziale liberalizzazione dei
sistemi protezionistici per cui inevitabilmente gli interessi dei paesi produttori ed esportatori contrastano con quelli dei
paesi consumatori ed importatori di prodotti agricoli.
32
I risultati dubbi delle preferenze comunitarie (come in generale di tutti i sistemi di preferenze) sono dimostrati anche
dall’incompleto utilizzo delle stesse e comunque dal modesto tasso di crescita delle esportazioni potenzialmente
favorite dal sistema tariffario. Solo pochi paesi, di piccola dimensione, ricavano sensibili benefici mentre per i restanti
la conquista dei mercati esteri viene resa difficile dalle croniche insufficienze ed inefficienze della offerta domestica di
prodotti esportabili. Più tardi poi emerge l’erosione delle preferenze tariffarie a causa del decrescente livello del
protezionismo determinato dai processi di liberalizzazione multilaterale per cui i paesi svantaggiati richiedono alla
comunità internazionale corrispondenti compensazioni.
33
La posizione degli Stati Uniti è sempre assai critica sul problema degli aiuti (con l’esclusione di quelli di
emergenza) in quanto restringono la scelta degli operatori economici a favore della settore pubblico, non lasciano
trapelare le preferenze dei cittadini potenzialmente beneficiari e canalizzano l’assistenza verso paesi caratterizzati non
dai più urgenti bisogni bensì dai legami con i paesi donatori, le ong, le imprese, ecc. Tale posizione critica alla politica
europea degli aiuti si manifesta non solo negli Stati Uniti ma anche nei paesi nordici dopo la loro adesione alla
Comunità in quanto sostiene finanziariamente non i paesi più poveri (Pakistan, Bhutan, Laos, ecc.) ma quelli
maggiormente legati ai paesi della UE.
34
Anche se non ci si può soffermare su questi aspetti, basti citare FAWCETT L.-HURELL A., Regionalism in World
Politics, Oxford, Oxford University Press, 1995 e STEINBERG R.H., Transatlanticism in Support of Multilateralism ?
Prospects for Great Power Management of the World Trading System, in DEMARET et alii, Regionalism and
Multilateralism, etc., op.cit. e, sotto un aspetto più teorico, GROSSMAN G.-HELPMAN E., The Politics of FreeTrade Agreements, American Economic Review, september l995. Secondo GILPIN R., Politica ed economia delle
relazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 524 e segg., alla metà degli anni ’80 si inverte la tendenza
postbellica verso la liberalizzazione ed i principi del multilateralismo in favore del ricorso al bilateralismo ed alle
misure discriminatorie. Si deve ricordare che è il Presidente Clinton nel 1994 (novembre US-APEC e dicembre
10
economici ma sicuramente essi sono connessi al crescere della globalizzazione, alle difficoltà di
mantenere le quote di esportazione sui mercati internazionali, al crescere degli accordi regionali da
parte dei concorrenti più agguerriti, alla assenza di tematiche strategiche ed ai sempre più incerti
risultati delle trattazioni commerciali in sede multilaterale, ecc. 35. E’ materia di discussione
stabilire se la crescita degli accordi regionali (bilaterali o meno) degli Stati Uniti sia espressione
diretta della loro volontà oppure della spinta dei paesi più deboli nel tentativo di ancorare i loro
processi di sviluppo e trasformazione presso partners più solidi 36. E’ ancora materia di discussione
se la proliferazione ricordata dipende in misura maggiore dagli effetti positivi degli accordi
regionali oppure dal giudizio negativo sulle negoziazioni multilaterali che inflazionano la durata
delle trattative, accentuano i conflitti fra paesi membri e creano inedite, provvisorie ed
ingiustificate alleanze 37. Nel corso di questi ultimi 15 anni il regionalismo statunitense assume le
più diverse forme: bilaterali o regionali, naturali (paesi geograficamente contigui) o innaturali
(intercontinentali), simmetriche (con paesi della stessa dimensioni) oppure asimmetriche,
aggressive, competitive o pacifiche, liberalizzatrici o protezionistiche, di integrazione “profonda” o
FTAA) ad iniziare la corsa verso il regionalismo ma si deve all’Amministrazione G.W. Bush averne fatto un formale
ed esplicito baricentro della politica commerciale USA per poi spostarlo verso il bilateralismo.
35
Numerosi contributi sulla politica economica (commerciale) estera degli Usa tentano di spiegare la conversione
degli Stati Uniti al regionalismo fra i quali basti ricordare, STERN R.M. (ed.), US Trade Policies in a Changing World
Economy, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1987; DIEBOLD W., Bilateralism, Multilateralism and Canada in US
Trade, Council on Foreign Relations, Series in International Trade, Cambridge (Mass.), Harper and Row, 1988;
DORNBUSCH R., Policy Options for Freer Trade: The Case for Bilateralism, in LAWRENCE R.Z.-SCHULTZ C.L.
(eds), American Trade Strategy: Options for the 1990s, Washington, Brookings Institutions, 1990: , BHAGWATI J.N.,
US Trade Policy: The Infatuation with Free Trade Areas, in BHAGWATI J.N.,-KRUEGER A.O. (eds), The Dangerous
Drift to Preferential Trade Agreements, American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington, 1995;
GARTNER J.E., Is America Abandoning Multilateral Trade ?, in “Foreign Affairs”, november-december 1995;
BALDWIN R.E., The Causes of Regionalism, CEPR, Discussion Paper Series, n. 1599, march l997; FEINBERG, The
Political Economy of United States’ Free Trade Arrangements, in “World Economy”, july 2003; HILAIRE A.-YANG
Y, The United States, etc., art. cit.
36
Si ricordi la “Domino Theory of Regionalism” in BALDWIN R.E., A Domino Theory of Regionalism, in BALDWIN
R.E.-HAAPARANTA P.-KIANDER J. (eds), Expanding Membership of the EU, Cambridge, Cambridge University
Press, 1996 allorquando in un modello di equilibrio politico a la più forte integrazione di un esistente blocco regionale
(shock ideosincrasico) può spingere gli altri paesi a richiedere di diventare membri anche quando prima non ne
sentivano alcun bisogno. Secondo BALDWIN R.E., The Causes of Regionalism, etc., art. cit.: “the US has been one of
the Dominoes, one of the many nations succumbing to the “demonstration effect” of the raft of FTA agreement and has
rushed to jump onto the bandwagon. Even of those FTA that the US has entertained, the initiative has most often come
not from the world’s remaining superpower but rather from the economically weaker trade partners”. A stessa
conclusione perviene FEINBERG, The Political Economy of United States, etc., art. cit., pp. 1022, “The US has
entered into FTA discussion an ad hoc basis, generally in response to an insistent external request, not as the considered
unfolding of a carefully designed internally-generated strategic plan approved in cabinet and by the president”.
37
Per la prima ipotesi si deve ricordare che la scelta del "trading partner" ha sempre un effetto assai forte sui tassi di
crescita dei paesi in via di sviluppo come bene mostra ARORA V.-VAMVAKIDIS A., How Much Do Trading Partners
Matter for Economic Growth ?, “IMF Staff Papers”, n. 1, 2005. Per la seconda ipotesi si vedano i contributi di ROSE
A., Do We Really Know that the WTO Increase Trade ?, in “American Economic Review”, march 2004 e Does the
WTO Make Trade More Stable ?, in “Open Economies Review”, january 2005, secondo i quali è forse finita l’epoca
dei grandi negoziati internazionali di fronte ad un mondo in profonda trasformazione ed ai più diversificati obiettivi dei
singoli paesi.
38
Tutte queste definizioni sono abbondantemente utilizzate, anche se con significati parzialmente diversi, nella
letteratura sul regionalismo economico come ad esempio in BHAGWATI J., Departures from Multilateralism:
Regionalism and Aggressive Unilateralism, in “Economic Journal”, decembre 1990; e dello stesso Autore, Regionalism
Versus Multilateralism, in “World Economy”, 1992; DE MELO J.-PANAGARIYA A.-RODRIK D., The New
Regionalism: A Country Perspective, CEPR, Discussion Papers Series, n. 715, l992; BERGSTEN C.F., Competitive
Liberalization, Institute for International Economics, Washington, 1995: FRANKEL J.A.-STEIN E.-WEU S.J,
Regional Trading Arrangements: Natural or Supernatural ?, in “American Economic Review”, may l996; ETHIER
W.J., The New Regionalism, in “Economic Journal”, july 1998; KRUGMAN P., 1991b WINTERS A., Regionalism
Versus Multilateralism, World Bank, Policy Research W.P. Series n. 1687, 1996; LIMAO N., Are Preferential Trade
Agreements with Non-Trade Objectives Stumbling Block for Multilateral Liberalization ?, University of Maryland,
september 2001.
11
“sottile”, ecc. 38. Sotto questo ultimo aspetto di grande rilevanza, quasi senza eccezioni, gli accordi
regionali USA sono definibili di integrazione “profonda” in quanto la riduzione delle tariffe
doganali si estende dal settore industriale al settore agricolo ed ai servizi e vengono regolate le
forme di concorrenza, i diritti di proprietà intellettuale, le misure ambientali, gli ide (per evitare
limitazioni al commercio), le migrazioni temporanee (connesse alla prestazione di servizi), ecc.
Tuttavia non bisogna certamente far sorgere equivoci poiché anche negli anni ’90 ed oltre gli Usa
si dimostrano a parole, e parzialmente anche coi fatti, partigiani del multilateralismo e concorrono
alla costituzione dell’OMC, pur se in sottofondo esiste un assai diffuso malcontento circa il
funzionamento di tutte le istituzioni economiche internazionali (e quindi anche di quelle finanziarie
come il FMI e la Banca Mondiale più facilmente poste sotto controllo) 39. La posizione
statunitense nell'OMC è spesso attaccata dalla maggioranza dei paesi membri anche se
l'organizzazione ricordata è "consensus driven" per cui tutte le decisioni vengono prese
all'unanimità. Certamente spiace agli Stati Uniti essere continuamente considerati come
responsabili di comportamenti non conformi alla normativa vigente e quindi soggetti ai ricorsi
all’Organo per la soluzione delle controversie (SDB) 40. Sul piano più concreto gli USA chiedono
risultati concreti nel minor tempo possibile anche per poter sfruttare il "fast-track" concesso al
Presidente per facilitare la ratifica dei trattati commerciali 41. Questa posizione non cambia di molto
passando dall’amministrazione democratica, due mandati a Clinton, a quella repubblicana, due
mandati a G.W. Bush 42, ed ancora meno quando vengono sostituiti per scadenza di mandato o altri
motivi i Capi delle delegazioni all’OMC 43.
Il primo scossone alla tradizionale posizione multilaterale degli Stati Uniti deriva dagli accordi
bilaterali con Israele (1985) e Canada (1989) che prevedono la costituzione di una zona di libero
scambio . Essi vengono considerati come accordi del tutto eccezionali e quindi non riproducibili, il
primo per evidenti ragioni politiche e strategiche, il secondo per la contiguità geografica e gli stretti
legami da sempre esistenti. La realtà invece si discosta dalle previsioni in quanto la posizione Usa
39
A livello della pubblica opinione, degli ambienti politici e degli esperti è in corso da alcuni anni un ampio dibattito
per la revisione di tutte le organizzazioni economiche internazionali anche se non è ancora chiaro dove si possa andare,
al di là della pur necessaria trasparenza, efficienza e contenimento dei costi. Comunque si giudichi la rilevanza del
soggetto, ben difficilmente si può passare sotto silenzio il nuovo clima dell’OMC fortemente condizionato dal fatto
che la maggioranza dei membri è formata dai paesi in via di sviluppo e che i maggiori interlocutori sono paesi solo
da pochissimo alla ribalta mondiale.
40
Non è molto significativo soffermarsi sul contenzioso USA-UE nell’ambito dell’organismo di soluzione delle
controversie dell’OMC. Come giustamente affermano ESSERMAN S.-HOWSE R., The WTO on Trial, in “Foreign
Affairs”, january-februaary 2003, se è vero che i contrasti fra le due potenze ammontano a ben il 40% dei casi trattati,
non è meno vero che l’interscambio fra le due potenze ammonta al 36% dell’interscambio mondiale. Anche se gli Stati
Uniti sempre meno sopportano di essere continuamente portati in giudizio, si rendono perfettamente conto che, qualora
applicato con trasparenza ed imparzialità, si tratta di un metodo democratico di soluzione delle controversie senza il
quale si cadrebbe nella legge del più forte.
41
Anche per questo motivo gli Stati Uniti propongono, seppure non in modo ufficiale, modifiche anche sostanziali dei
metodi negoziali. Secondo VanGRASSTEK C., U.S. Plans for a New WTO Round: Negotiating More Agreements with
Less Authority, in “World Development”, may 2000, gli Usa sono molto propensi a negoziare i cosiddetti ”early
harvests agreements” e i “deliverable agreements” in modo che l’Amministrazione negoziatrice ne possa ricevere i
conseguenti benefici. Come l’Amministrazione Clinton sperimenta a sue spese, magri sono i risultati degli accordi
internazionali di tipo settoriale (ad esempio sulle telecomunicazioni e sulla “information technology”) per cui dopo un
periodo di incertezze si passa a proporre una iniziativa di grandi dimensioni (il cosiddetto “Clinton Round”).
42
Entrambe le amministrazioni inciampano sempre con il “fast track” come appare dai lavori di NOLAND M.,
Learning to Love the W.T.O., etc., art.cit., pp. 90-91 e BERGSTEN, American Politics, etc. art. cit., Come spiega
VanGRASSTEK C., Is the Fast Track Really Necessary ?”, in “Journal of World Trade”, april 1977, la posizione
critica degli Stati Uniti circa la lunghezza delle trattative deriva anche dalla necessità di ricorrere al “fast track” e dai
suoi sempre difficili rinnovi.
43
Anche negli Stati Uniti il cambiamento dello USTR da Ch. Barshefsky a R. Zoellick non modifica in modo
sostanziale le linee principali della politica commerciale estera repubblicana come appare dalle parole stesse di
BARSHEFSKY C., Trade Policy for a a Networked World, in “Foreign Affairs”, march/april 2001.
12
cambia decisamente all’inizio degli anni ’90 con numerose proposte, alcune rimaste nelle
“cancellerie”, altre sottoposte a negoziazioni formali delle quali solo una piccola parte va a buon
fine 44.
La regione in modo prioritario interessata al nuovo corso degli Stati Uniti non può che essere
l’America latina ed infatti il Messico inaugura ufficialmente il nuovo corso con l'accordo Nafta
(1993). Tale accordo regionale Nord-Sud fa sorgere negli USA forti critiche che, per dire la verità,
derivano assai più dalla liberalizzazione del commercio con un paese in via di sviluppo che non
dall’abbandono, pur se ancora limitato, del multilateralismo. Nel colosso statunitense si fa infatti
luce una reazione antiliberista per molti anni sopita e risvegliatasi in modo blando con l’accordo
col Canada che verrà poi replicata ad ogni accordo Nord-Sud ed addirittura estesa all'intero
processo di globalizzazione 45. Con l’andare del tempo le resistenze al nuovo corso si
ingigantiscono emergendo dai più diversi settori produttivi e dalla pubblica opinione e coinvolgono
la politica al più alto livello. Si mette in luce come la competizione con il Messico (e poi con ogni
altro paese in via di sviluppo) si riveli "sleale" per la presenza di salari ai più bassi livelli,
inesistenti costi ambientali, sussidi governativi di ogni tipo, scarso rispetto della legislazione fiscale,
ecc. La polemica si arroventa ancora di più quando ci si sposta dal commercio dei beni e servizi al
movimento dei fattori di produzione (afflusso di migranti e deflusso di ide) che, pur se non
espressamente previsti dagli accordi regionali, vengono indubbiamente incentivati dalla formazione
di uno spazio integrato. Come ultima preoccupazione si fa notare che il NAFTA permette al
Messico
completa autonomia sulla gestione della politica commerciale esterna, ciò che
puntualmente avviene con accordi commerciali non solo col Cile (1999) e con Israele (2000) ma
anche con la UE (2000) e l’EFTA (2001), facendo sorgere reazioni risentite negli Stati Uniti.
A seguito del successo ottenuto col Messico, non mancano tentativi degli Stati Uniti di
negoziare accordi con i paesi dell’America centrale e meridionale anche se, nonostante i ripetuti
sforzi, non danno risultati pari alle aspettative. Negli ultimi anni la situazione sta peggiorando in
quanto i nuovi governi sud-americani vedono con sempre più stizzita preoccupazione le avances
degli Stati Uniti e si stanno rivolgendo anche, se non soprattutto, verso altri paesi e continenti. Gli
Stati Uniti firmano un accordo col Cile (2004) ma l’interesse è fortemente spostato sugli accordi o
sulle negoziazioni riguardanti intere aree geografiche come il CAFTA (“Central America Free
Trade Agreement”), il MERCOSUR (Argentina, Brasile, Paraguay ed Uruguay) ed il Patto Andino
(Perù, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador) che offrono benefici ben superiori a quelli di natura
commerciale. L’accordo US-CAFTA-DR (2005) che coinvolge gli Stati Uniti, i 5 paesi
centroamericani (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua) e la Repubblicana
domenicana, oltre alla liberalizzazione di prodotti industriali prevede anche una regolazione degli
scambi agricoli, servizi, appalti pubblici ed investimenti esteri. Risultati almeno per ora negativi si
registrano invece per quanto riguarda i rapporti USA-MERCOSUR e USA-Patto Andino per
diversi motivi che non è difficile mettere in luce. Nonostante i (e forse a causa dei) risultati poco
incoraggianti delle negoziazioni ricordate, appare un progetto statunitense (1994, Primo Summit
44
Non si danno indicazioni sui singoli accordi, bilaterali o plurilaterali, degli Stati Uniti in quanto richiederebbe uno
spazio spropositato rispetto alle dimensioni del seguente lavoro. La stessa procedura verrà seguita per quanto riguarda
gli accordi bilaterali e regionali della UE quando nel par. 5 si affronterà l’argomento. Tuttavia, poichè gli accordi degli
Stati Uniti sono in Europa assai meno conosciuti di quelli comunitari, si danno sui primi alcune informazioni sulle
proposte e realizzazioni più complesse soprattutto se rivolte ad aree regionali di maggiore interesse.
45
La bibliografia è immensa, non fa che crescere e sempre più si polarizza sugli effetti dei processi di integrazione
Nord-Sud. La preoccupazione maggiore concerne il deflusso di ide tendenti alla delocalizzazione di interi comparti
produttivi e di specifiche fasi di lavorazione dal basso contenuto di capitale con conseguente riduzione della domanda di
lavoro alle più basse qualifiche. Nello stesso modo si temono giganteschi flussi migratori dal Messico che sottraggono
ulteriori posti di lavoro alla mano d’opera americana, già colpita dal progresso tecnologico e dalla sopravalutazione del
tasso di cambio (fenomeno della de-industrializzazione). Gli effetti congiunti delle importazioni di beni e servizi ad alta
intensità di lavoro, del deflusso di ide e dell’accentuarsi delle correnti migratorie influenzano fortemente il mercato del
lavoro statunitense. Essendo il mercato ricordato sottoposto a pressioni competitive, l’accordo NAFTA influenza non
tanto i livelli di disoccupazione, come avviene nell'economia europea, quanto le remunerazioni del lavoro e soprattutto
i differenziali salariali a scapito delle più basse mansioni, dei territori periferici e dei settori in declino.
13
delle Americhe) per estendere la zona di libero scambio USA-Canada-Messico all’insieme delle
Americhe comprendente ben 34 paesi (dall’Alaska alla Terra del Fuoco) con circa 800 milioni di
persone. Si tratta del FTAA (“Free Trade Agreement of the Americas”) che presenta un piano di
azione assai dettagliato, non limitato al libero scambio ma esteso alla modernizzazione delle
infrastrutture, cooperazione nel campo dell’energia, scienza e tecnologia e turismo, partnership
per la biodiversità e prevenzione dell’inquinamento 46.
La seconda area strategica per gli Stati Uniti è il Medio Oriente-Nord Africa ma per dire la
verità della intera zona interessa soprattutto la parte più orientale della zona non solo per il
maggiore interscambio commerciale ma anche per la presenza di alleati fedeli (Turchia, Giordania,
Egitto, paesi del Golfo oltre che ovviamente Israele) e delle maggiori riserve petrolifere mondiali.
Aggiungasi poi che nella zona si localizza il conflitto israelo-palestinese che minaccia la stabilità
dell’intera regione e che gli Stati Uniti hanno grande interesse a spegnere o comunque a
mantenere entro termini minimi. Non si può negare che alcune mosse nella regione considerata
siano ispirate dalla volontà statunitense di non lasciare una zona di cosi vaste dimensioni ad un
partner concorrente come l'UE anche per fronteggiare posizioni che questa stava accumulando in un
continente (America latina), considerata dagli Stati Uniti propria zona di influenza.
L’azione statunitense si sviluppa in due momenti di cui il secondo non può essere che la
conseguenza del primo anche se le prospettive sono tutt’altro che ottimistiche per le obiezioni
sollevate dai paesi coinvolti ed in forma più o meno sommessa dalla UE. La prima mossa si
compie con gli accordi bilaterali con i paesi “amici” in cui gli aspetti politico-strategici superano
quelli strettamente economici: già si è accennato all’accordo atipico con Israele (1985) al quale con
soluzione di continuità seguono quelli con la Giordania (2001) e col Marocco (2005), salutati dalle
parti contraenti con commenti entusiastici ma non qualche strascico nella sensibilità comunitaria. I
rapporti Usa-Egitto sono alquanto più complessi in quanto nel 2001 le trattative per un accordo
bilaterale vengono interrotte per conflitti circa la regolazione internazionale degli ogm che vede
l’Egitto sostenere la posizione europea, drasticamente contrapposta a quella statunitense. Anche sul
fronte dei paesi del Golfo la posizione statunitense è assai dinamica sul piano bilaterale e si
concludono accordi di libero scambio di un certo interesse col Bahrain (2004) ed Oman (2005)
mentre si sta ancora negoziando con gli Emirati Arabi Uniti.
La crisi politica della regione, l’insufficienza delle riforme socio-politiche e le difficoltà di
portare avanti piani di integrazione regionale spinge negli ultimi tempi gli USA a spostare la loro
strategia sull’intera regione Nord Africa-Medio Oriente. Tali tentativi sono ancora allo stadio
iniziale, vengono proposti con forza nelle istanze più varie ed indubbio è l’interesse degli Stati Uniti
anche per riguadagnare il prestigio perso con la guerra in Iraq. A metà 2003, gli Stati Uniti
propongono una ampia iniziativa riguardante il Medio Oriente (“Greater Middle East Iniziative”)
composta di diverse parti ma che si basa sostanzialmente su negoziazione di accordi bilaterali di
libero scambio, in ultima istanza aggregabili i a livello sub-regionale in un accordo di libero
scambio del Medio Oriente (MEFTA). La situazione della regione si sta velocemente modificando e
nel complesso degradando per gli Stati Uniti per cui si cerca di correggere quanto contenuto
nell’iniziale progetto con un documento “Progetto per il Medio Oriente allargato ed al Nord Africa”
portato al G-8 (Georgia, 2004). Fra i vari partner viene sottoscritto un documento politico ed un
piano di azione con cui si propone di estendere al Medio Oriente valori democratici e di libero
mercato, spingendo i paesi amici a riforme domestiche per evitare derive fondamentaliste 47.
46
SALAZAR-XIRINACHS J.M.- TAVARES de ARAUJO J., The Free Trade Area of the Americas: A Latin American
Perspective, in “World Economy, august 1999; SCHOTT J.J.-HUFBAUER G.C., Whither the Free Trade of the
Americas ?, in “World Economy”, august 1999; PANAGARIYA A. The Free Trade of the Americas: Good for Latin
America ?, in “World Economy, 1996; FEINBERG R.E., Regionalism and Domestics Politics: US-Latin American
Trade Policy in the Bush Era, in “Latin American politics and Society”, january-april 2002; FEINBERG R.E., The
Political Economy of US Free Trade Arrangements, etc., art.cit.
14
La terza regione coinvolta negli sforzi commerciali statunitensi è il continente asiatico data la
sua potenza demografica e dinamismo produttivo che tenderà sempre più ad una posizione di
predominio nello scacchiere mondiale. Se si esclude un accordo commerciale con Singapore (2004),
gli Stati Uniti non concludono granché anche se i progetti sono molto, forse troppo, ambiziosi. Si
deve dapprima ricordare che il continente asiatico da sempre si discosta da una politica regionale di
liberalizzazione, preferendo invece politiche di cooperazione anche con i paesi limitrofi (ASEAN)
e del Pacifico (APEC). Recentemente la situazione si sta profondamente modificando e ne è
riprova la costituzione della SAFTA (South Asian Free Trade Area), dell’AFTA (Asean Free Trade
Area), dell’Asean-China FTA, ecc. Rispetto agli ultimi avvenimenti, la posizione strategica degli
Stati Uniti nella area asiatica si sta deteriorando a causa della loro propensione verso rapporti
bilaterali sempre visti con grande sospetto e della loro posizione ambigua verso la Cina (per questi
motivi gli USA cercano di avvicinarsi sempre più alle posizioni di Australia e Giappone, senza
riuscirci in modo soddisfacente). Si attendono tuttavia ulteriori sviluppi della posizione degli Stati
Uniti in quanto certamente non possono perdere la loro posizione strategica nelle diverse regioni
asiatiche che saranno una componente fondamentale della futura economia mondiale multipolare 48.
Il continente africano pone certamente grandi problemi anche se per un lungo periodo gli Stati
Uniti lasciano l’iniziativa alla Comunità europea con i vari accordi di Yaoundè e Lomé. Ora la
situazione sta cambiando rapidamente in quanto l’accordo di Cotonou (2000) spezza l’unità dei
paesi ACP e può dare nuovo spazio ai “late comers” come gli Stati Uniti. Per di più i nuovi dati
del commercio mondiale modificano l’interesse per l’Africa sub-sahariana (o meglio per alcune sue
sub-regioni) a causa della abbondanza di materie prime, dell’emergere del polo di crescita
dell’Africa Australe, della volontà di contenere l’avanzata della Cina, ecc. Una prima mossa
statunitense avviene tramite un accordo (AGOA, “African Growth and Opportunity Act”) che
concede il libero accesso ai prodotti della zona sub-sahariana sul mercato statunitense e non è forse
solo l’effetto del caso se l’iniziativa degli USA avviene quasi contemporaneamente ad una
comparabile azione comunitaria (EBA: “Everything But Arms”). La situazione è ancora in fase di
evoluzione e si attende una seconda mossa cioè il passaggio da un regime di concessioni tariffarie
non reciproche ad un partenariato più completo di liberalizzazione e di cooperazione: si ricorda
l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e SACU (“Southern African Customs Union”) che
comprende 5 paesi (Sud Africa, Botswana, Lesotho, Namibia, Swaziland) al quale con tutta
probabilità se ne aggiungeranno altri nel prossimo futuro 49.
47
Secondo la prima proposta (2003) l’accordo di libero scambio del Medio Oriente (MEFTA) deve entrare in vigore
nel 2013 e viene definito in ambienti ufficiali come di alto livello, comprensivo ed aperto alle nuove problematiche
(lotta alla corruzione, regole delle legge, trasparenza, difesa della proprietà intellettuale, ecc.). Secondo HILAIREYANG, The United States, etc., art. cit, pp. 604 e KHALAF R., US Scrap Middle East Reform Initiative, in “Financial
Times”, 13 march, 2004, la “Greater Middle East Initiative” adira quasi tutti i leader politici della regione per non
essere stati consultati e per non aver menzionato il conflitto israele-palestinese. L’ultima dichiarazione di G.W.Bush
(28.06.04) al summit dei G-8, Dromoland Castle in County Clare, cerca almeno in parte di rispondere alle diffuse
critiche e di coinvolgere anche i paesi europei nella iniziativa. L’atteggiamento statunitense è particolarmente enfatico,
soprattutto se confrontato con la sobrietà dell’atteggiamento della UE e dei paesi membri che prevedono gli elevati
rischi della più recente politica (economica) degli Stati Uniti verso il Medio Oriente. Tali aspetti problematici sono ben
messi in luce nello “Special Report” dello “Economist”, 30 july, 2005: America and the Middle East: Does He Know
Where it’s Leading ?
48
Si vedano FEINBERG R.E., Comparing Regional Integration in Non-Identical Twins: APEC and the FTAA, Latin
America, in “Integration and Trade”, 2000; SCOLLAY R.-GILBERT J.P., New Regional Trading Arrangements in the
Asia Pacific ?, Washington, Institute for International Economics, 2001; LLOYD P., New Bilateralism in the AsiaPacific, in “World Economy”, september 2002; PANAGARIYA A., South Asia: Does Preferential Trade
Liberalisation Make Sense ?, in “World Economy”, september 2003; USITC, US-Singapore Free Trade Agreement:
Potential Economywide and Selected Sectoral Effects, Washington, USITC, june 2003; USTR, 2004 Trade Policy
Agenda and 2003 Annual Report of the President of the United States and the Trade Agreements Program, Washington,
2004.
49
Si possono citare interessanti articoli, sempre tuttavia in ritardo rispetto alla evoluzione della situazione, come
FOROUTAN F., Regional Integration in Sub-Saharan Africa: Past Experience and Further Prospects, , in DE
MELO–PANAGARIYA, New Dimensions in Regional Integration, etc., op.cit.; ELBADAWI I.A.-MWEGA F.M.,
15
4) La opzione regionale della UE degli anni ’90 e le nuove strategie commerciali.
Come nei decenni precedenti anche negli anni ’90 la Comunità si appoggia pesantemente su
una strategia di accordi regionali anche se passa da un regionalismo “chiuso” ad un regionalismo
“aperto” sulla base di nuovi obiettivi, strategie ed interventi 50. Tale passaggio trova di massima
l’accordo di tutti i paesi comunitari 51 e viene portato avanti in modo convinto dalle varie
Commissioni (Delors, Prodi e Barroso per non ricordare che le più significative) e dai differenti
Commissari al commercio estero 52. La individuazione delle cause di tale nuova politica non è
certamente facile ma si deve ricordare l’inserimento nel Trattato di Maastricht dell’obiettivo della
politica estera comune per cui dal gennaio 1993 l’UE fa sentire la propria voce sulla scena
internazionale per quanto concerne qualsiasi argomento connesso ai principi fondamentali ed ai
valori comuni sui quali si basa 53. Non bisogna neppure dimenticare un fattore allo stesso tempo
politico ed economico consistente nella volontà della UE di esportare la propria politica economica
estera e quindi utilizzarla nei momenti di maggiore bisogno 54. Sotto l’aspetto più strettamente
Regional Integration, Trade and Foreign Direct Investment in Sub-Saharan Africa, in IQBAL Z.-KHAN M.S., (eds),
Trade Reform and Regional Integration in Africa, Washington, IMF, 1998; SUBRAMANIAN A.-TAMIRISA N., Is
Africa Integrated in the Global Economy ?, in “IMF Staff Papers”, n. 3, 2003; YANG Y.-GUPTA S., Regional Trade
Arrangements in Africa: Past Performance and the Way Forward, IMF W.P./05/36 february 2005.
50
Le caratteristiche distintive dei nuovi accordi regionali sono individuabili in numerosi scritti di buon livello quali,
SAPIR A., The Political Economy of EC Regionalism, in “European Economic Review”, may 1998; dello stesso
Autore, EC Regionalism at the Turn of the Millennium: Towards a New Paradigm, in “World Economy”, september
2000; McQUEEN M., The EU’s Free Trade Arrangements with Developing Countries: A Case of Wishful Thinking ?,
in “World Economy”, september 2002; PANAGARIYA A., EU Preferential Trade Arrangements and Developing
Countries, in “World Economy”, november 2002; THARAKAN P.K.M., European Union and Preferential
Arrangements, in “World Economy”, november 2002; LAMY P., Stepping Stones or Stumbling Blocks ? The E.U.’s
Approach Towards the Problem of Multilateralism Versus Regionalism in Trade Policy, in “World Economy”,
november 2002; GLANIA G.-MATTHES J., Multilateralism or Regionalism ? Trade Policy Options for the European
Union, London, CEPS, Paperback Books, 2005.
51
Non è certamente facile scoprire il ruolo dei singoli paesi membri nella formulazione della politica commerciale
della UE e, per quel che più ci concerne, della opzione “regionale” in quanto le competenze comunitarie sono esclusive.
Si conosce solo la posizione ufficiale della Comunità espressa dal Commissario per il commercio estero, la cui attività
viene svolta in accordo con altri Commissari (delle relazioni esterne, dell’allargamento, dell’agricoltura, ecc.). I
negoziati sono condotti dalla Commissione in consultazione con un Comitato speciale designato dal Consiglio per
assisterla in questo compito (art. 133.3). In situazioni più difficili la volontà dei singoli paesi si fa sentire e ne è una
riprova l’ammonizione del Presidente Chirac al Commissario europeo nelle ultime tempestose negoziazioni di Doha di
non andare al di là del mandato negoziale affidatogli e di tenere nel giusto conto gli interessi dei singoli paesi membri.
Naturalmente l'allargamento dell’UE ai nuovi 10 paesi europei (e fra poco a 12) può modificare la linea comunitaria in
materia di commercio estero per quanto concerne le zone geografiche e le tematiche di maggiore interesse.
52
Si veda per la politica commerciale della Commisione Prodi, EU COMMISSION, Trade Policy in the Prodi
Commission 1999-2004. An Assessment, Brussels, 19 november 2004. La nomina del nuovo Commissario europeo al
commercio estero, P. Mandelson, non muta la direzione della politica commerciale comunitaria, ripetendo quanto
avvenuto nel precedente passaggio di consegna da L. Brittan a P. Lamy.
53
L’UE realizza assai minori progressi nel forgiare una comune politica estera (e di sicurezza) che non nel creare un
mercato unico ed una moneta comune. Ad attivare il processo di formazione di una politica estera comune bisogna
considerare il crollo del comunismo e lo scoppio di crisi regionali (nei Balcani ed altrove). Nonostante i progressi
compiuti, molto resta ancora da fare per meglio chiarire obiettivi strategici, portata e mezzi di intervento della politica
estera comune in modo da potere essere una guida valida per la politica economica internazionale.
54
Secondo MAUR J.C., Exporting Europe’s Trade Policy, in “World Economy”, november 2005, pp. 1565 le
tendenze egemoniche della UE in campo commerciale dovute alla stipulazione di accordi regionali con i suoi “trade
partners” sono ben conosciute in letteratura come ad esempio in PELKMANS J.-BRENTON P., Free-Trade with the
EU: Driving Forces and the Effects, in MEMEDOVIC O.-KUYVENHOVEN A.-MOLLE W.T.M. (eds),
16
economico si possono mettere in luce tre fattori in modi diversi legati alle necessità della
globalizzazione: volontà (necessità) di inserimento delle economie in transizione nella rete di
scambi, modificazione dei tradizionali rapporti con le aree “associate” ed estensione delle
negoziazioni commerciali a paesi sinora esclusi.
Rimane sempre valida la opzione multilaterale della UE per quanto riguarda le negoziazioni
commerciali che ora avvengono nell’ambito dell’OMC, vedono una più attiva partecipazione dei
paesi emergenti e spesso oppongono la Comunità agli USA. La UE mantiene con l’OMC migliori
rapporti rispetto a quanto riescono ad impostare gli Stati Uniti ma non mancano certamente
momenti di tensione dovuti ai più diversi motivi e fra questi di maggiore interesse sono quelli
relativi alle nuove “issues”. In modo assai curioso, ma certamente non imprevedibile, queste
“issues” spingono le posizione USA ed UE a convergere, confortata anche dal rinserrarsi dei legami
dovuto agli sviluppi della partnership atlantica 55. E’ troppo presto per affermarlo con sicurezza ma
si ha l’impressione che all’interno dell’OMC si rinserrano le alleanze fra le grandi potenze exindustriali (i cosiddetti Quad) a modo di difesa delle posizioni acquisite anche se ovviamente
ognuna di esse mantiene una completa libertà per accordi commerciali o di partnership con le più
importanti aree emergenti (Cina, India, Brasile, Africa del Sud, ecc.).
4.1 La prima modifica sostanziale del tradizionale approccio regionale della UE si fa luce
all’inizio degli anni ‘90 quando appaiono sulla scena del mercato mondiale quelle che poi verranno
chiamate le economie in transizione a causa dello sfaldamento del sistema socialista degli scambi
(COMECON). La Comunità europea tenta subito di attrarre nella sua sfera di influenza le economie
in transizione per allargare in Europa lo spazio democratico, rendere più sicure le sue frontiere
orientali ed in un domani non troppo lontano procedere ad ulteriori processi di allargamento. Non
sono certamente da trascurare le motivazioni economiche in quanto si aprono nuove possibilità di
investimento e di commercio in territori prima inesplorati che richiedono beni, servizi e capitali per
aumentare il tenore di vita e compiere il necessario salto tecnologico. Il processo di transizione
non è certamente indolore poiché i sistemi un tempo pianificati debbono passare da regole di
scambio rigidamente fissate ad un libero mercato internazionale che richiede continui
cambiamenti dei processi produttivi e dello “output-mix”, attenta ricerca di nuove varietà e
migliore qualità dei beni, rispetto delle condizioni ambientali e del lavoro, flessibilità e
decentramento delle decisioni, ecc. Certamente le economie in transizione presentano vantaggi non
indifferenti rispetto ai più tipici paesi emergenti (“associati” e “non associati”) quali una assai
robusta struttura industriale, forze di lavoro qualificate, ricca rete infrastrutturale, vicinanza con i
paesi europei, ecc. ma ci si deve scontrare con la inefficienza della pubblica amministrazione, la
forza dell’apparato burocratico, l’obsolescenza della struttura di produzione, l’assenza di una vera
classe imprenditoriale, ecc.
All’inizio degli anni ’90 la Comunità affronta l’assai complesso compito dell’inserimento
delle economie in transizione nella rete dei traffici mondiali che obbliga a scegliere fra opzioni
contrastanti. Non si tratta di costruire ex-novo una rete di infrastrutture ed una capacità produttiva
tramite cospicui investimenti, come sinora effettuato nei paesi ACP e (parzialmente) nei PTM,
bensì di adattare la rete infrastrutturale e di aumentare la capacità produttiva rispetto all’inadeguato
sistema pianificato del passato. Sul piano economico i negoziatori debbono non solo rafforzare i
Multilateralism and Regionalism in the Post-Uruguay Round Era: What Role for the EU ?, London, Kluwer Academic,
1999; TREBILCOCK M.-HOWSE R., The Regulation of International Trade, London, Routledge, 1999.
55
Questa convergenza di interessi trova la sua espressione nella cosiddetta partnership atlantica iniziata nel dicembre
1995 a Madrid nel summit USA-UE fra il Presidente Clinton e il Presidente del Consiglio europeo Santer (“The New
Transatlantic Agenda”). Accanto ai summit annuali si deve ricordare il lancio della “Transatlantic Economic
Partnership” (TEP) nel 1998 per liberare il commercio USA-UE da numerose barriere non tariffarie e la “Positive
Economic Agenda” (PEA) nel 2002 per la identificazione e realizzazione di numerosi progetti bilaterali. Si è anche
proposto la formazione di una zona di libero scambio transatlantica (TAFTA) che unisca l’UE alle Americhe, i cui
contorni sono tuttavia assai nebulosi come appare in SCHOTT J.J.-OEGG B., Europe and the Americas: Toward a
TAFTA-South ?, in “World Economy”, june 2001.
17
legami con la Comunità ma anche salvaguardare i rapporti economico fra i paesi in transizione e
soprattutto (questa è la vera grande difficoltà) con la Russia ed i Nuovi Stati Indipendenti.
Con i paesi dell’Europa centrale ed occidentale (PECO) l’UE negozia accordi di libero scambio
(“europe agreements”) che si allontanano parecchio da quelli presenti per i paesi associati in
quanto prevedono lo smantellamento bilaterale degli ostacoli al commercio e non la concessione di
preferenze tariffarie 56. In realtà poiché il calendario delle liberalizzazioni è diverso per la
Comunità ed i PECO, in una prima fase sono i paesi europei occidentali a procedere allo
smantellamento delle proprie barriere doganali per cui una quota crescente della domanda
comunitaria può venire assorbita dalle esportazioni delle economie in transizione. Da tale processo
rimangono per larga parte esclusi i prodotti agricoli ed i servizi mentre una attenzione particolare
viene rivolta alla assistenza finanziaria e tecnica con appositi programmi (PHARE). L’aspetto forse
più impegnativo e di lunga scadenza degli “europe agreements” si deve ricercare nell’adeguamento
della struttura regolatoria centralizzata al nuovo sistema di scambi per cui, al di là della rimozione
dei contingenti, tariffe doganali ed altri ostacoli al commercio estero, si deve attuare un
decentramento delle decisioni a livello di impresa e liberalizzare, per quanto possibile, il mercato
domestico dei beni, servizi e fattori produttivi. Per raggiungere gli obiettivi previsti e per facilitare
la adesione alla UE si decide di iniziare un lungo processo di approssimazione delle leggi nazionali
allo “acquis communautaire” con lo scopo di smantellare nelle sue minime infiltrazioni il
precedente sistema di pianificazione. Anche se rimangono situazioni nazionali più problematiche
(Romania e Bulgaria) ed emergono profondi squilibri sociali, i risultati degli “europe agreements”
sono certamente positivi per quanto riguarda l’evoluzione e la struttura della produzione industriale,
il riassorbimento degli squilibri macroeconomici, il processo di “institutional building”, ecc. Per la
maggioranza dei PECO gli “europe agreements” possono quindi essere considerati in modo assai
positivo in quanto permettono alle economie in transizione di accedere alla Comunità (2004) in un
limitato lasso temporale ed in accettabili situazioni competitive.
La situazione è assai più complessa
nell’ambito balcanico per lo smembramento della
Jugoslavia e l’implosione dell’Albania che suscita non poche inquietudini alla Comunità. Sotto
molti aspetti la situazione è assai più grave rispetto ai PECO in quanto si tratta di paesi assai
piccoli dal punto di vista demografico e geografico, di nuova formazione, in lotta fra di loro, con
profonde divisioni etniche e religiose, ecc. La politica comunitaria verso i paesi balcanici deve
ovviamente tenere conto di questa difficile situazione strutturale per cui all’inizio occorre aprire
unilateralmente i mercati comunitari alle esportazioni dei Balcani. La seconda tappa è forse di
maggiore rilevanza in quanto i paesi balcanici debbono venire reintegrati nell’ambito dell’OMC e
stimolati a riprendere i tradizionali legami commerciali con i territori della ex-repubblica
dell’Jugoslavia. Nel terzo stadio, ancora in divenire, si negoziano accordi di stabilizzazione e di
associazione (SAP) che comprendono un insieme di concessioni tariffarie ("autonomous trade
measures"), assistenza finanziaria ed economica (CARDS) e progressivo allineamento con le regole
e le politiche della UE. La quarta tappa sarà l’adesione dei paesi balcanici alla UE, obiettivo
riaffermato nel Consiglio europeo di Salonicco (2003), che deve venire raggiunto in modo
differenziato: infatti Croazia e Macedonia sono paesi candidati all’accessione (solo per il primo
paese nel 2005 sono iniziate le negoziazioni) mentre Albania, Bosnia-Erzegovina, Serbia e
56
Fra i numerosi scritti si scelgono solo HAMILTON C.B.-WINTERS L.A., Opening Up International Trade with
Eastern Countries, in “Economic Policy”, n. 14, 1992; MARESCEAU M., The European Community, Eastern Europe
and the URSS in REDMOND J. (ed.), The External Relations of the European Community, London, Macmillan Press,
1992 ; ROLLO J.-SMITH A., The Political Economy of Eastern European Trade with the European Community: Why
So Sensitive ?, in “Economic Policy”, april 1993; SAPIR A., The Europe Agreements: Implications for Trade Laws
and Institutions, in WINTERS A. (ed.), Foundations of an Open Economy, London, CEPR, 1994. CADOT O.DeMELO J., The Europe Agreements and EC-LDC Relations, CEPR Discussion Paper, n. 1001, august 1994; ENDERS
A.-WONNACCOTT R., The Liberalization of East-European Trade: Hubs, Spokes and Further Complications, in
“World Economy”, l996.
18
Montenegro sono solo paesi potenzialmente candidati per cui occorre attendere i risultati dei già
ricordati SAP 57.
Nell'ambito delle economie in transizione occorre da ultimo considerare i paesi dell’Europa
orientale e dell’Asia centrale che dallo sfaldamento del blocco socialista traggono danni ancora
maggiori rispetto ai PECO. Per molti di questi paesi e soprattutto per la Russia, massimo è
l’interesse della Comunità non solo per la ancora imprevedibile ma sempre possibile “Europa
dall'Atlantico agli Urali” ma anche per le potenzialità di sbocco della produzione e degli
investimenti europei in cambio della ricchissima dotazione di risorse energetiche. Prima di
accordare riduzioni tariffarie di modesto valore per la natura delle esportazioni, la Comunità
favorisce l’inserimento dei paesi ricordati nell'OMC, fornisce assistenza tecnica (TACIS) e stipula
nuovi tipi di accordi detti di partnership e di cooperazione (PCA) 58. Limitandosi alla Russia che
gode di un regime preferenziale, si conclude un accordo misto per materie che cadono sotto le
competenze della UE e dei singoli paesi membri della durata di 10 annui, estensibile al di là del
2007 su basi annuali. Oltre al dialogo politico, viene regolato l’interscambio di beni e servizi,
investimenti, cooperazione finanziaria e legislativa, ambiente, lotta alle attività illegali, regole per la
soluzione delle controversie, ed aspetti settoriali (acciaio, tessili, energia, protocollo di Kyoto,
ecc.). Al summit di S. Pietroburgo (2003), UE e Russia stabiliscono di rafforzare la reciproca
cooperazione creando nel prossimo futuro 4 spazi comuni relativi non solo alla libertà sicurezza e
giustizia, alla collaborazione in materia di sicurezza estera, alla ricerca, educazione e cultura ma
anche gli affari economici (spazio economico comune) 59.
In attesa di futuri sviluppi, i rapporti fra UE ed economie in transizione si stanno ancora una volta
evolvendo in quanto nel 2004 l’adesione di 7 PECO sguarnisce la frontiera orientale della
Comunità mentre non minori preoccupazioni fanno sorgere le sponde meridionali ed orientali del
Mediterraneo. L'obiettivo della UE tende quindi a costituire ad est ed a sud delle sue frontiere un
continuum di paesi amici che, nonostante le differenze di livello di reddito, prospettive di crescita,
struttura della produzione, intensità di scambi, ecc., possono fra di loro cooperare evitando conflitti
che metterebbero a repentaglio la sicurezza comunitaria. Per quanto non sia facile trovare una via di
uscita che ad un tempo salvaguardi gli obiettivi europei e soddisfi i bisogni delle due serie di paesi,
in anni a noi vicini (2003) la Comunità propone una politica di vicinato tendente alla formazione
di una “Europa allargata” 60. La proposta iniziale prende in considerazione la Russia, i Nuovi Stati
Indipendenti occidentali ed i paesi mediterranei ma la situazione poi si modifica in quanto si vuole
57
Naturalmente la sequenza delle varie tappe è fortemente condizionata dalla situazione economica esistente per cui la
durata dell’intero processo può variare fortemente. Si deve notare che esiste una sorta di “ingorgo istituzionale” della
UE nel senso che l’adesione richiede non solo condizioni specifiche rispetto ai singoli paesi ma anche la capacità della
Comunità di assorbire i nuovi entranti. Le note difficoltà economiche della UE, i dissidi fra i paesi, la contrastata
adesione della Turchia, le trattative del Doha Development Round, ecc. non sono certo favorevoli ad un accelerazione
del processo di allargamento della UE.
58
Tali accordi concernono la Russia (1997) i Nuovi Stati Indipendenti occidentali (Ucraina, 1998; Moldova, 1998;
Bielorussia, 1995 ma non ancora in vigore), i paesi del Caucaso meridionale (Armenia, 1999; Georgia, 1999) ed i paesi
dell’Asia centrale (Azerbaijan, 1999; Kazakhastan, 1999; Kyrgystan, 1999; Turkmenistan, 1998 ma non ancora in
vigore; Uzbekistan; 1999) ai quali si aggiunge il Tajikistan (1989) e la Mongolia (1993), entrambi con un Accordo di
Commercio e Cooperazione (TCA: “trade and cooperation agreement”).
59
Nei rapporti bilaterali UE-Russia che risalgono al 1977 con la firma di un PCA, di grande rilevanza sono gli aspetti
istituzionali come condizione essenziale per attutire i potenziali conflitti e quindi per aprire la strada ad una soluzione
delle molte questione economiche ancora aperte. Per raggiungere tali obiettivi si prevedono due volte l’anno Summits
dei Capi di stato e di governo onde definire la direzione strategica della collaborazione, riunioni dei Ministri degli affari
esteri (“Foreign Ministers Troika Meetings”), Consiglio permanente della partnership a livello dei differenti ministri per
la discussione di specifici aspetti, riunioni a livello degli esperti e dei “senior officials”, comitato della cooperazione
parlamentare, ecc.
60
Ci si riferisce alla COMMUNICATION from the Commission to the Council and the European Parliament. Wider
Europe-Neighbourhood: A New Framework for Relations with our Eastern and Southern Neighbours, COM(2003)104
final. Brussels, 11.03.2003, approvata dal Consiglio europeo di Salonicco (19-20 giugno 2003). Tale Comunicazione
viene poi discussa al Parlamento Europeo, Committee on Foreign Affaire, Human Rights, Common Security and
Defence Policy, Report on Wider Europe, Strasbourg, 05.11.2003.
19
inserire anche la Turchia nonostante le prospettive dell’adesione ed i paesi del Caucaso meridionale
(Armenia, Georgia e Azerbaijan). Ogni gruppo di paesi deve reggersi sugli accordi già stipulati con
la UE ma è pensabile che nel corso del tempo si assista ad un loro processo di armonizzazione per
poi nel più lungo andare venire trasformati in accordi di vicinato assai più completi delle esistenti
relazioni contrattuali. E prevista un assenza finanziaria comunitaria, in una prima fase (2004-2006)
basata sui due programmi esistenti (TACIS e MEDA) per poi venire sostituita nel 2007 da un nuovo
strumento (ENPI: “European Neighbourood and Partnership Instrument”) dotato di maggiori risorse
61
. L’eterogeneità dei paesi, il modesto interscambio reciproco, le molteplici direzioni e
provenienze delle correnti commerciali e finanziarie, il differenti ruolo dei pubblici poteri e la
scarsa efficacia della politica economica non offrono indicazioni molto ottimistiche sul futuro della
zona ricordata com’è dimostrato anche dalla reazione incerta se non perplessa dei paesi dell’Europa
orientale e del Mediterraneo.
4.2 La seconda novità degli anni ’90 della politica degli accordi regionali della UE si deve
ricercare nella sostituzione degli accordi in vigore dagli anni ’60 all'interno dell'area regionale
"chiusa", formata al centro dalla Comunità ed alla periferia dai paesi associati. Il nuovo approccio è
rappresentato dalla sostituzione degli accordi della prima con quelli della seconda generazione che
prevedono la formazione di aree di libero scambio fra l'UE ed i paesi associati invece della
concessione di preferenze tariffarie non reciproche.
A causa dell’ormai indispensabile inserimento dei paesi sinora protetti nell’arena internazionale,
i nuovi accordi propongono un processo di crescita non più basato sulle esportazioni tradizionali
stimolate dalla diversione della domanda comunitaria a favore dei paesi “associati” per effetto delle
preferenze tariffarie. Infatti, pur tenendo conto dei periodi transitori, delle clausole di salvaguardia e
delle eccezioni per particolari beni, ecc. il nuovo approccio si riduce ad una liberalizzazione
unilaterale dei paesi associati in quanto, per larga parte, la Comunità ha già aperto il mercato
interno alle loro esportazioni. Il processo di crescita dei paesi associati deve invece basarsi su
stimoli più dinamici e di lungo periodo provocati dalla liberalizzazione delle importazioni di
prodotti intermedi e di beni capitali e dal maggior grado di competizione domestica ed esterna.
Tramite questi due effetti i nuovi accordi permettono la ristrutturazione delle tradizionali
produzioni di esportazione tramite una accelerazione degli investimenti “capital-intensive” oppure
l’apertura di nuovi filoni di produzione rivolti ai mercati esteri (o sostituenti le importazioni) 62.
Poiché il processo è di largo respiro e richiede adeguate capacità tecniche, mercati di sbocco e
valuta estera, gli investimenti nazionali non sono quasi mai sufficienti per cui si deve fare ricorso
agli investimenti diretti esteri che in molte occasioni diventano la vera variabile strategica.
Per facilitare l’inserimento dei paesi ricordati nell’arena mondiale, gli accordi di seconda
generazione debbono prevedere un insieme di misure tendenti ad allocare convenientemente i
fattori di produzione nelle direzioni più in linea con la evoluzione della domanda industriale per cui
occorre eliminare qualsiasi tipo di distorsione quali dumping, accordi restrittivi, comportamenti
collusivi, ecc. Oltre a questi aspetti tipicamente commerciali, i nuovi accordi debbono stimolare un
insieme di riforme strutturali (del mercato del lavoro, dei capitali, delle imprese pubbliche, ecc.) per
aumentare la flessibilità dei fattori produttivi ed adeguare la loro qualità agli imperativi del mercato
61
Si veda, Communication from the Commission, Paving the way for a New Neighbourhood Instrument, COM (2003)
393 final, july 2003. Gli obiettivi della politica europea di vicinato si basano su “piani di azione “ per un periodo da 3 a
5 anni, elaborati appositamente per ogni paese (“tailor-made”) con indicazioni concernenti il raggiungimento degli
obiettivi fissati (“benchmarking”) ed integrati da piani più dettagliati per le cooperazioni settoriali e da rapporti-paese
(”country reports”).
62
Questo aspetto è trattato diffusamente in molti contributi teorici come ad esempio MANJAPPA H.D.-HEDGE I.,
Import-Led Growth-Led Export, on “Indian Economic Journal” january-march 1997-98 che ipotizza un “import-led
growth-led export”. Gli effetti della liberalizzazione unilaterale dei paesi in via di sviluppo possono essere visualizzati
tenendo conto delle indagini di BALDWIN R.E.-SEGHEZZA E., Testing for Trade-Induced Investment-Led Growth,
NBER, WP n. 5416, january 1996 e degli stessi Autori, Trade-Induced Investment-Led Growth, NBER, WP n. 5582,
may 1996 secondo i quali la liberalizzazione commerciale influenza assai più il livello che l’efficienza degli
investimenti.
20
mondiale. Anche la cooperazione finanziaria cambia di aspetto essendo più strettamente collegata
ai processi di liberalizzazione commerciale che lasciano prevedere squilibri della bilancia
commerciale per l’impennata delle importazioni e deficit del bilancio statale per l’abbattimento
delle tariffe doganali. Anche indipendentemente dagli squilibri macroeconomici, l’aiuto finanziario
della Comunità viene richiesto per attutire gli effetti della liberalizzazione commerciale sui settori,
ceti sociali, imprese, territori più colpiti poichè nei paesi a basso ed intermedio livello di reddito
oltre ai ben noti “gains from trade” si fanno sentire anche i “pains from trade”. Tali interventi
redistributivi devono venire compiuti non solo per motivi di equità ma anche per tacitare le sempre
presenti critiche alla politica liberista che richiede una elevata velocità di trasformazione alla
struttura produttiva non sempre compatibile con le esigenze di larga parte della popolazione 63.
Il passaggio agli accordi di seconda generazione basati sulla formazione di zone di libero scambio
concerne i due tradizionali gruppi di paesi associati anche se le prospettive non sono certamente
equiparabili.
In senso cronologico la prima tappa comprende i paesi terzi mediterranei (PTM), all'inizio una
dozzina di paesi ad intermedio livello di reddito (salvo Israele e i territori palestinesi), suddivisi
profondamente in due zone geografiche (Maghreb e Makrasch) che dai processi di globalizzazione
non hanno tratto significativi vantaggi. Il punto di partenza risale alla conferenza di Barcellona
(1995) che prevede una serie di accordi fra i PTM e la Comunità per costituire entro il 2015 una
zona di libero scambio euro-mediterranea. Per completare il quadro, oltre agli accordi bilaterali UEsingoli PTM, occorre negoziare una seconda serie di accordi fra i PTM in modo da ridurre gli
effetti distorsivi degli accordi euro-mediterranei, a giusto titolo definibili "hub and spokes", con la
sequela degli effetti negativi sull'interscambio e sugli ide, ampiamente analizzati dalla teoria 64.
Come già si è avuto modo di notare, per i PTM la situazione cambio di nuovo quando, assai prima
del completamento della zona di libero scambio, si ha luce una nuova politica comunitaria “Per una
più grande Europa” i cui effetti concreti sono ancora assai poco chiari.
La tappa successiva e sotto molti aspetti più problematica avviene qualche anno dopo quando
vengono riformulati i rapporti fra l’UE ed i paesi ACP, caratterizzati da reddito ai più bassi
livelli (la maggioranza di essi sono paesi “least developed countries”), esportatori di prodotti
primari, con struttura produttiva assai poco diversificata, geograficamente assai lontani dalla
Europa e spesso anche fra di loro. Infatti, nel 2000 le precedenti convenzioni di Yaoundé e Lomé
vengono sostituite dall'accordo di Cotonou che prevede la suddivisione dei 77 paesi ACP in subregioni (ad esempio, Caraibi, Pacifico, Africa orientale, occidentale, centrale ed australe), ognuna
delle quali negozia accordi regionali (“EPA: “european economic agreements”) con la UE per la
formazione di zone di libero scambio 65. Il processo deve iniziare nel 2002 sulla base della volontà
63
Si ricorda che anche a livello delle negoziazioni in sede OMC si invoca sempre di più lo “aid for trade” a differenza
di indicazioni, orami superate dai nuovi avvenimenti come “trade not aid” oppure “aid not trade”. La presenza di
effetti negativi (“perdite”) degli accordi regionali appare chiaramente dalla eccellente rassegna di LLOYD P.J.MACLAREN D., Gains and Losses from Regional Trading Agreements: A Survey, in “Economic Record”, december
2004. Anche a livello teorico, al tradizionale “free trade” si abbina con sempre maggior forza il “fair trade” come ad
esempio in SHAFAEDDIN M., Free Trade or Fair Trade ? An Enquiry into the Causes and Failures in Recent Trade
Negotiations, UNCTAD, Discussion Paper, n. 153, december 2000 e VERDIER T., Socially Responsible Trade
Integration: A Political Economy Perspective, ABCDE Conference, Bruxelles, may 2004.
64
Anche se ufficialmente considerati un passo avanti nelle relazioni commerciali fra PTM ed UE, non mancano
certamente forti critiche che mettono in luce asimmetrie, squilibri, carenze ed incertezze degli accordi euromediterranei come ad esempio, NSOULI S.-BISAT A.-KANAAN O., The European Union’s New Mediterranean
Strategy, in “Finance and Development”, september 1996; HAVRYLYSHYN O., A Global Integration Strategy for the
Mediterranean Countries, Washington, IMF, 1997; GHESQUIERE H., Impact of European Union Association
Agreements on Mediterranean Countries, IMF, WP/98/116, august 1988; e da ultimi GASIOREK M., Trade Reform
and the Southern Mediterranean, in “World Economy” september 2004 e FEMISE, Le partenariat euro-méditerranéen,
10 ans après Barcelone: acquis et perspectives, Institut de la Mediterranée, 2005.
65
Il punto di partenza è COMMISSIONE EUROPEA, Libro Verde sulle relazioni tra l’UE ed i paesi ACP all’alba
del 21° secolo. Sfide ed opzioni per un nuovo partenariato, Bruxelles, 1997 al quale fanno seguito numerosi altri lavori
della stessa Commissione come, ad esempio, Orientamenti per il negoziato dei nuovi accordi di cooperazione con i
21
dei singoli paesi ACP anche se la Comunità formula alcune linee-guida per le negoziazioni. I nuovi
accordi commerciali debbono entrare in vigore il 1 gennaio 2008 ma non si possono certamente
nascondere le difficoltà del compito dovute al possibile insorgere di conflitti fra ed all’interno dei
gruppi, la incerta coesistenza fra liberalizzazione multilaterale e sub-regionale e la scarsa elasticità
e diversificazione della offerta di beni esportabili.
4.3 Il terzo e forse più dirompente cambiamento della strategia regionale della UE avviene
attorno agli anni ’90 e si deve ricercare nella estensione delle negoziazioni commerciali ad una più
vasta tipologia di aree che sinora non hanno legami istituzionali con la Comunità e che comunque
non possono aderirvi. Si tratta di paesi diversi per livello di reddito, tasso di crescita,
specializzazione internazionale, localizzazione geografica, ecc. che nel futuro giocheranno un ruolo
non trascurabile nel commercio e negli investimenti internazionali 66.
Per quanto debbono rispecchiare le caratteristiche dei vari paesi, i nuovi accordi della UE
concernono la
creazione di zone di libero scambio,
l’elaborazione di regole comuni di
concorrenza, forme più varie di cooperazione settoriale, un vago coordinamento delle politiche
macroeconomiche e solo modesti trasferimenti finanziari. Lo schema degli accordi comunitari è
abbastanza simile ed in fondo si avvicina a quelli statunitensi anche perché sempre più
comprendono i servizi ed i prodotti agricoli (gli USA sono spesso più generosi), la difesa della
proprietà intellettuale, le norme sanitarie, tecniche, ambientali, ecc. nel tentativo di rendere più
efficiente ed accettabile il processo di globalizzazione
Gli accordi di libero scambio sono certamente utili per i paesi in via di sviluppo in quanto spesso
il loro livello di protezionismo è assai elevato, presenta palesi incongruenze (messe in luce dalle
misure della protezione effettiva) e non dà segnali efficienti per l’allocazione settoriale delle risorse.
Un altro effetto positivo si deve ricercare nella più spinta diversificazione della provenienza delle
importazioni e della destinazione delle esportazioni che lascia alle spalle un indesiderato retaggio
del passato e riduce i rischi di forte instabilità. Non minori sono i vantaggi della UE in quanto
l’elevato tasso potenziale di crescita dei paesi considerati si trasforma in maggiore assorbimento
della produzione comunitaria, spesso formata da beni e servizi ad alta tecnologia, necessaria per
permettere alle imprese (multinazionali) europee di raggiungere la dimensione ottimale. Accanto a
questi aspetti commerciali, non minori si rivelano gli interessi relativi alla localizzazione di ide
europei e fra questi in prima fila quelli relativi ai servizi non commerciabili (assicurativi, bancari,
della distribuzione commerciale, ecc.) come base di lancio per la conquista dei mercati domestici
dei paesi ospitanti e dei paesi viciniori. Spesso poi gli accordi commerciali fanno parte di una più
ampia strategia della UE per rispondere alla irruenza degli altri stati industriali (soprattutto degli
Stati Uniti) nella conquista dei mercati dei paesi in via di sviluppo. Per ora l’UE ha un occhio di
riguardo per l’America latina ove gli Stati Uniti sviluppano una rete intensa di accordi che fa il
paio col crescente interesse degli USA per il Medio Oriente-Nord Africa per cui i due tipi di
comportamento si possono interpretare come un gioco indiretto fra le due superpotenze. La lotta
diventerà assai più complessa nei prossimi decenni in quanto la UE oltre ai tradizionali concorrenti
(Giappone e Stati Uniti) troverà nuovi protagonisti (Cina, India, Brasile, ecc.) anche nei settori
tecnologicamente evoluti (beni strumentali, computer, medicinali, chimica fine, ecc.).
paesi ACP, Bruxelles, 1997 e Criteri-Guida per la negoziazione dei nuovi accordi di cooperazione con i paesi ACP,
Bruxelles, 1997. I commenti non ufficiali provenienti dalle o.n.g. coinvolte nell’assistenza ai paesi ACP e da studiosi
del sottosviluppo non sono sempre positivi come, ad esempio, appare in WOLF S., The Future Cooperation Between
the UE and ACP Countries, in “Intereconomics”, may-june 1997; WATT P., Losing Lomé: The Potential Impact of the
Commission Guidelines on the ACP Non-Least Developed Copuntries, in “Review of African Political Economy”,
march 1998 e da ultimo HINKLE L.E.-SCHIFF M., Economic Partnership Agreements Between Sub-Saharan Africa
and the EU: A Development Perspective, in “World Economy”, september 2004.
66
Non si considerano in questa sede gli eventuali sforzi della UE per migliorare le condizioni di accesso ai mercati nei
paesi sviluppati (Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, ecc.) in quanto, almeno sinora, non danno
luogo ad accordi formali e ben difficilmente ne daranno luogo nel futuro previsibile.
22
Non è ovviamente possibile esaminare in modo esaustivo gli accordi stipulati dalla Comunità
con i paesi considerati anche perché molto spesso si tratta di iniziative ben lungi dall’essere
concluse per cui ci si deve limitare alle esperienze più innovative e salienti A livello bilaterale si
ricordano solo gli accordi conclusi con Messico e Cile, paesi geograficamente assai lontani,
caratterizzati da correnti di scambio abbastanza modeste ma con un potenziale di forte crescita.
Interessanti esperienze concernono le negoziazioni fra gli esistenti raggruppamenti regionali
("block-to-block negotiations") che certamente pongono maggiori problemi sul piano negoziale e
politico ma allo stesso tempo sono forieri di più ampie prospettive. Basti qui ricordare i negoziati
della UE con il Mercosur che tuttavia si interrompono non solo per gli interessi divergenti delle
parti ma anche per la concomitanza con le negoziazioni multilaterali. Con la Comunità andina ed i
paesi dell’America centrale si è invece in uno stadio meno avanzato delle trattative e si preferisce
affidarsi ad accordi di cooperazione economica e finanziaria. Gli approcci della Comunità verso i
paesi del Golfo sono in fase di conclusione e la loro importanza va ben oltre l’aspetto bilaterale in
quanto possono essere connessi con la formazione di una grande aerea del Medio Oriente e del
Nord Africa anche se, come già ricordato, non mancano proposte alternative degli Stati Uniti.
Rimane sempre aperto il grande scenario dell’Asia (Cina, India ed Asia del Sud-Est) dove sono
localizzati i paesi con migliori prospettive di crescita e che almeno per ora traggono i maggiori
vantaggi dai processi di globalizzazione, riducendo i potenziali vantaggi dai paesi associati alla UE
(paesi ACP e PTM). In questa rincorsa la Comunità parte in ritardo rispetto ad esempio agli Stati
Uniti anche perché una larga parte degli sforzi vengono compiuti dai singoli stati membri se non
addirittura della singole imprese potenzialmente esportatrici con una mancanza deplorevole di
coordinamento. La UE cerca di riprendere il tempo perduto e basti ricordare i contatti con i ministri
economici dell’ASEAN e la proposta TREATI (2003) la cui denominazione (“everything but
tariffs”) mostra come si sia ancora lontani dalla negoziazione di una zona di libero scambio. Il
punto focale tuttavia è la Cina in quanto dopo la sua accessione all’OMC può giocare un ruolo
strategico anche se per ora nelle assisi multilaterali, regionali e bilaterali preferisce smorzare i toni
dei suoi interventi. Le relazioni UE-Cina sono aumentate in modo clamoroso ma vengono turbate
non solo da aspetti politici (rispetto dei diritti umani, delle minoranze, ecc.) ma anche da più
prosaici motivi collegati allo scarso rispetto delle norme tecniche, sanitarie e sociali, di diritti della
proprietà intellettuale, ecc. Una volta chiarito e depotenziato questo contenzioso, la UE deve
riprendere con maggiore sollecitudine il cammino iniziato in direzione della Cina, partners cosi
rilevante da minacciare persino nel prossimo futuro la posizione egemonica degli Stati Uniti.
6) Considerazioni conclusive: crescenti difficoltà dei negoziati multilaterali commerciali e
spinta ad accordi regionali.
Dalle pagine precedenti appare con notevole forza come nel corso dell’ultimo decennio si
possono notare notevoli modificazioni della tradizionale posizione USA-UE per quanto riguarda gli
accordi commerciali regionali. Il cambiamento forse più eclatante consiste nella accettazione da
parte degli USA dell’approccio regionale in base a criteri rigidamente commerciali che li vede
scendere in campo con iniziative molteplici, incisive e geograficamente disperse. Non deve tuttavia
venire minimizzato il nuovo corso della UE che, pur rimanendo fedele al suo approccio regionale,
allarga i paesi coinvolti ben al di là di quelli associati e rende più uniforme il loro trattamento sulla
base di zone di libero scambio. Si fa quindi luce un processo di convergenza, certamente
imperfetto, instabile e precario fra le posizioni USA-UE per quanto riguarda gli accordi regionali
che fa sorgere non pochi interrogativi concernenti i fattori determinanti.
Indipendentemente da specifiche ragioni relative ai due partners, già esposte nelle pagine
precedenti, il processo di convergenza può venire spiegato dalle crescenti
difficoltà delle
23
negoziazioni tariffarie multilaterali in sede OMC che, ben lungi dall’essere un accidente di
percorso, si rivelano profondamente radicate nel sistema commerciale uscito dall’Uruguay Round.
Certamente, nelle dichiarazioni ufficiali dei due principali protagonisti, si accetta ampiamente il
ruolo centrale delle trattative multilaterali ma si fa luce il ragionevole dubbio che esso non riesca
ad affrontare le nuove situazioni riassumibili, senza graduatoria di importanza, nel numero
crescente dei paesi partecipanti, nella liberalizzazione di comparti produttivi sinora esclusi e
nell’emergere di nuove tematiche di ben difficile negoziazione. Per ovviare alle difficoltà ricordate
non mancano certamente suggerimenti per future riforme dei metodi negoziali, portate avanti
soprattutto dagli Stati Uniti, ma si tratta pur sempre di modifiche complesse, incerte e di lungo
periodo. In assenza ed in attesa di queste modifiche profonde la via più semplice, diretta e fruttuosa
sembra essere quella di contenere la dimensioni degli accordi, spingendosi verso quelli regionali
(non esclusi ovviamente quelli bilaterali).
Al di là delle cause, rimane tuttavia sempre aperto l’interrogativo sugli effetti degli accordi
regionali sulla efficienza, stabilità ed equità dell’interscambio di beni e servizi e di qui sui processi
di sviluppo delle maggiori potenze industriali, dei paesi emergenti e delle economie in transizione.
E’ inutile attenderci una risposta al precedente interrogativo basandosi sulla analisi teorica dei
raggruppamenti regionali in quanto, pur nella loro complessità, giungono solo a mettere in luce
effetti sulle singole macrovariabili che poi è assai difficile ricomporre a livello di sistema
economico. Anche il ricorso ai vari modelli empirici non è ancora di grande aiuto limitandosi ai soli
effetti allocativi (a livello di imprese e di settore) per cui di norma escludono gli effetti più
dinamici quali quelli sulla produttività, progresso tecnico, qualità dei prodotti, riforme strutturali
(“lock-in reforms”), ecc. Al di là di questi sforzi pur estremamente importanti sul campo dell’analisi
teorica e delle verifiche empiriche, bisogna operare in modo più propositivo facendo si che gli
accordi regionali non si pongono in contraddizione con gli sforzi di liberalizzazione multilaterale,
aperti a tutta la comunità internazionale. Occorre ancora che gli accordi regionali siano compatibili
con le caratteristiche dei paesi più deboli, applichino ai settori nuovi (agricoltura e servizi) lo
smantellamento tariffario, allarghino il ventaglio delle tematiche da affrontare (standards ambientali
e sociali) e rendano più fattibili ed efficienti le politiche di aggiustamento.
-----------------------------------
24