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MINISTERO DELL’ISTRUZIONE,DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA SCIENTIFICA
UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER LA SICILIA
Maurizio Gentile
Psicologo,Psicoterapeuta,
Coordinatore dell’Osservatorio
contro la dispersione scolastica dell’U.S.R. per la Sicilia
La dispersione scolastica
fra gli studenti di altra nazionalità in Sicilia:
identita’ e integrazione
1
PREMESSA
“L’Educazione è il momento
che decide se noi amiamo
abbastanza il mondo da assumercene
la responsabilità e salvarlo così dalla rovina”
(H. ARENDT)
L’analisi del successo formativo e scolastico degli alunni immigrati è
divenuta oggetto di interesse crescente nei diversi paesi europei.
D’altra parte, l’integrazione scolastica è un indicatore importante della più
vasta integrazione sociale che riguarda le persone immigrate.
In Italia il fenomeno dell’immigrazione, com’è noto, ha avuto un
andamento diverso nelle differenti regioni.
Maggiormente interessate sono state finora le regioni del Nord con
un’incidenza maggiore di presenza di alunni stranieri nelle scuole del Nord –Est
(6,1%).
In Sicilia vi è un progressivo aumento di alunni stranieri le cui percentuali
(1,2%), comunque, sono notevolmente inferiori a quelle registrate nelle regioni
del Nord Italia.
All’interno del sistema di monitoraggio della dispersione scolastica, già
da tempo realizzato dall’U.S.R., dall’anno scolastico 2004/2005, abbiamo
inserito una specifica sezione relativa all’analisi degli esiti scolastici degli
alunni di nazionalità non italiana presenti nelle scuole pubbliche statali della
Regione Siciliana.
I dati forniti nel report distribuito dall’U.S.R. si riferiscono al
monitoraggio delle fenomenologie di dispersione scolastica (evasori, abbandoni,
prosciolti, non ammessi alla classe successiva, debito formativo) relative agli
studenti di altra nazionalità inseriti nelle scuole primarie e secondarie di I e II
grado.
L’analisi dei dati della dispersione scolastica è l’atto preliminare
indispensabile per comprendere il fenomeno dell’integrazione nella sua
complessità e avviare ipotesi operative scientificamente orientate per il
miglioramento della qualità della vita dei minori “immigrati”.
La finalità generale del nostro lavoro è quella di mettere a punto un vero e
proprio “sistema di monitoraggio” inteso come un processo di rappresentazione
sistemica, realizzato in forma partecipativa, che ci consentirà di costituire una
Banca-dati disponibile e aperta alla consultazione dei diversi organismi
(Prefettura, EE.LL., Sindacati, scuole, organizzazioni di volontariato, etc.) nel
tentativo di contribuire allo sviluppo di una profonda cultura dell’accoglienza e
dell’integrazione.
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IL KNOW-HOW DELL’INTEGRAZIONE SCOLASTICA
Ancora combattimento? –
Mi scrutavano in viso
Sui passi di frontiera.
- Ancora combattimento,
ancora combattimento.
(Mario Luzi)
Occuparsi dei minori cosiddetti immigrati, deve stimolare soprattutto noi,
“non immigrati”, a cogliere quello che è stato chiamato “l’effetto specchio”,
cioè la possibilità di rivedere noi stessi, il nostro modo di porci nei confronti
dell’altro e della realtà, il nostro modo di sentire l’altro e di concepire la
diversità, attraverso un contatto emotivo- relazionale diretto.
Tale modalità auto-critica potrebbe diventare l’approccio di base per
ispirare il modo di rapportarci, nella scuola, all’allievo cosiddetto “immigrato”
e, nella vita, all’ “altro” denominato “straniero”.
Un grande antropologo francese, Marc Augé (1994), ci ricorda che <<il
senso degli altri è ancora tutto da scoprire in una Società “surmoderna” che
fatica a riconoscere e a tollerare le differenze>>.
Malgrado i convegni realizzati e le informazioni che, a vario titolo, ci
giungono su questo tema, la verità è che l’ “alterità” è un mondo complesso,
difficile da comprendere, con una struttura multipla e composita allo stesso
tempo.
Ma come definire il problema degli immigrati soprattutto in rapporto alla
scuola?
Bisogna porsi alcune domande:
“Chi sono gli immigrati?”;
“Quanti sono i bambini inseriti nelle nostre scuole?”;
“Quali gli esiti del loro percorso scolastico?”;
“Da dove vengono e dove abitano?”;
“Come vivono nelle nostre città?”;
Si tratta di domande fondamentali da cui partire per sviluppare un
discorso concreto sulla questione dell’interculturalità e dell’integrazione socioscolastica.
Per rispondere al primo quesito, ovvero “Chi sono gli immigrati?”,
possiamo sicuramente affermare che, nella maggior parte dei casi, ci troviamo di
fronte a figli di stranieri giunti nel nostro Paese per motivi di lavoro.
Molti di loro sono nati nelle nostre città, mentre altri sono figli di vecchi
emigranti che ritornano in patria (come si evidenzia nel nostro studio dove si
registrano molti studenti nati in Germania).
Ancora, ci sono casi di bambini adottati secondo il dispositivo
internazionale; ma vi sono anche bambini figli di clandestini, che vivono ai
margini della società.
3
La scuola, come è noto, ha l’obbligo di accogliere tutti i bambini, anche
quelli i cui genitori non sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno
(secondo il combinato disposto tra l’Art. 38 del D. Lgs. 286/98 e l’Art. 45 del
D.Lgs. 394/99).
Inoltre, sul piano normativo, l’iscrizione dei minori stranieri nelle nostre
scuole, contrariamente a quella dei minori italiani, può essere richiesta in
qualunque periodo dell’anno scolastico (C.M. N° 87 del 23/03/2000).
Per rispondere all’altro quesito, “Quanti sono?”, secondo i dati presentati
nel suddetto report, nell’80% delle scuole che hanno risposto al monitoraggio, si
registrano 2765 ( 1,32% sulla popolazione generale) alunni stranieri nelle
scuole primarie, 1894 (1,15%) nelle scuole secondarie di I grado e 1099
(0,55%) nelle scuole secondarie di II grado, per un totale di 5758 .
Rispetto all’interrogativo “Quali sono gli esiti del loro percorso
scolastico?”, i dati raccolti ci forniscono una mappa articolata delle
fenomenologie di dispersione scolastica relativa agli alunni stranieri:
PERCENTUALE DISPERSIONE SCOLASTICA ALUNNI STRANIERI
SCUOLE PUBBLICHE STATALI REGIONE SICILIA A.S. 2004/05
ORDINE
SCUOLA
DI
INDICE
EVASIONE ABBANDONO RITIRATI/
NON
DISPERSIONE
PROSCIOLTI AMMESSI GLOBALE
PRIMARIA
1,30%
0,33 %
0,18 %
2,25 %
4,01 %
SECONDARIA 1,80 %
0,69 %
0,84 %
7,49 %
10,61 %
2,46 %
1,64 %
15,70 %
20,66%
I GRADO
SECONDARIA 2 %
II GRADO
La dispersione scolastica relativa alla popolazione degli alunni immigrati
inseriti nelle scuola pubbliche statali della nostra Regione, se confrontata con le
percentuali relative alla popolazione generale, appare sicuramente più elevata.
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Nella scuola primaria, per esempio, 4,01% di dispersione globale è circa
cinque volte di più rispetto alla dispersione registrata nella popolazione
scolastica generale (0,67%).
Anche negli altri ordini di scuola si registra una situazione più pesante
rispetto alla dispersione degli studenti stranieri (secondaria di I grado 10,61 %
versus 5,29% - scuola secondaria di II grado 20,66% versus 15,76%).
E’ ovvio che la lettura del dato di dispersione relativa agli studenti
stranieri va commisurata con la situazione generale di precarietà, transitorietà e
disagio in cui spesso versano le famiglie dei minori immigrati.
In particolare, va tenuto sotto controllo il dato relativo alla situazione dei
minori nomadi che per le loro specifiche caratteristiche socio-etniche
(transumanza) contribuiscono a fare innalzare le percentuali di evasione ed
abbandono.
In ogni caso, il fenomeno della dispersione scolastica globalmente intesa
esprime una condizione di particolare disagio in cui spesso si trovano gli
studenti stranieri (problemi di natura linguistica, difficoltà di apprendimento,
etc.).
Per quanto riguarda il luogo da cui provengono, quella che presentiamo è
una sintesi percentuale della provenienza dei circa 5758 minori attualmente
presenti nelle nostre scuole siciliane.
CINA
TUNISIA
IUGOSLAVI
MAROCCO
EX-
SRI-LANKA
BANGLADESH
%
ALBANIA
SCUOLA
MAURITIUS
PERCENTUALE NAZIONALITA’ DI PROVENIENZA
Primaria
10
9
2
7
4
14
20
4
Secondaria I Grado
11
5
4
8
2
13
16
7
Secondaria II Grado
6
=
=
7
=
6
20
6
Si nota che c’è una netta prevalenza degli immigrati provenienti dall’area
africana, seguiti da quelli provenienti dall’area asiatica e, poi, dall’Est- Europeo.
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Alla domanda “Come vivono nella nostra città?”, è necessario prendere
atto del fatto che le condizioni di vita dei minori stranieri sono direttamente
proporzionali alla qualità dell’inserimento socio-lavorativo della famiglia di
appartenenza.
C’è un dato importante e positivo da considerare: l’esistenza, cioè, di un
processo d’inserimento scolare, progressivo e costante che, dal nostro punto di
vista, è un fatto sicuramente confortante perché contiene un risvolto integrativo.
Contemporaneamente si assiste, però, ad un altrettanto crescente
fenomeno, rappresentato dal coinvolgimento di minori stranieri in attività
devianti che, sicuramente, va connesso con il fenomeno della dispersione
scolastica.
Chiedersi “come” vivono, dunque, significa interrogarsi sul “grado” di
integrazione sociale raggiunto dalle famiglie.
Per esempio, per quanto riguarda la città di Palermo, quasi tutti i minori
extracomunitari sono pressoché concentrati nel centro storico, luogo ricco di
splendori artistici ma, anche, contesto di forti problemi socio- economicostrutturali, dove vi è la presenza di un degrado ancora pervasivo e difficile da
debellare.
SCUOLA E PROMOZIONE DELL’INTEGRAZIONE IDENTITARIA
“Fui uomo fui pietra
Fui pietra nell’uomo uomo nella pietra
Fui uccello nell’aria spazio nell’uccello
Fiore nel freddo fiume nel sole
Rubino nella brina
Fraternamente solo fraternamente libero”
Paul Eluard
“Che cosa si può fare per salvaguardare il minore immigrato dai processi
di degrado e di emarginazione a cui va incontro? Come porgere l’orecchio ai
molteplici rischi di sofferenza impliciti nella dinamica migratoria?”
L’esperienza migratoria, per la sua complessità e per gli aspetti di
profondità che mette in gioco, può essere assimilata ad una situazione di “crisi”
con probabili risvolti traumatici.
Citando R. Moses (1978), da questo punto di vista, la condizione
dell’immigrato è paragonabile ai cosiddetti “traumi da tensione”, ovvero a
quelle situazioni le cui reazioni non sono immediate ed esplosive, ma possono
lasciare, nel mondo interno, ferite durature e profonde.
Sembra giustificato (c’è anche letteratura scientifica a sostegno di ciò)
parlare di “traumatismo migratorio” che possiamo tradurre, dal punto di vista
psico-dinamico e affettivo, in un “sentimento di carenza protettiva” o, per usare
il linguaggio di W.Bion (1962), in una perdita dell’ “oggetto contenitore”.
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Allora, come influisce l’esperienza migratoria sulla costruzione
dell’identità del bambino?
Possiamo ricordare alcuni elementi strutturali che segnano le condizioni
iniziali dell’esperienza integrativa del bambino immigrato.
Intanto non è lui che ha deciso di emigrare, non è lui che prende questa
decisione, è una scelta che gli viene imposta in forza della sua normale
dipendenza dalla famiglia.
Spesso egli non comprende le motivazioni addotte dai “grandi” per
giustificare la scelta intrapresa; il suo mondo familiare è, inoltre, intrappolato
nella stessa crisi migratoria e, quindi, il bambino è costretto anche a condividere
il panico e l’angoscia dei genitori.
D’altra parte, come si diceva prima, è ovvio che queste persone vengono
nel nostro Paese non per vacanza ma spinti da gravi carenze e da gravi
condizioni esistenziali.
Le situazioni drammatiche che abbiamo vissuto in questi ultimi anni
(sbarchi clandestini e altro) sono la dimostrazione di quello che stiamo
sperimentando e di come stiamo vivendo questa “diversità” estrema, proposta
con tutto il carico della sua sofferenza.
In molti casi, il bambino immigrato o diventa bersaglio dell’aggressività
familiare o viene del tutto trascurato dai genitori, troppo impegnati a risolvere
questioni di sopravvivenza economico-sociale.
Egli deve fare i conti, da un lato, con il lutto, dall’altro lato,
contemporaneamente, con le nuove istanze adattive.
Da una parte, deve cioè elaborare una perdita, quella degli oggetti della
famiglia allargata mentre, dall’altra, deve far fronte alle nuove istanze adattive
che provengono dalla scuola, dall’acquisizione di una nuova lingua, dalla
conoscenza di nuovi compagni, etc.
La nostra ipotesi è questa: se la famiglia originaria ha vissuto
positivamente il processo migratorio e, se il minore possiede sufficienti risorse
interiori per affrontare la criticità tensiva, allora, è probabile che ci possa essere
una buona integrazione socio-affettiva.
Se, al contrario, i conflitti interiori e familiari sono troppo forti da mettere
in crisi il buon funzionamento del “contenitore interno”, allora, il bambino
mostrerà tutto il suo malessere con una svariata sintomatologia.
Essa potrà riguardare un attaccamento eccessivo alla madre, il ricorso a
fobie o all’isolamento, il rifiuto della scuola, un’inibizione intellettiva con
conseguenti problemi di apprendimento, l’attivazione di sentimenti persecutori o
di atteggiamenti sprezzanti ed aggressivi nei confronti degli altri.
Il consolidamento del senso d’identità, di cui si parlava prima, dipende
allora dalla relazione dinamica tra fattori relativi al mondo interno della persona
e quelli relativi al mondo esterno.
Questi fattori possono facilitare o ostacolare, a secondo di come si
combinano, la costruzione di un “contenitore” capace di trasformare le
esperienze dolorose in possibilità di sviluppo e di apprendimento.
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Da questo punto di vista, è chiaro che il bambino immigrato è un soggetto
ad alto rischio, poiché allo sradicamento culturale e linguistico, spesso, si
accompagna una situazione conflittuale in cui egli viene tenuto tra due mondi in
opposizione fra di loro.
Da un lato, la scuola e la comunità ospitante spingono verso
l’acculturazione, dall’altro, la famiglia non vuole far perdere al bambino la sua
storia, i suoi costumi, la sua identità etnica originaria.
Allora, l’integrazione del bambino immigrato dipende sia da come la
famiglia risolve i propri problemi d’identità e di interazione con il mondo
esterno sia, ovviamente, dalle facilitazioni che egli troverà nella cultura
ospitante.
A confronto con gli “altri”, il minore immigrato tenterà di trovare una
soluzione alla definizione della sua identità.
Si troverà di fronte diverse possibilità (“resistenza culturale”,
assimilazione, marginalità, doppia-nuova Identità) e la strada prescelta
dipenderà da una molteplicità di fattori interni ed esterni.
Una parte rilevante, ovviamente, è giocata dalle risposte accoglientirifiutanti della comunità ospitante.
Riteniamo che un modello “integrativo inclusivo” (GENTILE, C.M.,
2003) vada costruito quotidianamente nell’incontro diretto, sistematico,
nell’incontro relazionale vissuto.
E’ questa pratica dell’Incontro e del confronto che ci impegna sia sul
piano socio-culturale che sul piano etico.
“Un’etica della responsabilità”, per citare Jonas, che ci spinga a lavorare
affinché fra gruppo ospitato e comunità ospitante si sviluppino dei microadattamenti reciproci, una relazione tra pari, in cui ciascuno, disposto a perdere
qualcosa, acquisti un più alto livello di integrazione.
La scuola, ovviamente, può giocare un ruolo fondamentale nella
facilitazione del processo d’integrazione del minore immigrato nel contesto
sociale.
La scuola è l’istituzione più esposta della comunità ospitante, rappresenta
il “volto” con cui la nostra società si presenta ai minori cosiddetti immigrati, il
luogo dove i bambini “devono” andare, per esercitare un “diritto”.
Questa consapevolezza dialettica fra “dovere” e “diritto”, dovrebbe far
parte integrante dell’azione dei politici e degli amministratori delle nostre città
nel predisporre le condizioni per una cultura dell’accoglienza.
Questo dovrebbe farci riflettere molto e spingere la scuola ad elargire tutto
ciò che necessita, sia in termini di risorse, sia in termini di attenzione, sia in
termini di formazione, per realizzare le condizioni migliori per lo sviluppo
dell’integrazione.
Per dirla con il Poeta: “Ma quando, in quale vita fra le vite tutte, siamo in
fine aperti, siamo accoglimento?” (R.M. RILKE, Sonetti a Orfeo).
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E’ chiaro che anche la comunità ospitante sperimenta, analogamente a
quanto avviene nel bambino immigrato, una serie di ansie in presenza dell’Altro
“diverso” da noi.
Ma da che cosa dipende questa difficoltà al riconoscimento fino in fondo
dell’ “altro”?
Sicuramente sono coinvolti dinamismi psichici profondi, ma è anche in
gioco una “visione culturale” dell’Altro, che proprio nella scuola deve essere
rimessa in questione.
La scuola, infatti, é il luogo elettivo in cui le ansie manifestate, una volta
riconosciute, possono essere accolte ed elaborate.
Per far questo, essa deve sviluppare un approccio educativo capace di
favorire una dialettica costruttiva fra identità e alterità, allontanando il più
possibile la concezione della diversità come inferiorità, pericolo sociale, sintesi
del negativo.
Quindi, l’educazione interculturale, così come noi la intendiamo e la
proponiamo ai docenti, è un modo di essere e di sentire l’azione pedagogica
orientata a sostenere un clima socio-educativo capace di promuovere
accoglienza, rispetto reciproco, decentramento etnico, comprensione emotiva,
riconoscimento delle identità, cooperazione produttiva, superamento dei
pregiudizi e degli stereotipi.
Ma tutto questo non dovrebbe “normalmente” far parte della scuola?
Non dovrebbe essere scontato che gli insegnanti agiscano e pensino in
questo modo?
Le molteplici identità dei nostri bambini non hanno bisogno
quotidianamente di tutto questo?
E, dunque, una scuola “sufficientemente buona” (parafrasando Winnicott
che parlava delle madri sufficientemente buone), non è ciò che ci vuole per tutti
i bambini, compresi i cosiddetti bambini immigrati?
Perché non in tutti i luoghi si sperimentano accoglienza, integrazione e
benessere reciproco?
Perché siamo costretti ancora oggi a parlare di questo, a organizzare
convegni su questi temi?
Vuol dire che non vi è stata realizzazione di integrazione reale; essa deve
essere ancora costruita in profondità.
E’ necessario, dunque, mantenere viva una tensione etica capace di
sostenere fino in fondo una vera integrazione multiculturale.
La costruzione di una cultura dell’accoglienza e del riconoscimento
identitario presuppone un grande lavoro emotivo che impegna soprattutto coloro
che hanno responsabilità educative (insegnanti, assistenti sociali, amministratori,
psicologi, pedagogisti).
L’obiettivo da conseguire riguarda, soprattutto, lo sviluppo di una capacità
auto-esplorativa ed auto-critica per trovare, successivamente, le opportune
strategie e metodologie d’intervento sul gruppo - classe.
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Tutto questo serve per elaborare e trasformare quei meccanismi emotivoaffettivi che spesso impediscono la creazione di un clima di genuina accoglienza
della diversità/estraneità.
Quindi, è fondamentale la creazione di spazi operativi dentro la scuola per
utilizzare il gruppo classe come laboratorio della convivenza plurale e come
luogo del riconoscimento dell’ecosistema delle identità.
Per muoversi in tale ottica ci vuole un insegnante/educatore capace di
“essere” in relazione, “creare” relazioni prima inesistenti, “riempire”di relazioni
i luoghi prima vuoti di comunicazione, capace anche di “riflettere” sulle
relazioni che lui stesso ha contribuito a creare.
Un docente “professionista riflessivo”, mediatore di culture e di diversità,
facilitatore di comunicazione plurale.
Si tratta, in definitiva, di mettere in pratica, per prevenire il disagio fra i
minori stranieri, tutta una serie di attività già previste dalla normativa di
riferimento:
• Attivazione di appositi corsi per l’apprendimento della lingua
italiana sia per i minori che per i genitori;
• Adozione di specifici interventi personalizzati atti a facilitare
l’apprendimento anche sulla base di progetti elaborati nell’ambito
delle attività opzionali;
• Ripartizione equa degli alunni stranieri all’interno delle classi
evitando situazioni di ghettizzazione;
• Facilitazione della comunicazione fra scuola e famiglia anche con
l’apporto di mediatori culturali qualificati;
• Formazione specifica all’educazione interculturale e alla
prosocialità per il personale scolastico;
• Sostegno economico e psicopedagogico alle scuole particolarmente
impegnate nei processi d’integrazione degli studenti stranieri.
E’ chiaro che per far ciò, è necessario che la scuola non venga lasciata da
sola e si mettano in campo risorse (economiche ma soprattutto umane e
professionali) che possano contribuire a migliorare sempre più la qualità
dell’offerta formativa nei confronti degli alunni stranieri.
Per concludere, possiamo ricordare con Amin Maalouf (1999) che la
parola chiave dell’integrazione è “reciprocità”: “Se aderisco al mio Paese di
adozione, se lo considero mio, se ritengo che faccia ormai parte di me e io faccia
parte di lui, e se agisco in conformità, allora ho il diritto di criticare ogni suo
aspetto; parallelamente, se questo paese mi rispetta, se riconosce il mio apporto,
se mi considera ormai, con le mie particolarità, come una sua parte integrante,
allora ha il diritto di rifiutare certi aspetti della mia cultura che potrebbero essere
incompatibili con il suo modo di vita o con lo spirito delle sue Istituzioni”.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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