I canali alternativi al credito bancario – Marzo 2015

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I canali alternativi al credito bancario – Marzo 2015
FINANZIAMENTI
nuove strade
L
a lunga notte del credit crunch sembra, finalmente, finita. Grazie anche agli interventi della Bce guidata da Mario Draghi (a
cominciare dal Quantitative easing) che immetterà centinaia di miliardi di liquidità nel
sistema. Ma quanti di questi soldi finiranno
davvero nelle tasche delle imprese, soprattutto quelle micro e piccole? Se i segnali di ripresa dell’economia, che prefigurano finalmente
una svolta nel 2015, stanno arrivando (come
confermano anche i dati dell’Abi) resta comunque la difficoltà di accedere ai finanziamenti da parte delle Pmi. Anche perché, con
le nuove regole europee (Basilea 1 e 2 e adesso anche 3) i parametri per concedere il credito sono diventati più stringenti e si basano su
valori (come i bilanci) che non possono certo
essere floridi dopo questa lunga crisi. E molte volte non contemplano il valore rappresentato dalle prospettive future di crescita
delle imprese e dai
loro piani di sviluppo.
Se l’Italia resta ancora banca-dipendente
sul fronte del credito (con l’80-85% dei finanziamenti erogati
dal sistema bancario)
in virtù anche delle
nuove normative introdotte dai governi (a cominciare da
quello Monti) sono
state aperte le strade
per potere usufruire
Guido Sirtori
di canali alternativi,
dal private equity al
venture capital al private debt. Ovvero i minibond, le obbligazioni
delle Pmi non quotate. Ma come possono essere utilizzati questi nuovi strumenti? Come
vanno intercettati anche dalle micro e piccole imprese? E in virtù di queste novità legislative e dell’arrivo di nuovi operatori, come sta
cambiando il mercato del credito? A queste
domande hanno risposto i relatori che hanno
partecipato alla tavola rotonda Gli strumenti
finanziari alternativi al credito bancario, curata da Trading Library che si è svolta il 5 marzo nell’Aula Magna dell’Università Cattolica
all’interno del World Finance Forum promos-
I canali alternativi
al credito bancario
L’Europa spinge il nostro Paese ad ampliare e rafforzare
le fonti finanziarie per le imprese al di fuori del circuito delle
banche. Come e con quali strumenti? Se ne è parlato nel corso
di una tavola rotonda all’interno del World Finance Forum
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so dall’associazione Nifa e dedicato a La rinascita economica e finanziaria in Europa e in
Italia.
Alla tavola, moderata da Achille Perego, caposervizio di QN-Quotidiano Nazionale, hanno partecipato Pietro Agen, vicepresidente
di Confcommercio, Massimo Maria Amorosini, direttore generale di Confapi, Daryush Arabnia, executive director marketing di Geico, Marco Gervasi, managing
director di Red sinergy business consulting
Shanghai, Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, Giovanni Cobolli Gigli, pre-
sidente di Federdistribuzione, Roberto Malnati, partner di Ten Sigma, Marco Rosati,
amministratore delegato di Zenit Sgr, e Gabriele Vedani, direttore generale di Fxcm.
Come vivono le Pmi il credit crunch determinato da così tanti anni di crisi?
Amorosini. Una volta non c’erano difficoltà
sul fronte del credito bancario. Esisteva addirittura un rapporto quasi familiare tra l’imprenditore e il direttore di banca. Ci si sedeva
allo stesso tavolo, magari si prendeva un caffè e si trovava sempre la soluzione per le esigenze dell’ impresa. In questi ultimi anni ca-
uscire dalla crisi
Nella foto il panel dei relatori dell’incontro «Gli strumenti alternativi al
credito bancario», organizzato all’Università Cattolica di Milano per capire
come le Pmi possono sfruttare nuovi canali e battere il credit crunch
ratterizzati dalla crisi si sono invece ristrette
le linee di credito e di finanziamento soprattutto verso il mondo delle Pmi, l’asse portante dell’economia italiana. Abbiamo registrato una contrazione dei prestiti e un aumento
di difficoltà nel presentare le garanzie necessarie per ottenere il credito. Che spesso viene negato con pesanti ripercussioni sull’attività dell’azienda. Del resto da una recente
indagine che abbiamo realizzato come Confapi tra 10mila imprese, è emerso come nel
90% dei casi la richiesta di credito serve per
fronteggiare le spese ordinarie, pagare le tasse e gli stipendi, versare i contributi previdenziali e solo il 10% dei finanziamenti è destinato all’innovazione e allo sviluppo dell’impresa.
Negli anni scorsi il sistema dei Confidi ha aiutato le piccole imprese, adesso anche questo
sistema incontra maggiori difficoltà. Quindi si
parla di nuove forme alternative di finanziamento, di nuovi strumenti, ma alcuni di questi escludono il sistema delle micro aziende.
Quindi per la micro impresa rimane solo
il vecchio canale bancario?
Amorosini. Purtroppo sì. Ma oggi le banche
valutano con grande attenzione i bilanci delle
piccole imprese, bilanci che in questi tre anni,
a causa della crisi, non sono certamente flori-
di. E quindi si innesca un circolo
vizioso che porta a negare i finanziamenti e le micro imprese cercano, quando riescono, di sopravvivere in attesa di tempi migliori.
Invece avrebbero bisogno di un
aiuto, non di un’elemosina,.
Agen. La crisi ha cambiato e aggravato nel 95% dei casi l’erogazione del credito da parte delle
banche che puntano sul finanziamento a breve. Per i prestiti a medio e lungo termine non esiste più
il vecchio concetto di garanzia ma
oggi quello che conta sono i bilanci. E in una situazione di forte difficoltà dell’economia risulta difficile basare l’erogazione del credito
sul parametro dei bilanci. Per il mondo delle
micro e piccole imprese bisognerebbe quindi pensare a qualcosa di nuovo, trovare una
formula di controgaranzia reale molto forte.
Lo Stato ci ha provato con il Mediocredito. In
realtà, però, queste garanzie valgono solo per
le imprese che già presentano un rating medio-alto e quindi influiscono solo sulla parte
del mercato che già presentava meno rischi.
Così oltre il 60% delle Pmi non ha alcun tipo di
finanziamento.
Quali nuove garanzie potrebbero essere
introdotte?
Agen. Noi abbiamo proposto la creazione di
un grande fondo immobiliare in cui fare confluire l’enorme patrimonio confiscato alle mafie. E questo fondo potrebbe servire per le
garanzie richieste dalle banche che hanno
stretto i rubinetti del credito.
Il settore del commercio quindi non ha
registrato un’inversione di tendenza e
una crescita in questi ultimi mesi, come
sostiene l’Abi, dei finanziamenti anche
grazie alla riduzione dello spread?
Agen. Credo che, ricordando la famosa media del pollo di Trilussa, ci sia qualche azienda con bilanci a posto che ha ottenuto più credito ma il mercato nel suo complesso non ha
ottenuto alcun miglioramento. Le banche non
aggrediscono subito l’imprenditore che comincia ad avere difficoltà togliendogli i fidi
ma fanno scattare un aumento dei tassi che
nel Mezzogiorno possono superare anche i
13 punti.
Sta arrivando finalmente qualche segnale positivo dal fronte dei consumi?
Cobolli Gigli. Anche il 2014 è stato un anno
negativo per i consumi. Dall’inizio della crisi
i consumi, che valevano complessivamente
mille miliardi, pari al 60% del Pil, sono scesi di
80 miliardi, 60 dei quali solo nel biennio 20122013. Una riduzione che ha colpito anche la
spesa alimentare e si è riflessa sui bilanci delle aziende della Gdo. Nel 2013 il fatturato del
settore è stato di 126 miliardi, il 70% dei quali relativo ai consumi alimentari, con una redditività media vicina allo zero (-0,1%). Detto
questo, qualche segnale di ripresa ha cominciato a mostrarsi a dicembre e a gennaio sembra siano ripartiti anche i consumi alimentari.
Renzi è convinto che il 2015 sarà l’anno della
svolta. Io penso che esistano opportunità perché si concretizzi questa aspettativa. Mi riferisco al Jobs Act e al Qe varato dalla Bce di Draghi che immetterà molta liquidità nel sistema,
sperando che una parte di questi miliardi finisca anche nelle tasche delle aziende. Esiste poi un contesto internazionale favorevole. Mi riferisco all’indebolimento dell’euro sul
dollaro che favorisce l’export, alla caduta dei
prezzi del petrolio e alla discesa dei tassi, anche se non mancano i rischi rappresentati dal
problema Russia e dalla polveriera mediorientale. Diciamo, citando De Filippo, che dovrà
passare la nottata sapendo, però, che ci vorrà moltissimo per recuperare gli 80 miliardi
di euro di consumi persi, e forse non si riuscirà mai a recuperarli tutti anche per il cambiamento culturale dei consumatori, più attenti e
responsabili. Comunque il clima di fiducia sta
migliorando e se aumentano i consumi si rimette in piedi il ciclo economico.
Veniamo al tema centrale, gli strumenti
finanziari alternativi al credito bancario.
Sono diminuiti i prestiti e mancano le garanzie
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FINANZIAMENTI
nuove strade
Minibond
Anna Gervasoni,
dg di Aifi, calcola
che «i minibond
valgono circa
2-3 miliardi»
Pmi in difficoltà
Massimo Maria Amorosini,
dg di Confapi, rivela che
«il 90% dei finanziamenti
richiesti dalle Pmi servono
per le spese ordinarie»
Stanno finalmente decollando?
Gervasoni. Sul mercato ci sono circa 120
operatori che noi, come Aifi, associamo, tra
private equity, venture capital e private debt.
Quindi la realtà nuova dei minibond che si
presenta molto articolata con prodotti differenziati e tagli di investimento molto diversi tra loro. Il private equity e il venture capital sono ovviamente più consolidati, con circa
100 operatori, 30 dei quali internazionali con
base europea. Il flusso di capitali è di circa 3,5
miliardi, una cifra che non fa certo tremare le
banche. I fondi di minibond possono apportare altri 2-3 miliardi. Il nostro mercato dei finanziamenti quindi è alternativo e al tempo
stesso complementare rispetto a quello del sistema creditizio e molto prezioso per le imprese. Soprattutto per quelle che in questo ultimo anno hanno dato importanti segnali di
vivacità e ci fanno dire che, al di là dei dati negativi del Pil, in Italia esistono settori che si
stanno sviluppando e aziende con piani, idee
e management eccellenti che non hanno conti straordinari solo perché investono sul futuro. Attraverso le circa 300 operazioni di private debt che si effettuano all’anno, queste
aziende ricevono i capitali da operatori che
hanno un’ottica diversa rispetto a quella delle
banche e valutano le imprese non tanto sui bilanci quanti sui piani di sviluppo.
A che punto è lo sviluppo dei fondi di
minibond?
Gervasoni. Sulla carta ci sono una trentina
di operatori di cui, realisticamente, la metà
abbastanza pronti. I fondi di minibond sono
in ritardo anche per i ritardi nel recepimento
dell’Italia delle direttive europee. In Aifi ci sia-
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Il peso delle banche
Marco Rosati, ad
di Zenit, sottolinea
che «i finanziamenti
sono ancora all’80-85%
di natura bancaria»
il valore del brevetto
Daryush Arabnia, executive
director marketing di
Geico, dice che «i brevetti
si possono trasformare in
strumenti finanziari»
mo occupati di sistemare il quadro normativo ma esiste anche il problema di alimentare i
fondi. Di certo non possono prendere la liquidità dal singolo risparmiatore ma è necessario creare un circuito che permetta di portare il risparmio che si forma nelle famiglie agli
investitori specializzati. E questo non lo fanno, o non lo possono fare, né le banche né le
assicurazioni ma solo investitori istituzionali
come i fondi pensione che possono investire
il 10% in asset alternativi. In Italia però i fondi pensione sono bloccati in attesa che venga
emanato il decreto ministeriale che disciplini
questa attività.
Rosati. I minibond rappresentano l’inizio da
parte del mondo imprenditoriale italiano, in
particolare per le imprese piccole un po’ più
grandi e per le medie un po’ più piccole, di
diversificare i finanziamenti. Bene o male il
governo ha fatto molto negli ultimi anni per
cercare di aprire queste aziende ai mercati dei capitali. E se è più facile per le startup
il percorso verso la quotazione, per le aziende gestite da generazioni di imprenditori più
“vecchi” la formula più conosciuta è quella
dell’emissione di prestiti obbligazionari da
collocare sul mercato. In questo senso è stato molto importante il provvedimento del governo Monti che ha sdoganato la possibilità di
ricorrere ai bond anche da parte delle società non quotate. Detto questo, credo che una
parte degli operatori del mercato debba completare l’offerta non solo di private debt puro
ma anche di minibond. Questo consentirebbe nei prossimi anni di aprire il mercato ad
altri investitori e non solo ai pochissimi istituzionali come i fondi pensione. Si deve am-
altre Garanzie
Per Pietro Agen,
vicepresidente di
Confcommercio,
«serve un grande
fondo immobiliare»
pliare la platea e lo si può fare contando sul
fatto che il risparmio degli italiani è ai primi
posti nel mondo. Le banche intercettano nel
90% dei casi questo risparmio ma non lo dirigono verso i finanziamenti alle Pmi. Comprano sempre meno titoli di Stato, perché ci
pensa la Bce, e quindi, anche per fare il conto
economico, puntano sui servizi di risparmio
gestito. Ma non è detto che tutto il risparmio
degli italiani debba finire, per esempio, negli
emerging market, può andare anche sul nostro mercato. E quindi se si crea un mercato dei minibond che abbia un minimo di liquidità, i fondi di private debt possono diventare
veicolo d’investimento anche da parte dei fondi tradizionali che decidono di investire nella
nuova asset class rappresentata dalle obbligazioni delle Pmi italiane.
I tagli dei minibond, da 500mila euro
come minimo fino a qualche milione,
forse non sono adatti alla micro impresa che magari ha bisogno solo di 50mila
euro...
Gervasoni. È vero, ma questo problema si
può superare con le aggregazioni. Basterebbe un po’ di fantasia da parte degli attori del
sistema, compresi i Confidi. Penso alla possibilità di emettere bond di distretto destinati a
un pool di venti aziende o, perché no, anche
a 30 pizzerie. .
Le formule alternative di finanziamento
comprendono anche l’utilizzo di derivati?
Vedani. Noi utilizziamo i derivati per aiutare
le aziende nella loro internazionalizzazione e
per la copertura del rischio di cambio. Io mi
occupo di valute da 25 anni. E ho visto un progressivo depauperamento della cultura del
Valute
Gabriele Vedani,
direttore generale di
Fxcm, avverte: «Non
sottovalutare
il rischio cambio»
Segnali positivi
Giovanni Cobolli Gigli,
presidente di
Federdistribuzione: «Il clima
di fiducia migliora, può
ripartire il ciclo economico»
mondo delle valute. Credo che questo sia avvenuto per due motivi. Il primo è stato l’introduzione dell’euro che in qualche modo ha allontanato il concetto del rischio di cambio. Si
è erroneamente pensato che il rischio di cambio fosse morto e sepolto. Ma non è stato così.
Dall’introduzione dell’euro si è assistito a un
significativo innalzamento della volatilità nei
confronti delle altre principali valute dei nostri
partner commerciali, in particolare dollaro,
yen e franco svizzero. Questo aspetto, unito
al fatto che anche le banche hanno disinvestito in questo settore, ha portato le aziende a
considerare questo rischio meno importante.
Ma aver perso questa attenzione alla copertura dei rischi di cambio è diventato un fattore molto pericoloso per le aziende. Tanto che
da un recente studio del Politecnico di Milano
è emerso che la stragrande maggioranza delle Pmi corre rischi finanziari e di cambio, che
possono frenarne la crescita, ma solo pochissime si coprono da questo pericolo. Eppure
gli strumenti esistono. Il mio team, al riguardo, ha promosso a livello globale la costruzione di un prodotto che abbina un’estrema facilità di utilizzo con la possibilità di utilizzare
una piattaforma, un’interfaccia web, che consente di accedere a strumenti di copertura del
rischio cambio a lunga durata e con un pricing
estremamente efficiente.
Malnati. Non esiste nel mondo un problema
di liquidità e di finanziamenti. Lo si può risolvere subito, basta cambiare paradigma. Peccato che nessuno in Italia lo voglia fare. Faccio
solo un esempio, riferito all’introduzione dal
31 marzo dell’obbligo della fatturazione elettronica per i rapporti con la Pubblica ammi-
falso problema
Roberto Malnati, partner di
Ten Sigma, dice che in realtà
«non c’è un problema di
liquidità, manca la volontà di
cambiare paradigma»
nistrazione. Una piccola azienda che aderisce
al sistema della fatturazione elettronica nazionale potrebbe cedere la fattura, già accettata e
garantita, a qualcuno disposto ad anticiparla,
ovviamente con un suo guadagno. Se la fattura è di 100 euro, la pagherà 95. Un sistema già
utilizzato in molti altri paesi e addirittura da
40 anni negli Stati Uniti. Per realizzarlo basterebbe semplicemente una piattaforma informatica che permettesse a un soggetto terzo
di sostituirsi al debitore e al creditore. Questi
strumenti esistono, le aziende private li utilizzano e di certo non perdono soldi. Allora perché non attuarlo? Forse perché in Italia ognuno guarda al proprio orticello di interesse e in
realtà il problema del credit crunch non interessa a nessuno.
Come riesce un’azienda italiana a espandersi all’estero e a ottenere i finanziamenti per farlo?
Arabnia. Nel 2011 come Geico, azienda specializzata nella verniciatura delle scocche delle auto, abbiamo vinto una importante gara in
Cina per un investimento di circa 50 milioni
di euro. Il cliente cinese voleva che aprissimo
Equity, private
debt, venture:
in Italia ci sono
120 operatori
Opportunità cinesi
Marco Gervasi, managing
director di Red sinergy
business consulting
Shanghai: «Per fare business
in Cina oggi basta internet»
una società in loco per poter fatturare in Cina.
La nostra attività, però, prevede l’emissione di
poche fatture ma di valore elevato. E quando
abbiamo spiegato che la prima fattura era di 4
milioni di euro gli enti locali sono rimasti un
po’ sconcertati. Le rigide regole cinesi prevedono infatti che, a fronte di fatture di importo
così elevato, venga costituito un capitale sociale di pari importo. La soluzione è stata quella di valorizzare una grande risorsa che molte
aziende italiane hanno, ma spesso non viene
utilizzata: i brevetti. Grazie ai brevetti che avevamo in casa, e alla luce del fatto che i cinesi sono affamati di tecnologia, siamo riusciti
a trasformarli in uno strumento di autofinanziamento in grado di coprire il 33% del capitale sociale. Nel seguire questo investimento
in Cina mi ha colpito il fatto che, al di là degli
strumenti che servono alle aziende per finanziarsi, occorre qualcuno che le aiuti a uscire
dall’Italia. E questo qualcuno devono essere
le banche, i consolati e le Camere di commercio che a oggi non sono organizzati per dare il
supporto necessario.
Gervasi. La Cina è un paese complesso e
pieno di contraddizioni ma se un giovane imprenditore vuole avere successo trova innumerevoli opportunità. Per entrare in questo
mercato non serve più una presenza fisica,
con reti distributive, negozi, uffici e dipendenti. Oggi si può utilizzare la grande risorsa dell’ecommerce, delle piattaforme che permettono di vendere il made in Italy utilizzando
gli operatori locali e cominciando subito a fatturare. Chi lo capirà, anche sfruttando l’arrivo
in Italia di oltre un milione e mezzo di cinesi
per Expo, otterrà grandi vantaggi.
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