Kant, Per la pace perpetua

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Kant, Per la pace perpetua
IMMANUEL KANT
PER LA PACE PERPETUA. UN PROGETTO FILOSOFICO.
“Zum ewigen Frieden” (per la pace perpetua). Se questa iscrizione satirica posta sull’insegna di un oste
olandese, nella quale era dipinto un cimitero, valga per gli uomini in generale o in particolare per i sovrani
non mai sazi di guerra, oppure valga solo per i filosofi che vagheggiano quel dolce sogno, può lasciarsi
indeciso. Ma poiché il politico pratico assume di fronte al teorico l’atteggiamento di guardare a
quest’ultimo con grande presunzione dall’alto in basso come un uomo della cattedra, che con le sue idee
prive di contenuto reale è innocuo allo Stato (che deve condursi con princìpi ricavati dall’esperienza) e al
quale si può permettere di sbizzarrirsi fino in fondo con le sue idee senza che l’uomo di Stato pratico del
mondo se ne debba dare pensiero, così l’autore di questo saggio chiede per sé che, anche in caso di
disaccordo, il politico pratico sia conseguente e non sospetti un pericolo per lo Stato nelle teorie che il
politico teorico affida alla buona ventura e manifesta pubblicamente. Con questa clausola salvatoria
l’autore del presente saggio vuole dunque, nella forma migliore, sapersi esplicitamente garantito da ogni
maligna interpretazione.
SEZIONE PRIMA. Contenente gli articoli preliminari per la pace perpetua tra gli Stati
1. “Nessun trattato di pace deve considerarsi tale, se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti per una
guerra futura”.
In tal caso esso sarebbe infatti un mero armistizio, una sospensione di ostilità, non pace, che significa la
fine di ogni ostilità; e aggiungervi l’aggettivo eterna costituisce già un pleonasmo sospetto. Le cause di
guerra futura già esistenti, anche se eventualmente ignote agli stessi attuali contraenti, vengono nel loro
insieme annullate con il trattato di pace, anche se potessero ricavarsi, cavillando con ogni possibile
arguzia, dai documenti d’archivio.
La riserva (reservatio mentalis)1 di antiche pretese da farsi eventualmente valere in avvenire (delle quali
nessuna delle parti contraenti vuole per il momento far menzione, perché entrambi i contraenti sono troppo
esausti per continuare la guerra) e da sfruttare con malvagità alla prima occasione favorevole a questo
scopo, rientra nella casistica gesuitica e, quando la cosa si giudichi in sé stessa, è indegna dei sovrani come
è indegno di un loro ministro accondiscendere a simili calcoli. Se però, secondo gli illuminati principi della
ragion di Stato2, si fa consistere il vero onore dello Stato nell’ accrescimento continuo di potenza, quali che
siano i mezzi, allora certamente tale formulazione apparirà una pedanteria di scuola.
2. “Nessuno Stato indipendente (non importa se piccolo o grande) può venire acquistato da un altro per
successione ereditaria, per via di scambio, compera o donazione”.
Uno Stato infatti non è (come il territorio su cui ha la sua sede) un bene (patrimonium): è una società di
uomini, sulla quale nessun altro se non lei stessa può comandare e disporre. Incorporare ora lo Stato, che
come tronco ha le sue proprie radici, in un altro Stato a mo’ di innesto, significa sopprimerne l’esistenza
come persona morale, fare di questa una cosa: e ciò contraddice all’idea del patto originario senza il quale
non può concepirsi diritto sopra un popolo. A quale pericolo il pregiudizio di un siffatto modo di acquisto,
per cui anche gli Stati possono sposarsi fra di loro, abbia esposto nei nostri tempi, anche i più recenti,
l’Europa (poiché alle altre parti del mondo tale sistema è sempre rimasto sconosciuto), è noto a chiunque; è
un nuovo genere di industria per cui con legami dinastici si può aumentare la propria potenza senza
dispendio di forze o anche estendere in tal modo il possesso territoriale. Anche il vendere le truppe di uno
Stato ad altro Stato, contro un nemico non comune, rientra in un siffatto sistema, poiché con ciò si usa ed
abusa dei sudditi come se fossero cose di cui si può disporre a capriccio.
3. “Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire interamente”.
Essi infatti minacciano incessantemente gli altri Stati con la guerra, dovendo sempre mostrarsi armati a tale
scopo, ed eccitano gli altri Stati a gareggiare vicendevolmente in qualità di armamenti in una corsa senza
fine: e siccome per le spese a ciò occorrenti la pace diventa da ultimo ancor più oppressiva che non una
breve guerra, così tali eserciti permanenti diventano essi stessi la causa di guerre aggressive condotte per
liberarsi da quel peso. A ciò si aggiunga che assoldare uomini per uccidere o farli uccidere appare un far
1
“Riserva mentale”: firmare un documento sapendo già che si intende non restarvi fedeli, anche se per una
causa che si ritiene giusta.
2
Il principio cinque-seicentesco della ragion di stato è detto qui solo ironicamente illuminato.
uso di uomini come di semplici macchine e strumenti nelle mani di un altro (dello Stato), il che non può
affatto conciliarsi con il diritto dell’umanità insito nella nostra persona. Cosa ben diversa è l’esercitarsi alle
armi volontario e periodico dei cittadini al fine di garantire con ciò sé stessi e la patria dalle aggressioni
esterne. Lo stesso effetto avrebbe l’accumulazione di un tesoro di guerra, poiché, venendo ciò considerato
dagli altri Stati come una minaccia di guerra, renderebbe necessarie aggressioni preventive (dato che delle
tre forze, quella dell’esercito, dell’alleanza e del denaro, quest’ultimo è probabilmente lo strumento di
guerra più sicuro), se a ciò non si opponesse la difficoltà di valutarne l’entità.
4. “Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di controversie fra Stati da svolgere all ‘estero”.
Il cercare risorse dentro o fuori dello Stato nell’interesse dell’economia nazionale (per costruire nuove
strade, fondare nuovi insediamenti, istituire magazzini di riserva per gli anni di scarso raccolto ecc.) non
desta sospetti. Ma il sistema del credito visto come un meccanismo con cui gli Stati si fronteggiano l’un
l’altro, cioè poi un sistema che porti all’aumento indefinito dei debiti, i quali sono sempre al riparo da una
restituzione immediata (perché non tutti i creditori la richiederanno contemporaneamente): questo sistema
— ingegnosa invenzione fatta in questo secolo da un popolo commerciante — costituisce una pericolosa
forza finanziaria, vale a dire un tesoro destinato a fare la guerra, e anzi un tesoro che supera quelli di tutti
gli altri Stati presi insieme e che potrebbe esaurirsi solamente per la minaccia di una fatale diminuzione dei
tributi: pericolo che però può essere ancora a lungo ritardato per il ravvivarsi del commercio e per la
conseguente reazione sull’industria e sui profitti. Questa agevolazione a fare la guerra, congiunta con la
tendenza a farla da parte dei detentori del potere (tendenza che sembra inerente alla natura umana), è
dunque un grave ostacolo alla pace perpetua e tanto più si impone un articolo preliminare per rimuoverlo,
quanto più la comune inevitabile bancarotta finale dello Stato coinvolgerà nel danno altri Stati che non ne
hanno colpa e che scorgerebbero in ciò una pubblica lesione dei loro diritti. Sono quindi perlomeno
giustificati quegli Stati che si uniscono contro un tale Stato e contro le pretese di esso.
5. “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”.
Che cosa infatti può giustificarlo a comportarsi in tal modo? Forse lo scandalo che quello Stato dà ai
sudditi di un altro Stato? Ma siffatto scandalo può piuttosto servire di ammonimento per l’esempio dei
grandi mali che un popolo si è attirato con la sua anarchia: e in genere il cattivo esempio che una persona
libera dà ad altri (in quanto scandalum acceptum) non costituisce una lesione. Diverso sarebbe invece il
caso di uno Stato che per discordie interne si divide in due parti, ognuna delle quali si costituisce in uno
Stato particolare che pretenda di dominare il tutto: nel qua! caso l’aiuto prestato ad una delle parti non
potrebbe considerarsi come ingerenza esterna di uno Stato nella costituzione di un altro (perché non di
costituzione si tratta allora, bensì di anarchia). Finché però tale conflitto intestino non si è apertamente
manifestato, questo intervento di potenze straniere sarebbe violazione dei diritti di un popolo indipendente
in lotta solo con un malessere interno, e l’intervento sarebbe esso stesso uno scandalo e renderebbe
malsicura l’autonomia di tutti gli Stati.
6.“Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che renderebbero impossibile la
reciproca fiducia nella pace futura: come, ad es., l’assoldare sicari (percussores) ed avvelenatori
(venefici), la rottura della capitolazione, l’istigazione al tradimento (perduellio) nello Stato al quale si fa
guerra, ecc.”.
Questi sono stratagemmi disonesti. Infatti una qualche fiducia nella disposizione d’animo del nemico deve
ancora sussistere anche nella guerra, poiché altrimenti non potrebbe neppure concludersi alcuna pace e
l’ostilità degenererebbe in una guerra di sterminio (bellum internecinum). La guerra è infatti solo il triste
mezzo necessario nello stato di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare secondo il diritto) per
affermare con la forza il proprio diritto, non potendo in tale stato esser considerata nemico ingiusto
nessuna delle due parti (perché ciò presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo solo l’esito del
combattimento (come nel cosiddetto giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto: ma tra due Stati non è
concepibile una guerra punitiva (bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste rapporto di superiore ad
inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio in cui la distruzione può colpire contemporaneamente
entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe luogo alla pace perpetua unicamente sul grande
cimitero del genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi che vi conducono, dev’essere
pertanto assolutamente vietata9. Ma che siffatti mezzi portino inevitabilmente a ciò risulta chiaro dal fatto
che, essendo quelle arti infernali in sé stesse nefande, esse, una volta entrate nell’uso, non si manterrebbero
a lungo nei confini della guerra — come ad esempio l’impiego delle spie (uti exploratoribus) in cui si
sfrutta solo la mancanza del senso dell’onore di altre persone, la quale comunque non può venire sradicata
— ma si estenderebbero anche allo stato di pace le cui finalità sarebbero quindi interamente annullate.
Sebbene le leggi sopra esposte siano dal punto di vista oggettivo, cioè nell’intenzione dei detentori del
potere, tutte quante leggi di proibizione (leges prohibitivae), alcune di esse sono però di natura stretta
(leges strictae), cioè valgono senza tener conto della diversità delle circostanze e impongono l’abolizione
immediata (tali sono quelle dei nn. 1, 5, 6), mentre altre (come quelle dei nn. 2, 3, 4) non sono eccezioni
alla norma di diritto, ma eccezioni relative alla loro applicazione, in quanto tengono conto delle
circostanze, implicano la facoltà soggettiva di allargarle (leges latae) e permettono che se ne differisca
l’esecuzione, senza però perdere di vista lo scopo che non consente di rinviare indefinitamente (o, come
Augusto diceva, ad calendas Graecas) questa dilazione (ad esempio il ristabilimento della libertà tolta a
certi Stati secondo il n. 2) e quindi nemmeno consente la non esecuzione, ma permette soltanto, affinché
l’esecuzione non sia affrettata e quindi contraria allo scopo, che la si ritardi. Il divieto infatti concerne qui
solo il modo d’acquisto, che non deve avere validità per l’avvenire, ma non lo stato di possesso che, se
anche manca del titolo giuridico richiesto, tuttavia secondo la pubblica opinione del tempo (acquisto
putativo) fu ritenuto legittimo da tutti gli Stati.
SEZIONE SECONDA. Contenente gli articoli definitivi per la pace perpetua tra gli Stati
Lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura (status naturalis), il quale è
piuttosto uno stato di guerra nel senso che, se anche non si ha sempre uno scoppio delle ostilità, è però
continua la minaccia ch’esse abbiano a prodursi. Lo stato di pace deve dunque essere istituito, poiché la
mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza, e se questa non ègarantita da un vicino ad un altro (il
che può aver luogo unicamente in uno stato legale), questi può trattare come nemico quello a cui tale
garanzia abbia richiesto invano.
Primo articolo definitivo per la pace perpetua: “La costituzione civile di ogni Stato dev ‘essere
repubblicana”.
La costituzione fondata: 1) sui princìpi della libertà dei membri di una società (in quanto uomini); 2) sui
princìpi della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione (in quanto sudditi); 3) sulla legge
dell’uguaglianza di tutti (in quanto cittadini), è la costituzione repubblicana, unica costituzione che derivi
dall’idea del contratto originario su cui ogni legislazione giuridicamente valida di un popolo deve fondarsi.
Questa costituzione è quindi in sé stessa, per ciò che riguarda il diritto, quella che sta originariamente a
fondamento di tutte le specie di costituzioni civili, e v’è solo da domandarsi se essa sia anche l’unica che
può condurre alla pace perpetua.
La costituzione repubblicana ora, oltre alla schiettezza della sua origine derivantele dall’essere scaturita
dalla pura fonte dell’idea del diritto, presenta anche la prospettiva del fine desiderato, ossia della pace
perpetua. La ragione ne è la seguente: se (come in questa costituzione non può essere altrimenti) è richiesto
l’assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba venir fatta, nulla è più naturale del fatto
che, dovendo decidere di far ricadere su sé stessi tutte le calamità della guerra (cioè combattere
personalmente, pagarne del proprio le spese, riparare a forza di stenti le rovine che la guerra lascia dietro di
sé e da ultimo, per colmo dei mali, assumersi ancora un carico di debiti che renderà dura la pace stessa e a
causa di successive sempre nuove guerre non potrà mai estinguersi), essi rifletteranno a lungo prima di
iniziare un così cattivò gioco: mentre in una costituzione in cui il suddito non è cittadino e che pertanto non
è repubblicana, la guerra è la cosa più facile del mondo perché il sovrano non è membro dello Stato, ma ne
è il proprietario, nulla ha da rimettere, a causa della guerra, dei suoi banchetti, delle sue cacce, delle sue
case di diporto, delle sue feste di corte, ecc., può quindi decidere la guerra alla stregua di una specie di
partita di piacere, per cause insignificanti, e per salvare le apparenze tranquillamente lasciare al corpo
diplomatico, pronto a ciò in ogni tempo, il compito di giustificarla.
Affinché (come comunemente avviene) non si scambi la costituzione repubblicana con quella democratica,
è da osservare quanto segue. Le forme di uno Stato (civitas) possono esser classificate o secondo la
differenza delle persone che rivestono il potere supremo, o secondo il modo di governare il popolo da
parte del sovrano, qualunque esso sia. La prima si chiama propriamente la forma del dominio (forma
imperii) e solo tre di queste forme sono possibili, secondo che uno, o pochi tra loro uniti, o tutti insieme
quelli che costituiscono la società civile hanno il potere sovrano (autocrazia, aristocrazia e democrazia:
potere del principe, della nobiltà, del popolo). La seconda è la forma del governo (forma regiminis) e
riguarda il modo, fondato sulla costituzione (ch’è l’atto della volontà generale per cui la moltitudine
diventa un popolo), secondo il quale lo Stato fa uso della pienezza del suo potere: e secondo questo aspetto
la forma di governo è o repubblicana o dispotica. Il regime repubblicano attua il principio politico della
separazione del potere esecutivo (governo) dal potere legislativo; il dispotismo è l’arbitraria esecuzione
delle leggi che lo Stato si è dato; esso è dunque la volontà pubblica usata dal sovrano alla stregua della sua
volontà privata. Delle tre forme di governo la forma democratica nel senso proprio della parola è
necessariamente un dispotismo, perché essa stabilisce un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno
ed eventualmente anche contro uno (che dunque non è d’accordo con loro), e quindi tutti deliberano anche
se non sono tutti: il che è una contraddizione della volontà generale con sé stessa e con la libertà.
Ogni forma di governo che non sia rappresentativa è infatti propriamente informe, poiché il legislatore può
essere in una sola e medesima persona anche esecutore del proprio volere (il che èinammissibile al pari di
come sarebbe inammissibile assumere che in un sillogismo l’universale della premessa maggiore possa nel
contempo sottomettere sotto di sé nella premessa minore il termine particolare); e sebbene gli altri due
modi di costituzione politica siano sempre difettosi in quanto danno luogo ad una tale forma di governo, in
essi tuttavia è almeno possibile che venga assunta una forma di governo conforme allo spirito di un
sistema rappresentativo, così come Federico II almeno disse di essere semplicemente il primo servitore
dello Stato, mentre la costituzione democratica rende questo modo di governare impossibile, poiché in essa
ognuno vuole essere sovrano. Si può quindi affermare che quanto più piccolo è il numero delle persone
investite del potere politico (cioè il numero dei sovrani) e quanto maggiore è invece il numero dei rappresentanti di esso potere, tanto più la costituzione politica si accorda con la possibilità di un governo
repubblicano e può sperare di elevarsi da ultimo fino ad esso attraverso graduali riforme. Per questo
motivo nell’aristocrazia è già più difficile che nella monarchia pervenire a quest’unica costituzione
perfettamente giuridica, e nella democrazia poi la cosa è addirittura impossibile, a meno che non si ricorra
ad una rivoluzione violenta. Ma al popolo importa senza confronto di più il sistema di governo che non la
forma dello Stato (sebbene anche da questa dipenda in larga misura la maggiore o minore adeguatezza di
quello allo scopo). Se però vuol essere conforme al concetto del diritto, il sistema di governo dev’essere
rappresentativo, poiché soltanto in tale sistema è possibile un regime repubblicano, senza il quale, invece,
il governo (qualunque sia la costituzione) è dispotico e violento. Nessuna delle antiche repubbliche ha
conosciuto questo sistema e perciò esse dovevano necessariamente finire nel dispotismo, che sotto il
comando di uno solo è ancora il più sopportabile.
Secondo articolo definitivo per la pace perpetua: “Il diritto internazionale deve essere fondato su un
federalismo di liberi Stati”.
I popoli, in quanto Stati, possono essere considerati come singoli individui che, vivendo nello 180 stato di
natura (cioè nell’indipendenza da leggi esterne), si ledono a vicenda già per il solo fatto della loro
vicinanza e ognuno dei quali, per la propria sicurezza, può e deve esigere dall’ altro di entrare con lui in
una costituzione analoga alla civile, nella quale può venire garantito ad ognuno il proprio diritto. Questa
sarebbe una federazione di popoli, che non dovrebbe essere però uno Stato di popoli. In ciò vi sarebbe
infatti una contraddizione, poiché ogni Stato implica il rapporto di un superiore (legislatore) con un
inferiore (colui che obbedisce, cioè il popolo), mentre molti popoli in uno Stato costituirebbero un solo
popolo: il che contraddice al presupposto (poiché qui noi dobbiamo considerare il diritto dei popoli tra loro
in quanto essi costituiscono altrettanti Stati diversi e non devono confondersi in un solo ed unico Stato).
Come ora l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, per cui preferiscono azzuffarsi 190 di
continuo tra loro piuttosto che sottoporsi ad una coazione legale da loro stessi stabilita e preferiscono
quindi la libertà sfrenata alla libertà razionale, noi lo riguardiamo con profondo disprezzo e lo
consideriamo barbarie, rozzezza e degradazione brutale dell’umanità, così si dovrebbe pensare che popoli
civili (ognuno unito in uno Stato per sé) dovrebbero affrettarsi ad uscire al più presto possibile da uno stato
così degradante. Al contrario invece ogni Stato ripone piuttosto la sua maestà (poiché maestà del popolo è
un’espressione insulsa) nel non essere appunto sottoposto a coazione legale esterna di sorta, e lo splendore
del sovrano consiste nell’avere egli al suo comando, senza che debba personalmente esporsi al pericolo,
molte migliaia di uomini disposti a sacrificarsi per una causa di cui ad essi non importa nulla; e la
differenza tra i selvaggi dell’Europa e quelli americani consiste soprattutto nel fatto che mentre in America
alcune tribù di selvaggi sono state interamente divorate dai loro nemici, gli europei invece sanno sfruttare i
loro nemici vinti in un modo migliore che non divorandoli e preferiscono accrescere con essi il numero dei
loro sudditi e quindi la quantità di strumenti per guerre ancora più vaste.
Data la malvagità della natura umana, che si rivela apertamente nei liberi rapporti dei popoli (mentre nello
stato civile legale essa risulta in gran parte velata per effetto della coazione esercitata dai governi), è
comunque da stupire che la parola diritto non abbia ancora potuto essere interamente bandita come
pedantesca dalla politica di guerra, e che nessuno Stato abbia ancora osato dichiararsi pubblicamente in
favore di quest’ultima. Vengono infatti ancora sempre candidamente citati, a giustificazione di una guerra
di aggressione, Ugo Grozio, Pufendorf, Vattel e altri (i quali tutti non sono che miseri consolatori), sebbene
il loro codice, redatto con spirito filosofico o diplomatico, non abbia o anche solo possa avere la minima
forza legale (poiché gli Stati come tali non sono sottoposti ad una coazione esterna comune); e senza che si
dia l’esempio di uno Stato che sia mai stato indotto a desistere dal suo proposito da argomenti avvalorati
da testimonianze di uomini tanto importanti. Quest’omaggio che (almeno a parole) ogni Stato rende
all’idea del diritto, dimostra però che nell’uomo si riscontra una disposizione morale più forte, anche se
presentemente assopita, destinata a prendere un giorno il sopravvento sul principio del male che è in lui (e
che egli non può negare) e a fargli sperare che ciò avvenga anche negli altri: altrimenti infatti la parola
diritto non verrebbe mai sulla bocca degli Stati che vogliono aggredirsi, se non per prendersi gioco di essa,
come quel principe gallo che affermava: «E privilegio concesso dalla natura al più forte sul più debole, che
questo debba obbedire a quello».
Il modo con cui gli Stati tutelano il loro diritto non può mai essere, come davanti ad un tribunale esterno, il
processo, ma solo la guerra; la quale peraltro, anche se fortunata, cioè vittoriosa, non decide la questione di
diritto, e il trattato di pace può ben porre fine alla guerra attuale, ma non allo stato di guerra (cioè alla
possibilità di trovare pretesti per una nuova guerra); il quale stato di guerra nemmeno si può a sua volta
definire semplicemente come ingiusto, poiché in esso ognuno è giudice in causa propria. D’altronde,
secondo il diritto internazionale, non può dagli Stati farsi valere il dovere, che secondo il diritto naturale
vale per gli individui nello stato di natura privo di leggi, di “uscire da questo stato” (e ciò perché gli Stati,
in quanto tali, hanno già una costituzione politica all’interno, e sono quindi sottratti alla coazione degli altri
Stati che vorrebbero, secondo il concetto che questi si fanno del diritto, sottometterli ad una costituzione
legale più estesa): mentre d’altro lato la ragione, dal suo trono di suprema potenza morale legislatrice,
condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico ed eleva invece a dovere immediato Io
stato di pace, che tuttavia non può essere creato o assicurato senza una convenzione dei popoli. Da ciò
deriva la necessità di un’associazione di natura speciale, che si può chiamare lega della pace (foedus
pacificum), distinta dal patto di pace (pactum pacis) in ciò, che quest’ultimo si propone di porre termine
semplicemente ad una guerra, quello invece a tutte le guerre e per sempre. Questa lega non mira a
procacciare potenza ad uno Stato, ma solo alla conservazione ed alla sicurezza della libertà di uno Stato
per sé e ad un tempo per gli altri Stati confederati, senza che a questi sia con ciò lecito sottomettersi (come
gli individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e ad una coazione reciproca. E possibile descrivere
l’attuabilità (realtà oggettiva) di questa idea federalistica che deve gradualmente estendersi a tutti gli Stati e
portare così alla pace perpetua: se infatti la fortuna volesse che un popolo potente e illuminato possa
costituirsi in repubblica (la quale per la sua natura deve tendere ad una pace perpetua), allora si avrebbe in
ciò un nucleo dell’unione federativa per gli altri Stati, che sarebbero indotti ad associarsi ad essa, a
garantire così lo stato di pace fra gli Stati in conformità all’idea del diritto internazionale e ad estendersi
sempre più mediante ulteriori unioni della stessa specie.
È cosa comprensibile che un popolo dica: «Non vi deve essere guerra tra noi, perché noi vogliamo
costituirci in uno Stato, cioè dare a noi stessi un potere supremo legislativo, esecutivo e giudiziario, che
risolva pacificamente le nostre controversie». Ma se questo Stato dice: «Non vi deve essere guerra tra me e
gli altri Stati, sebbene io non riconosca alcun potere legislativo supremo, che garantisca a me il mio diritto
e a cui io garantisca il suo», allora non si può comprendere affatto su che cosa altro io voglia fondare la
garanzia del mio diritto, se non sul surrogato dell’unione in società civile, cioè sul libero federalismo, che
la ragione deve associare necessariamente al concetto del diritto internazionale se si vuole che questo
conservi ancora un qualche significato. Il diritto internazionale inteso come diritto alla guerra non è
propriamente concepibile (poiché dovrebbe essere un diritto di determinare ciò che è giusto non secondo
leggi esterne universalmente valide, limitanti la libertà di ciascuno, ma secondo massime unilaterali, per
mezzo della forza): a meno che non lo si voglia intendere nel senso che uomini i quali pensano in tal modo
hanno la sorte che si meritano, se si distruggono a vicenda e trovano così la pace eterna nella vasta fossa
che copre tutti gli orrori della violenza e insieme anche i loro autori. Per gli Stati che stanno tra loro in
rapporto reciproco non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo stato naturale senza leggi, che è
soltanto stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro libertà selvaggia (senza leggi),
consentire a leggi pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli (civitas gentium) che si
estenderebbe sempre più ed abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra. Ma poiché essi, secondo la loro
idea del diritto internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in ipotesi ciò che in tesi è giusto,
così, in luogo dell’idea positiva di una repubblica universale (e perché non tutto debba andare perduto)
rimane soltanto il surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa, come unico strumento
possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto,
sempre però con il continuo pericolo che queste erompano nuovamente («Furor impius intus - fremit
horridus ore cruento»: Virgilio)3.
Terzo articolo definitivo per la pace perpetua: “Il diritto cosmopolitico dev ‘essere limitato alle condizioni
dell’universale ospitalità”4.
Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia ma di diritto, e ospitalità significa quindi il
diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente. Può venirne
allontanato, se ciò è possibile senza suo danno, ma fino a che dal canto suo si comporta pacificamente,
l’altro non deve agire ostilmente contro di lui. Non si tratta di un diritto di ospitalità, cui lo straniero può
fare appello (a ciò si richiederebbe un benevolo accordo particolare, col quale si accoglie per un certo
tempo un estraneo in casa come coabitante), ma di un diritto di visita spettante a tutti gli uomini, quello
cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra, sulla
quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel
vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro ad una porzione determinata della Terra.
Tratti inabitabili di questa superficie, il mare e i deserti di sabbia, impongono separazioni a questa
comunità umana, ma la nave e il cammello (la nave del deserto) rendono possibile che su questi territori di
nessuno gli uomini reciprocamente si avvicinino, e che il diritto sulla superficie, spettante in comune al
genere umano, venga utilizzato per eventuali scambi commerciali. L’inospitalità degli abitanti delle coste
(ad esempio, dei Barbareschi) che si impadroniscono delle navi nei mari vicini o riducono i naufraghi in
schiavitù, l’inospitalità degli abitanti del deserto (ad esempio dei beduini arabi) che si credono in diritto di
depredare quelli che si avvicinano alle tribù nomadi, è dunque contraria al diritto naturale. Ma questo
diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le condizioni
che si richiedono per rendere possibile un tentativo di rapporto con gli antichi abitanti. In questo modo
parti del mondo lontane possono entrare reciprocamente in pacifici rapporti, e questi diventare col tempo
formalmente giuridici ed infine avvicinare sempre più il genere umano ad una costituzione cosmopolitica.
Se si paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del
nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia ch’essi commettono nel visitare terre e popoli
stranieri (il che è per essi sinonimo di conquistarli). L’America, i paesi dei neri, le Isole delle spezie, il
Capo di Buona Speranza, ecc., all’atto della loro scoperta erano per loro terre di nessuno, non tenendo essi
in nessun conto gli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), con il pretesto di stabilire ipotetiche stazioni
commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei
diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la rimanente
serie dei mali, come li si voglia elencare, che affliggono il genere umano.
La Cina e il Giappone, avendo fatto esperienza di tali ospiti, hanno perciò saggiamente provveduto, la
prima a permettere solo l’accesso ma non l’ingresso agli stranieri, il secondo a permettere anche l’accesso
ad un solo popolo europeo, agli olandesi, che però sono, quasi come prigionieri, esclusi da qualsiasi
contatto con gli indigeni. Il peggio (o il meglio, se si considera la cosa dal punto di vista di un giudice
morale) è che tali Stati non traggono poi nemmeno vantaggio da queste violenze, che tutte queste società
commerciali sono sull’orlo della rovina, che le Isole dello zucchero, sedi della schiavitù più crudele e
3
Dentro freme, orrendo, l'empio furore, con bocca cruenta. Eineide, I, 294-296.
“Kant auspica un mondo nel quale sia legalmente accettabile che ogni cittadino di ogni Stato possa visitare il
territorio di ogni altro Stato con l’intenzione di concludervi degli affari. Ma se la forma o gli effetti dei
commerci da lui svolti dovessero finire col violare le leggi dello Stato visitato, allora si devono costringere i
visitatori a lasciare il paese: e dovrebbe essere compito dello Stato ospite assicurare che i visitatori se ne vadano
— e se possibile sani e salvi. (Dobbiamo ricordare che fra i visitatori a cui pensava Kant c’erano aspiranti
colonizzatori e aspiranti commercianti di schiavi, ma anche persone interessate a scambi commerciali e culturali
più encomiabili.) Per Kant quindi, come per Adam Smith e i suoi discepoli, il libero movimento di uomini e
beni costituiva un aspetto essenziale di un mondo pacifico e civilizzato, ma soggetto sempre alle leggi e al
potere di farle rispettare degli Stati esistenti. Il suo ideale cosmopolita non è quindi né uno Stato mondiale, come
tanti suoi commentatori hanno affermato senza alcun fondamento, né un’utopia anarchica nella quale gli Stati
non esistano più. Esso è piuttosto la speranza o la promessa di un mondo nel quale i diritti dell’individuo
arrivino a trascendere i limiti della nazione alla quale appartiene, fatti rispettare e ovviamente anche limitati non
da un’autorità che si pone al di sopra delle nazioni, ma dal reciproco riconoscimento fra gli Stati confederati dei
diritti e dei doveri di ciascuno di essi nei confronti dei cittadini delle altre nazioni. Tutto ciò non ha niente a che
vedere con impegni o piani di alleanza reciproca per la difesa o l’attuazione della pace, ma è piuttosto un primo
passo per garantire rapporti concretamente pacifici fra quegli Stati indipendenti che mostrano rispetto per la
legge entro i propri confini e nei loro rapporti esteri” (W. B. Gallie, Filosofie di pace e di guerra, trad. it. di G.
Scatasta, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 53-54).
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raffinata, non danno alcun reddito reale, ma lo danno solo indirettamente e per di più per uno scopo non
molto lodevole, poiché servono a fornire marinai per le flotte militari e quindi di bel nuovo a intraprendere
guerre in Europa; e questo fanno gli Stati che ostentano una grande religiosità: e mentre commettono
ingiustizie con la stessa facilità con cui si beve un bicchier d’acqua, vogliono farsi passare per nazioni
elette in fatto di ortodossa osservanza del diritto.
Siccome ora in fatto di associazione (più o meno stretta o larga che sia) di popoli della Terra si è
progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della Terra è
avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di
menti esaltate, ma una necessaria integrazione del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come
de! diritto internazionale, al fine di fondare un diritto pubblico in generale e quindi attuare la pace perpetua
alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente.
Primo supplemento. Garanzia della pace perpetua
Ciò che fornisce tale garanzia non è altro che la grande artefice Natura (natura daedala rerum), dal cui
corso meccanico scaturisce evidente la finalità di trarre dalle discordie degli uomini, anche contro la loro
volontà, la concordia. Essa viene chiamata destino in quanto appare come necessità di una causa efficiente
le cui leggi operative noi ignoriamo; ma, considerata nella sua finalità nel corso del mondo, le diamo il
nome di provvidenza, in quanto si manifesta come profonda sapienza di una causa superiore rivolta al fine
ultimo oggettivo del genere umano e predeterminante questo corso del mondo. E vero che noi
propriamente non riconosciamo tale provvidenza dalle opere della natura e neppure la possiamo dedurre
da queste, ma, come in ogni rapporto della forma delle cose con fini in genere, possiamo e dobbiamo
solamente supporla per formarci un concetto della sua possibilità in analogia alle operazioni dell’arte
umana. Ma rappresentarsi il rapporto e la concordanza della provvidenza con il fine (quello morale) che la
ragione ci presenta in modo immediato, è un’idea la quale, se sotto l’aspetto teoretico è ridondante, sotto
l’aspetto pratico (ad esempio in rapporto al concetto del dovere della pace perpetua, per utilizzare ai fini
ditale concetto il suddetto meccanismo della natura) è idea dogmatica che per quanto riguarda la sua realtà
ha un buon fondamento. L’uso della parola natura è anche, se si tratta come nel nostro caso solo di teoria
(non di religione), più conveniente per i limiti della ragione umana (la quale in ordine al rapporto degli
effetti con le loro cause deve tenersi nei limiti dell’esperienza possibile) e cosa più modesta che non il
termine di una provvidenza a noi conoscibile, termine con il quale temerariamente ci mettiamo le ali di
Icaro per avvicinarci al mistero degli imperscrutabili disegni di essa17.
Prima di determinare ora più particolarmente la garanzia della pace perpetua, sarà necessario ricercare la
condizione in cui la natura ha posto le persone operanti sulla grande scena del mondo e che rende da
ultimo necessaria tale garanzia, e sarà infine principalmente necessario vedere il modo in cui essa la
fornisce.
Le disposizioni provvisorie della natura sono le seguenti: 1) in tutte le parti della Terra essa ha provveduto
in favore degli uomini a che essi vi possano vivere; 2) con la guerra ha spinto gli uomini in ogni direzione,
cioè a popolare anche le regioni più inospitali; 3) con lo stesso mezzo li ha costretti ad entrare in rapporti
più o meno legali. Che nei deserti freddi presso il mare glaciale cresca ancora il muschio che la renna trae
di sotto la neve per diventare poi essa stessa il nutrimento e il mezzo di trasporto per l’asiatico o il
samoiedo, o che i deserti di sabbia salati contengano ancora cibo per il cammello che sembra creato quasi
apposta perviaggiare nel deserto e dunque non lasciarlo inutilizzato, è già cosa di per sé mirabile. Ancora
più evidente si palesa lo scopo se si guarda come lungo le coste del mare glaciale, oltre agli animali da
pelliccia, pure le foche, i trichechi e le balene forniscono con la loro carne nutrimento e con il loro olio
riscaldamento agli abitanti del luogo. Ma soprattutto desta ammirazione la previdente cura che la natura
manifesta con il legname galleggiante, da essa gettato (senza che si sappia bene da dove venga) sulle
spiagge dei territori privi di vegetazione, senza il quale gli abitanti dei medesimi non potrebbero costruirsi
né i mezzi di trasporto e le armi, né le loro capanne; e nella lotta contro gli animali essi qui hanno già
abbastanza da fare, tanto da vivere in pace fra loro. Ma ciò che li ha spinti in quei luoghi presumibilmente
non è stato che la guerra. Fra tutti gli animali che, dal tempo in cui la terra cominciò ad essere abitata,
l’uomo ha imparato a domare e ad addomesticare, il primo ad esser stato adoperato come strumento di
guerra è il cavallo (l’elefante appartenendo a un’epoca posteriore, ossia a quella del lusso di Stati già
istituiti). Così anche l’arte di coltivare certe specie di erbe, dette cereali, che noi oggi non sappiamo
neanche più come erano nella loro natura originaria, e parimenti l’arte di moltiplicare e migliorare certe
specie di frutta (forse in Europa soltanto due: il melo e il pero selvatici) mediante il trapianto e l’innesto,
potevano sorgere solo in Stati già costituiti, dove la proprietà della terra era garantita: e ciò dopo che gli
uomini, originariamente in libertà priva di legge, si erano elevati dalla vita di caccia, di pesca e di
pastorizia fino alla vita agricola, ed erano stati scoperti il sale e il ferro, che furono forse le prime merci
largamente richieste nello scambio commerciale fra popoli diversi, i quali da tale scambio furono portati
dapprima a stringere un rapporto pacifico tra loro e poi accordi, associazioni e rapporti pacifici anche con i
popoli più lontani.
In quanto dunque la natura ha provveduto a che gli uomini potessero vivere dappertutto sulla Terra, essa
ha pure dispoticamente voluto ch’essi dovessero vivere ovunque, anche contro la loro inclinazione e anche
senza che questa costrizione presupponesse al tempo stesso alcun concetto del dovere il quale a ciò li
obbligasse in nome di una legge morale: come mezzo a questo scopo essa ha scelto invece la guerra.
Vediamo infatti popoli che nell’unità della loro lingua fanno conoscere l’unità della loro origine, come i
samoiedi presso il mare glaciale da un lato, e dall’altro un popolo di lingua simile, lontano duecento
miglia, che abita i monti Altai, fra i quali due popoli si è incuneato un altro, quello mongolo di cavalieri e
quindi guerriero, che tagliò fuori una parte della tribù dell’Altai e la sospinse lontana verso le più inospitali
terre glaciali dove essa certamente non sarebbe penetrata di sua spontanea volontà. Similmente vediamo i
Finni delle regioni più settentrionali d’Europa, chiamati Lapponi, che dagli Ungheresi, ora tanto lontani
ma ad essi affini per lingua, furono separati ad opera dei popoli goti e sarmati inseritisi a forza tra gli uni e
gli altri. E che cos’altro può aver spinto verso il nord gli Eschimesi (forse antichissimi nomadi europei,
stirpe affatto diversa da tutte le altre popolazioni americane) e spinto nell’America del sud i Fuegini fino
alla Terra del fuoco, se non la guerra di cui la natura si serve come di un mezzo per popolare ovunque la
Terra? La guerra stessa, d’altronde, non ha bisogno di un qualche particolare movente, ma al contrario
sembra connaturata all’uomo e giudicata addirittura come qualcosa di nobile cui egli si sente portato
dall’impulso dell’onore e non da moventi interessati, tanto che il coraggio guerresco (sia presso i selvaggi
americani che presso gli europei dei tempi della cavalleria) è ritenuto di grande valore immediato, non solo
in caso attuale di guerra (come è giusto), ma anche in quanto spinge alla guerra, la quale spesso viene
intrapresa solo per far mostra di tale coraggio. Alla guerra in sé stessa viene quindi annessa una dignità
intrinseca, tanto che perfino dei filosofi ne fanno l’elogio in quanto essa sarebbe un certo qual
ingentilimento dell’umanità, dimentichi del detto di quel greco: «La guerra è un male, perché produce più
gente malvagia di quanta ne tolga di mezzo». E ciò basti riguardo a quel che la natura fa per il suo proprio
fine nei confronti del genere umano considerato come classe animale.
Si pone ora la questione relativa a ciò che è l’essenziale ai fini della pace perpetua: sapere cioè quel che la
natura fa per attuare lo scopo che la ragione eleva a dovere dell’uomo e quindi per favorire la sua
intenzione morale, e quale garanzia la natura presti per assicurare che ciò che l’uomo dovrebbe fare
secondo le leggi della libertà e che non fa, egli lo farà costretto dalla natura, senza che per altro sia
compromessa questa libertà, e ciò nel triplice rapporto del diritto pubblico, cioè del diritto statuale interno,
del diritto internazionale e del diritto cosmopolitico. Quando io dico che la natura vuole che questa o
quella cosa avvenga, non voglio dire ch’essa imponga a noi un dovere di attuarla (il che può fare solo la
ragione pratica libera da ogni coazione), ma significa ch’essa la fa di per sé, sia che lo vogliamo, sia che
non lo vogliamo (fata volentem ducunt, nolentem trahunt)5.
1. Quand’ anche un popolo non fosse costretto da discordie intestine a sottoporsi alla coazione di pubbliche
leggi, vi sarebbe costretto dalla guerra esterna, in quanto per la suddetta disposizione della natura ciascun
popolo viene a trovarsi premuto da un altro popolo vicino contro il quale deve costituirsi interiormente a
Stato per essere preparato a resistere ad esso come potenza. Ora, la costituzione repubblicana è la sola
perfettamente conforme al diritto degli uomini, ma anche la più difficile a costituirsi e ancor più a
conservarsi, tanto che molti affermano che dovrebbe essere uno Stato di angeli poiché gli uomini, con le
loro tendenze egoistiche, non sarebbero capaci di una costituzione di forma così sublime. Ma la natura,
servendosi di quelle stesse tendenze egoistiche, viene in soccorso alla volontà generale fondata sulla
ragione, tanto onorata ma praticamente impotente, cosicché solo da una buona organizzazione dello Stato
(e di questa gli uomini sono capaci) dipende che le forze umane vengano reciprocamente combinate in
modo che l’una arresti l’altra nei suoi effetti disastrosi oppure la elimini. In tal modo il risultato per la
ragione è come se l’una e l’altra forza non esistessero e l’uomo è pertanto costretto ad essere, se non
proprio moralmente buono, almeno un buon cittadino. Il problema della costituzione di uno Stato è
risolvibile, per quanto dura l’espressione possa sembrare, anche da un popolo di diavoli (purché dotati di
intelligenza) e si riduce a questo: “Come dare ad una moltitudine di esseri razionali, che ai fini della loro
conservazione esigono tutti leggi generali alle quali però ognuno nel suo intimo tende a sottrarsi, un ordine
ed una costituzione tali che, malgrado i contrasti derivanti dalle loro private intenzioni, queste si
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Il fato guida chi acconsente, trascina chi si oppone. Seneca, Epistolae morales, XVIII, 4, che traduce a sua
volta lo stoico greco Cleante
neutralizzino tuttavia l’una con l’altra, di manièra che essi, nella loro condotta pubblica, vengano infine a
comportarsi come se non avessero affatto tali cattive intenzioni”. Un tale problema deve essere risolvibile.
Qui la questione non riguarda infatti il miglioramento morale degli uomini, ma solo il meccanismo della
natura, circa il quale si vuole sapere come lo si possa utilizzare tra gli uomini al fine di regolare in seno ad
un popolo l’antagonismo dei loro sentimenti non pacifici, in guisa ch’essi si sentano vicendevolmente
costretti a sottostare a leggi coattive e debbano così instaurare lo stato di pace, nel quale le leggi abbiano
vigore. Ciò lo si può rilevare anche negli Stati attualmente esistenti, per quanto ancora assai
imperfettamente organizzati: e lo si può rilevare nel senso che nella loro condotta esterna essi sono già
molto vicini a ciò che l’idea del diritto prescrive, anche se causa di ciò non sia certamente la moralità
interna (non da questa infatti può attendersi la buona costituzione dello Stato, ma al contrario è in primo
luogo da una buona costituzione dello Stato che c’è da aspettarsi la buona educazione morale di un
popolo). Il meccanismo della natura, mediante le tendenze egoistiche che naturalmente contendono tra loro
anche nei rapporti esterni, può quindi essere utilizzato dalla ragione come un mezzo per giungere al
proprio scopo, che è il precetto giuridico, e così favorire ed assicurare, per ciò che dipende dallo Stato,
tanto la pace interna quanto quella esterna. Qui vale dunque 1’assioma che la natura vuole irresistibilmente
che il diritto finisca per trionfare. Ciò che in questo campo si trascura di fare finisce per prodursi da sé in
modo assai fastidioso: “A piegare toppo il giunco esso si spezza, e chi vuole troppo non vuole nulla”
(Bouterwek)19.
2. L’idea del diritto internazionale presuppone la separazione di molti Stati vicini e indipendenti tra loro; e
sebbene un tale assetto sia già di per sé uno stato di guerra (salvo che la loro unione in federazione non
prevenga lo scoppio delle ostilità), esso tuttavia vale sempre meglio, secondo l’idea della ragione, che non
la fusione di tutti questi Stati per opera di una potenza che soverchi le altre e si trasformi in monarchia
universale, poiché le leggi, a misura che aumenta la mole del governo, perdono di forza e un dispotismo
senza anima, dopo aver sradicato i germi del bene, cade da ultimo in preda all’anarchia. Tuttavia proprio
questa è l’aspirazione di ogni Stato (o del suo sovrano), cioè di porsi nella condizione di pace durevole
dominando, se è possibile, l’intero mondo. Ma la natura vuole altrimenti. Essa si vale di due mezzi per
impedire la mescolanza dei popoli e per tenerli distinti: la diversità delle lingue e la diversità delle
religioni, la quale tende sì a portare all’odio reciproco ed è pretesto di guerra, eppure, con il progredire
della cultura ed il graduale avvicinarsi degli uomini ad una maggiore intesa in tema di princìpi, conduce
all’ accordo in una pace che non è prodotta e garantita, come lo è (sul cimitero della libertà) il dispotismo,
dall’indebolimento di tutte le energie, ma dal loro equilibrio nella più viva delle emulazioni.
3. Come da un lato la natura sapientemente separa i popoli, che la volontà di ogni Stato, anche secondo i
princìpi del diritto internazionale, tenderebbe invece volentieri ad unificare sotto di sé con l’astuzia o con
la forza, così d’altro canto essa, facendo leva sul reciproco tornaconto, unisce i popoli che l’idea del diritto
cosmopolitico non garantirebbe contro la violenza e la guerra. E lo spirito commerciale che non può
coesistere con la guerra e che prima o poi si impadronisce d’ogni popolo. Poiché, di tutte le forze
subordinate (come mezzi) al potere dello Stato, la forza del denaro sembra la più sicura, avviene che gli
Stati si vedono costretti (non certo da motivi morali) a promuovere la nobile pace e, ovunque la guerra
minacci di scoppiare nel mondo, a impedirla mediante compromessi, come se gli Stati fossero a tale scopo
uniti in alleanze permanenti. Grandi leghe per fare la guerra potrebbero per la natura stessa delle cose
formarsi solo assai di rado e ancor più raramente avere successo. In questo modo è la natura stessa, con il
meccanismo delle tendenze umane, a garantire la pace perpetua, con una sicurezza che certo non è
sufficiente a farne presagire (teoricamente) 1’ avvento, ma che però basta al fine pratico e fa diventare un
dovere l’adoperarsi a questo scopo (che non è semplicemente chimerico).
Secondo supplemento. Articolo segreto per la pace perpetua
Un articolo segreto nelle trattative del diritto pubblico (in Verhandlungen des öffentlichen Rechts) è
obiettivamente, cioè considerato nel suo contenuto, una contraddizione, ma, giudicato soggettivamente,
cioè in base alla qualità della persona che lo detta, può benissimo contenere un elemento di segretezza, nel
senso che questa persona crede nocivo alla sua dignità il dichiararsi pubblicamente autore di esso.
L’unico articolo di questo genere è contenuto nel principio: “Le massime dei filosofi circa le condizioni
che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la
guerra.
Sembra ora una diminuzione di prestigio per l'autorità legislativa di uno Stato al quale si deve naturalmente
attribuire la più grande saggezza, che riguardo ai princìpi del suo comportamento verso altri Stati esso
chieda insegnamento ai sudditi (i fìlosofi) anche se è assai consigliabile che 1o faccia. Lo Stato perciò li
esorterà perciò silenziosamente (cioè segretamente) a questo: Li lascerà cioè parlare liberamente e
pubblicamente sulle massime generali per conduzione della guerra e stabilire la pace (il che essi non
mancheranno di fare spontaneamènte, purché non ne siano impediti). D’altronde il reciproco accordo degli
Stati su questo punto non ha bisogno di alcuna speciale convenzione tra essi, ma risiede già
nell’obbligazione imposta dalla ragione umana universale, moralmente legislatrice. Con ciò non è detto
che lo Stato debba dare la preferenza alle massime del filosofo piuttosto che alle decisioni del giurista
(rappresentante del potere statale), ma solo che lo si ascolti. Quest'ultimo, che ha assunto a proprio simbolo
la bilancia del diritto e insieme anche la spada della giustizia, si serve di solito della spada, e ciò non già
per tener lontano dalla giustizia ogni influenza estranea, ma per aggiungere il peso della spada (vae victis)
se uno dei piatti della bilancia non vuole abbassarsi. A ciò il giurista che non sia ad un tempo filosofo
(anche per quel che riguarda la moralità) è massimamente tentato, essendo suo compito esclusivo di
applicare le leggi vigenti e non di ricercare se esse abbiano bisogno di essere migliorate; e la sua funzione,
che nel fatto è di grado inferiore, egli la considera superiore solo perché si accompagna con la forza (come
è il caso anche per quel che riguarda le altre due funzioni). La funzione del filosofo viene a trovarsi, tra
queste forze coalizzate, su un gradino molto inferiore. Così si dice ad esempio che la filosofia è l’ancella
della teologia (e altrettanto vale per le altre due funzioni). Ma non si fa bene attenzione “se essa porti la
fiaccola avanti alle sue graziose signore o ne regga lo strascico”.
Non dobbiamo aspettarci che i re filosofeggino o i filosofi divengano re, e nemmeno desiderarlo, perché il
possesso della violenza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione. Che, però, i sovrani, o i
popoli sovrani (che si reggono da sé secondo leggi di uguaglianza) non lascino scomparire o ammutolire la
classe dei filosofi, bensì che la lascino par1are pubblicamente, questo è indispensabile ad entrambi, al fine
di illuminare le proprie occupazioni, e perché, essendo questa classe per sua natura immune da spirito
fazioso ed incapace di cospirare, non può essere tacciata di propaganda.