Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in

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Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione d’Impresa e
Comunicazione Pubblica
Tesi in
Semiotica e Comunicazione
Dall’Archetypal Branding allo Storytelling: gli archetipi come
“leve universali” della comunicazione d’impresa
Relatore
Ch. ma Prof.ssa A.Cicalese
Candidato
Marco Fiore
matr. n. 0322700274
Correlatore
Ch. mo Prof.re E. D’Agostino
Anno accademico 2012/2013
1
A mia madre e a mio padre.
2
Indice
Introduzione
6
Capitolo I: Gli “Archetipi” e le strutture fondamentali della narrazione
9
1.1 Bruner e il pensiero narrativo
11
1.2 La personalità
16
1.2.1 L’Io
17
1.2.2 Il Sé
21
1.2.3 La dialettica tra Io e Sé
24
1.3 Jung e il concetto di Inconscio
27
1.4 Gli “Archetipi” e l’“Inconscio collettivo”
34
1.4.1 Il simbolismo dell’Archetipo
1.5 L’Archetipo come immagine
40
43
1.5.1 Hillman e la Psicologia Archetipica
43
1.5.2 La tassonomia di Durand
46
1.5.2.1 Il regime diurno dell’immagine
55
1.5.2.2 Il regime notturno dell’immagine
57
1.6 L’Archetipo come mito
61
1.7 L’Archetipo come personalità
74
1.7.1 L’Ombra
76
1.7.2 La Persona
78
1.7.3 L’Anima
78
1.7.4 Il Sé
80
1.7.5 Il Fanciullo
81
1.7.6 La Grande Madre
81
1.7.7 Il Vecchio Saggio
82
1.8 Gli “archetipi narrativi”: gli studi di Vladimir Propp
1.8.1 Le funzioni
1.9 Campbell e il “Viaggio dell’Eroe”
82
85
89
3
1.10 Conclusioni
99
Capitolo II: Le immagini collettive della comunicazione pubblicitaria
101
2.1 Sull’intenzionalità degli archetipi
103
2.2 Disegno della ricerca
105
2.3 Composizione del campione
106
2.4 I risultati della ricerca
111
2.4.1 La classificazione
111
2.4.2 Differenze tra le aree merceologiche
127
2.5 Per un’analisi “archetipica” degli spot pubblicitari: alcuni esempi
130
Capitolo III: Per una prospettiva archetipica al governo d’impresa:
l’Archetypal Branding
140
3.1 L’analisi delle mission e delle vision dei brand contemplati nel modello
157
3.2 Conclusioni
163
3.3 Per un modello “aggiornato” degli archetipi d’impresa
167
Capitolo IV: Lo Storytelling d’impresa
169
4.1 Il Corporate Storytelling
173
4.2 Perché lo Storytelling? una breve panoramica dei contributi
174
4.3 Obiettivi e aree di applicazione
179
4.4 Il Management Storytelling
182
4.5 L’Organizational Storytelling
185
4.5.1 Sulla condivisione e l’autenticità delle storie all’interno
dell’impresa
187
4.5.2 L’Organizational Storytelling secondo Van Riel
189
4.6 Il Marketing Storytelling
190
4.7 Storytelling e spot pubblicitari: due esempi
197
4.8. “Silénziati o diva”: i limiti del Corporate Storytelling
202
4
Conclusioni
207
Bibliografia
213
Sitografia
219
Ringraziamenti
228
5
Introduzione
Il presente lavoro reca in sé due obiettivi differenti ma, al contempo, strettamente
interrelati. Esso si propone di indagare, da una parte, le forme primigenee fondamentali
che contraddistinguono la psiche dell’uomo e che ne indirizzano il suo cammino
esistenziale, e, dall’altra, le strutture tipiche ricorrenti che caratterizzano i suoi discorsi
più antichi, familiari: le storie.
Dopo una breve panoramica sulla natura e sulle motivazioni psicologiche che risiedono
dietro alla narrazione – con un excursus sul concetto di pensiero narrativo di Jerome
Bruner e sulla sua idea di storie – ci addentreremo nel concetto cardine del nostro lavoro
di ricerca: gli archetipi.
Carl Jung definisce “archetipi” quegli elementi primigeni ed eterni situati nelle
fondamenta della psiche umana - l’inconscio collettivo - i quali agiscono in ogni tempo
e in ogni luogo, andando a costituire gli universali immaginativi (ed affettivi) del genere
umano tutto. Essi sono rappresentazioni “in potenza”, degli apriori psichici generali che,
a seconda degli individui e delle situazioni, in maniera dinamica e non preformata,
possono manifestarsi in contenuti diversi.
Gli archetipi sono più che simboli, dal momento che la loro natura è quasi numinosa:
essi costituiscono una sorta di ”innervatura universale” della psiche, l'essenza che dà
vita al simbolo e la potenza che consente a quest’ultimo di perdurare nell’eternità. Da
una panoramica sugli studi di Jung sugli archetipi ci sposteremo poi agli archetipi
declinati in immagine, mito e personalità. Per quanto riguarda gli archetipi come
immagine, analizzeremo le teorie di James Hillman ed in particolare gli studi di Gilbert
Durand, autore di una vera e propria tassonomia dell’immaginario basata sulle forme
archetipiche della psiche umana, che racchiude in categorie di simboli tutto lo “scibile
immaginativo” che l’uomo reca in sé fin dalla notte dei tempi. Il discorso, attraverso i
contributi di studiosi del calibro di Levi-Strauss, Roland Barthes, Joseph Campbell e
degli stessi Jung e Durand, si sposta poi sull’archetipo inteso in chiave dinamica e
narrativa - il mito, per l’appunto - andando a rintracciarne la struttura e le peculiarità
sostanziali. In ultimo, ancora con Jung, andremo a dipanare la teoria degli archetipi
come “tipi”, ovvero come figure e personalità ancestrali presenti in tutti gli individui
6
che hanno il compito di caratterizzarlo ed orientarlo nel corso della propria esistenza
fino a giungere, idealmente, alla completezza e alla totalità del proprio sé.
Il filo “archetipico” del nostro percorso, si soffermerà poi sulle strutture tipiche delle
storie, con il fondamentale e pioneristico contributo di Vladimir Propp nella definizione
delle sue 31 funzioni inerenti ai “racconti di fate” russi, di fatto estendibili a
qualsivoglia racconto umano, a prescindere dall’epoca, dal luogo e dalla cultura di
appartenenza dei rispettivi autori. Sulla stessa falsariga si collocano gli studi di
Campbell e, in misura minore, di Chris Vogler, anche loro impegnati nell’ottica di
definire quei “percorsi archetipici” e quelle figure del discorso universali e sempiterne
che dalle grotte di Lascaux giungono fino ai giorni nostri, con eco intatta e precisa.
Il lavoro poi, si estrinseca nella ricerca on field sugli archetipi nella comunicazione
d’impresa, segnatamente per quel che concerne gli spot pubblicitari. Fine principale
dello studio svolto è quello di registrare la diffusione degli archetipi – primariamente
sotto forma di immagini - nelle manifestazioni del brand, quest’ultime realizzate dai
professionisti del settore della comunicazione. In particolare, gli obiettivi della ricerca
sono molteplici e si enucleano nel rilevamento della presenza degli archetipi nelle
immagini inerenti agli spot pubblicitari in onda in TV e quelli disponibili sul Web, nella
loro quantificazione sistematica, nella verifica della loro “universalità” intesa come
azione che prescinda dal luogo e dal contesto storico-culturale nel quale lo spot è stato
diffuso, nella loro classificazione a partire dalla tassonomia dei simboli di Gilbert
Durand e infine nell’evidenziazione di eventuali pattern e tendenze nell’uso – anche
combinato – degli archetipi in pubblicità.
Gli archetipi come personalità descritti pocanzi, sono poi applicati all’ambito
dell’impresa, nell’ottica di definire ed affinare un framework di riferimento per quanto
concerne l’uso degli archetipi all’interno della brand personality e della brand identity.
L’analisi, che si basa sulle teorie a metà tra psicologia, sociologia e marketing ad opera
di Carol S. Pearson, si muove nel tentativo di rintracciare i vantaggi, le potenzialità - e,
altresì, i limiti e le contraddizioni - di tale prospettiva “archetipica” nel governo
dell’impresa.
L’ultima parte dello studio, infine, è dedicata all’uso della narrazione all’interno della
comunicazione d’impresa, sia essa interna o esterna. A tal proposito, il corporate
storytelling, in tutte le sue forme e declinazioni all’interno dell’organizzazione,
7
rappresenta un potente strumento di indirizzo dei comportamenti e degli atteggiamenti
legati agli stakeholder di riferimento e presidio della coerenza identitaria e del potere
comunicativo da parte dei vertici aziendali. L’arte del “raccontare storie”, con la
riproposizione delle traiettorie, delle vicissitudini e dei personaggi archetipici di cui
sopra, si conferma un’atavica e dirompente arma a disposizione delle imprese per
comunicare con grande efficacia i loro messaggi, contando sull’immedesimazione e la
partecipazione attiva dei loro pubblici di riferimento.
Nel presente lavoro di tesi ci muoveremo, dunque, sul crinale di due forze universali, e
attraverseremo, recando il bastone dell’identità nella mano, due fiumi primigeni e
perenni: da una parte quello della narrazione e del suo fluire ancestrale, e, dall’altra,
quello degli archetipi, ovvero gli apriori fondamentali della psiche umana. Lo faremo
cercando di evidenziare le connessioni che tra di essi intercorrono e soprattutto tentando
di descriverne l’atavica potenza e la rilevanza quasi divinatoria che essi occupano
presso l’essere umano in quanto tale. E lo faremo, soprattutto, non senza i salti e gli
inciampi
del
caso,
dovuti
quest’ultimi,
alla
oggettiva
complessità
e
alla
multidisciplinarietà dei temi trattati, unitamente alle altrettanto oggettive – e,
confidiamo, non del tutto biasimabili - inettitudini di chi scrive.
8
CAPITOLO I
Gli “Archetipi” e le strutture fondamentali della narrazione
Ci sforziamo di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso
afferriamo anche il malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi
formano un tutt'uno col buono e col bello. Se invece restiamo fedeli
alla nostra essenza, cioè alla differenziazione, allora ci differenziamo dal
buono e dal bello, e perciò anche dal malvagio e dal brutto, e non
cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel dissolvimento.
(Carl Gustav Jung, Il Libro Rosso, Liber Novus)
La narrazione di storie è una pratica sociale universale, insita nell’uomo, che risponde a
molteplici e complesse funzioni: dalla memoria delle origini e delle vicissitudini della
propria cultura (o del proprio gruppo di riferimento), alla condivisione di esperienze
collettive, dal tentativo di comprendere e, in qualche modo, reggere il peso e la
precarietà dell’essere umano sulla Terra, al puro intrattenimento e suggestione.
L’uomo narra dalla notte dei tempi, da quando si percepisce come corpo sperduto nella
moltitudine della Natura. Le origini della narrazione, imprecise ed oscure proprio
perché remote, sono probabilmente da rintracciare nei rituali comunitari degli uomini
primitivi relativi alla semina, alla raccolta, alla caccia, alla morte. Essa si è sviluppata
verosimilmente insieme al linguaggio, a partire cioè da circa un milione fino ai
duecentomila anni fa, segnatamente all’aumento delle dimensioni del cerebro dovuto, a
sua volta, all’intensificazione dei rapporti sociali tra gli ominidi. È il linguaggio che
consente di astrarre la realtà e quindi costruire discorsi su di essa ed è da esso che la
narrazione si sviluppa (probabilmente a partire dai primi passi mossi dall’Homo sapiens
sul globo terracqueo). Nel corso dei secoli i miti, le leggende e le fiabe sono diventate
un bagaglio fondamentale del genero umano attraverso il quale gli uomini hanno tentato
9
incessantemente di attribuire un significato alla loro esistenza all’interno del cosmo.
Attraverso di essi gli individui hanno tracciato le relazioni con le cose del mondo - e tra
le cose del mondo stesse - riscaldando, con la forza atavica del racconto, il freddo gelido
ed oscuro dell’inesprimibile.
Narrare, però, è anche costruzione dell’identità. Una volta dotato di questa capacità,
infatti, l’individuo è capace di produrre un’identità che lo collega ad altri individui, la
quale gli permette di riandare selettivamente al suo passato, nel mentre ci si prepara
all’avvento di un futuro immaginato. Le narrazioni si muovono in un circolo che va
dall’interno all’esterno della persona e viceversa. Le storie che l’uomo racconta a se
stesso, che costruiscono e ricostruiscono il proprio sé, sono attinti alla cultura e al
periodo storico in cui egli agisce, a tal punto che buona parte delle sue manifestazioni
sono virtualmente espressioni del contesto che lo nutre. Ma, allo stesso tempo, la cultura
costituisce a sua volta una dialettica, espressa in narrazioni e immaginazioni alternative
in continuo divenire, su ciò che il sé è o potrebbe essere in potenza. Le storie che
emergono sono la risultante di tale dialettica laddove la mente, raccontando di sé a se
stessa, edifica e riedifica di continuo il disegno della propria biografia; essa,
rappresentandosi e interpretandosi, si indirizza e si auto-dirige. Ciò porta alla naturale
conclusione che è solo attraverso la narrazione che l’uomo rende manifesti e coscienti i
suoi bisogni, desideri, propensioni, attitudini e paure.
È mediante la narrazioni, infatti, che le situazioni in cui ogni individuo agisce prendono
senso per sé e per gli altri. Tale processo avviene anche attraverso la costruzione – o,
per meglio dire, la riproposizione – di particolari elementi basilari e primordiali, comuni
a tutti gli uomini, che, con il loro carattere luminoso (e numinoso), irradiano immagini,
affezioni, costruzioni di senso. Tali elementi primigeni ed eterni sono detti “archetipi” 1.
Essi, situati nelle fondamenta della psiche umana, agiscono in ogni tempo e in ogni
luogo, andando a costituire gli universali immaginativi (e, come vedremo meglio poi,
per certi versi spiccatamente narrativi) del genere umano tutto.
1
Sul concetto di archetipo, teorizzato da Carl Gustav Jung, ci soffermeremo lungamente nel prosieguo del
presente capitolo.
10
1.1 Bruner e il pensiero narrativo
Jerome Bruner, nella sua celebre opera La mente a più dimensioni2, afferma che
esistono “due modi principali di pensiero con cui gli esseri umani organizzano e
gestiscono la loro conoscenza del mondo, anzi strutturano la loro stessa esperienza
immediata”; esse consistono in due modalità cognitive umane differenti: la
comprensione paradigmatica da una parte, e la comprensione narrativa dall’altra.
Secondo l’eminente psicologo statunitense, la modalità paradigmatica (assimilata alla
“mano destra”) segue un percorso lineare, interno alla mente, che procede per via
deduttiva ed è finalizzata a processare il flusso dell'esperienza, a dividere, a confrontare,
a fare calcolare e a dare valutazioni comparative. Essa è tesa alla validazione secondo il
principio di verità (vero/falso) ed esprime la modalità più logico-analitica della mente
umana. Dall’altro canto, la modalità narrativa (ovvero la “mano sinistra”) segue invece
un percorso più irregolare, fatto di salti in avanti e indietro, che si sviluppa solo grazie
alle interazioni. Essa si differenzia da quella paradigmatica laddove permette una
molteplicità di rappresentazioni in contemporanea dei vari mondi sociali; il suo criterio
di validazione non è la verità, bensì la plausibilità.
Ad ogni modalità del conoscere corrisponde, secondo Bruner, un diverso tipo di
astrazione. Se, infatti, il pensiero paradigmatico-analitico giunge all’astrattezza “mosso”
da interessi legati agli aspetti concettuali più generali e universali, la capacità astrattiva
del pensiero narrativo emerge dai suoi interessi per il particolare. Il pensiero narrativo è
dunque ideografico, laddove ricerca le leggi relative al caso singolo. Nel cercare la
logica degli atti e degli eventi umani, esso si muove al livello della intensionalità 3 dei
significati, tentando di costruire, a partire dalla ricchezza del caso particolare, un
unitario e generale. Esso, per dirla con Bruner, “si occupa delle intenzioni e delle azioni
umane e delle vicissitudini e conseguenze che seguano il suo trascorso”; le narrazioni,
in questo senso, vanno a costituire un vero e proprio modello interpretativo delle azioni
sociali umane4. A livello linguistico il pensiero narrativo può definirsi “sintagmatico”,
2
J. BRUNER, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma, 1988.
Il termine intensionale indica, infatti, il particolare e preciso contenuto, la proprietà o la qualità
individuale, la connotazione di un termine, di un predicato o di un enunciato. E si contrappone ad
estensionale, termine che invece indica la classe di tutti gli oggetti che sono denotati con lo stesso segno,
cioè con la stessa parola; per cui un insieme viene definito per estensione quando si enumerano
esplicitamente tutti gli elementi che appartengono a tale insieme. http://galileo.cincom.unical.it
4
Lo stesso Bruner afferma: ”La narrativa, pur essendo un evidente piacere, è una cosa seria. Nel bene e
nel male, è il nostro strumento preferito, forse addirittura obbligato per parlare delle aspirazioni umane e
3
11
dal momento che che l'asse del suo linguaggio è orizzontale e riguarda tutte le
possibilità sintattiche di concatenazione tra parole e frasi. Al contrario, l'asse
paradigmatico del linguaggio, tipico del pensiero analitico-scientifico, richiama alla
mente tutti gli altri membri del paradigma corrente potenzialmente utilizzabili in un
punto della catena.
Raccontare viene a configurarsi, così, come un procedimento opposto al pensiero
paradigmatico, dal momento che la storia emerge da ciò che è assolutamente particolare,
e, al contempo, da tutto ciò che è sorprendente, inaspettato, anomalo, anormale,
perturbante. L’astrazione del pensiero narrativo sorge sostanzialmente da immagini che
non seguono una logica lineare, bensì di tipo analogico. Esse funzionano per
somiglianza e si uniscono l’una con l’altra in sequenze di contenuti ravvicinati,
attraverso similitudini di tonalità emotiva.
Bruner, dopo una iniziale radicalizzazione sui due sistemi di pensiero, intesi come
dimensioni contrapposte e quasi speculari, nel corso dei decenni opera una revisione di
quella che, a sua detta, costituisce una (fin troppo) entusiastica e spregiudicata teoria
giovanile, pervenendo alla conclusione che pensiero paradigmatico e pensiero narrativo
non sono reciprocamente traducibili, e perciò nessuna delle due modalità può essere
nettamente contrapposta all’altra o può in qualche modo assoggettarla. Piuttosto, esse
sono da intendersi come territori comunicanti e interconnessi. Per lo psicologo
americano l’integrazione delle modalità cognitive proprie dell’uomo, avverrà, così,
all’interno di esperienze significative, vitali, sia individuali che collettive, le quali
riconoscano, accanto alla fondamentale importanza pensiero paradigmatico e al metodo
scientifico (“austero e ben definito”), anche l’inevitabilità e l’imprescindibilità del
pensiero narrativo (“salvifico ma pieno di oscure minacce”5).
Quest’ultimo, storicamente meno considerato e indagato rispetto al primo, viene a
configurarsi per Bruner come specifico e decisivo per il genere umano. La conoscenza
narrativa permette quel legame intensissimo che, attraverso i racconti, gli individui
delle loro vicissitudini, le nostre e quelle degli altri. Le nostre storie non solo raccontano, ma impongono
a ciò che sperimentiamo una struttura e una realtà irresistibile; addirittura un atteggiamento fisiologico.
Infatti, per loro stessa natura, i racconti danno per scontato che noi, loro protagonisti, siamo liberi, a meno
che non siamo irretiti dalle circostanza. […] Raccontare storie è il nostro strumento per venire a patti con
le sorprese e le stranezze della condizione umana, come pure con la nostra imperfetta comprensione di
questa condizione”. J. BRUNER, La fabbrica della storie, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 101102.
5
Ivi, p. 116.
12
stabiliscono tra il mondo ordinario e quello stra-ordinario, segnatamente quando tentano
di pervenire a spiegazioni, commenti ed interpretazioni dei comuni fatti della vita
quotidiana (soprattutto di quelli più spiacevoli o inattesi). Inoltre, il discorso narrativo
non è da intendersi come produttore di certezze e di asserti sul mondo; esso, infatti, “è
uno strumento non tanto per risolvere i problemi, quanto per trovarli, una profonda
riflessione sull’individuo, sulla caccia più che sulla preda”6 e la sua funzione più
importante risiede, piuttosto, nella presentazione di molteplici e differenti prospettive
che aiutano a rendere comprensibile l'esperienza umana tutta, sia quella canonica e
regolare, sia quella inusitata, che vìola i canoni socialmente e storicamente corroborati.
É in questo senso che il pensiero narrativo costituisce il mezzo di stabilizzazione di una
cultura, ma anche, in maniera complessa e dinamica, la sua continua rigenerazione. Se
da un lato, infatti, è vero che le storie assolvono la funzione di confermare e rendere
sopportabile lo status quo e le dinamiche correnti di una determinata cultura7, è
altrettanto certo che narrare rappresenta, all’interno di una qualsivoglia società, il
volano per le grandi trasformazioni. Secondo Bruner, infatti, “mediante la narrativa
costruiamo, ricostruiamo, in un certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri e il
nostro domani. In questo processo la memoria e l’immaginazione si fondono”8. Non
sembrerà, dunque, nemmeno minimamente stucchevole o esagerata l’affermazione dello
stesso psicologo statunitense, secondo il quale, “la morte delle storie costituisce la
morte di ogni comunità umana”9 .10
6
J. BRUNER, La fabbrica della storie, cit., p. 23.
“Nessuna cultura umana può operare senza qualche mezzo per trattare gli squilibri prevedibili o
imprevedibili inerenti alla vita in comune. A parte tutto il resto, ciò che una cultura deve fare è escogitare
dei mezzi per tenere a freno interessi e aspirazioni incompatibili. Le sue risorse narrative – racconti
popolari, storie antiquate, la sua letteratura in evoluzione, persino i suoi tipi di pettegolezzo – servono a
convenzionalizzare le ineguaglianze che essa genera, tenendo così a freno i suoi squilibri e le sue
incompatibilità. Ivi, p. 105.
8
Ivi, p. 106.
9
J.BRUNER, La ricerca del significato, Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri Editore,
Torino, 1992, p. 73.
10
È opportuno, qui, ricordare brevemente che Aristotele, nella sua Poetica, notava come la tragedia
svolgesse un altro fondamentale compito presso gli spettatori, ossia quello di condurli ad una dimensione
purificatrice e liberatoria delle passioni umane: la dimensione “catartica”. Secondo il filosofo greco, la
visione stessa di fatti dolorosi, violenti, e angoscianti, aveva la funzione di astrarre tali sentimenti e
procurare nello spettatore la gratificazione e il sollievo psicologico per non esservi direttamente coinvolti.
Il fatto che la rappresentazione-narrazione sia finta, infatti, permette a chi vi si imbatte di sentirsi
contemporaneamente distaccato ma anche fortemente attratto da manifestazioni che nella vita reale
susciterebbero in lui ben altre reazioni. Da questo punto di vista essa assurge anche a ruolo di
contenimento e “anestetizzazione” degli istinti umani più bassi e violenti che getterebbero la quotidianità
nel caos e nel sopruso.
7
13
Bruner, in riferimento alle narrazioni, individua ed illustra nove caratteristiche principali
che consentono di pervenire alla comprensione dei processi e dei contenuti del pensiero
narrativo. Esse consistono: Sequenzialità, Particolarità o concretezza, Intenzionalità,
Opacità referenziale, Componibilità ermeneutica, Violazione della canonicità,
Composizione Pentadica, Incertezza e Appartenenza ad un genere.
1. Sequenzialità. All’interno delle narrazioni gli eventi sono disposti in un processo
temporale e possiedono tutti una durata. Il flusso temporale può contemplare delle soste,
così come dei salti improvvisi in avanti o all’indietro.
2. Particolarità o concretezza. Le narrazioni son incentrate soprattutto sugli eventi e
sulle situazioni specifiche riguardanti le singole persone. Ciò, come accennato, non
significa che attraverso una storia non si affrontino tematiche più generali o universali,
afferenti alle abitudini, alle inclinazioni, ai costumi e alle predisposizioni di gruppo di
individui o intere comunità. Le storie vengono a costituire, per lo stesso Bruner, “la
moneta corrente di una cultura”11.
3. Intenzionalità. Questa proprietà, strettamente connessa alla precedente e riferisce al
fatto che le narrazioni riguardano vicissitudini umane. I personaggi che si muovono al
loro interno, perciò, agiscono sotto la spinta di obiettivi, mete, reazioni, sentimenti ed
intenzioni consapevoli.
4. Opacità referenziale. Questa caratteristica indica che anche se le narrazioni parlano
di individui specifici, non è tanto in questione il problema della loro esistenza come tali,
quanto quello del loro essere "personaggi", ed esse devono essere lette in quanto tali,
cioè come pure rappresentazioni. L’opacità referenziale, in altre parole, fa riferimento
agli aspetti di verosimiglianza chiamati in causa nelle narrazioni. Le rappresentazioni
contenute nel racconto possiedobo valore in quanto non si riferiscono ad eventi o
oggetti definiti e concretamente esistenti (“Narrare una storia equivale a invitare non già
a essere come essa, bensì a vedere il mondo così come lo si incarna nella storia” 12). La
conseguenza di questo discorso è che in una storia si può parlare unicamente in termini
di verità o falsità e di realismo, ma anche - e soprattutto - di verosimiglianza, e
soprattutto rappresentazione della realtà.
11
12
Ibidem.
Ivi, p. 29.
14
5. Componibilità ermeneutica. Gli eventi che formano una storia possono essere
compresi soltanto in funzione del contesto che li ingloba, vale a dire la stessa intera
storia. La causalità logica, dunque, lascia spazio all’interdipendenza tra le parti e il tutto,
laddove i personaggi e gli avvenimenti narrati stanno in un intreccio che li contiene e in
cui la vitalità delle singole parti e quella del tutto dipendono l’una dall'altra. Tale
interdipendenza parti-tutto fa scaturire un circolo interpretativo (o ermeneutico,
appunto) in base al quale l’intero significato della storia viene a configurarsi come
sempre in divenire, soggettivo e mai univocamente condiviso.
6. Violazione della canonicità. Tale caratteristica riferisce alla trasgressione, all’interno
delle narrazioni, della normale fase di processualità nella quale gli eventi accadono e si
svolgono seconde le attese. Ad un certo punto avviene una rottura, un imprevisto, un
avvenimento problematico che infrange la canonicità e fa si che si debba affrontare
l'eccezionalità. I protagonisti delle storie vengono a trovarsi in situazioni difficili, di
crisi; essi devono affrontare le proprie paure più grandi per giungere ad un’importante
trasformazione interna13.
7. Composizione Pentadica. Le narrazioni sono costituite da almeno cinque elementi
fondamentali, ossia i personaggi, gli scopi, le azioni, le situazioni e gli strumenti e
strategie. Se in equilibrio tra loro, questi componenti, danno alla narrazione un carattere
di canonicità, diversamente se essi si trovano in disequilibrio, rimandano
all'eccezionalità da risolvere, nell’ottica di costruzione di un nuovo equilibrio.
8. Incertezza. I racconti si svolgono secondo un livello di realtà incerto. Esso esprime la
possibilità, l’eventualità e descrive non tanto ciò che si verifica, bensì quello che
potrebbe - o dovrebbe idealmente - accadere. È proprio in questo che le narrazioni si
distinguono dall’esposizione di fatti o notizie.
9. Appartenenza ad un genere. Ogni narrazione, sebbene nella sua concretezza e
particolarità, può essere riconosciuta - più o meno agevolmente a seconda dei casi come appartenente ad un genere specifico (per es. leggenda, fiaba, mito, romanzo,
biografia ecc) e ai suoi sottogeneri inerenti (commedia, tragedia, horror ecc.).
L’elemento che ci preme analizzare in merito al discorso sulla narrazione e sulle sue
caratteristiche-funzioni, è che quando parliamo di narrazioni ci riferiamo sempre, tanto
13
Così lo stesso Bruner “Sappiamo che la narrativa in tutte le sue forme è una dialettica tra ciò che si
attendeva e ciò che è stato. Perché vi sia un racconto occorre che accada qualcosa di imprevisto,
altrimenti ‘non c’è storia’”. J. BRUNER, La fabbrica della storie, cit., p. 17.
15
a quelle “classiche” (per esempio della letteratura antica o delle leggende orali) tanto a
quelle moderne. In esse, dunque, come avremo modo di notare nel prosieguo di questo
capitolo e oltre, sono comprese anche i film, gli spettacoli televisivi, gli spot pubblicitari
- i quali concentrano in poche immagini elaborati sofisticati congegni narrativi e sui
quali sarà incentrata buona parte del presente lavoro -, i testi e i videoclip dei brani
musicali, gli altri prodotti audiovisivi ecc; essi confluiscono e si contaminano
variamente nel patrimonio narrativo di ogni singola cultura, per un verso innovandolo,
per l’altro ripercorrendo e rivisitando mitologie ancestrali e onnipresenti. Il ruolo
determinante che le narrazioni giocano può, dunque, essere compreso interamente solo
se, insieme alla dimensione narrativa della cognizione umana, si contempla la
componente mitico-archetipica, profondamente presente in tutti i prodotti narrativi di
una data cultura e di un dato periodo storico. Occorre, in altre parole, intendere
l’archetipo non come un contenuto preformato racchiuso nell’inconscio, bensì come una
forza orientante delle rappresentazioni umane più profonde, un nucleo primordiale e
potentissimo di energia e, infine, un principio ordinatore che consente di “catalogare” la
realtà, in termini sia cognitivi che - soprattutto - affettivi. Tali processi, tuttavia, hanno
come centro permanente la mente umana dalla quale si definisce la personalità stessa di
ciascun individuo: è ad essa e al suo funzionamento che è necessario rifarci per
comprenderli sin nel profondo. Le caratteristiche e le dinamiche della psiche saranno,
perciò, l’argomento del prossimo paragrafo.
1.2 La personalità
Per personalità si intende “il cuore psicologico dell’individuo, la presenza di strutture
stabili e riconoscibili nel tempo pur nelle diverse circostanze e nei diversi contesti, che
rendono l’individuo stesso riconoscibile agli altri; [in altre parole] il sistema
complessivo ed il suo modo di funzionamento dell’insieme dei processi, delle
dinamiche e delle interazioni che costituiscono la sfera psichica dell’individuo”.14 La
stabilità di cui sopra non è da intendersi come costrutto biologico o in qualche misura
predeterminato; piuttosto esso è il portato di un equilibrio, relativamente durevole nel
tempo - ma non perenne -, tra la sfera interna all’individuo e quella esterna, tra quella
14
G. SIRI, La psiche del consumo, Franco Angeli, Milano, 2001, pp.83-84.
16
emotiva e quella cognitiva, individuale e sociale, e così via. La personalità dipende da
una serie di svariati fattori, quali le pressioni ambientali, i modelli educativi e culturali,
le vicissitudini personali, le relazioni interpersonali ecc. ecc. che vengono
continuamente “posti al vaglio” dall’individuo in maniera variabile e complessa. La
psiche viene a configurarsi così, come scomposta in varie dimensioni le quali operano
in maniera più o meno interagente, fungendo, al contempo, da punti prospettici diversi
per l’analisi della componente psicologica stessa.
Una teoria per presentare la complessità e la stratificazione della personalità ci viene
dagli studi dell’illustre psicologo e filosofo svizzero Carl Gustav Jung, allievo di
Sigmund Freud, padre della “Psicologia complessa (poi divenuta “analitica”), eminente
studioso delle strutture e delle dinamiche che sottendono alla psiche umana, nonché uno
degli intellettuali più influenti del XIX secolo (e non solo). Secondo Jung la personalità
è articolata in due grandi dimensioni: il sistema dell’”Io” e quello del “Sé” (più avanti ci
addentreremo nei concetti di Conscio e Inconscio, che per certi versi ricalcano quelli
dell’Io e del Sé, ma che si situano in un altro livello).
1.2.1 L’”Io”
Il sistema dell’”Io” è senza dubbio quello più lungamente studiato nell’ambito della
psicologia e sul quale gli stessi psicologi hanno una maggiore uniformità di vedute.
Possiamo intendere l’”Io” come “l’insieme dei processi cognitivi, vale a dire l’insieme
dei processi capaci di garantire il nostro adattamento attraverso apprendimento,
rappresentazione e coscienza del sé”1516. Come è noto, l’attività cognitiva include
processi diversi, quali quelli legati all’attenzione, alla comprensione, alla memoria, al
linguaggio ecc. ma la nostra attenzione, nell’ottica del presente lavoro, è posta su una
funzione sovraordinata a quelle testé elencate, la quale mira ad un obiettivo più
generale. È soltanto attraverso la costruzione di regolarità, infatti, che l’individuo può
vivere in una realtà per lui “abitabile”, adattandosi a contesti diversi pur mantenendo
una coerenza di fondo. Sappiamo bene - e gli studi sulla schizofrenia della Scuola di
15
Ivi p.87.
Jung afferma che:“Per ‘Io’ bisogna intendere quel complesso fattore al quale si riferiscono tutti i
contenuti consci e che rappresenta, per così dire, il centro del campo di coscienza, nella misura in cui
quest’ultimo comprende la personalità empirica, l’io è il soggetto di tutti gli atti personali consci. Il
rapporto di un contenuto psichico con l’Io costituisce il criterio della sua consapevolezza, poiché non è
conscio alcun contenuto che non abbia un soggetto al quale riferirsi.” C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul
simbolismo del Sé, Opere Vol. 9 ** Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1982, p. 2.
16
17
Palo Alto ne sono un’evidenza, così come lo sono le casistiche relative ai reduci dei
conflitti armati dal primo conflitto mondiale in avanti - che condizioni assolute di
irregolarità, variabilità, casualità presso l’individuo possono generare patologie mentali
anche molto gravi. La creazione cognitiva di regolarità è condizione necessaria per la
“salute” stessa della psiche. Essa si traduce psicologicamente con la costruzione di veri
e propri schemi, che vanno da quelli senso-motori elementari alle rappresentazioni
mentali più complesse, in grado di far fronte ai rischi di forte contingenza e complessità
di cui sopra. Lo schema in sé viene a configurasi come un “plesso organizzato di
stimoli-risposte che consentono di disporre di reazioni a livello di azioni o anche a
livello cognitivo”17; esso implica, appunto, un nesso tra azione e reazione. Sono schemi,
ad esempio, i riflessi innati del nostro corpo (pensiamo alla “pelle d’oca” in seguito
all’esposizione ad una corrente d’aria fredda) così come quelli sedimentati nel
linguaggio e nei processi di significazione. Di fatto i singoli schemi concorrono al più
ampio meccanismo di semplificazione della percezione del mondo che, attraverso
l’organizzazione della realtà in classi, generi e frames limitati nel numero, fa sì che i
processi cognitivi di percezione, memorizzazione ed elaborazione possano agire senza
l’aggravio delle informazioni “in eccesso”. Inoltre, come è stato evidenziato in diversi
studi psicologici a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sembra che i processi
attentivi operino sulla base di filtri quali le aspettative, gli scopi e i bisogni
contingenti18.
La conseguenza è che lo scopo di prevedibilità e semplificazione del sistema dell’“Io”
finisce per rendere inevitabile la “scorciatoia” degli stereotipi, dei pregiudizi e delle
conclusioni non meditate, resisi necessari a causa delle (relativamente) scarse risorse
cognitive di ogni essere umano, nonché dai tempi necessari per la decisione stessa. Tale
processo, piuttosto pre-formato, di previsione-controllo-decisione-azione, subisce poi
un irrigidimento ulteriore laddove l’individuo è sottoposto a situazioni particolarmente
ansiogene, su tutte, quelle che contemplano un’interazione con la dimensione sociale.
17
G. SIRI Op. cit., p.87.
A tal proposito è divertente l’annotazione di Siri che afferma: “se chiediamo ad un anziano professore
di musica, ad un giovane scapolo, e ad un fox terrier cosa c’era nella stanza da cui stanno uscendo
possiamo sentirci dire dal professore che c’era uno stradivari (suonato da una persona), dal giovane che
c’era una seducente giovane donna dai capelli rossi (che suonava un violino) e dal fox terrier che c’era
una barboncina con un buon odore che, poverina, si stava annoiando in un angolo della stanza (in cui un
essere umano emetteva strani e terribilmente sgradevoli suoni… ).
18
18
Quest’ultima, infatti, è in assoluto la sfera più critica dal punto di vista psicologico dal
momento che è proprio attraverso l’accettazione di un gruppo di simili e la conferma
dell’immagine di sé che è garantita la sopravvivenza - biologica prima e psicologica poi
- di ogni individuo. Terreni altamente ansiogeni come questo fanno sì che gli schemi
assumano il governo dell’“Io”, al fine di garantire una rappresentazione quanto più
familiare e rassicurante della realtà19. In questo senso è esplicativo, ancora una volta, il
riferimento al campo della comunicazione pubblicitaria. In particolare, il successo della
maggior parte degli spot pubblicitari - per molti versi le narrazioni audiovisive a noi più
prossime e familiari - risiede in parte nella rappresentazione di un mondo cucito sulle
nostre aspettative di singoli, in cui i rischi di violazione degli schemi sono normalmente
evitati per garantire a tutti i destinatari del messaggio un processo di gratificazione del
sé. I meccanismi ricorrenti di problema-soluzione, ansia-felicità e “lieto fine” che la
pubblicità propone, infatti, rispondono perfettamente alle logiche sedimentate nella
nostra psiche, ed essi non fanno altro che corroborarle, permettendo di trarre
soddisfazione dalla loro conferma.
Accanto all’esigenza di regolarità e prevedibilità, un altro principio fondamentale del
sistema dell’Io è quello della coerenza (altrimenti definito, in termini squisitamente
logici, “principio di non contraddizione”). Sostanzialmente esso “tende a mantenere
coerenza tra le rappresentazioni del sé e le rappresentazioni del mondo degli altri che
interagiscono con il sé”20, venendo così a costituire una sorta di “sintesi” che l’Io
formula in relazione al sé. L’equilibrio e la coerenza richiedono una corrispondenza tra
ciò che l’individuo pensa e le azioni che egli compie e, pertanto, ogni qual volta che
occorre una incongruenza tra queste due dimensioni si rende necessario l’intervento di
una giustificazione. È da notare poi, come il processo di riduzione della dissonanza
attraverso meccanismi di autoprotezione da una parte, e la reazione al cambiamento
nell’ottica di garantire la coerenza dall’altro, divengano ancora più forti laddove tale
cambiamento investe sfere centrali del sistema dell’identità, quali i valori profondi di un
individuo, le sue credenze religiose, i suoi convincimenti di natura politica e così via.
Viceversa, le sfere più periferiche dell’autostima e dell’identità risultano più
19
L’estrema conseguenza che può derivare da questo tipo di meccanismi - di per sé normali e molto
frequenti - è rappresentata dal sopraggiungere di patologie di tipo psicotico e nevrotico laddove il
tentativo del soggetto è quello di delimitare oltremodo i confini dell’esperienza o addirittura sottrarsi ad
essa, creando realtà fittizie più gratificanti e rassicuranti (Siri).
20
Ivi, p.92.
19
“malleabili” e più legate a variabili come la legittimazione sociale, il consenso, la
produzione e il consumo mediatico ecc.. L’Io viene a configurarsi, così, come una sorta
di “custode” dell’identità, ligio al principio della coerenza e pronto a difendere l’identità
in crisi, anche a costo di gravi contraddizioni nella percezione della realtà.
Come afferma Siri, poi, “la realtà postmoderna non ha modificato questo processo: ha
frammentato l’identità moltiplicando i sé, ma all’interno di ciascuna identità e di
ciascun sé (per il tempo in cui esso è sulla scena) valgono sempre gli stessi principi”
[…] Se oggi è più difficile vedere in azione grandi sistemi di identità (cristiana,
comunista ecc.) i vincoli del sistema di identità sono però altrettanto forti quando si
partecipa ad un gioco al villaggio oppure si suona con gli amici: certo queste attività
sono a decadimento rapido, ma entro i loro limiti funzionano ancora le cogenze del
principio di coerenza”21.
Da questa breve descrizione sul sistema dell'Io che abbiamo tracciato sin qui, si
potrebbe ricavare il ritratto di un individuo fondamentalmente e tendenzialmente statico
e "conservatore"; tuttavia ciò è vero solo in parte. Accanto a questa dimensione che
potremmo definire “omeostatica”, infatti, all'interno dell'Io coesistono tendenze
antiomeostatiche che, al contrario delle prime, non rifuggono il cambiamento ma anzi lo
cercano, e che risultano altrettanto basilari ed indispensabili per l'adattamento
all'ambiente. Esse sono facilmente rintracciabili in natura: si pensi, ad esempio, alle
volte in cui un animale, mosso dall'istinto di sopravvivenza, abbandona il proprio
territorio messo in pericolo dalla presenza di predatori per andare in avanscoperta. Gli
etologi a tal proposito affermano che più si sale nella scala evolutiva e più la curiosità, il
gioco e la sperimentazione diventano caratteristiche fondanti della specie. Nell'uomo ciò
si traduce nella ricerca periodica della novità, del rischio, dell'emozione, in altri termini
nella variazione degli schemi abituali. Infatti, è solo con la presenza dell'incongruenza potremmo dire dell'eccezione - che quest’ultimi vengono in un secondo momento
costruiti e confermati, così come è vero che soltanto a partire da schemi preformati
possono essere davvero colte e declinate le novità. Le due sfere risultano in questo
modo complementari: uno stimolo che rimanda in maniera pedissequa ad uno schema
già noto produrrà noia e disattenzione ma, d’altra parte, è altrettanto vero che uno
stimolo che sia completamente difforme dagli schemi posseduti scatenerà nell’individuo
21
Ivi, p. 94.
20
ansia, paura, angoscia. Questa è una delle ragioni per cui hanno tendenzialmente più
successo le narrazioni che seguono schemi sedimentati e reiterati, piuttosto che quelli
che propongono novità assolute (le quali corrono il serio rischio di risultare in questo
senso troppo spiazzanti ed incongrue rispetto agli strumenti di lettura del
telespettatore/consumatore). L'Io, in conclusione, ha bisogno, da una parte di regolarità
e coerenza - garantitagli dagli schemi di cui sopra - e, dall'altra, della violazione di tale
regolarità attraverso la ricerca della novità. Va da sé, poi, che in condizioni di
insicurezza e minaccia a livello identitario, tali meccanismi tendono ad essere
accantonati in favore di quelli legati alla dimensione omeostatica. Quelle che si possono
considerare due facce della stessa medaglia - regolarità e difformità, per l'appunto costruiscono una "dialettica" interna al sistema della personalità che ne articola la
complessità e ne descrive il dinamismo.
1.2.2 Il Sé
L'altro sottosistema dell'identità, come accennato poco sopra, è quello del “Sé”. Esso si
riferisce “ai processi affettivi e più in generale alle modalità di adattamento cui abbiamo
dovuto ricorrere per tutto il tempo in cui il sistema dell'Io non era ancora in grado di
operare efficacemente"22. Il Sé viene cronologicamente prima dell'Io, instaurandosi fin
dai primissimi mesi di vita dell’individuo: è la parte più remota delle nostre modalità di
adattamento, il "taccuino originario" su cui sono impresse le nostre esperienze, i nostri
vissuti, le nostre tracce mnestiche che, dal canto loro però, possono essere elaborate e
rappresentate solo attraverso gli strumenti dell'Io, ossia il pensiero, la memoria, il
ragionamento razionale ecc. Il Sé viene così a configurarsi come "l'insieme di quei
processi affettivi di base che tendono a creare, alimentare e mantenere un legame
relazionale con quegli ‘oggetti affettivi’ che rappresentano la garanzia di sopravvivenza
biologica prima e psicologica poi"23. Esso può essere inteso come una risposta che la
nostra biologia ha fornito alla nostra condizione di “neotonia”, vale a dire di immaturità
alla nascita che rende imprescindibili le cure parentali. Il Sé in questo senso si occupa di
22
Ivi, p. 97. Altre definizioni del Sé sono fornite da autori quali Goffman, Harré, Winnicott ecc. Per il
primo, ad esempio, nell’ottica della concezione di individuo come “attore” recante diverse “facciate”
all’interno della rappresentazione sociale di riferimento, il Sé “non ha origine nella persona del soggetto,
bensì nel complesso della scena della sua azione, essendo generato da quegli attributi degli eventi locali
che li rendono interpretabili da parte dei testimoni”. E. GOFFMAN, La vita quotidiana come
rappresentazione, collana Biblioteca, Il Mulino, Bologna, 1969, p.285.
23
Ivi, p. 99.
21
dotare l'individuo di quei segnali e quelle attivazioni istintive che innescano tali cure
(questo processo in psicologia prende il nome di “attaccamento"24). È noto che il
bambino vive nei primi 12 mesi di vita una fase in cui non esiste la distinzione tra sé e
non sé, realtà e fantasia: è proprio allora che la dinamica fondamentale è quella
dell'attaccamento che garantisce le cure genitoriali e la fusività originaria già vissuta nel
feto. La separazione, in questo senso, rappresenta per il bambino lo spauracchio
angosciante del non-esserci, ed è proprio questa paura a minacciare la sua
sopravvivenza psichica. Da qui (e per tutto il resto della vita) si crea nell'individuo la
"fiducia di base", ovvero le fondamenta dell'autostima, il sedimento dell'esperienza
basica che "c'è qualcuno per cui esistiamo e che ha cura di noi"25. Successivamente,
oltrepassato il primo anno di età, il bambino entra nella fase di "separazione", in cui
comincia a sperimentare il distacco dalle cure parentali e quindi a percepire il proprio
corpo come diverso dal mondo esterno. É in questo momento che si scatena "l'angoscia
di separazione" che è ancora intollerabile per la sua psiche poiché in essa ancora non si
è sviluppato un organizzatore interno - l'identità per l'appunto - che rappresenti
un'ancora di salvezza a cui aggrapparsi nell'oceano tenebroso del non-esserci.26 Dal
momento che nessuna esperienza, benché positiva, può contrastare tale angoscia, si
attivano nel bambino dei processi che cercano di proteggerlo e di impedirne la
sopraffazione. Uno su tutti è il ricorso alla “sfera di esperienza transazionale”, ovvero
alla confusione programmatica tra realtà e fantasia da cui si genera il gioco e la
possibilità di sostituire la fantasia alla realtà. Attraverso tale attività, di carattere
evidentemente simbolico, l'individuo può modificare a piacimento i confini tra le due
sfere, preferendo la costruzione di un mondo di fantasia alle frustrazioni caratterizzanti
la realtà. Tale processo è estremamente importante poiché, come risulterà intuibile, è
anche attraverso di esso che passa lo sviluppo delle capacità simboliche e di
24
In psicologia, il termine attaccamento è legato alle ricerche sullo sviluppo e sull'infanzia, in relazione ai
legami che si creano con le figure di accudimento. Il primo a proporlo come concetto cardine, per
spiegare il comportamento dei bambini, fu John Bowlby, un ricercatore britannico di
scuola psicoanalitica. Secondo l'autore, il bambino, appena nato, è tendenzialmente portato a sviluppare
un forte legame di attaccamento con la madre o con chi si prende cura di lui. J. BOWLBY, Attaccamento
e perdita 1, Bollati Boringhieri, Torino 1999
25
Ivi, p. 100.
26
Così Jung: “A livello infantile e primitivo la coscienza non è un’unità, non essendo ancora centrata da
un complesso dell’Io consolidato, ma divampa ora qui ora là, dove eventi, istinti e affetti interni o esterni
la destano. A questo livello la coscienza ha ancora un carattere insulare o di ‘arcipelago’. C.G. JUNG,
Due testi di psicologia analitica, Opere Vol. 7, Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1991, p. 127.
22
rappresentazione della persona. Oltre questa fase - nella quale, lo ripetiamo, è ancora
assente una personalità vera e propria - si ha nel bambino un processo di individuazione
ed autonomizzazione, favorito dalla rapida maturazione delle facoltà cognitive (su tutte
quella di linguaggio). Qui il bambino diventa una persona e sviluppa peculiarità come la
vivacità, la curiosità, l'esibizionismo, la propensione all'esplorazione, l'invidia e la
frustrazione nei confronti degli adulti derivante dalla sua condizione di "piccolo". Infine
l'ultima fase, quella che porta alla sostanziale definizione dell’identità, vede prevalere il
senso di vergogna e di interiorità: è qui che nasce la percezione dell'intimità e dei criteri
fondamentali di prestazione/merito, vittoria/sconfitta all'interno delle interazioni sociali,
così come emerge la capacità di identificare le regolarità e le causalità ricorrenti e
relativamente indipendenti dalla propria volontà.
Come si può evincere, il Sé è una componente della condizione umana estremamente
profonda e basilare che, andando a interrare i suoi semi fin dai suoi primissimi anni di
vita, coinvolge l’individuo dal nucleo intimo del suo essere psichico. Tuttavia gli studi
che riguardano quest’area della personalità sono relativamente recenti - fine 1800 - e
provengono dal filone legato al tema della malattia mentale e all’ambito dell’approccio
medico-terapeutico. Il Sé, infatti, nella visione positivista e segnatamente nelle teorie di
freudiane sulla personalità27, era in principio inscritto nella dimensione dell’irrazionalità
e dell’istintualità, per esclusione di tutto ciò che esula dall’egida dell’Io e che in
generale si contrappone alla logica, alla civiltà, alla cultura. Così lo stato di follia e
“pazzia” era considerato un eccesso di componente istintuale dell’uomo e, di contro,
come debolezza della rigorosità del suo Io. Rispetto a queste ideologie originarie, lo
studio del Sé ha mosso passi da gigante, modificando quasi in maniera rivoluzionaria le
sue premesse (molto di più rispetto a quanto è successo per gli stessi studi sull’Io).
Grazie all’apporto della genetica e dell’etologia moderna, è definitivamente crollata, nel
corso dei decenni, l’idea di una componente istintiva rigida e selvaggia, così com’è
caduta l’ideologia di un inevitabile conflitto tra la sfera della razionalità (l’Io) e quella
dell’irrazionalità (il Sé). Dagli studi di Piaget in avanti, infatti, ha preso forma una
psicologia evolutiva che ha saputo evidenziare l’integrazione tra i processi dell’Io e
quelli del Sé, laddove questi ultimi costituiscono per certi versi la “culla” dei primi,
27
S.FREUD, Introduzione alla Psicoanalisi (1915), Coll. Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
23
poiché legati alla nostra base biologica, e, dunque, ad essi precedenti in termini di
genesi
1.2.3 La dialettica tra Io e Sé
Come testé accennato, per la psicologia contemporanea i due macro-sistemi dell’Io e del
Sé tendono a descrivere una linea intrecciata e sinergica di rapporti, sganciandosi da una
obsoleta prospettiva di conflitto e abbracciando, in maniera molto più verosimile, una
dimensione di complementarietà.28 È innegabile, infatti, che se da un lato le capacità
cognitive sono programmate biologicamente e danno vita a schemi di regolarità vitali
per l’esistenza dell’individuo, dall’altro è altrettanto vero che tali regolarità cognitive
sono in parte legate all’esperienza delle regolarità di tipo affettivo, cosicché l’Io è
impossibilitato a sviluppare tutto il suo potenziale senza le fondamenta del Sé. Ciò
risulta ancora più evidente dal momento che è sempre più avvalorata l’ipotesi che i
processi transizionali e le costruzioni fantastiche cui il Sé ricorre per rendere la realtà
abitabile sono anche il volano delle capacità simboliche che, a loro volta, concorrono a
formare le capacità di rappresentazione dell’individuo. Al tempo stesso, la connessione
tra fantasia transizionale e linguaggio generano l’intelligenza emotiva e la creatività.
Addentrandoci nel rapporto tra Io e Sé, due sono i focus principali che possiamo trarre
dalla loro interazione: il “principio di permanenza” e la “costruzione dell’identità”.
Riferendoci al primo, possiamo riassumere la sua logica nel fatto che “le funzioni
psicologiche successive non annullano la presenza e il manifestarsi delle modalità
psicologiche precedenti, […] ciò significa che l’emergere del sistema dell’Io non
annulla le attività delle modalità caratterizzanti il sistema del Sé”29. In sostanza la nostra
visione del mondo avviene sì attraverso il filtro dell’Io - e del corollario di schemi di cui
sopra - ma anche per mezzo di quello del Sé, sotto forma di sentimenti, emozioni,
fantasie, associazioni irrazionali, sogni ecc. Viene a configurarsi, così, una sorta di
“doppia decodifica” corrispondente ai due livelli (senza che vi sia una gerarchia interna,
almeno in termini di rilevanza); in questo modo ogni segnale che riceviamo è vagliato
28
È lo stesso Jung a notare: “Secondo la nostra esperienza, noi possiamo affermare che i processi
inconsci stanno in relazione compensatrice con la coscienza. Dico a bella posta ‘compensatrice’ e non
'contrastante’, perché coscienza e inconscio non sono di necessità in contrasto fra loro, ma s’integrano
vicendevolmente formando un tutto, il Sé.” C.G. JUNG, Op. cit., Due testi di psicologia analitica, p. 177.
29
Siri, Op. cit., p. 104.
24
sia ad un livello che potremmo definire “razionale”, sia ad uno “affettivo”. Pensiamo,
ad esempio, al caso di abbandono di una relazione amorosa. Un fatto psicologicamente
rilevante come quello di vedere interrotto, proprio malgrado, una rapporto sentimentale,
finirà inevitabilmente per attivare - a meno che non ci si trovi di fronte individui dotati
di un’autostima estremamente alta oppure emotivamente coatti - processi di
annichilimento, scissione e di fantasie vendicative e distruttrici, piuttosto che processi
rispondenti integralmente a logiche razionali e discorsive (la casistica dei cosìddetti
“femminicidi” ne è oggi, ahinoi, una drammatica testimonianza). Da ciò ne consegue
che in condizioni di minaccia, rischio, ansia ed angoscia - e in generale in tutte le
possibili circostanze in cui ha luogo crisi di identità ed autostima - tendiamo a reagire
destrutturando e irrigidendo i processi e le modalità dell’Io e utilizzando quelle del Sé.
Di più, come nota Siri stesso: “La realtà psichica quotidiana è fatta di continue
contaminazioni e shift, di oscillazione tra diversi mix di penetrazione tra Io e Sé. E
comunque per lo psicologo la forma di ‘razionalità’ migliore non è rappresentata dal
modello logico-deduttivo di Sherlock Holmes […] ma piuttosto dalla intelligenza
emotiva di Maigret”30. In verità, la gestione degli stati di angoscia e di crisi identitaria
può aver luogo attraverso una sfera che è in qualche modo a cavallo tra le due
dimensioni: essa è definita come “area transizionale” oppure come “sfera di esperienza
intermedia”, laddove per “intermedia” si intende quello spazio che vive tra realtà e
fantasia. È attraverso di essa, ad esempio, che sono possibili i meccanismi dello humor,
della fabulazione (dall’autoinganno alla poesia) e in generale della creatività.31 L’altro
focus che attiene alla dialettica tra Io e Sé risiede, come detto, nella “costruzione
dell’identità”. Essa è un concetto molto complesso che comprende un insieme - per certi
versi una congèrie - di dinamiche ed aspetti diversi e interagenti tra loro. Segnatamente
essa è la risultante di tre componenti: la self image, la self esteem e la self efficacy (a cui
si aggiunge il feedback del cosiddetto mirroring). Sintetizzando possiamo affermare che
la self image “è frutto del lavoro cognitivo dell’Io, in quanto è una rappresentazione
organizzata che mappa i tratti della propria persona che conciliano la percezione interna
con quella esterna”32. In sostanza si ha accesso al nostro self attraverso la
30
Ivi, p. 105.
Lo stesso Siri, a tal proposito, sottolinea come “ovviamente un impiego coattivo di queste modalità non
è indice di un buono stato di salute psichica né di adattamento alla realtà” Ibidem.
32
Ivi, p.106.
31
25
rappresentazione operata dal nostro Io, oppure mediante sintomi (spesso sottaciuti e non
“elaborati”) che provengono dal Sé. La self efficacy e la self esteem, invece, dipendono
“dalla somma delle autovalutazioni e dalla memoria dei feedback che abbiamo ricevuto
nelle nostre prestazioni fatta dall’Io, come una sorta di autogiudizio che l’Io dà del
proprio Sé”33. All’interno dell’identità, inoltre, coesistono elementi che l’Io può
riconoscere ma non gestire; essi sono, ad esempio gli stati di ansia, paura, pudore,
insicurezza, la predilezione, apparentemente non spiegabile, per alcuni modelli
comportamentali ecc. L’Io deve necessariamente cercare una coerenza in tutti questi
elementi e lo fa anche a costo di costruire una rappresentazione di sé parziale, o
formulando dei veri e propri autoinganni per ridurre la difformità rispetto ai propri
schemi interni.
La complessità del rapporto tra l’Io e il Sé, dunque, fa dell’identità non un costrutto
statico e prefigurato ma, al contrario, come la definisce lo stesso Siri, “una fabbrica in
perenne manutenzione ed arrangiamento”34. Essa, come abbiamo visto, non dipende
solo dalle dinamiche interne ma anche (e soprattutto) dai feedback esterni (in particolare
quelli scaturiti dalle relazioni con gli altri individui e nel racconto reciproco di sé).
L’identità, dunque, è prima di tutto sintesi tra elementi e dimensioni contrastanti: un
compromesso dinamico e complesso di molteplici istanze che avvolge la psiche
dell’uomo e lo guida all’interno della sua quotidianità, nel rapporto con il mondo in cui
egli vive e nella relazione con i suoi prossimi.
In particolare dall’era della postmodernità in avanti, l’individuo si mostra alla continua
ricerca di conferme intorno alla sua identità, laddove le ideologie e le figure dominanti
di un tempo si sono consumate in una lenta ma inesorabile dissolvenza, lasciandosi
dietro i sempiterni fantasmi dello smarrimento e del Nulla.
È per queste ragioni - come vedremo meglio nel corso del presente lavoro - che le
immagini e i racconti veicolati dall’uomo (nella nostra modernità soprattutto attraverso
i media) risultano così imperanti e “potenti” nella vita di ogni individuo. Qui si debbono
rintracciare, infatti, le ragioni per le quali l’uomo è così attratto dalle simulazioni, dai
modelli di identificazione, dai giochi d’identità ecc. contenuti nelle narrazioni sia
classiche che moderne; esse gli permettono di estendere i confini della logica razionale
e dei pattern dell’Io e di evitare la rimozione forzata – e spesso traumatica - di elementi
33
34
Ibidem.
Ivi, p. 107.
26
rilevanti della nostra personalità (di tipo inconscio), senza i quali, si verrebbero a creare
violenti e pericolosi contrasti all’interno della psiche stessa.
1.3 Jung e il concetto di Inconscio
A partire dalle considerazioni generali sulla personalità testé accennate, ci addentriamo
ora nei concetti-chiave di “Conscio” e “Inconscio” che ci permetteranno, a loro volta, di
dischiudere finalmente quello di “Archetipo”, uno dei punti nevralgici del presente
lavoro. Lo facciamo aiutandoci con la menzione che lo stesso Carl Gustav Jung fa dei
principali cenni storici relativi al tema.
Secondo Wundt, fondatore di una vera e propria scuola di pensiero dalla quale sono
usciti eminenti psicologi a partire dall’inizio del secolo scorso: “Qualunque elemento
psichico svanito dalla coscienza è definito da noi come un elemento divenuto inconscio
in quanto noi presupponiamo, così facendo, la possibilità del suo rinnovamento, ossia
del suo reinserimento nel contesto attuale degli eventi psichici. La nostra conoscenza
degli elementi divenuti inconsci non si riferisce ad altro che a questa possibilità di
rinnovamento. Questi elementi formano quindi semplicemente ‘germi’ o ‘disposizioni’
al sorgere di future componenti dell’evento psichico.”
35
. Secondo Wundt, dunque,
sarebbe improduttivo per la psicologia formulare ipotesi sugli stati e i processi relativi
all’inconscio in quanto esso agisce, per così dire, sottotraccia, e le sue dinamiche
risultano pertanto oscure e imperscrutabili. Un limite, questo, evidenziato in maniera
ancora più netta da altri seguaci di Wundt, secondo i quali il più semplice fatto psichico
è la “sensazione”, la quale, per definizione, non può essere scomposta in fatti più
semplici. Altri, invece, arrivano altresì a sostenere che “uno stato psichico non può
essere definito psichico se non ha raggiunto almeno la soglia della coscienza”. Jung
critica tali affermazioni notando come queste argomentazioni presuppongano il fatto che
sia solo la coscienza ad essere psichica e che, a sua volta, tutto ciò che è psichico e
cosciente. In questo modo, se si suppone che ciò che precede la sensazione - e quindi
ciò che è alla base di essa - non è mai psichico, bensì fisiologico, si finisce per
inciampare in una evidente contraddizione. Seguendo tali premesse, infatti, la
conclusione non può essere che unica, ovvero che non esiste affatto un inconscio
all’interno della psiche. Jung accusa Wundt di aver solo aggirato il problema e di essere
35
W. WUNDT, Grundiss der Psychologiw, Lipsia, 1902.
27
giunto, in maniera del tutto arbitraria ed accademicamente pavida, ad una proposizione
secondo la quale tutte le possibili ipotesi sull’inconscio non possono essere avvalorate
da nessuna osservazione empirica: una conclusione che, come è evidente, fuga tutte le
possibilità di incappare nelle innumerevoli difficoltà che una tale prospettiva scientifica
può dipanare davanti a sé. Per evidenziare l’appurata repulsione che Wundt nutre verso
l’inconscio come reale ipotesi psicologica, Jung riporta un altro suo passo in cui si legge
che “i processi inconsci sono elementi psichici non già inconsci, ma soprattutto e
soltanto più oscuramente consci” e che “è possibile sostituire agli ipotetici processi
inconsci processi consci effettivamente dimostrabili o in ogni caso meno ipotetici”. Per
l’illustre psicologo svizzero l’atteggiamento di Wundt è antiquato e intellettualmente
approssimativo; esso non fa altro che incasellarsi nel filone di quegli approcci filosofici
nei confronti della psicologia sperimentale ormai abbondantemente superati e che non
mirano al cuore pulsante del “problema” della psiche.
Al volgere del secolo, però, a coloro che, più o meno apertamente, rifiutano l’idea di
inconscio, si affiancano altri psicologi e filosofi del calibro di Gustav Fechner e di
Theodor Lipps che invece attribuiscono ad esso un’importanza decisiva. Il primo nota
come “Sensazioni e rappresentazioni hanno certamente cessato, allo stato inconscio, di
esistere come fatti reali […] ma c’è qualcosa in noi che continua: l’attività psicofisica”
36
. Il pensiero di Fechner viene a rappresentare uno dei passi compiuti nella direzione di
un’articolata e composita teoria sull’inconscio, poiché esso va ad evidenziare alcuni
punti nevralgici, i quali saranno poi, a loro volta, oggetto di riflessione e
approfondimento dello lo stesso Jung. È Lipps, qualche anno dopo, a riprendere tali
concetti e ad articolarli ulteriormente. Per lo psicologo e filosofo tedesco, infatti,
sebbene la psicologia stessa viene a configurarsi come una “scienza della coscienza”,
tuttavia esistono sensazioni e rappresentazioni “inconsce”, intese a livello di “processi”.
Egli afferma: “Un ‘processo psichico’ non è per sua natura, o meglio in base al suo
concetto, un contenuto della coscienza o un’espressione vissuta dalla coscienza, bensì
l’elemento psichicamente reale che è alla base dell’esistenza di tale contenuto […] e
che è necessariamente co-pensato. […] Ma esaminando la vita cosciente si giunge alla
convinzione che in noi si trovano non solo occasionalmente sensazioni e
rappresentazioni inconsce, ma che il contesto vitale psichico si svolge sempre, per
36
G.T. FECHNER, Elemente der Psyvhophysik, vol. 2, Lipsia, 2ₐ ed., 1889, p. 209.
28
quanto è essenziale, in tali sensazioni e rappresentazioni, e solo occasionalmente, in
punti precisi, ciò che opera in noi manifesta direttamente la sua esistenza in immagini
appropriate [… ]. Così la vita psichica supera sempre di gran lunga la misura di ciò che
è presente in noi, o può essere presente, in forma di contenuti di coscienza”37.
Per Jung, dinnanzi alla scoperta di una dimensione altra all’interno della psiche, la
vecchia psicologia si trova di fronte ad una rivoluzione copernicana, in grado di
scompigliare costrutti e atteggiamenti consolidati nei secoli. Il cambiamento di
prospettiva di Jung (e in parte, come abbiamo visto, dai suoi predecessori) è così
espresso dallo stesso psicologo svizzero: “Si può ben stabilire che la psiche è la
coscienza e i suoi contenuti; ciò non impedisce affatto, anzi favorisce addirittura, la
scoperta di un retroterra non immaginato in precedenza, d’una vera matrice di tutti i
fenomeni della coscienza, di un prima e un dopo, un sopra e un sotto della
coscienza”38.39
Freud soleva utilizzare il termine “Inconscio” riferendosi ad un serbatoio di contenuti,
processi, impulsi che non sono consapevoli. Nei suoi primi studi egli lo identificava in
una zona della mente (che lui considerata tripartita in “Conscio”, “Inconscio” e
“Preconscio”), il cui contenuto risulta difficilmente accessibile. Il termine venne poi
adoperato dallo stesso Freud per indicare più genericamente i contenuti stessi che non
sono accessibili dalla mente consapevole (il Conscio). Secondo la concezione freudiana
tali contenuti, sebbene inaccessibili, condizionerebbero comunque l’agire della persona,
poiché “premono” sulla coscienza per essere ascoltati (pena il manifestarsi di disturbi
psichici più o meno gravi nell’individuo). Essi si presenterebbero sotto forma di
sintomi, di lapsus, di sogni e soprattutto di tendenze infantili, in forma dunque distorta e
mascherata, tanto che la loro decodifica necessita di un processo di interpretazione.
Aderendo alla lettera a questa teoria, si potrebbe concludere che l’inconscio sia
costituito solo da quegli elementi della personalità che potrebbero benissimo essere
37
T. LIPPS, Leitfaden der Psychologie , Lipsia, 2ₐ ed. 1906, pp. 64-65.
C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, Opere Vol. 8, Collana Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p.
187.
39
Ancor più esplicativa (ed elegante) è quest’altro passo di Jung: “se il sistema psichico […] coincide e
s’identifica con la coscienza, noi possiamo in linea di principio conoscere tutto ciò che in generale è
conoscibile, ossia ciò che sta nei limiti teorico-conoscitivi. In questo caso non c’è alcun motivo di provare
un’inquietudine maggiore di quella che sentono l’anatomia e la fisiologia di fronte alla funzione
dell’occhio o dell’organo dell’udito. Se dovesse tuttavia accadere che la psiche non coincida con la
coscienza ma che – al di là e al di fuori della coscienza – essa funzioni inconsciamente in modo analogo o
“diverso” dalla sua parte capace di coscienza, allora la nostra inquietudine dovrebbe accentuarsi”. Ibidem.
38
29
coscienti e sono repressi - nel caso delle tendenze infantili - durante la fase
dell’educazione attraverso il processo detto “di rimozione”40. Una posizione, questa, che
risulta verosimilmente riduttiva.
Gli studi di Carl Gustav Jung sull’inconscio iniziano a partire dalla seconda metà degli
anni ’10 del secolo scorso e proseguono, a più riprese, durante tutto il corso della sua
vita (con aggiunte, correzioni e riedizioni che hanno messo a dura prova i filologi che
negli anni si sono occupati della sua sterminata quanto articolata produzione
intellettuale). Al contrario del suo originario maestro, Jung sostiene che: “sebbene, per
un certo modo di vedere, le tendenze infantili dell’inconscio siano quelle che più
spiccano, sarebbe tuttavia ingiusto definire o valutare l’inconscio esclusivamente in tal
modo, […] l’inconscio ha anche un altro lato: nel suo ambito bisogna comprendere non
solo i contenuti rimossi, ma anche tutto quel materiale psichico che non raggiunge la
soglia della coscienza.”41 Con i suoi studi, Jung allarga in maniera sensibile la
definizione di inconscio, sganciandosi dalle vedute di Freud, ritenute, per l’appunto,
insostenibilmente limitanti. Per lo psicologo zurighese, in maniera molto più generale,
“l’inconscio va concepito come la totalità di tutti quei fenomeni psichici che sono privi
della qualità della coscienza”42 dal momento che “rileviamo che nell’inconscio, oltre al
materiale rimosso, si trova tutto il materiale psichico divenuto subliminale, comprese le
percezioni sensoriali subliminali. Sappiamo inoltre […] che l’inconscio contiene anche
quel materiale che non ha ancora raggiunto la soglia della coscienza. Sono questi i
germi di successivi contenuti coscienti. Abbiamo parimenti motivo di sospettare che
l’inconscio non sia affatto in quiete e inattivo, ma sia continuamente occupato ad
associare e dissociare i suoi contenuti. Solo in casi patologici questa attività sarebbe da
considerare come assolutamente indipendente; in condizioni normali essa è coordinata
alla coscienza nel senso di una relazione compensatrice”43. Lo stesso Jung ammette che
non si conosce - o almeno si conosce in maniera parziale – il funzionamento
dell’inconscio; tuttavia, poiché si suppone che esso sia un sistema psichico, è pacifico
sostenere che sia dotato di tutto ciò che possiede anche la coscienza (ossia memoria,
percezione, riflessione, affetto, sentimento, giudizio ecc.). Per lo psicologo svizzero
40
S. FREUD, Op. cit., 1915.
C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit. p. 127.
42
C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit. p. 151.
43
C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit. p. 128.
41
30
l’ipotesi di un inconscio implica l’esistenza di una soglia che separa da noi le reazioni
psichiche, i pensieri e le conoscenze inconsce che si trovano al di sotto o al di sopra
della coscienza, i quali sono, allo stesso tempo, a noi prossimi ed irraggiungibili.44
Appare comunque innegabile che esista un’Io a cui si affianca un “coscienza
secondaria”, che la avvolge e che vi transita continuamente. In particolare essa può
incamerare o contenuti originariamente consci che, data la loro incompatibilità con l’Io,
sono divenuti inconsci mediante un processo di rimozione, oppure elementi derivanti da
un processo di natura subliminale che ha in qualche modo “eluso” la ricezione e la
comprensione dell’Io, e si è mantenuto sottotraccia. È dunque possibile che “l’inconscio
ospiti contenuti i quali posseggono una tensione energetica tanto grande da dover
diventare percepibili all’Io in altre circostanze”45. Come già sottolineato, essi non si
esauriscono ai contenuti rimossi ma piuttosto rappresentano contenuti non ancora
consci.
Jung, in ultima analisi, dopo qualche “peripezia concettuale”, perviene ad una
definizione più schematica di quello che viene a rappresentare l’inconscio per la psiche:
“L’inconscio non è ciò che è semplicemente ignoto; da un lato è l’elemento psichico
ignoto, ossia tutto ciò che presupponiamo non si distinguerebbe in nulla dai contenuti
psichici a noi noti qualora pervenisse alla coscienza; d’altro lato dobbiamo aggiungervi
anche il sistema psicoide, sulla cui natura non siamo in grado di fare affermazioni
dirette. Questo inconscio così definito descrive un dato di fatto estremamente fluido:
tutto ciò che io sono, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una
volta è stato cosciente, ma che ora è dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei
sensi, ma che non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io sento, penso,
ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè inconsciamente; ogni
cosa futura che si prepara in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi; tutto questo
è contenuto dell’inconscio”46.
Secondo le teorie Freud e di Jenet - che, a detta dello stesso Jung, rappresentano i
pionieri della ricerca sperimentale sul tema - gli elementi dell’inconscio esistono e
funzionano allo stesso modo di quelli della coscienza. Jung respinge questa ipotesi
44
L’esistenza di tale soglia è ben evidenziata, ad esempio, nei casi di “dissociazione o dissociabilità della
psiche” in cui accade che i processi inconsci sono indipendenti dagli eventi sperimentati dalla coscienza
e, allo stesso tempo, i legami tra i processi coscienti risultano assai flebili.
45
C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit. p. 194.
46
Ivi, pp. 203-204.
31
affermando che la loro condizione può essere in alcuni casi sensibilmente diversa,
come, per esempio, nel caso dei complessi affettivi, i quali nell’inconscio, a differenza
di quanto avviene nella coscienza, non cambiano ma sono conservati nel loro stato
originario. Per lo psicologo svizzero l’inconscio “è un medium diverso dalla
coscienza”47, la cui caratteristica di relatività non deve, però, far indurre nella trappola
di considerarlo meramente e semplicisticamente come il lato più oscuro della psiche. La
coscienza infatti, può essere considerata relativa quanto l’inconscio dal momento che
“tra ’io faccio’ e ‘io sono cosciente di ciò che faccio’ esiste una differenza abissale, non
solo, a volte addirittura una vera e propria antitesi”48. Per Jung viene a configurarsi così
una coscienza che assume di volta in volta vari gradi di consapevolezza, andando dal
totale “controllo” alla predominanza della dimensione inconscia; la conclusione a cui
egli perviene - per certi versi apparentemente paradossale - è che non esiste contenuto
della coscienza che non sia inconscio sotto un altro aspetto.
Per spiegare meglio il rapporto tra la sfera della coscienza e quella dell’inconscio Jung
ricorre all’analogia dello spettro dei colori; segnatamente, egli paragona l’abbassamento
dei contenuti inconsci a uno spostamento verso la banda rossa, sottolineando come nelle
zone più prossime alla coscienza i cambiamenti non sono rilevanti, perché lì luce ed
ombra si alternano troppo spesso. Si comprende meglio, così, come coscienza ed
inconscio, lungi dall’essere separate da spaccature delineate e men che meno definitive,
siano dimensioni altamente comunicanti e interagenti tra loro, le quali si muovono, tra
integrazioni e sovrapposizioni, in quell’“universo di sfumature” che è la psiche.49 Anche
47
Ivi, p. 206.
Ibidem.
49
Jung, a tal proposito, si spinge oltre e aggiunge: “Forse non esiste neppure psichismo inconscio che non
sia al tempo stesso conscio. È più difficile dimostrare questa seconda asserzione che non la prima, perché
il nostro Io, il solo che potrebbe fare una tale constatazione, è il punto di riferimento della coscienza e
manca appunto – nei confronti dei contenuti inconsci – di un legame che gli permetta di pronunciarsi sulla
loro natura. Questi contenuti inconsci sono, ‘ai fini pratici’, inconsci per l’Io; il che non significa però che
non gli siano consci sotto un altro riguardo, ossia: l’Io può conoscere questi contenuti sotto un certo
aspetto, ma non sapere che sono questi stessi contenuti a causare, sotto un altro aspetto, dei perturbamenti
nella coscienza.” E ancora, sul funzionamento della coscienza e sullo “statuto” dei contenuti inconsci
Jung nota come: “nella sfera psichica il modello di comportamento con la sua coercitività cede il passo a
favore delle varianti di comportamento condizionate dall’esperienza e da atti volitivi, cioè da processi
consci. Rispetto allo stato psicoide riflesso-istintuale, la psiche rappresenta quindi un allentamento di
legami e una recessione crescente dei processi meccanici a favore delle modificazioni ‘scelte’. L’attività
selettiva si svolge da un lato dentro la coscienza, dall’altro fuori di essa, ossia senza rapporto con l’Io
cosciente, e quindi in maniera inconscia. Questo processo è solo paracosciente, come se fosse
‘rappresentato’ o cosciente. Non esistono ragioni sufficienti per ammettere che esista in ogni individuo un
secondo Io, o che chiunque sia soggetto a una dissociazione della personalità. Dobbiamo quindi
prescindere dall’idea di una seconda coscienza dell’Io dalla quale potrebbero venire decisioni volitive.
48
32
a livello più alto, e al livello massimo, dunque, la coscienza non è ancora una totalità
completamente integrata, ma piuttosto un qualcosa capace di un ampliamento indefinito.
Isole affioranti, se non interi continenti, possono ancora sempre essere aggregate alla
coscienza moderna; è un fenomeno che lo psicoterapeuta sperimenta quotidianamente.
Sarà quindi bene pensare alla coscienza dell’Io come a un qualcosa circondato da molte
piccole luminosità, e al contempo come una mare necessario, un’acqua in cui bagnarsi
di continuo e non un mostro da cui rifuggire, pena i disastri e le derive più cupe dell’era
moderna, legate sia alle singole persone, sia alle intere comunità di individui50.
Ma poiché sia l’esperienza fornita dalla psicopatologia sia quella della psicologia dei sogni rendono se
non altro estremamente probabile l’esistenza nell’inconscio di processi quanto mai complessi, paraconsci,
siamo costretti nolenti o meno a concludere che lo stato dei contenuti inconsci è non uguale, ma in
qualche modo simile a quello dei contenuti consci.” Ivi, pp. 207-208.
50
Sull’importanza del riconoscimento della dimensione inconscia - in particolar modo di quella collettiva
- e sui pericoli derivanti da un suo nascondimento o da una sua netta scissione dalla sfera della coscienza,
Jung ammonisce: “La cosiddetta coscienza civilizzata si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza,
però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra
coscienza e perciò sono costretti ad affermarsi in maniera indiretta. Ciò può verificarsi per mezzo di
sintomi fisici nel caso della nevrosi, o attraverso inconvenienti di vario tipo, come stati d'animo
inspiegabili, improvvise dimenticanze o errori di linguaggio. All'uomo piace credere di essere padrone
della propria anima. Ma nella misura in cui egli si dimostra incapace di controllare i propri stati d'animo e
le proprie emozioni, o di prendere coscienza degli infiniti modi segreti in cui i fattori inconsci arrivano a
insinuarsi nei suoi propositi e nelle sue decisioni, egli non è affatto padrone di se stesso. Questi fattori
inconsci debbono la loro esistenza all'autonomia degli archetipi. L'uomo moderno cerca di evitare di
prendere coscienza di questa spaccatura della sua personalità istituendo un sistema di compartimenti
stagni. Certi aspetti della sua vita esteriore e del suo comportamento sono mantenuti, per così dire, in
zone separate e non sono mai messi a confronto fra di loro.” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli,
Tascabili Editori Associati, Milano, 1991, p. 63.
Il padre della psicologia analitica, ponendo l’attenzione sui rischi di una “emarginazione” dell’inconscio
perpetrata dall’uomo aggiunge: “Nella misura in cui noi, tramite il nostro inconscio, partecipiamo alla
psiche collettiva storica, viviamo naturalmente, in maniera inconscia, in un mondo di lupi mannari, di
demoni, di maghi ecc.; perché queste sono cose che hanno popolato di affetti intensissimi tutte le epoche
che ci hanno preceduto. Allo stesso modo noi conviviamo con Dei e con diavoli, con santi e criminali;
sarebbe assurdo però volersi attribuire personalmente queste possibilità che albergano nell’inconscio. […]
Negli uomini ingenui queste cose non erano mai naturalmente separate dalla coscienza individuale,
perché Dei, demoni ecc. non erano intesi come proiezioni psichiche e quindi come contenuti
dell’inconscio, ma come realtà evidenti. Soltanto nell’epoca illuministica si trovò che gli Dei non esistono
realmente, ma sono proiezioni. Ma se questa constatazione liquidò gli Dei, non eliminò affatto la funzione
psichica corrispondente, la quale fu catturata dall’inconscio. La conseguenza fu che gli uomini sono stati
avvelenati da un eccesso di libido che, in epoca anteriore, era investita nel culto dell’immagine di Dio. La
valorizzazione e la rimozione di una funzione intensa come quella religiosa ha avuto naturalmente
conseguenze di grande rilievo per la psicologia del singolo. L’inconscio viene infatti straordinariamente
rafforzato dal riflusso di questa libido, e così inizia ad esercitare con i suoi contenuti arcaici collettivi una
possente influenza sulla coscienza. L’Illuminismo si concluse, com’è noto, con gli orrori della
Rivoluzione francese. Anche oggi ci troviamo ancora una volta di fronte alla ribellione delle inconsce
forze distruttive della psiche collettiva. Il risultato è stato senza eguali [Questo passo risale al 1916, il
riferimento è agli orrori della Prima Guerra Mondiale, tuttavia è superfluo notare che ciò è applicabile a
tanti altri fatti storici, vedi i totalitarismi]. È proprio ciò che l’inconscio cercava. Prima, la sua posizione
era stata smisuratamente rafforzata dal razionalismo della vita moderna, che ha privato di valore tutto ciò
che è irrazionale e ha perciò fatto sprofondare nell’inconscio la funzione dell’irrazionale. Ma, non appena
questa funzione si trova confinata nell’inconscio, inizia di là ad operare le sue devastazioni, inarrestabile
33
1.4 Gli “Archetipi” e l’”Inconscio collettivo”
Fin qui abbiamo cercato - in maniera sommaria per dovere di brevità - di descrivere le
caratteristiche principali dell’inconscio, intendendolo come parte integrante e attiva
della psiche dell’individuo, i cui contenuti possono emergere nella sfera dell’Io oppure
continuare a vivere nel “retroterra” della nostre mente. Come abbiamo visto, i contenuti
dell’inconscio sono di natura personale in quanto hanno il carattere, da una parte, di
acquisizioni dell’esistenza individuale, dall’altra, di fattori psicologici che potrebbero
anche essere coscienti. La loro origine, la loro parziale comparsa e i loro effetti, sono
riconducibili, dunque, al nostro passato biografico di singole persone. Jung però, con
una composita ed acuta analisi, si spinge concettualmente oltre e allarga sensibilmente
quello che è il concetto psicologico di inconscio, abbracciando una più estesa e
profonda dimensione: un risvolto della medaglia che potremmo definire “universale”.
Per lo psicologo svizzero, in ultima analisi, la sfera inconscia può essere divisa in due
parti: uno strato più superficiale rispondente ai dettami riportati nelle righe precedenti,
che è denominato per l’appunto “inconscio personale” e un altro, più profondo, di
natura globale ed innata, che è definito invece “inconscio collettivo”51. Quest’ultimo,
per Jung, viene a costituire la “base primordiale” sulla quale il primo poggia, un sostrato
universale, comune a tutti gli esseri umani in quanto tali. Il concetto di inconscio
collettivo, rappresenta un importantissimo - e per molti aspetti rivoluzionario - tassello
nell’opera teorico-pratica di Carl Gustav Jung, il quale, in riferimento al carattere
sostanzialmente originale della sua posizione accademica, non stenta ad affermare:
“l’ipotesi di un inconscio collettivo fa parte di quei concetti che lì per lì stupiscono il
pubblico, ma che poi entrano presto in suo uso e possesso come concetti familiari; il che
appunto è avvenuto per il concetto di inconscio”52. Egli, definendo con esattezza il suo
come una malattia inguaribile, le cui orde non possono essere sterminate perché invisibili. L’individuo,
come tutto il popolo, non può fare a meno di vivere l’irrazionale, limitandosi a impiegare il suo più
elevato idealismo e i suoi migliori motti di spirito per dar forma, con la sua massima perfezione possibile,
alla follia dell’irrazionale.” C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit., pp. 95-96.
Jung, pertanto, auspica in ultimo una sintesi e un’unificazione tra la psiche individuale e quella collettiva,
poiché, come abbiamo visto, un atteggiamento di totale scissione e contrapposizione creerebbe dei mostri
pericolosissimi. Così conclude lo psicologo zurighese: ”Da un lato avremmo allora l’Io moderno e
differenziato, dall’altro invece una sorta di civiltà di negri o, per dirla in altre parole, una condizione
primitiva. Il risultato finale sarebbe quello che oggi è realmente visibile sotto gli occhi di tutti, ossia una
civiltà che ricopre come una crosta un bestione scuro” Ivi, p. 98.
51
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere Vol. 9*, Coll. Bollati Boringhieri Editore,
Torino, 1980, p. 3.
52
Ibidem.
34
concetto afferma: “ho scelto l’espressione ‘collettivo’ perché questo inconscio non è di
natura individuale, ma ‘collettiva’, e cioè, al contrario della psiche personale, ha
contenuti e comportamenti che […] sono gli stessi dappertutto e per tutti gli
individui”53.54 L’inconscio collettivo viene a configurarsi così, come una sorta di
zoccolo duro, di “dotazione primordiale” e soprapersonale comune a tutti gli uomini,
dalla cui base va a collocarsi l’inconscio personale che, insieme all’Io, completa la
struttura della psiche umana. Esso ha una natura simile a quello dell’inconscio personale
ma differisce da quest’ultimo principalmente in termini di contenuti. Se i contenuti
dell’inconscio personale, infatti, come abbiamo visto, sono i cosiddetti “complessi a
tonalità affettiva” - i quali costituiscono l’intimità personale della vita psichica - quelli
dell’inconscio collettivo sono assimilabili a quelle che potremmo definire le “pietre
angolari” della psiche umana, le rappresentazioni primordiali e universali che prendono
il nome di “archetipi”. Per Jung, dunque, l’inconscio collettivo viene a rappresentare “la
poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura
cerebrale individuale; [esso] contiene la sorgente delle forze motrici spirituali e le forme
o le categorie che le regolano, cioè gli archetipi. Tutte le più forti idee e
rappresentazioni dell’umanità risalgono agli archetipi.”55 L’ archetipo in sé consiste,
quindi, nella “tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur
nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo
modello fondamentale”56.
Il termine “archetipo” (che deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato
di immagine: arché ("originale"), tipos ("modello", "marchio", "esemplare") compare
già in Filone Giudeo (De opificio mundi I.69) con riferimento all’immagine di Dio
nell’uomo, così come in Ireneo (Adversus hereses II.7, 5) nel quale si descrive che il
Creatore non trasse la sua opera del mondo, bensì attraverso “archetipi estranei”;
nell’Hermetica di Scott, Dio è chiamato “la luce archetipica”. Anche all’interno delle
53
Ibidem.
E ancora: “l’inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo
dall’inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all’esperienza personale e
perciò non è acquisizione personale. Mentre l’inconscio personale è formato da contenuti che sono stati
un tempo consci, ma poi sono scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti
dell’inconscio collettivi non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti
individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’inconscio personale
consiste soprattutto di complessi, il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente
da archetipi. Ivi, p. 43.
55
C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., p. 176.
56
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, Tascabili Editori Associati, Milano, 1991, p.52.
54
35
opere di uno dei più grandi filosofi dell’antica Grecia, Platone, gli archetipi godono di
una considerazione estremamente alta. Essi infatti, vengono a configurarsi come eidos dal greco εἶδος che significa “forma”, “aspetto” - alle quali le cose reali aderiscono solo
mediante un processo di imitazione. Platone colloca tutte le "idee" in un mondo
distinto, il mondo "iperuranio" (dal greco υπερ, "oltre", e ουρανος, "cielo"), da cui
sgorgano come da una fonte per poi arrivare alla coscienza dell'umanità. L’eidos,
dunque, è una forma pura, ideale, appartenente ad un vero e proprio regno delle idee, al
quale si contrappone, e “ambisce”, quello sensibile delle cose.57 Per la Scolastica gli
archetipi sono assimilabili a “immagini naturali sepolte nello spirito umano, secondo le
quali lo spirito forma i suoi giudizi”58. Sant’Agostino nel De diversis quaestionibus,
facendo riferimento a “idee principales”, ossia ad “Idee originarie […] che non sono
state create […] che sono contenute nell’intelligenza divina”, parafrasa il concetto di
archetipo pur non menzionandolo direttamente. È il caso anche del filosofo e poeta
inglese di inizio ‘600 Herbert of Cherbury, il quale afferma: ”Gli istinti naturali sono le
attività di quelle facoltà dalle quali derivano le conoscenze generali (secondo
un’analogia interna delle cose naturali) di tale specie, che in rapporto a causa, mezzo e
scopo del bene come del male, del bello, del gradevole ecc. sono formate
esclusivamente da sé stesse senza riflessione discorsiva. Ancora dalla filosofia Bergson,
per riferirsi alle reminiscenze di quelle immagini tipiche e autoctone che costituiscono il
fondamento delle mitologie dei popoli primitivi, adopera l’espressione “durée créatrice”
(la quale si ritrova, in verità, già in Proclo e, ancor prima, in Eraclito). Probabilmente,
però, gli autori che più ispirano Jung nella formulazione del concetto di archetipo (e,
prima ancora, di inconscio collettivo) sono il filosofo, antropologo ed etnologo francese
Lévy-Bruhl ed uno dei maggiori storici dell’‘800, Jacob Burckhardt. Il primo, per
riferirsi alle figure simboliche delle primitive visioni del mondo - emerse dai suoi lunghi
studi sulle popolazioni arcaiche - soleva adoperare l’espressione “représentations
collectives”59, un’idea che è per molti tratti sovrapponibile a quella dello psicologo
zurighese. È di Burckhardt, invece, la definizione del concetto di “immagine originaria,
57
“Nell’acqua dell’arte, nella nostra acqua che è anche il caos, si trovano le scintille infuocate dell’anima
del mondo come pure Formae Rerum essentiales. Queste formae corrispondono alle idee pltatoniche, dal
che risulterebbe quindi una identità delle scintille con gli archetipi, se si suppone che le immagini eterne
di Platone, ‘custodite in un luogo sovraceleste’ siano un’espressione filosofica degli archetipi psicologici.
C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., p. 209.
58
Ivi, p.154.
59
L. LÉVY-BRHUL, Les fonctions mentales dans la sociétés inférieures (Parigi, 2° ed. 1912)
36
primordiale” come struttura apriori della mente. Infine Adolf Bastian, per riferirsi a tali
costrutti, usava le definizioni di “pensieri elementari” e “pensieri primordiali”60.61
L’intuizione di Jung - mutuata, seppur in maniera parziale, dal pensiero degli autori
testé citati - è quella dell’esistenza, alla base della psiche, di “tipi arcaici o ancora
meglio primigeni, cioè immagini comuni presenti fin dai tempi remoti”62. Gli archetipi
vengono a costituire, così, ne loro insieme, un alfabeto di possibili rappresentazioni che
alberga nella mente di ciascuno di noi, degli universali immaginativi, delle dotazioni di
base di carattere innato, in altre parole un bagaglio potenziale mai completamente sopito
di immagini, rappresentazioni, simboli che agiscono a livello inconscio, pronti - per
usare una felice espressione del maestro Jung - a far “balzare dalla sella la coscienza” in
qualsiasi momento.
Ma, come lo stesso Jung afferma, bisogna usare cautela ed attenzione nel descrivere la
natura dell’archetipo. Egli tiene a sottolineare, infatti, come gli archetipi non siano
rappresentazioni definite aprioristicamente dalla psiche e reiterate nei millenni in
maniera pedissequa; al contrario essi si limitano a designare i contenuti psichici non
ancora sottoposti ad elaborazione cosciente, i quali rappresentano così “un dato psichico
non ancora immediato”63. Gli archetipi per Jung, in una prospettiva più psicologica e
biologica, vengono a costituire le forme di manifestazione degli istinti64. Quest’ultimi
però, come egli stesso evidenzia, sono fattori impersonali, diffusi universalmente,
ereditari, di natura dinamica o motivante, che molto spesso non riescono - a differenza
di quanto accade per gli archetipi - a raggiungere la soglia della coscienza. Gli istinti,
60
C.G. JUNG, Simboli della trasformazione, Opere Vol. 5, Coll. Bollati Boringhieri Editore, Torino,
1970, p. 45, nota 37.
61
A partire da Cartesio la concezione metafisica di archetipo va indebolendosi fino a sfociare con Spinoza
in elemento interno del pensiero :”Intendo per idea un concetto della mente, che la mente forma”
(Benedictus de Spinoza, “Etica”, p.68. (Lipsia 1887) Kant, invece, con un ulteriore semplificazione
concettuale, riduce gli archetipi al numero limitato delle categorie dell’intelletto umano.
62
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., pp. 100-101.
63
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 102.
64
Sulla natura dell’istinto Jung: “Gli istinti sono forma tipiche dell’agire, e dovunque si tratta di forme
dell’agire che si ripetono uniformemente e regolarmente si tratta d’istinto, che vi si associ o no una
motivazione conscia”. E ancora: “l’azione istintuale appare come un evento psichico più o meno
sconnesso, una sorta di irruzione nella continuità della coscienza […] Conformemente a questa sua
natura, l’azione istintuale va annoverata tra i processi propriamente inconsci, i quali sono accessibili alla
coscienza solo attraverso i loro risultati”. Lo psicologo zurighese tiene poi a sottolineare le differenze tra
gli istinti e gli altri processi inconsci affermando: “Vi sono […] altre costruzioni inconsce, per esempio
pensieri ossessivi, melodie ossessive, immaginazioni e capricci improvvisi, affetti impulsivi, depressioni,
sensazioni di angoscia ecc. Questi fenomeni non compaiono, com’è noto, soltanto in individui anormali,
ma anche in individui normali. Fin quando [essi] si verificano isolatamente e non si ripetono con
regolarità devono essere distinti dai processi istintuali, sebbene il loro meccanismo psicologico sembri
corrispondere a quello dell’istinto” C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., pp. 148-153.
37
inoltre, a differenza degli archetipi, non hanno una natura vaga e indefinita; essi
piuttosto sono “forze motrici” specificamente formate, che, molto prima che esista un
qualsiasi grado di coscienza, e a prescindere dal grado di coscienza raggiunto in seguito,
perseguono i loro scopi intrinseci naturali. A parte le sostanziali differenze appena
evidenziate, Jung conclude che “[gli istinti] assumono[…] analogie così strette con gli
archetipi, che vi sono in verità buone ragioni per supporre che gli archetipi siano le
immagini inconsce degli istinti stessi; in altre parole, che essi siano ‘modelli di
comportamento istintuale’65.66
Gli archetipi vengono a costituire, in questo modo, rappresentazioni “in potenza”, delle
strutture psichiche generali che, a seconda degli individui e delle situazioni, in maniera
dinamica e non preformata, possono manifestarsi in contenuti diversi.67
Se in un primo momento per Jung l'archetipo costituisce una forma trascendente
preesistente alla coscienza, egli gradualmente lo sgancia da tale concezione per
approdare a quella definitiva di “forma senza contenuto”. Così lo stesso Jung: "Nessun
archetipo è riducibile a semplici formule. L'archetipo è come un vaso che non si può
svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende
forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i
millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi
incrollabili dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente"68.
Con queste affermazioni lo psicologo svizzero rigetta l’idea di un’ereditarietà, quasi
magica ed immutabile, delle specifiche rappresentazioni mentali di ciascun individuo,
rendendo così inconsistenti le accuse di misticismo e di scarso rigore empirico mossegli
65
C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, Bollati Boringhieri
Edizioni, Torino, 2011, p. 155.
66
A tal proposito Jung afferma: “Non è difficile ammettere che l'attività umana è notevolmente
influenzata dagli istinti, del tutto indipendentemente dalle motivazioni razionali della mente cosciente.
Pertanto, se si asserisce che la nostra immaginazione, la percezione e il pensiero sono parimenti
influenzati da elementi formali innati e presenti universalmente, mi sembra che un'intelligenza normale
non debba vedere in quest'idea né più né meno misticismo che nella teoria degli istinti. C.G. JUNG, Gli
archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. E altrove: “dalla sorgente vitale degli istinti fluisce tutto ciò che è
creativo, cosicché l’inconscio non è solo condizionamento storico, ma genera in pari tempo l’impulso
creatore, come la natura, che è enormemente conservatrice e nei suoi atti creatori neutralizza il proprio
condizionamento storico.” C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, cit., pp. 175-176.
67
“Gli archetipi hanno una loro iniziativa e una loro specifica energia. Ciò li rende suscettibili sia di
produrre una interpretazione significativa (nel loro stile simbolico caratteristico), sia di interferire in una
determinata situazione con i loro specifici impulsi e le loro particolari conformazioni di pensiero. Da
questo punto di vista essi funzionano allo stesso modo dei complessi: essi vanno e vengono a loro
piacimento e spesso ostruiscono o modificano in maniera imbarazzante le nostre intenzioni consce. C.G.
JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 59.
68
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 172.
38
a più riprese da alcuni69. In ultima analisi, dal momento che “gli archetipi sono
determinati nella forma, ma non nel contenuto; tanto più l’archetipo non è preciso nella
forma, quanto più profondo è lo strato dell’inconscio collettivo da cui si presume che
sorga; uno strato nel quale i simboli non esistono che come sistema di assi, privi ancora
di contenuto individuale, non sono ancora differenziati dal sedimento della catena
infinita dell’esperienza individuale, che essi, ad ogni modo, precedono”70; potremmo
riassumere che per Jung gli archetipi non sono rappresentazioni ereditate, bensì
possibilità innate di rappresentazioni.
Inoltre, è da rimarcare il fatto che, essendo
manifestazioni dell'inconscio (collettivo), la coscienza può avere di essi soltanto una
conoscenza indiretta. Ciò svela la natura autonoma e slegata degli archetipi che, grazie
alla loro energia ancestrale ed universale, transitano e attraversano di continuo la sfera
dell’Io, pur costituendone la sua “piattaforma primordiale”. A tal proposito Jung nota:
“Specialmente sui gradini più elevati delle dottrine esoteriche, gli archetipi appaiono in
un contesto che di solito rivela in modo inequivocabile che essi sono stati giudicati e
valorizzati da un’elaborazione cosciente. Invece la loro apparizione diretta, quale ci si
presenta nei sogni e nelle visioni, è molto più individuale, incomprensibile e ingenua di
quanto non sia, per esempio, nel mito. L’archetipo rappresenta in sostanza un contenuto
inconscio che si è trasformato attraverso una presa di coscienza e per il fatto di essere
stato percepito, e ciò proprio nel senso di quella consapevolezza individuale nella quale
si manifesta.”
71
Gli archetipi non sono di natura spirituale, ma forme immanenti alla
materia in cui si sono sviluppati nel corso prima dell'evoluzione e poi della storia, e
sono contenuti nel patrimonio genetico dell'uomo. Jung, inoltre, opera un’importante
distinzione tra l’“archetipo in sé”, cioè l’archetipo potenzialmente insito in ogni
struttura psichica di ogni individuo, il quale possiede una natura non percepibile; e
l’archetipo “attualizzato”, ossia l’archetipo divenuto invece percepibile ed entrato nella
69
Così Jung sulla questione: “Benché l'accusa di misticismo sia stata rivolta frequentemente alla mia
concezione, devo di nuovo sottolineare che il concetto d'inconscio collettivo non è né speculativo né
filosofico, ma empirico. Il problema è semplicemente questo: esistono o non esistono forme universali
inconsce di questo genere? Se sì, c'è una regione della psiche che si può denominare inconscio collettivo.
È vero che la diagnosi dell'inconscio collettivo non sempre è un compito facile. Né è sufficiente
sottolineare la natura spesso inequivocabilmente archetipica dei prodotti inconsci, dal momento che essi
potrebbero essere derivati da acquisizioni avvenute tramite il linguaggio e l'educazione. Si dovrebbe
altresì escludere la criptomnesia, il che in alcuni casi è quasi impossibile. Nonostante tutte queste
difficoltà, a liberare il campo da ogni possibile dubbio, sussistono sufficienti casi individuali i quali
dimostrano il rivivere autoctono di motivi mitologici”. Ivi, p. 45.
70
Ivi, p. 64.
71
Ivi, p. 102.
39
sfera della coscienza e che si presenta in seguito come immagine archetipica. In questo
caso la sua manifestazione è estremamente cangiante e varia costantemente al mutare
delle condizioni e del contesto entro i quali agisce. La conseguenza è che esistono
immagini archetipiche che, dopo essere state taciute nell’inconscio fino ad un attimo
prima, diventano efficaci in determinate situazioni; ma ciò non si sarebbe potuto dire,
ad esempio, per altre circostanze ed altri “humus psichici”.72
La somma degli archetipi viene a corrispondere, in ultimo, alla somma di tutte le latenti
possibilità della psiche umana: un’inesauribile granaio di antichissime cognizioni su
profondi nessi esistenti fra Dio, l’uomo e l’universo che lo circonda. L’archetipo, fonte
primordiale dell’esperienza umana universale, giace nell’inconscio, e di qui invade in
maniera dirompente l’ambito della vita.
1.4.1 Il simbolismo dell’Archetipo
Giunti sin qui, su tutti preme un quesito in particolare, vale a dire: in che modo
l’archetipo si manifesta nell’individuo una volta che, dalla nebulosa primordiale
dell’inconscio collettivo, approda nella coscienza laddove si esprime e viene finalmente
percepito? Apparirà a questo punto chiaro come la nozione di “archetipo” sia prossima a
quella di “simbolo”73 (o meglio ancora di “sintomo, come vedremo tra poche righe). Sul
rapporto tra i concetti di archetipo e simbolo lo psicologo svizzero si esprime in questi
72
Jung aggiunge: “Se il problema è legato al tempo e alla personalità, sarà molto complicata la veste con
la quale l’archetipo si esprime, ma al contempo essa sarà anche più delimitata e precisa; al contrario,
quanto più impersonale e generale è ciò che l’archetipo vuole illustrare, tanto più semplice e non
delineato sarà il suo linguaggio. Possiamo dire che il numero degli archetipi non è infinito. Nella vita si
presentano tanti archetipi, quanto è il numero delle situazioni tipiche. La ripetizione continua ha impresso
queste esperienze nella nostra costituzione psichica, ma non lo ha fatto nella forma di immagini dotate di
contenuto, bensì, inizialmente, come “forme senza contenuto” atte a costituire la possibilità di un certo
tipo di percezione e azione. L’archetipo si attiverà qualora si presenti una situazione che gli corrisponde e
si sviluppa una strada, che si apre un varco a fronte di ogni ragione o volontà” Ivi, p. 48.
73
Jung afferma: “Qualunque cosa possa essere l'inconscio, esso è un fenomeno naturale produttore di
simboli che si dimostrano significativi” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 79. E ancora:
“L'uomo usa la parola parlata o scritta per esprimere il significato di quello che egli vuole comunicare. Il
suo linguaggio è pieno di simboli, ma egli spesso fa uso anche di segni o di immagini che non sono
descrittivi in senso stretto. Alcuni sono semplici abbreviazioni o successioni di iniziali, come ONU,
UNICEF, o UNESCO; altri sono familiari marchi di fabbrica, nomi di specialità medicinali, simboli
insegne. Sebbene siano in se stessi privi di significato, essi hanno acquistato un significato riconoscibile
attraverso l'uso comune o per un intento convenzionale. Tutti questi non sono simboli. Essi sono segni e
non hanno altro compito che quello di denotare gli oggetti a cui sono riferiti. Ciò che noi chiamiamo
simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i
giorni e che tuttavia, possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso
implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. Per esempio,molti monumenti cretesi
sono contraddistinti dal disegno della doppia ascia. Si tratta di un oggetto che ci è familiare ma di cui non
conosciamo le implicazioni simboliche.” Ivi, p. 10.
40
termini: “L’inconscio agisce sull’Io, ma indirettamente, ossia per mezzo di ‘simboli’,
termine questo che però non è molto felice. I contenuti che appaiono nella coscienza
sono infatti anzitutto ‘sintomatici’. Da quanto sappiamo o crediamo di sapere su ciò a
cui essi rimandano o su cui si basano, sono ‘semiotici’ […], solo in parte realmente
simbolici, e hanno la funzione di rappresentanti indiretti di stati o processi inconsci la
cui natura può essere dedotta e resa cosciente solo imperfettamente dai contenuti che
appaiono nella coscienza. È quindi possibile che l’inconscio ospiti contenuti i quali
posseggono una tensione energetica tanto grande da dover diventare percepibili all’Io in
altre circostanze”74. E ancora: “Il mondo parla attraverso il simbolo […] e più il simbolo
è arcaico e profondo[…] più diventa collettivo e universale. Più è astratto, differenziato
e specifico più si avvicina alla natura dei fatti unici”75. Prima di continuare la
discussione sul simbolo, occorre precisare quale sia il rapporto e le differenze che
intercorrono fra il segno e il simbolo per Jung. Egli, lamentando un’ambiguità e una
carenza di fondo nel vocabolario scientifico (e non) in quanto ai termini per riferirsi al
concetto, afferma: “A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente
distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato nell’ambito della
semeiotica sono due cose completamente diverse”. In questo senso ci può aiutare una
breve considerazione linguistica. In tedesco, infatti, la parola che equivale a simbolo
è Sinnbild, ed esprime con chiarezza la duplice origine del suo contenuto: il significato
(Sinn) è di pertinenza della coscienza, e dunque del razionale, l’immagine (Bild) è di
pertinenza dell’inconscio e dell’irrazionale. Il simbolo ha dunque la qualità per rendere
conto della totalità dei rapporti che si svolgono all’interno della psiche, ad esprimerne le
implicazioni e i contrasti, oltre che ad agire su di essi.. L’attribuzione di una natura
simbolica ad un oggetto dipende innanzitutto dalla coscienza della persona che vi si
trova di fronte. In questi termini ciò porta alla “naturale” conseguenza per cui ad alcuni
individui un oggetto apparirà come un simbolo, per altri, invece, soltanto come un
segno. Secondo Jung, allora, il simbolo non è né allegoria, né un segno, bensì
l’immagine di un contenuto che trascende la coscienza: esso rinvia a qualcosa di
essenzialmente sconosciuto, indecifrabile, per certi versi “misterioso”. La connessione
tra simbolo e ignoto, dunque, è così profonda che quando un contenuto simbolico si
rende noto e si lascia interpretare in termini concettuali, perde le sue caratteristiche di
74
75
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 194.
Ivi, p. XXXIV.
41
simbolo per divenire segno. Il simbolo, in altre parole, contiene un’“eccedenza di
senso”76 rispetto al senso conosciuto. Una volta annullata questa distanza, la
degenerazione è fatale, il simbolo muore e degenera in segno. Il simbolo, in questa
ottica, non rinvia a nulla che sia già noto: esso, infatti“[non comprende e non spiega,
ma accenna, al di là di sé stesso, a un senso ancora trascendente, inconcepibile,
oscuramente intuito, che le parole del nostro linguaggio attuale non potrebbero
adeguatamente esprimere” . Il simbolo è una parola, un nome, un’immagine, che, anche
laddove appartiene all’esistenza giornaliera, a noi del tutto familiare, cela al suo interno
delle implicazioni che vanno ad aggiungersi al suo significato sedimentato e
convenzionale. Per Jung “una parola o un'immagine è simbolica quando implica
qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato”77. In questo modo, colui
che tenta di svelare cosa vi sia al di là dell’evidenza fattuale, cosa alberga nell’ignoto, è
fatalmente condotto verso sentieri che stanno al di là della ragione intesa come
razionalità (Io). Gli archetipi, alla luce di ciò, sono più che simboli; essi sono l'essenza
che dà vita al simbolo e sono la potenza che consente al simbolo di perdurare
nell’eternità. Quanto più il simbolo sarà “vivo” e “potente”, più andrà a rappresentare
un elemento essenziale dell’inconscio, e tanto più tale aspetto sarà diffuso, tanto sarà
più universale l’azione del simbolo. Perché ciò accada, esso dovrà “includere” gli
individui mediante materiali che devono risultare facilmente accessibili alla loro psiche,
ossia le voci che si lasciano dietro, e intorno, l’eco primitiva ed eterna degli archetipi;
l’alito ancestrale - potremmo dire - che per millenni il minus ha esalato sulla nuca del
suo prossimo all’interno della scala evolutiva, fino a che l’uomo, con la presa di
coscienza e la comparsa dell’Io, lo ha potuto davvero plasmare, arricchire, riconoscere e
custodire attraverso la complessa totalità del proprio Sé.
Solo se il simbolo abbraccia la natura innata ed immortale dell’archetipo, dunque, e lo
esprime nel modo più profondo ed elevato, può estendere la sua azione a tutti gli
individui, in maniera (pressoché) indistinta. Esso, così, nelle sue molteplici declinazioni
- parole, immagini, narrazioni ecc. - potrà agire servendosi di un’arma potentissima che
si realizza tutti i giorni nella vita psichica di ogni uomo ma che serba dentro di sé un
respiro cosmico e millenario.
76
77
U. GALIMBERTI, La terra senza il male, Feltrinelli Universale Economica, Milano, 2001, pp. 63-64.
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 11.
42
1.5 L’Archetipo come immagine
Non è da intendersi come incidentale, qui, collegata al concetto di archetipo (e dunque
di simbolo) la menzione di “immagine”. Una più fenomenica ed empirica prospettiva
sugli archetipi, infatti, porta al riconoscimento delle immagini come materiali
fondamentali mediante i quali l’inconscio - collettivo e personale - si palesa all’Io
cosciente. In altri termini, secondo tale teoria, gli archetipi si manifesterebbero
essenzialmente attraverso le immagini, le quali assumerebbero anch’esse una base
universale e innata da una parte, e una realizzazione individuale dall’altra.
1.5.1 Hillman e la Psicologia Archetipica
Il teorico principale di tale svolta del concetto di archetipo - nonché di fatto fondatore di
una vera propria “Psicologia Archetipica”78 - è James Hillman. Non è questa la sede per
operare una disamina approfondita dell’opera dello psicologo statunitense, la quale
muove direttamente dalle lezioni di Jung per poi allargare e ridefinire alcuni concetti
chiave del suo maestro, come, per l’appunto quello dell’archetipo, mettendo al centro
del suo pensiero l’idea di “immagine”; ci accontenteremo, dunque, di restituire un
breve estratto sul tema qui trattato. Hillman, nel tentativo di chiarire le peculiarità della
sua psicologia79 afferma: “Per Jung [gli archetipi] trascendono il mondo empirico del
tempo e dello spazio, non avendo di per sé natura fenomenica. Distaccandosi da Jung, la
psicologia archetipica ritiene che l’archetipo sia sempre fenomenico, evitando così
l’idealismo kantiano implicito nel maestro”80. La strada per un tale distacco si sostanzia
78
La psicologia archetipica - la denominazione risale a Hillman (v., Why ‛archetypal' psychology?, 1970)
- si è proposta fin dall'inizio di travalicare l'ambito degli studi psicoterapeutici e delle indagini cliniche
per collocarsi nella cultura dell'immaginazione occidentale. È una psicologia che volutamente si collega
con le arti, la cultura e la storia della società, le quali traggono anch'esse origine dall'immaginazione. Il
termine ‛archetipico' contrapposto al termine ‛analitico', che è la qualifica abituale della psicologia
junghiana, è stato scelto non soltanto perché rifletteva gli approfondimenti teorici dell'ultimo Jung, che
tenta di risolvere i problemi psicologici andando oltre i modelli scientifici, ma, e soprattutto, perché ciò
che è ‛archetipico' appartiene a tutta la cultura, a tutte le forme dell'attività umana, e non esclusivamente
ai professionisti della moderna terapeutica.” J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, Enciclopedia del ‘900,
vol V, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1981.
79
É con questi termini che Thomas Moore, in una raccolta di saggi di Hillman da lui curata intitolata
“Fuochi Blu”, introduce alla particolare visione della psiche dello psicologo statunitense: “La psicologia
archetipica non è una psicologia degli archetipi. La sua attività primaria non consiste nel far corrispondere
temi della mitologia e dell’arte ad analoghi temi della vita. L’idea è piuttosto di vedere come mito e come
poesia ogni frammento della vita e ogni sogno.”J. HILLMAN, T. MOORE (a cura di), Fuochi Blu,
Adelphi Editore, Milano, 1996, p. 380.
80
J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, cit., p. 813.
43
nel concepire la base della mente come base poetica81 e il suo linguaggio come
linguaggio metaforico. Jung, in realtà aveva già affermato che la psiche fosse
immagine82, senza però trarne tutte le implicite conseguenze. Per Hillman, invece, gli
archetipi si presentano in origine nella nostra psiche come immagini, le quali vengono a
costituire“ il materiale stesso che costituisce la nostra anima, gli unici dati che si
presentano direttamente. Ogni altra cosa - il mondo, gli altri, il nostro corpo - sono
mediati alla coscienza da questo fattore poetico ancestrale, l’immagine.” E ancora:
“Tutto ciò che diciamo sul mondo, sugli altri, sul nostro corpo è influenzato da queste
fantastiche immagini archetipiche. Ci sono Dei, dèmoni ed eroi nelle nostre percezioni,
nei sentimenti, nelle idee e nelle azioni, e queste persone della fantasia determinano il
nostro modo di vedere, di sentire, di pensare e di comportarsi, tutta l’esistenza è
strutturata dall’immaginazione. Questo conduce ad una psicologia archetipica; la
riflessione su quei fattori soggettivi della fantasia che persistono sempre, il riconoscere
le immagini e il loro continuo operare in tutte le nostre realtà”83. Il portato di tali
affermazioni spinge a concludere che se gli archetipi sono immagini e la “base
archetipica” della mente è metaforica e poetica, allora non si può trascendere
l’immagine in sé (come invece sostiene Jung); essa verrà a costituire, piuttosto, il dato
primario dell’intera psiche. È per questo motivo che la psicologia archetipica, come lo
stesso Hillman evidenzia, affonda le radici nell’ambito di quella realtà che H.Corbin 84
ha definito mundus archetypalis, mundus imaginalis85, vale a dire “un campo specifico
di realtà immaginali, il quale richiede metodi e facoltà percettive diversi da quelli
richiesti dal mondo spirituale o dal mondo empirico e ingenuo della normale percezione
sensoriale. Il mundus imaginalis offre una modalità ontologica di collocazione degli
81
La nozione di ‛base poetica della mente' si ritrova per la prima volta in Hillman (v.,Re-visioning,
1975, p. XI); con essa si intende che la psicologia archetipica ‟non ha il suo inizio nella fisiologia del
cervello o nella struttura del linguaggio o nell'organizzazione della società e nemmeno nell'analisi del
comportamento, ma nei processi dell'immaginazione. Il rapporto intrinseco che esiste tra la psicologia e
l'immaginazione culturale è richiesto imperativamente dalla natura della mente. L'approccio più fecondo
allo studio della mente è quindi quello che si rivolge alle sue più alte risposte immaginali, quelle in cui
più piena è la liberazione e l'elaborazione delle immagini. Hough, G., Poetry and the anima, in ‟Spring",
1973, p. 85.
82
“Ogni processo psichico è un'immagine e un ‛immaginare', altrimenti non potrebbe esistere nessuna
coscienza" (v. Jung, C. W.,XI, § 899).
83
J.HILLMAN, Il Pandemonio delle immagini, in “Testimonianze”, nn. 227-228, 1980, p. 80.
84
Corbin può essere considerato, dopo Jung, una sorta di “secondo padre” della psicologia archetipica. Lo
studioso, filosofo e mistico francese (Parigi 1903-1978) è noto in ambito accademico soprattutto per le
sue interpretazioni del pensiero islamico. Tra altri precursori “naturali” del pensiero di Hillman
ritroviamo Plotino, Marsilio Ficino e Giambattista Vico.
85 H. CORBIN, En Islam iranien, vol. 4, Paris 1971.
44
archetipi della psiche, che risultano essere strutture fondamentali dell’immaginazione, o
fenomeni fondamentalmente immaginativi”86. Per Corbin l’archetipo, presentandosi
innanzitutto come immagine, è accessibile primariamente all'immaginazione; ciò sta a
significare un fatto decisivo, ovvero che l'intera procedura della psicologia archetipica
come metodo è immaginativa. La sua esposizione deve avere un carattere retorico e
poetico, il suo ragionamento una natura non logica, e il suo fine terapeutico deve essere
teso a ricondurre il paziente alla propria realtà immaginale attraverso la “coltivazione”
dell'immaginazione nel paziente stesso.
Nella psicologia archetipica, il termine “immagine” riferisce, inoltre, ad una “immagine
consecutiva”, cioè al prodotto del sentire e del percepire; ed essa non va nemmeno a
configurarsi come un costrutto mentale che rappresenta in forma simbolica sentimenti e
concetti. L’immagine, infatti, non ha alcun referente oltre a sé stessa, né esterno, né di
tipo semantico: “le immagini non significano niente”; esse vanno a costituire la mente
stessa nella sua “visibilità immaginativa”; in quanto dato primario – “atomo” verrebbe
da dire – della psiche, l’immagine è irriducibile”
87
. L’estensione del concetto di
immagine, alla base della disciplina fondata da Hillman, riguarda la totalità del mondo,
o, sarebbe più corretto affermare, la pluralità dei mondi. Nell’attività di immaginazione
così, “non siamo noi che immaginiamo, bensì siamo immaginati”88. A partire
dall’immagine archetipica si può, dunque, immaginare il mondo in quanto si è
immaginati come pluralità del mondo e pluralità dei mondi: “Un’immagine archetipica
funziona come il significato originario dell’idea (l’eidos e l’eidolon greci), si presenta
quindi non come ciò che vediamo, ma come ciò per mezzo del quale vediamo. Le
immagini archetipiche si manifestano perciò tanto nell’atto del vedere quanto
nell’oggetto visto: esse appaiono nella coscienza come la fantasia dominante in virtù
della quale diventa possibile il sorgere stesso della coscienza”.89
Sebbene ogni immagine vada sempre presa in considerazione come un evento unico e
individualizzato, un'immagine archetipica è universale perché, proprio come accade per
il concetto originario di archetipo,
essa ha una risonanza collettiva. Grazie alle
immagini archetipiche, i fenomeni naturali presentano un volto che parla direttamente
86
J.HILLMAN, Psicologia Archetipica, cit., p. 814.
Ivi, p. 814.
88
Ivi, p. 815.
89
Ivi, p. 817
87
45
all'anima immaginativa, in maniera “fattiva”, senza schermi di natura spirituale o
idealistica. Pare evidente come tali affermazioni costituiscono una “radicalizzazione”
del concetto di archetipo sull’immagine, e, prima ancora, sui processi immaginativi tout
court90.
1.5.2 La tassonomia di Durand
Se, come abbiamo testé accennato, la Psicologia Archetipica dà la priorità alla
configurazione sulla singola molecola - l’immagine - e considera sempre anche gli
eventi particolari come “universali immaginistici”, allora non sarebbe affatto un azzardo
intellettuale concepire anche il campo dell’immaginario primordialmente ordinato in
regioni, temi, filoni e motivi tipici che si dipanano, a loro volta, seguendo modelli
fondamentali insiti nella psiche umana in quanto tale. Gilbert Durand, con la sua opera
“Le structures anthropologiques de l’imaginaire”91, spingendosi sulla strada già tracciata
in precedenza da Bachelard - e il suo “Centre de Recherches sur l'Imaginaire” di
Chambéry - ha iniziato il disegno di una vera e propria “mappa dell'organizzazione
dell'immaginario”, visto, quest’ultimo, come la base dell'antropologia culturale, della
sociologia, della storia delle religioni e addirittura come base per la comprensione dei
processi immaginativi nella specie umana.
.
Ma per meglio comprendere l’idea che risiede, in filigrana, dietro tale disegno è
necessario partire dalle concezioni che Durand ha su quelli che vengono a rappresentare
i “mattoni” che compongono l’immaginario stesso, ossia le immagini. Così come
Hillman, anche l’antropologo francese - intellettualmente vicino alla tradizione di Jung,
Corbin, e a quella dello stesso Bachelard, più volte citati all’interno della sua opera pone al vertice delle sue teorie il concetto di immagine e profonde tutti i suoi sforzi per
innalzarne la il valore e la considerazione presso gli studiosi delle scienze umane (e non
solo).
Durand, apre il suo libro proprio con una critica al pensiero occidentale circa lo
90
Il ‘900, in realtà, può definirsi “il secolo dell’immagine” poiché numerosi e importanti sono stati gli
studi, collegati a filoni diversi, che hanno posto l’immagine al centro dell’universo-uomo. In riferimento
all’Estetica e alla Storia dell’Arte, per esempio, sono stati decisivi e illuminanti gli apporti di autorevoli
studiosi: solo per fare alcuni nomi citiamo Ernst Cassirer, Erwin Panofsky e Aby Warburg, quest’ultimo
fondatore del pioneristico “Warburg Institute”, una biblioteca “per immagini” attualmente aggregata
all’Università di Londra, i cui materiali seguono una catalogazione volutamente rizomatica e
multidisciplinare.
91
G. DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire trad. it., Le strutture antropologiche
dell’immaginario, introduzione all’archetipologia generale, Edizioni Dedalo, Bari, 2009.
46
“statuto” dell’immagine, nonché alla filosofia di stampo francese e alla psicologia in
generale, ree di aver costantemente svalutato, da una parte l’immagine dal punto di vista
ontologico, e, dall’altra, l’immaginazione in un contesto prettamente psicologico,
facendola assurgere alla parte più “povera” e trascurabile della mente (o, per dirla con
Durand, alla “matta di casa”92) . Per Brunschvicg, per esempio, ogni immaginazione,
anche quella platonica di cui sopra, “è un peccato contro lo spirito”93 mentre, per la
psicologia classica, l’immaginazione è ridotta a quella sfera ancora “acerba”, al di qua
della sensazione, che prende in nome di immagine persistente o consecutiva. A questa
posizione aderisce anche Alain, che definisce l’immaginario come “l’infanzia della
coscienza”94, laddove per Sartre, in una visione marcatamente metafisica, l’immaginario
non è che il mero portato della vacuità essenziale della coscienza umana.95
Secondo Durand tali posizioni tendono ad un monismo, ora meccanicistico, ora
nullificante della coscienza psicologica, riducendo l’immaginazione a flebile percezione
o a semplice specchio dei fenomeni psichici e l’immaginario ad una “illustrazione
didattica”96. Riprendendo il discorso di Bachelard, l’autore delle “Structure
antropologiques...”, afferma: “l’immaginazione è dinamismo organizzatore, e questo
dinamismo organizzatore è fattore di omogeneità nella rappresentazione. […] ben lungi
dall’essere facoltà di formare immagini, l’immagine è potenza dinamica che deforma le
copie pragmatiche fornite dalla percezione. E tale dinamismo riformatore delle
sensazioni diventa il fondamento dell’intera vita psichica, perché le leggi della
rappresentazione sono omogenee”97. Per Durand è essenziale comprendere come nel
simbolo costitutivo dell’immagine regna un’omogeneità di fondo tra significante e
significato, proprio in seno al dinamismo di cui sopra, e che dunque l’immagine esula
completamente dalla dimensione di arbitrarietà del segno, innalzandosi a elemento
fondamentale della psiche a sé stante. Ciò porta alla “estrema” conclusione che il
pensiero non ha altro contenuto che le immagini stesse. Così lo stesso antropologo
92
Ivi, p. 15.
L.BRUNSCHVICG, Héritage de mots, héritage d’idées, PUF, Paris, 1945, p. 98.
94 Émile-Auguste Chartier (ALAIN) Vingt leçons sur les beaux arts, 7° edizione Hartmann, Paris 1943,
pp. 89-90.
95
Non a caso Durand giudica come banale e riduttivo l’epilogo che lo scrittore e filosofo esistenzialista
francese sceglie per concludere il suo studio sull’immaginario; esso recita: “Questa coscienza libera […]
che supera il reale in ogni istante, che cos’è in effetti, se non semplicemente la coscienza tal quale essa si
rivela a se stessa nel cogito?” J.-P. SARTRE, L'Imaginaire, Paris, Gallimard, 1940, coll. Folio/Essais,
1986, p .236.
96
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 22.
97
Ivi, p. 26.
93
47
francese: “È di capitale importanza notare che nel linguaggio, se la scelta del segno è
insignificante perché quest’ultimo è arbitrario, non altrettanto accade nel campo
dell’immaginazione, dove l’immagine - per quanto degradata la si possa concepire - è in
se stessa portatrice di un senso che non deve essere ricercato al di fuori della
significazione immaginaria […] L’analogon che costituisce l’immagine non è mai un
segno arbitrariamente scelto, ma è sempre intrinsecamente motivato, e cioè è sempre
simbolo”98.99 A parere di Durand il “peccato originale” che sta dietro a pensatori come
Husserl, Bergson e Sartre risiede nell’aver confuso l’immagine con la parola, ossia un
simbolo colmo di significato con un segno arbitrario, in altre termini, il dato primario
della mente con un quasi-oggetto che esprime piuttosto la degradazione del pensiero,
perpetuando, in questo modo, un’opera di eccessiva semplificazione, svalutazione ed
“emarginazione” dell’immagine stessa che risulta ingiustificata e cieca agli occhi
dell’autore francese. Si colloca in questo filone, il pensiero dello stesso Freud e dei suoi
seguaci, secondo i quali l’immaginazione non sarebbe nient’altro che l’esito di un
conflitto tra le pulsioni dell’individuo e la loro rimozione sociale. Durand contrasta con
vigore tale concezione notando come l’immagine sia, piuttosto, il prodotto di una
mediazione tra i desideri e gli oggetti dell’ambiente sociale, e come essa sia scaturita da
meccanismi di disinibizione invece che di rimozione (“le immagini non valgono per le
radici libidinose che nascondono, ma per i fiori poetici e mitici che rivelano”100).
Sull’importanza e il dinamismo delle immagini psichiche Durand cita ancora Bachelard,
secondo il quale “i simboli non devono essere giudicati dal punto di vista della forma
[…] ma dalla loro forza”, evidenziando come l’immagina letteraria sia “più viva di ogni
disegno perché trascende la forma ed è movimento senza materia”101. Si viene a
configurare così una maniera cinematica di considerare un possibile schema
classificatorio dei simboli (che è, lo ricordiamo, il fine principale di Durand). Secondo
lo psicologo svizzero Charles Baudouin “la costanza degli archetipi non è rappresentata
98
Ivi, pp. 24-25.
Per Durand questo discorso porta ad un’ulteriore conseguenza, evidenziata in queste righe: “Ora,
respingere per l’immaginario il primo principio saussuriano dell’arbitrarietà del segno determina il rifiuto
del secondo principio, quello della “linearità del significante”. Il simbolo, avendo perso la natura
linguistica, non si svolge più in una sola dimensione. Le motivazioni che strutturano i simboli, più che
lunghe catene di ragioni, non formano più neppure una ‘catena’. L’esplicazione lineare, del tipo
deduzione logica o narrazione introspettiva non serve più allo studio delle motivazioni simboliche
100
Ivi, p. 37.
101
G. BACHELARD, L’eau et le rêve, Corti, Paris, 1942 p.161; trad. it., Psicanalisi delle acque, Red,
Como 1987 p. 177.
99
48
da un punto nello spazio immaginario, ma da una direzione, [pertanto] in tali realtà
dinamiche vanno ricercate le categorie del pensiero”102, mentre è un altro psicologo,
Desoille, a parlare di “immagini motorie”103 e unirle ai modi di rappresentazione visivi e
verbali. Durand, a tal proposito, nota come le due dominanti riflesse nel bambino
umano, quella posturale (riflessi inerenti alla posizione del corpo legati a processi
sopra-segmentali collegati al sistema extra-piramidale) e quella di nutrizione (riflessi di
suzione labbiale e di corrispondente orientamento della testa), a cui si aggiunge quella
ritmica (legata ai gesti ciclici e alla sessualità), abbiano un’importanza fondamentale per
lo sviluppo della sfera immaginativa e simbolica dell’individuo. Posta dunque una
“stretta e accertata concomitanza tra i gesti del corpo, i centri nervosi e le
rappresentazioni simboliche”104, è proprio da questa dimensione di movimento e di
“fisicità” che Durand parte per delineare la sua classificazione dei simboli.
Innanzitutto egli li divide in schemi; uno schema è “una generalizzazione dinamica e
affettiva dell’immagine, esso costituisce la fattività e la non-sostantività generale
dell’immaginario” e tende a collegare tra loro non l’immagine e il concetto (come vuole
la concezione classica kantiana), bensì le rappresentazioni con i gesti inconsci sensomotori e le dominanti riflesse. Secondo Durand sono proprio questi schemi, questi
“tragitti incarnati in rappresentazioni concrete e precise”105, a costituire l’ossatura
dinamica dell’immaginazione. In questo modo, “al gesto dell’inghiottimento
corrisponde lo schema della discesa quello del rannicchia mento nell’intimità” mentre, a
sua volta, “lo schema del rannicchiamento genera tutti gli archetipi del grembo e
dell’intimità […] e agli schemi dell’ascensione corrispondono immutabilmente gli
archetipi della sommità, del capo, del lume, mentre gli schemi diairetici si sostanziano
in costanti archetipiche come la spada, il rituale battesimale ecc.”106 Durand poggia, in
tal modo, la sua classificazione sull’isomorfismo degli schemi, degli archetipi e dei
simboli e li raggruppa intorno a modelli sovraordinati - “macroschemi” potremmo dire
- che egli definisce strutture. Per struttura si intende qui non un assetto statico e
irrigidito di tali simboli ma, al contrario, un ordinamento cangiante e trasformatore; le
102
C. BAUDOUIN, De l’instinct à l’esprit, Desclée de Brouwer, Bruges 1950, pp. 60, 63, 197; trad. it,
Dall’istinto allo spirito, Angeli, Milano, 1976.
103
R. DESOILLE, L’exploration de l’affectivité subconsciente, Libraire Bernard Maille, Paris, 1938, p.
65.
104
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 51.
105
Ivi, pp. 60-61.
106
Ivi, p. 63.
49
conseguenze evidenti di questo tipo di discorso risiedono nel fatto che tali modelli, da
una parte sono da concepire dinamici - nel senso che sono soggetti a modificazioni al
variare di uno dei loro termini - e, dall’altra, vanno a costituire modelli tassonomici,
agevolmente adottabili per la classificazione. Essi, poiché in qualche modo “malleabili”,
possono servire inoltre a modificare il campo dell’immaginario. A loro volta poi,
raggruppate in aree determinate, queste strutture contigue vanno a definire per Durand il
“regime dell’immaginario”
classificazione
a
107
metà
, ovvero le macrodimensioni generali che dividono la
(come
vedremo
meglio
tra
breve).
Per Durand il simbolo non è mai aprioristicamente dato ma costituisce piuttosto “il
prodotto degli imperativi biopsichici attraverso le intimazioni dell’ambiente”108. Ciò
significa che esso è il portato sia delle singole individualità – intese come persone
dotate di una psiche, ma anche di un soma – e sia dei particolari contesti in cui esse si
trovano ad agire. Così, gli assi fondamentali dell’immaginazione vengono a configurarsi
come “tragitti antropologici”, laddove per questa espressione si vuol intendere, da un
lato, il tragitto dei principali gesti che l’essere umano fa verso il suo ambiente naturale
e, al contempo e in maniera del tutto reversibile, quello degli effetti visibili all’interno
dell’ambiente stesso. Quest’ultimi, a loro volta, possono andare a ritroso nella direzione
del comportamento umano. Durand definisce il tragitto antropologico come
“l’incessante scambio che esiste, a livello dell’immaginario, tra le pulsioni soggettive e
assimilatrici e le intimazioni oggettive provenienti dall’ambiente cosmico e
sociale“109.110
È evidenziata, in questo modo, una stretta connessione tra gesto e ambiente,
connessione nella quale si inscrive la stessa produzione del simbolo. Bachelard, a tal
proposito afferma: “Alla descrizione puramente cinematica di un movimento […]
bisogna sempre aggiungere la considerazione dinamica della materia in cui opera il
movimento”111ribadendo una sorta di genesi reciproca tra le due dimensioni.
L’immaginario viene a delinearsi, pertanto, in quel tragitto in cui da una parte, la
rappresentazione dell’oggetto si modella sulle caratteristiche, sulle dotazioni e sulle
107
Ivi, p.66
Ivi, p. 39.
109
Ivi, p. 38.
110
Per dirla con Durand: “ogni gesto chiama la propria materia estratta, cioè astratta dall’ambiente
cosmico, e qualsiasi arnese o utensile sono le impronte di un gesto superato”. Ivi, p. 39.
111
G. BACHELARD, Psicanalisi delle acque, cit., p. 301.
108
50
pulsioni del soggetto e, dall’altra, in maniera reciproca, le rappresentazioni soggettive
vengono declinate in base agli “accomodamenti anteriori del soggetto”112 all’ambiente
oggettivo.
Ma se per Durand il simbolo è costitutivo di un accordo e di un “equilibrio tra i desideri
imperativi del soggetto e le intimazioni dell’ambiente oggettivo”113, esso non deve
trarre nel facile tranello di una affrettata – ed infondata – sistematizzazione delle
tipologie delle immagini con il genere sessuale, il comportamento pragmatico e il
carattere del singolo individuo che le produce. Durand, in accordo con Jung sul concetto
di “animus” e “anima”114 - sui quali ci soffermeremo nei prossimi paragrafi - , sostiene
che ogni uomo abbia in sé potenzialità rappresentative femminilizzanti, così come ogni
donna possiede un “occhio maschile” col quale guardare l’universo. Data l’esistenza di
tali meccanismi di inversione, quindi, la virilità e la femminilità in relazione
rappresentazione dei simboli nella psiche umana, divengono in questo modo concetti
sfumati e piuttosto relativi. Così come è altrettanto sfumata e relativa la correlazione che
intercorre tra il carattere dell’individuo e il contenuto delle sue rappresentazioni; queste
infatti, sia intese a livello immaginario, onirico che artistico, possono sensibilmente
differire dal comportamento generale della personalità dalla quale scaturiscono, così che
“anche un personaggio da ‘quattro soldi’ può vantare un’immaginazione da centomila
franchi”115.116
A screditare una tesi “sessista” alla costituzione dell’attività rappresentativa è anche il
fatto stesso che la femminilità, al pari della virilità, trova posto in tutti i regimi
dell’immaginario inerenti alla classificazione dell’antropologo francese, così come è
altrettanto vero che “l’immaginazione umana sembra vergine rispetto a ogni
predeterminazione categoriale, sicché si può parlare, al di là delle intimazioni del
carattere o del sesso, di un’universalità dell’immaginario smentita soltanto
dall’eccezione patologica, dove l’immaginazione sembra bloccata in questa o in quella
112
J. PIAGET, La formation du symbole chez l’enfant, Delachaux et Neiestlé, Paris 1945 cit., p. 219 trad.
it., Formazione del simbolo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1972
113
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p.488.
114
Cfr. par. 7 del presente capitolo.
115
Ivi, p. 472.
116
Così Durand sulla questione della personalità: “se si ammette con Jaspers che la psicosi di cui soffre
van Gogh è schizofrenica, tutta l’opera del pittore smentisce i caratteri psicologici di tale psicosi,
costituendo un modello di immagini mistiche.” E ancora: “la musica di Bach, contraddistinta da un sereno
misticismo, fu scritta da un funzionario buontempone, collerico, amante della buona tavola, mentre le
opere più terrificanti di Goya furono incise o dipinte proprio nel momento in cui l’artista aveva vinto
l’angoscia nevrastenica”. Ivi, pp.471-472.
51
struttura esclusiva.” Secondo Durand le variabili che entrano in gioco in merito
all’aspetto immaginifico della psiche – a cui spesso è richiamato il concetto di “anima”
– sono da ricercare, non tanto, quindi, nel genere sessuale e nel tipo di carattere
appartenente alla singola persona, quanto nelle ideologie, nei costumi, nelle usanze, e in
generale nelle pressioni sociali, culturali e storiche cui l’individuo è sottoposto in una
determinata epoca, laddove per pressione si intende quella evenemenziale – cioè del
singolo avvenimento - delle ideologie, legata, appunto, ad un dato momento di una data
civiltà (Durand, a tal proposito, preferisce il termine “pedagogia” a quello di “storia”).
Molti, d’altronde, tra le fila degli stessi storici e filosofi della storia, ma anche studiosi
di estetica, convengono nell’attribuire determinati regimi dell’immaginario ad una
particolare fase culturale e nel constatare come specifici archetipi si estendano a
macchia d’olio in una data epoca, nella coscienza di un dato gruppo sociale. Essendo il
meccanismo di funzionamento della “pressione pedagogica” essenzialmente “in
negativo”, le forme, i miti e le immagini dominanti in una certa congiuntura spaziotemporale e sociale rifiuterebbero le rappresentazioni fantastiche estranee al loro
regime.117 Così, “il geometrismo astratto dell’iconografia dei primitivi sarebbe
l’espressione di un immenso bisogno di tranquillità [le quali emergono] da un uomo
stanco dei terrori procurati dalla natura e dalle costruzioni epiche, esistenziali o
storiche”118, mentre l’arte non figurativa della prima metà del ‘900, dissimile sia rispetto
all’espressionismo, sia al realismo, altro non è che il tentativo di “strappare ogni oggetto
particolare esterno al suo carattere arbitrario […] nell’eternarlo appaiandolo a forme
astratte e nello scoprire in questo modo un punto di arresto nella fuga dei fenomeni”119.
In ultima analisi, la Storia, per Durand, non sarebbe nient’altro che una grande
realizzazione simbolica delle aspirazioni archetipiche frustrate, provenienti dalle
generazioni precedenti. In questo modo le proiezioni immaginarie e mitiche
prenderebbero poco a poco forma in imitazioni e stili di vita che si codificherebbero in
sistemi pedagogici stabili e socializzati i quali, a loro volta, andrebbero a frustrare i
regimi archetipici differenti da quelli “in vigore”. Sono quelle che Durand stesso
definisce “le sistoli e le diastoli della storia”120, le quali, secondo l’autore, sono
117
Ivi p. 476.
Ivi p.477.
119
K. WORRINGER, Abstraktion und Einfühlung, cit., pp. 18-20; trad. it. Astrazione e empatia, Einaudi,
Torino 1975
120
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 389.
118
52
determinate dagli archetipi, e non viceversa. Conclusione questa, che porta al rifiuto di
ogni spiegazione di tipo storico o evoluzionista delle immagini e dei miti. Per dirla con
Durand “ben lontano dall’essere un prodotto della storia, è il mito che vivifica, con il
suo fluire, l’immaginazione storica e struttura le concezioni stesse della storia. In tutte le
epoche e sotto tutte le incidenze storiche si ritrovano, l’uno di fronte all’altro, i grandi
regimi antinomici dell’immagine. Solo il contesto sociologico collabora al
modellamento degli archetipi in simboli e costituisce la derivazione pedagogica.”121
L’universalità degli archetipi e degli schemi secondo Durand, - in accordo col pensiero
di Jung - non implica direttamente quella dei simboli specifici, bensì è la pressione
sociologica costante a specificare di volta in volta, mediante i segni ben differenziati del
linguaggio, il simbolismo dell’archetipo e dello schema universale. Ciò spiega
l’impossibilità di una traducibilità completa di un’espressione da una lingua all’altra, a
fronte di una sempre possibile trasposizione basata sul semantismo dei mitemi.
In conclusione, secondo l’antropologo francese la storia non può spiegare il contenuto
mentale dell’archetipo in quanto, essendo con quest’ultimo, come accennato poco sopra,
in un rapporto di dipendenza e subalternità, essa stessa entra nell’ambito
dell’immaginario.122Torna così come preminente, rispetto sia alle pressioni storiche, sia
alle differenziazioni in base al sesso e alla personalità della persona, il concetto di
“tragitto antropologico” precedentemente enucleato. Durand conclude affermando che
esso, esprimendo in maniera più intima possibile il rapporto tra l’uomo e il suo
ambiente, fonda una generalità comprensiva che nessun’altra spiegazione può
totalmente coniare, assurgendo in questo modo a variabile principale nei processi
psichici che sottendono all’immaginazione. I tre grandi gesti delle riflessologia, infatti,
svolgono e orientano la rappresentazione simbolica verso categorie preferenziali ben più
sensate rispetto a quelle troppo rigide e razionalizzate legate agli elementi della natura
(quelle, ad esempio, che ha utilizzato Bachelard con le sue psicanalisi delle acque, del
fuoco, della terra, e dell’aria). È così che il primo gesto, la dominante posturale, richiede
da una parte, materie luminose e splendenti, e, dall’altra attività di purificazione e di
separazione di cui le spade, le frecce, le armi sono i simboli più frequenti; il secondo
121
Ivi p. 483.
“In ogni fase storica, l’immaginazione è presente per intero, in una duplice e antagonistica
motivazione: pedagogia dell’imitazione, dell’imperialismo delle immagini e degli archetipi tollerati
dall’ambiente sociale, ma anche fantasie avverse della rivolta, dovute alla rimozione di questo o di quel
regime dell’immagine da parte del contesto e del momento storico. Ivi, p. 484.
122
53
gesto, legato alla discesa digestiva, esige le materia del bere, del cibarsi e della
profondità (simbolizzata attraverso l’acqua, le caverne ecc.) e le entità contenenti quali
coppe, cofani, uova ecc.; infine i gesti ritmici vanno ad estrinsecarsi nei ritmi stagionali,
nei cicli (attraverso la rappresentazione della ruota, del cerchio, della zangola ecc.) fino
a sconfinare nei simboli legati alla ritmicità sessuale. Il piano dell’opera di Durand,
però, oltre a fondarsi su tale tripartizione riflessologica, si declina, come accennato in
precedenza, in due grandi regimi del simbolismo - intrecciati alle tre dimensioni testé
descritte - i quali danno vita, a loro volta, a specifici gruppi di schemi, archetipi e
simboli: si tratta del “regime diurno dell’immagine” e del “regime notturno”. Il primo
concerne la dominante posturale, la tecnologia delle armi, la sociologia del sovrano
mago e guerriero, i rituali della purificazione e dell’elevazione; il regime notturno,
invece, si ricollega sia alla dominante digestiva che a quella ciclica, la prima delle quali
comprende le tecniche dell’ambiente e del contenente, i valori digestivi e alimentari, la
nutrizione e la sociologia matriarcale; la seconda, invece, si rifà alle tecniche del ciclo,
del calendario agricolo e astrologico, ai simboli del ritorno e ai miti.
Affrontiamo ora nel dettaglio – ma allo stesso tempo servendoci di “filtro” espositivo
necessariamente sintetico, vista la gran mole di citazioni e approfondimenti
pluridisciplinari che permea tutto il testo – la struttura classificatoria dell’opera di
Durand. Essa, come detto, va ad articolarsi innanzitutto in regimi e, ad un livello
successivo, in “costellazioni”, ovvero insiemi di simboli, schemi ed archetipi tra i quali
intercorre un isomorfismo di base che li rende tra loro coerenti e omologhi attraverso un
principio di convergenza (piuttosto, come afferma lo stesso Durand, che di analogia). È
su queste basi metodologiche che l’autore dispiega quello che potremmo definire il suo
“bestiario universale”. Esso cova in sé l’ambizione, non del tutto disattesa, di
racchiudere tutto lo “scibile immaginativo” umano, andando a costruire un’enciclopedia
del simbolo che, per coerenza e completezza, risulta essere a tutt’oggi una delle opere
più importanti all’interno di questo filone di studi. La descrizione di un vero “impero
del simbolo”, dunque, come quello descritto da Aniela Jaffé, allieva di Jung, quando
ricorda che: “La storia del simbolismo dimostra che qualsiasi cosa può assumere un
significato simbolico: così gli oggetti naturali (come pietre, piante, animali, esseri
umani, montagne e vallate, il sole e la luna, il vento, l'acqua e il fuoco), come le cose
che sono opera dell'uomo (case, barche, veicoli), e perfino le forme astratte (i numeri, le
54
figure geometriche come il triangolo, il quadrato e il cerchio). In effetti, l'intero cosmo è
un simbolo potenziale”123. Vediamo dunque, nello specifico, il contenuto di tale
categorizzazione.
1.5.2.1 Il regime diurno dell’immagine
Siccome “si può dire che non c’è luce senza tenebre mentre il contrario non è vero, dal
momento che la notte ha un’esistenza simbolica autonoma”124, è possibile definire il
regime diurno dell’immagine come un regime dal carattere sostanzialmente antitetico.
Esso, si dispiega in due parti: la prima (della quale fanno parte i simboli “teriomorfi”,
“nictomorfi” e “catamorfi”), afferente alla dimensione dell’oscurità, della profondità,
della pesantezza, della solitudine, del mistero e dell’inquietudine; la seconda (ovvero i
simboli “ascensionali”, “spettacolari” e “diairetici”) che in maniera antitetica si
ricollega piuttosto alla luce, allo splendore, al sole, alla purezza, alla grandezza, al
divino.
Simboli teriomorfi
I simboli teriomorfi sono animali - reali o fantastici - che ricorrono in iconografie e
narrazioni sin dalla notte dei tempi, ossia da quando l’uomo li raffigurava sulle pareti
delle caverne con il duplice scopo di raffigurare la loro quotidianità ed esorcizzare il
pericolo derivante dalle bestie. Ad essi sono ricollegabili diversi simbolismi quali la
forza, la virilità, la bestialità, “l’angoscia dinanzi al mutamento”125, l’incubo notturno, la
fuga del tempo, il viaggio verso il regno dei morti, il complesso di Edipo ecc. Tra questi
ritroviamo il toro, la Sfinge, il pesce, il lupo, il cavallo, il topo, la salamandra, l’uccello,
la lepre, la vacca, la vipera, il cane, il ragno, il verme, ecc. ecc.
Simboli nictomorfi
Sono le immagini che rimandano alla morte, all’oscurità, alle tenebre, all’angoscia,
all’annegamento, alla depressione, all’indolenza, al caos, all’impurità, al rumore, al
123
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 191.
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 69.
125
Ivi p. 79.
124
55
demoniaco, al satanico, al terrificante, al legame inteso come costrizione e come
trappola mortale.
Tra i simboli con maggiore occorrenza troviamo: l’acqua ostile, sporca, contaminata, i
fiumi e gli stagni infernali, le lacrime, il sangue mestruale, la capigliatura femminile, lo
specchio scuro, il riflesso sinistro di se stessi, la luna funesta, la trappola e la morsa del
ragno, della piovra, della donna fatale, della maga ecc. ecc.
Simboli catamorfi
I simboli catamorfi sono quelli legati alla caduta (intesa come preludio alla morte), alla
discesa che comporta la visione di scene infernali, alla vertigine, alla pesantezza, allo
schiacciamento. Essi vengono a configurarsi come elementi moralizzati dal momento
che
rappresentano la punizione del tempo nefasto e mortale. La caduta, spesso
femminilizzata, diviene così l’emblema dei peccati di collera, gelosia, idolatria,
fornicazione, omicidio ecc. e soprattutto dei peccati della carne.
I simboli ricorrenti sono: la regressione verso il basso, la fogna, il labirinto, la bocca
dentata, l’intestino, il sesso femminile, le immagini digestive, anali ecc. ecc.
Simboli ascensionali
Questa costellazione è collegata al volo, all’elevazione, all’erezione, al sollevamento,
all’immortalità dell’ascensione, all’ingrandimento, alla potenza, alla virilità, alle
elevazioni monarchiche e divine, all’ascetismo, alla verticalità, al viaggio verso un
luogo elevato, verso uno spazio metafisico e verso un “al di là del tempo”126. I simboli
ricorrenti sono: l’atto del volare, gli uccelli, le ali, le piume, i promontori, le montagne
sacre, i betili, le rocce, le scale (anche astronomiche), l’arco, la freccia, lo scettro, il
trono, l’altare, il fallo, il cranio umano e animale, le corna ecc. ecc.
Simboli spettacolari
In opposizione ai simboli nictomorfi, quelli spettacolari, da una parte riferiscono a tutto
ciò che riguarda la luce, l’illuminazione, l’abbaglio, lo splendore divino benefico, e,
dall’altra, rimandano all’occhio come organo supremo della visione, il quale consente,
di fatto, la loro stessa presenza.
126
Ivi p. 173.
56
I simboli più ricorrenti sono quelli del raggio, dell’aura di luce, dell’aureola, dei colori
caldi (soprattutto il rosso, il giallo, l’oro, il celeste), del sole, delle altre fonti di luce
come il faro e la lampada, dei capelli e delle barbe bianche, e dell’occhio come visione
fenomenologica e trascendenza divina.
Simboli diairetici
I simboli diairetici rimandano alla divisione, al taglio, alla fenditura, alla recisione, allo
squarcio, ma anche alla purezza, alla limpidezza, alla purificazione, nonché alla
separazione tra il maschile e il femminile attraverso pratiche come la circoncisione
(intesa come “cerimonia di diairesi catartica”127), quella tra l’uomo primitivo e
intellettuale, e infine tra la dimensione immanente e quella trascendente.
Ritroviamo, quindi, la spada, le lame, i coltelli e tutte le armi taglienti e/o aguzze per
quanto riguarda il carattere offensivo, mentre, per ciò che concerne quello difensivo,
prevalgono bastoni, fossati, mura, corazze e scudi. Il fuoco, la fiamma purificatrice,
l’acqua e l’aria limpide e fresche, i detersivi e i saponi, vanno a collocarsi invece
nell’isomorfismo della purificazione, dell’evoluzione intellettuale dell’uomo e del
mondo metafisico.
1.5.2.2 Il regime notturno dell’immagine
Il regime notturno dell’immagine viene a configurarsi come “contraltare fisiologico” del
regime diurno. Senza di esso, infatti, si correrebbe il rischio di cadere nell’unilateralità e
nella vacuità assoluta
128
, perdendo di mira l’insegnamento platonico del discendere
nella caverna, “raccogliere” a piene mani la pasta della nostra condizione mortale e fare,
per quanto ci è possibile, un buon uso del tempo. Eros e Chronos sono gli déi che
idealmente governano questo regime, il quale si pone sotto il segno dell’“eufemismo”
da una parte, e della “conversione” dall’altra. Segnatamente il processo di
eufemizzazione si concreta in una vera e propria antifrasi per inversione e
capovolgimento del senso di altre immagini (d’altronde è nelle tenebre che si ricerca la
luce); la conversione, invece, va a collocarsi nel tentativo di scoperta di un fattore di
127
Ivi p. 208.
A tal proposito Durand, con una riflessione di ampio respiro antropologico, sociologico, storico ed
psicologico, afferma come “troppi uomini in questo secolo dell’illuminazione si vedono usurpare il loro
imprescrittibile diritto: il lusso notturno della fantasia” Ivi p.529.
128
57
costanza all’interno della sempiterna fluidità temporale, condensando l’attitudine alla
trascendenza e le “intuizioni immanenti del divenire”129. La notte, qui, diviene promessa
vivificatrice e, insieme, controparte necessaria e imprescindibile del giorno e dell’alba
stessi. In ultima analisi, la conseguenza di questi due processi – soprattutto di quello
legato all’inversione del senso che predispone in sé una sorta di dialettica – fa sì che il
regime notturno dell’immagine induca il simbolismo a organizzarsi in narrazioni
drammatiche o storiche quali miti, leggende ecc. (a questo tema è dedicata una
trattazione a parte all’interno del presente lavoro).
Simboli dell’inversione
Queste costellazioni rimandano non all’ascensione verso la vetta, bensì alla
“penetrazione di un centro”, alle tecniche ascensionali subentrano qui “tecniche di
scavo”130; l’ambiguità si mescola alla profondità, all’abisso rivalutato, alla circolarità.
Essi scaturiscono da un principio di antitesi rispetto ad altri simboli, che va a
rappresentare, di fatto, un loro capovolgimento. Come lo stesso Durand afferma: “il
procedimento risiede essenzialmente nel fatto che mediante il negativo si ricostituisce il
positivo, attraverso una negazione o un atto negativo si distrugge l’effetto di una prima
negatività” e ancora: “l’antifrasi costituisce un’autentica conversione, che trasfigura il
senso e la vocazione delle cose e degli esseri conservando l’ineluttabile destino delle
cose e degli esseri.”131 Tali simboli possono esprimersi attraverso una doppia negazione
(ad esempio un contenente raddoppiato, a sua volta contenuto) oppure attraverso il
rovesciamento degli opposti (è il caso dell’“inversione gulliverizzante” in cui gli esseri
piccolissimi divengono molto potenti proprio per la loro stazza ridotta). In tale ambito i
simboli ricorrenti sono il pesce nel suo habitat marino, le immagini afferenti al culto
della Grande Madre, i folletti, i nani, gli esseri rimpiccioliti ecc. ecc.
Simboli dell’intimità
I simboli dell’intimità riferiscono in primo luogo all’“inversione eufemizzante”132 che
caratterizza i rituali mortuari e di seppellimento, i quali vanno a rappresentare l’antifrasi
129
Ivi, p. 241.
Ivi, p. 245.
131
Ivi p. 250.
132
Ivi p. 293.
130
58
della morte stessa. Collegato all’inversione del senso naturale della morte è
l’isomorfismo sepolcro-culla133che si applica in generale a buona parte degli oggetti e
dei luoghi cavi, riparati, profondi, contenenti, sicuri, intimi, femminilizzati, ma anche ai
fluidi e alle bevande come simboli di suzione segreta e nascosta.
Tra i simboli ricorrenti ritroviamo i sarcofagi, i sepolcri, la cripta, la nicchia, il vello, la
caverna-casa, la dimora sull’acqua, l’incavo, la grotta, il tunnel, il grembo materno,
l’organo femminile. E ancora: i vasi, le scodella, il cucchiaio, la bacinella, la ciotola, la
cinta e le porte chiuse, i bauli, i forzieri, le casseforti, le figure chiuse e quadrate, i cesti,
le cisterne, le vasche, i laghi, i vascelli, la barca, l’automobile, la roulotte, l’aereo, la
conchiglia e tutti gli animali dotati di guscio, le coppe, il vino, il latte ecc. ecc.
Simboli ciclici
Riferiscono al trascorrere e alla rigenerazione reiterata del tempo, alla ciclicità delle
stagioni, alla fruttificazione, alla nascita e alla crescita, al ciclo lunare e vegetale, allo
schema agro lunare sacrificio-morte-sepoltura-resurrezione, al ciclo totale delle
creazioni e delle distruzioni cosmiche, al raddoppiamento e alla ripetizione (nei riti così
come nelle narrazioni), alle pratiche di iniziazione, sacrificio e a quelle mondane ed
orgiastiche: queste simbolizzano l’integrazione col tempo e ritorno ad uno stato
primordiale ed anomico, così come, allo stesso tempo, svelano la promessa di un ordine
futuro. In aggiunta ritroviamo i temi del mutamento (anche di forma), il flusso e del
riflusso della vita, il divenire, il destino, la circolarità come strumento utilitario e, prima
di tutto, come “ingranaggio archetipico essenziale dell’immaginazione umana”.134
Tra i simboli che ricorrono in questa collezione ritoviamo: l’albero, il denaro, il bastone,
il calendario gregoriano e lunare, la luna, i simboli vegetali, i riti iniziatici, sacralizzanti,
le feste e le festività periodiche, il rettile e la sua muta, l’uroboro, il serpente e il drago
come depositare del flusso e del fluire della vita, gli strumenti di tessitura e filatura, la
sfera, il cerchio, la ruota, la svastica, il chakra, le spirali ecc. ecc.
Durand porta così a termine una descrizione realmente fenomenologica dei contenuti
dell’immaginazione, rifiutando – come avevano fatto diversi psicologi, filosofi ecc. – di
133
D’altronde “la mummia, come la crisalide è insieme tomba e culla delle promesse di sopravvivenza”
Ivi p. 293.
134
Ivi, p. 406.
59
separare la coscienza immaginante dalle immagini concrete che la costituiscono a
livello semantico. Egli, nel corso della sua profondissima e meticolosa ricerca, fa
appello alla totalità di quel “tragitto antropologico” di cui sopra, ponendo i tre riflessi
dominanti come fil rouge psicologico di tutto il lavoro. In questo senso l’archetipologia,
data la (quasi) mutua esclusività delle categorie simboliche individuate, andrebbe a
configurarsi come una semplice tipologia. Durand, a tal riguardo, la definisce “un utile
catalogo degli errori dell’immaginazione, un immaginario museo delle immagini, ossia
dei sogni e delle menzogne degli uomini”135. Egli, a conclusione della sua opera,
esprime il personale auspicio di un vero e proprio insegnamento, nel mondo
accademico, dell’archetipologia generale – una sorta “pedagogia dell’immaginazione” affinché alle teorie e i ragionamenti sull’oggetto e sull’oggettività si affianchi lo studio
delle vocazioni della soggettività e della comunicazione dei singoli spiriti136, arrivando
ad augurare il riconoscimento di un “umanesimo planetario”137, il quale non può
esaurirsi nelle solo speculazioni provenienti della scienza ma deve di fatto abbracciare il
“consenso e la comunione archetipica delle anime”. Durand, nelle ultime righe del suo
fortunato libro, assume un tono risolutorio nel definire il concetto di immaginario; esso,
infatti, “Tutt’altro che epifenomeno passivo, annientamento o vana contemplazione di
un passato esaurito […] si è manifestato non solo quale attività che trasforma il mondo,
immaginazione creatrice, ma soprattutto quale trasformazione eufemistica del mondo
[…], disposizione dell’essere agli ordini del meglio. […] L’immaginario, ben lungi
dall’essere vana passione, è azione eufemistica che plasma le cose. Tale è il grande
disegno rivelatoci dalla funzione fantastica”138. E ancora, a ribadire il ruolo
determinante, rigenerante, dinamico e fruttifero del processo immaginativo, egli
afferma: “Soprattutto l’immaginazione è il contrappunto assiologico dell’azione. Ciò
che arricchisce di un peso ontologico il vuoto semiologico dei fenomeni, ciò che
vivifica la rappresentazione e la asseta di realizzazioni: ecco ciò che ha fatto sempre
pensare all’immaginazione come alla facoltà del possibile, al potere di contingenza del
futuro”139.140
135
Ivi pp. 525-526.
Ivi, p. 529.
137
Ivi, p. 530.
138
Ivi pp. 531-532.
139
Ivi, p. 532.
136
60
Ed è proprio da questa consapevolezza della potenza universale dell’immagine, dalla
sua eco ancestrale ma allo stesso tempo in continuo propagarsi – in altre parole dalla sua
“aura archetipica” - che concludiamo il nostro breve discorso sull’immaginario e
sull’attività immaginativa per approdare alla contigua ed affine dimensione del mito,
oggetto di analisi nelle righe che seguono.
1.6 L’Archetipo come mito
Si è già accennato, poco sopra, di quanto le immagini – e soprattutto quelle appartenenti
al regime notturno – possano avere in sé un sorta di “attitudine alla narrazione”. È
nell’opposizione dei contrari, infatti, che risiede qualsiasi principio di dialettica che sta
alla base di qualsivoglia narrazione. Le immagini archetipiche o simboliche, così, non
bastando più a se stesse nel loro dinamismo interno, si articolano le une con le altre
attraverso un dinamismo in qualche modo esterno, per dare vita a storie. Ed è proprio da
queste immagini in opposizione dipanate in storie – e influenzate a loro volta dalla
Storia e dalle strutture drammatiche – che nascono quelli che noi chiamiamo “miti”. A
tal proposito, in riferimento ai simboli della trasformazione della tipologia di Durand,
Cicalese nota: “La coerenza dei contrari può riscontrarsi in maniera ancora più profonda
nelle stesse strutture narrative che presentano solitamente valori in opposizione,
conciliando trasformazioni e polemiche tra due forze: una dedita alla vita, che raffigura
la forza richiesta all’eroe per sperare le prove che lo porteranno a congiungersi con il
suo obiettivi, con il suo oggetto di valore, l’altra opponente che, rappresentando il
destino avverso, intralcia il programma dell’eroe e rimanda all’eterna sfida contro la
morte.”141Ancora una volta, nel descrivere il concetto di “mito” appena introdotto,
partiamo dalle analisi dello stesso Durand, il quale lo colloca, nel suo studio basato
prettamente sui simboli, sugli archetipi e sugli schemi da essi derivanti, come
prolungamento, in chiave dinamica, degli stessi simboli, archetipi e schemi da lui
140
Sulla natura prima delle azioni rispetto ai processi immaginativi - e in generale del pensiero - Jung
nota come: “Opportunamente il Faust di Goethe afferma: ‘Im Anfang war die Tat’ [in principio era
l'azione]’. Le ‘azioni’ non furono mai inventate, ma semplicemente compiute; i pensieri, d'altra parte,
costituiscono una scoperta relativamente recente dell'uomo. Dapprima egli era spinto all'azione da fattori
inconsci e solo dopo molto tempo cominciò a riflettere sulle cause da cui era stato mosso; infine c'è
voluto un periodo di tempo ancora più lungo prima che egli arrivasse all'idea assurda di essere stato
spinto ad agire dai propri impulsi soggettivi - essendo la sua mente incapace di identificare qualunque
altra forza stimolante al di fuori della propria.” C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, op. cit., p. 62.
141
A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, Editrice Gaia, Salerno, 2010, p. 38.
61
descritti all’interno delle “Structures anthropologiques”142. Secondo Durand il mito “è
già un abbozzo di razionalizzazione poiché utilizza il filo del discorso, nel quale i
simboli si risolvono in parole e gli archetipi in idee. Il mito rende esplicito uno schema
o un gruppo di schemi: come l’archetipo istituiva l’idea e il simbolo generava il nome,
si può dire che il mito promuove la dottrina religiosa, il sistema filosofico […], la
narrazione storica e leggendaria”143. Il mito, così, viene a configurarsi come la
controparte dinamica delle costellazioni statiche che abbiamo visto nei precedenti
paragrafi. Esso è immagine in movimento, articolata in un’inversione, in
un’opposizione, in un contrasto e, quindi, in un racconto. È esplicativo, a tal riguardo,
un passo dello stesso studioso francese che riportiamo qui per intero: “La ripetizione ha
una funzione propria, che è di rendere manifesta la struttura del mito. È questa forma
ridondante che occorre comprendere, appunto con l’aiuto di una o di un gruppo di
strutture, e sono le strutture del regime notturno, con il raddoppiamento dei simboli e la
ripetizione a fini acronici, che rendono conto della ridondanza mitica. Quest’ultima
possiede la medesima essenza della ripetizione ritmica della musica, la medesima
struttura.”144 Il mito, dunque, possiede una struttura e una funzione affine a quella del
rito, nel quale è ancora più evidente il principio di ripetizione e di esorcizzazione della
morte”145. Conclude Durand: “Che nel mito covi una struttura sincronica dipende dal
suo essere eterno ricominciamento di una cosmogonia, dunque rimedio contro il tempo
e la morte, dal suo contenere in sé un principio di difesa e di conservazione che
comunica al rito. Tale struttura equivale, né più né meno, a ciò che è stato definito
regime notturno dell’immagine. Il mito è una ripetizione ritmica, con leggere varianti, di
una creazione. Più che raccontare, come fa la storia, il ruolo del mito sembra essere
quello di ripetere, come fa la musica”146.
La peculiarità del mito, secondo Durand, è quella di essere un ibrido che si colloca a
metà strada tra il simbolo e il discorso. Esso impone l’introduzione della linearità della
narrazione a dispetto della non-linearità e della pluridimensionalità del semantismo: da
142
Così lo stesso Gilbert Durand: “Intenderò per mito un sistema dinamico di simboli, di archetipi e di
schemi, sistema dinamico che, sotto la spinta di uno schema, tende a comporsi in narrazione”
143
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 64.
144
Ivi, p. 447.
145
Sul concetto di rito l’autore francese afferma: “Il rito ha l’unica funzione di addomesticare il tempo e
la morte e di assicurare nel tempo, sia agli individui sia alla società, la perennità e la speranza. Ma lo
stesso vale per tutte le attività estetiche, dalla cosmetica al teatro, passando per la coreografia, la scultura
delle maschere e la pittura. Le maschere sono l’avanguardia della difesa contro la morte”. Ivi, p. 502.
146
Ivi, p. 448.
62
una parte il logos, composto da segni arbitrari che si articolano in un discorso
sincronico, dall’altra il sincronismo dei simboli o delle loro opposizioni diairetiche. È
da questo contrasto tra la dimensione atemporale del simbolo e quella necessariamente
temporale del discorso, che ogni miti ha in sé come struttura di base una struttura
sintetica che racchiude in sé il numero più alto possibile di significati.147 Risultano vani,
così, per quanto ci si sforzi, i tentativi di voler descrivere ed esaurire il discorso sul mito
attraverso il solo impiego del linguaggio. Tutt’al più, a parere di Durand, si possono
descrivere le strutture che compongono il mito, le “matrici concrete in cui viene a
imprimersi la fluida molteplicità dei casi” dal momento che il semantismo, gravido di
senso, risulta imperante nel simbolo tanto quanto nel mito.148 Riassumendo il mito si
presenta come portatore, da una parte, di un senso diacronico della narrazione che tiene
conto delle sue ripetizioni tipiche, e, dall’altra di un isotopismo più immediatamente
simbolico, che illustra l’orientamento delle strutture e delle costellazioni d’immagini
(archetipiche nella loro origine, laddove l’archetipo riveste in generale un ruolo
determinante all’interno della narrazione mitica). Queste due dimensioni, come descritto
prima, si condensano in strutture sintetiche che tengono traccia di ambedue le istanze.
Le visioni di Durand, d’altronde, prendono corpo dalle teorie di uno dei suoi principali
maestri che, come detto, risponde al nome di Carl Gustav Jung. Era stato Jung,
seguendo la linea tracciata dal suo concetto di archetipo, a fare del discorso mitico un
discorso preminentemente “archetipico”. Secondo lo psicologo zurighese, infatti, “I miti
risalgono a un narratore primitivo e ai suoi sogni, a uomini mossi dallo stimolo
appassionato delle loro fantasie. Costoro non si differenziavano gran che da coloro che
dopo molte generazioni sono stati chiamati poeti o filosofi. I narratori primitivi non si
preoccupavano di conoscere l'origine delle loro fantasie; fu solo in epoche molto
posteriori che ci si cominciò a chiedere da dove i racconti avessero avuto origine.
Eppure, molti secoli fa, nella cosiddetta «antica» Grecia, la mente degli uomini era già
147
Così Durand: “Da ciò deriva il fatto che, accanto alla linearità spinta del Logos o dell’Epos, il Mythos
appare sempre come il contesto che sfugge, paradossalmente alla razionalità del discorso. L’assurdità del
mito […] non proviene che dalla sovra determinazione dei suoi motivi esplicativi. Oltre che stratificata, la
regione mitica è fitta. E la forza che raggruppa i simboli in ‘sciami’ sfugge all’essere messa in forma” Ivi,
p. 461.
148
Infatti “Da nessuna parte, meglio che nel mito, si vede all’opera lo sforzo semiologico e sintattico del
discorso che si infrange sulle ridondanze del semantismo, perché l’immutabilità degli archetipi e dei
simboli resiste al discorso.” Ibidem. E ancora: “Il diacronismo del mito è l’aspetto generale che lo include
nel genere racconto, il sincronismo è un indizio che segnala i temi importante, ma l’isotopismo resta, in
ultima istanza, il vero sintomo del mito o del racconto considerato, permettendone una diagnosi
strutturale” Ivi, pp. 462-463.
63
sufficientemente avanzata da supporre che le storie degli dèi non fossero altro che
tradizioni arcaiche deformate relative ad antichissimi re e condottieri. […] In tempi più
vicini a noi abbiamo visto trattare allo stesso modo il simbolismo dei sogni.”149. Jung
scrive di un caso molto particolare riguardante una bambina di 10 anni che aveva
regalato al padre, psichiatra e suo amico, un quadernino in cui, tra le altre cose,
comparivano le descrizioni dettagliate di alcuni sogni piuttosto strani ed inquietanti.
Elencando i principali motivi di tali sogni150 – motivi che per larga parte non
stenteremmo ad organizzare nella stessa tassonomia durandiana dei simboli – Jung nota
come essi siano perfettamente riconducibili ad archetipi universali che in epoche antiche
hanno dato vita ad una serie di miti, sia religiosi che profani (dal mito millenario
dell’eroe salvatore al teriomorfismo biblico e dall’idea di Ezechiele della quadruplice
divinità). Dato per certo che la bambina non avesse accesso a particolari ed approfondite
conoscenze filosofiche e religiose che potessero in qualche modo giustificare tali
visioni, egli arriva alla conclusione che queste debbono necessariamente riferirsi
all’intrinseca difficoltà delle “immagini collettive” primordiali ed universali.151
149
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 67.
I motivi principali dei sogni della bambina erano:
1. «l'animale infernale», un mostro a forma di serpente provvisto di numerose corna, uccide e divora
tutti gli altri animali. Ma Dio interviene dai quattro angoli (si tratta in realtà di quattro dèi separati) e
resuscita tutti gli animali morti;
2. una ascesa al cielo, dove si stanno celebrando danze pagane, e una discesa all'inferno, dove si
trovano angeli intenti a compiere buone azioni;
3. un'orda di animali atterrisce la sognante: essi assumono dimensioni spaventose e uno di loro divora
la bambina;
4. in un topolino si introducono vermi, serpenti, pesci ed esseri umani, ed esso si trasforma in uomo:
ciò raffigura le quattro fasi dell'origine del genere umano;
5. appare una goccia d'acqua, come vista attraverso il microscopio e la bambina vede che essa è piena
di rami d'albero: ciò raffigura l'origine del mondo;
6. un ragazzo malvagio tiene in mano una zolla di terra e ne scaglia un po' su tutti i passanti: in seguito
a ciò anch'essi diventano cattivi;
7. una donna ubriaca cade nell'acqua e ne esce rinnovata e sobria;
8. la scena si svolge in America: un gran numero di persone si rotolano sopra una distesa di formiche e
vengono da esse attaccate; la sognante, in preda al panico, cade in un fiume:
9. sulla luna c'è un deserto: la bambina vi sprofonda fino a raggiungere l'inferno;
10. in questo sogno la bambina ha la visione di una sfera luminosa; la tocca e ne emana vapore;
sopraggiunge un uomo e la uccide;
11. la bambina sogna di essere gravemente ammalata; dalla sua pelle spuntano improvvisamente tanti
uccelli che la ricoprono completamente;
12. sciami di zanzare oscurano il sole, la luna e tutte le altre stelle, tranne una: essa cade sulla
sognante. Ivi, p. 52.
151
Così lo stesso Jung a tal proposito: “Nel secondo sogno appare un motivo decisamente non cristiano in
cui i valori tradizionali sono rovesciati: per esempio il motivo delle danze pagane degli uomini in cielo e
delle buone azioni degli angeli nell'inferno. Questo simbolo suggerisce il criterio della relatività dei valori
morali. Dove ha potuto trovare la bambina un concetto così rivoluzionario, degno del genio di
Nietzsche?”[…] Se il soggetto sognante fosse stato uno stregone primitivo, si sarebbe potuto
150
64
Jung, dunque, coerentemente con il suo particolare approccio psicologico, individua una
connessione cruciale fra i miti arcaici o primitivi e i simboli prodotti dall'inconscio
(anche di quello dell’uomo moderno); una connessione evidentemente biunivoca e
fondante dell’intero “apparato umano” e delle sue manifestazioni nel corso dei
millenni.152
In contrasto con una visione puramente “archetipica” del discorso mitico, è Claude
Lévi-Strauss, uno degli antropologi più importanti ed influenti del XX secolo, e non
solo. Questi, a proposito della genesi psicologica del mito, si pone in un atteggiamento
alquanto scettico rispetto alle posizioni junghiane “integraliste” di una stretta e diretta
connessione tra alcuni significati precisi e determinai temi mitologici come esclusivo ed
esauriente punto di vista sul tema del mito. Per Lévi-Strauss, infatti, coloro che
propendono per tale teoria incappano nella stessa fallacia di quei filosofi del linguaggio
che sono stati per molti anni convinti che i suoni di una lingua possedessero un’affinità
naturale con questo o quel determinato senso (convinzione sostanzialmente smentita).
Egli afferma come il mito faccia parte integrante della lingua e che soltanto attraverso il
discorso lo si può comprendere e spiegare veramente. L’antropologo e psicologo
francese, in parte ispiratore dello stesso Gilbert Durand, aveva ben individuato come il
mito possedesse al contempo una dimensione sia storica che astorica, una natura
complessa e stratificata, il cui senso, però, non può risiedere “negli elementi isolati che
entrano nella sua composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono
combinati”153.
Nella visione di Lévi-Strauss, riscontriamo così una netta radicalizzazione sul
linguaggio, a discapito del simbolo, dell’immagine e della “luce archetipica”, che, come
abbiamo visto, Durand ed altri autori di ispirazione junghiana pongono come elementi
essenziali all’interno del mito. Egli, aderendo alla prospettiva strutturalista classica di
ragionevolmente supporre che essi rappresentassero alcune variazioni dei temi filosofici della morte, della
resurrezione o restituzione, dell'origine del mondo, della creazione dell'uomo e della relatività dei valori.
Ma se si cerca di interpretare questi sogni da un punto di vista personale, bisogna rinunciare a ogni
spiegazione, data la loro intrinseca, inestricabile difficoltà. Essi contengono indubbiamente alcune
«immagini collettive», e queste in un certo senso sono analoghe alle dottrine impartite ai giovani delle
tribù primitive quando si accingono a essere iniziati come uomini.” Ivi, p. 55.
152
Lo psicologo zurighese, in ultima analisi, afferma: “L’inconscio collettivo […] sembra consistere in
motivi ed immagini mitologici, e perciò i miti dei popoli sono gli autentici esponenti dell’inconscio
collettivo. Tutta la mitologia sarebbe una specie di proiezione dell’inconscio collettivo”. C.G. JUNG, La
dinamica dell’inconscio, cit., p. 87.
153
C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 2009 , p. 241.
65
Roman Jakobson, si concentra sulla struttura del mito stesso, arrivando ad ipotizzare,
così come accade normalmente nella struttura della lingua con i fonemi, i morfemi e i
semantemi, la presenza di vere e proprie unità costitutive all’interno del discorso mitico:
i “mitemi”, appunto. Secondo l’antropologo francese, quest’ultimi, come tutte le unità
costitutive di qualsiasi lingua, a qualunque livello siano isolati, consistono in relazioni.
In maniera più specifica essi si collegano tra loro attraverso “fasci di relazioni”154, dalla
cui combinazione – che si svolge su un doppio livello, rispettivamente diacronico
legato alla “langue” e sincronico legato alla “parole” - acquisiscono una funzione
significante. Per spiegare meglio il suo approccio al mito Lévi-Strauss impiega
l’esempio dell’armonia musicale e della partitura d’orchestra, notando come essa “ha
senso solo se letta diacronicamente secondo un asse (una pagina dopo l’altra, da sinistra
a destra) ma, nello stesso tempo, sincronicamente secondo l’altro asse dall’alto in basso.
In altri termini, tutte le note poste sulla stessa linea verticale formano una grossa unità
costitutiva, un fascio di relazioni appunto”155. Il metodo di Lévi-Strauss nell’analisi del
mito consiste nel prendere in considerazione non la versione autentica o primitiva del
racconto, dedicandosi alla sua spasmodica – e spesso infruttuosa – ricerca, bensì di
definire di ogni mito tutte le sue versioni e cercare di rintracciarne mitemi e fasci di
relazioni tra essi. Dato che il mito è formato dall’insieme delle sue varianti attraverso i
vari popoli e nelle varie epoche in cui esso agisce, l’analisi strutturale dovrà vertere
sulla somma di queste varianti, considerandole alla stessa stregua. Così, per
l’antropologo francese bisognerebbe tralasciare, nello studio del mito, il “feticcio” della
ricerca della versione primigenia, e dedicarsi piuttosto alla sua analisi su un piano più
prettamente linguistico, ad un livello sia diacronico che sincronico.
Ritornando al tema che abbiamo incontrato in precedenza circa il regime notturno
dell’immagine
della
classificazione
di
Durand,
processi
come
quello
del
raddoppiamento, della triplicazione o della quadruplicazione di una stesso simbolo o di
una stessa sequenza di simboli vanno a configurarsi, secondo Lévi-Strauss, come
l’aperta manifestazione della struttura del mito stesso, una struttura che, come abbiamo
visto, ha alla base i fasci di relazioni bidimensionali tra i mitemi.156A questo punto
154
Ivi, p. 237.
Ivi, p. 238.
156
Così lo stesso Lévi-Strauss: “la ripetizione ha una funzione peculiare, che è quella di rendere manifesta
la struttura del mito. Abbiamo mostrato infatti che la struttura sincro-diacronica da cui il mito è
caratterizzato permette di ordinare gli elementi in sequenze diacroniche che debbono essere lette
155
66
diviene netta la frattura “postuma” tra l’illustre antropologo ed etnologo francese e lo
stesso Durand il quale, a tal proposito, si esprime in termini chiari e risoluti.157 Secondo
l’autore delle “Structures anthropologiques” nel mito, al di là del filo della narrazione
comunque presente e importante, è essenziale anche il senso simbolico dei termini che
vi compaiono. Per Durand il fulcro del problema è che, una volta riconosciuto che il
mito, essendo un discorso, presenta una certa linearità del significante, bisogna altresì
intendere tale significante come simbolo e non come segno linguistico arbitrario, alla
stregua di tutti gli altri. È in questo modo che si spiega ancora meglio l’affermazione,
propria dello stesso Lévi-Strauss, secondo la quale “si potrebbe definire il mito come
quel modo del discorso nel quale il valore della formula ‘traduttore-traditore’ tende
praticamente a zero”158.159Durand aggiunge che “poiché un archetipo non si traduce,
dunque non può essere tradito da alcun linguaggio”160, e che “il mito non si traduce,
neppure in logica: ogni sforzo di traduzione del mito […] è uno sforzo di
impoverimento.”161Così, il livello più elevato del discorso mitico non si sostanzia nei
mitemi e nella loro natura sintattica, bensì “esso è un livello simbolico - o meglio
archetipico – fondato sull’isomorfismo dei simboli in seno a costellazioni strutturali”162.
Durand, accettando in parte l’idea dei “fasci di relazioni” tra unità costitutive in
contrasto alle relazioni isolate – prospettiva molto vicina alla concezione
dell’isomorfismo semantico da lui prediletto – specifica però che secondo il suo parere
tali “fasci” non sono da intendersi come fasci di relazioni, bensì di significazioni. È
esplicativo, in questo senso l’affermazione di Jacques Soustelle che, in merito
sincronicamente. Ogni mito possiede quindi una struttura a molti piani che traspare in superficie, per così
dire, nel procedimento di ripetizione e grazie ad esso.” Ivi pp.257-258
157
“Ribadisco il mio rifiuto nei confronti della ricorrente tentazione di Lévi-Strauss che è quella di
assimilare il mito a un linguaggio e le sue componenti simboliche a fonemi. […] Tentazione legittima per
un etnologo […] ma pericolosa, quando ci si avvicina all’universo del mito, universo che non è fatto solo
di relazioni diacroniche o sincroniche, ma di significati comprensivi, universo carico di un semantismo
immediato che è distorto unicamente dal carattere mediato del discorso”. G. DURAND, Le strutture
antropologiche dell’immaginario, cit., p 441.
158
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 442.
159
Sul tema della traducibilità del mito tra le diverse lingue l’autore afferma inoltre: “Il posto del mito,
nella scala dei modi di espressione linguistica, è opposto a quello della poesia […] La poesia è una forma
di linguaggio estremamente difficile da tradurre in una lingua straniera, ed ogni traduzione comporta
molteplici deformazioni. Al contrario, il valore del mito in quanto mito persiste, a dispetto della peggior
traduzione. Per grande sia la nostra ignoranza della lingua e della cultura da cui l’abbiamo raccolto, il
mito viene percepito come mito da ogni lettore, in tutto il mondo. C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia
strutturale, cit., p. 235.
160
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 443.
161
Ivi, p. 444.
162
Ivi, p. 447.
67
all’espressione del mito nel linguaggio nahialt, dichiara che tale discorso mitico è
costituito da “blocchi, o se si vuole da sciami di immagini, carichi di un significato
affettivo molto più che intellettuale”163. Il mito, in questo senso, non si riduce né a
linguaggio né – come fa Lévi-Strauss – alle metafore di armonia musicale. In ultima
analisi esso viene a disporsi come un discorso che non diventa mai “una notazione che
si traduce o si decifra, esso è presenza semantica e, composto di simboli, contiene
comprensivamente il suo proprio senso.”164Durand, sottolineando a più riprese
l’essenzialità dell’aspetto simbolico-archetipico all’interno del mito oltre al suo aspetto
linguistico, sancisce il suo sostanziale distacco dalle teorie di Lévi-Strauss, accusandolo
di eludere il mitico a vantaggio di un pensiero rigorosamente logico e matematico, e
tacciandolo di un eccessivo formalismo.
Resta, dunque, dalla revisione durandiana sulle teorie di Lévi Strauss intorno al mito,
una ferma attestazione sulla forza simbolica ed “archetipica” sul quale il mito si fonda,
in sinergia con la dimensione linguistica, la quale risulta però, come detto, una
condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla spiegazione mitologica.
Più vicino alle idee di Lévi Strauss è, invece, l’illustre semiologo, linguista e critico
letterario francese Roland Barthes. Egli, a proposito del discorso mitico afferma: “Va
stabilito energicamente sin da principio che il mito è un sistema di comunicazione. È un
messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, o
un’idea; bensì un modo di significare, una forma. Mentre sull’incidenza delle variabili
storiche, sociali e culturali del mito lo studioso francese si esprime in questi termini:
“Più avanti sarà necessario porre a questa forma limiti storici, condizioni d’uso,
reinvestire in essa la società: ciò non impedisce che in primo luogo la si debba
descrivere come forma.”165 Barthes crede nell’assoluta contingenza storica del mito, il
quale è raccontato dalla sua parola e non dall’oggetto, né dalla materia cui riferisce. Per
sgomberare il campo da eccessivi misticismi e psicologismi sullo ‘statuto’ del discorso
163
J.SOUSTELLE, La pensée cosmologiques des ancien Mexicain. Représentation du monde et de
l’espace, Herman, Paris 1940, p. 9.
164
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 444.
165
R. BARTHES, Miti d’oggi (1957), Einaudi Editore, Torino 1974, p. 191.
68
mitico, l’eminente linguista e semiologo francese afferma: “si possono concepire miti
antichi, non ne esistono di eterni […] Lontana o no, la mitologia può avere solo un
fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può
sorgere dalla ‘natura’ delle cose”166. Ancora, in una prospettiva marcatamente storica e
non aprioristica sul mito egli arriva ad affermare che “non c’è alcuna fissità nei concetti
mitici: possono alterarsi, formarsi, sparire completamente. E appunto perché sono
storici la storia può sopprimerli assai facilmente”167. Per quanto concerne la struttura del
mito Barthes afferma che in esso si ritrova lo schema tridimensionale della semiologia
classica “significato-significante-segno” ma ampliato da un “sistema semiologico
secondo”168. Così ciò che nel primo sistema è segno (in quanto sintesi tra concetto e
immagine acustica) viene a costituire semplice significante per il secondo sistema. Per
Barthes, infatti, “i materiali della parola mitica (lingua propriamente detta, fotografia,
pittura, manifesto, rito, oggetto, ecc.), pur differenti che siano all’inizio e al momento in
cui sono colti dal mito, si riconducono ad una pura funzione significante: il mito non vi
vede che un’identica materia prima; la loro unità sta nel fatto che sono ridotti, tutti, al
semplice statuto di linguaggio.”169 Nel mito, dunque, sono presenti due sistemi
semiologici: un sistema linguistico (il “linguaggio-oggetto”), ovvero il linguaggio che il
mito stesso “utilizza” per costruire il proprio sistema; e il mito stesso (il
“metalinguaggio”) che viene a rappresentare una seconda lingua attraverso la quale si fa
riferimento alla prima. Prendendo in considerazione il metalinguaggio, il semiologo
sarà dispensato dal compito di analizzare la composizione del linguaggio-oggetto. In
questo modo egli, una volta individuato il segno globale (che sia esso afferente alla
166
Ivi, p. 192.
Ivi, p. 202.
168
Ivi, p. 196.
169
Ibidem.
167
69
scrittura, all’immagine ecc.), potrà porre la sua attenzione limitatamente alla misura in
cui tale termine totale è inserito all’interno del mito stesso, a prescindere dalla sua fonte
originaria (che è attinente, invece, al primo sistema). Il terzo termine, ossia la
connessione tra i primi due – concetto e forma – è chiamato da Barthes “significazione”;
è in esso che, di fatti, è racchiuso il mito, esattamente come il segno saussuriano
corrisponde alla parola. Ma il mito, secondo Barthes è sostanzialmente “un furto di
linguaggio”170 dal momento che la sua peculiarità è trasformare un senso in una forma
naturalizzandolo e andando così a depredare ogni linguaggio primo. 171 Il termine stesso
“mito” è, per l’autore francese, una “parola eccessivamente giustificata” 172: dimorano
nel torto, infatti, tutti coloro che sostengono che le immagini mitiche provochino in
maniera naturale il concetto, come se il significante partorisse naturalmente un
significato corrispondente. Barthes afferma, ancora una volta ed in maniera più
perentoria, come il mito sia fatto squisitamente storico; esso, infatti, “è un valore, non
ha per sanzione la verità: niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo: gli è
sufficiente che il significante abbia due facce per avere sempre a disposizione un
altrove: il senso è sempre pronto a presentare la forma; la forma è sempre pronta a
distanziare il senso”173. Dal momento che la significazione mitica è strettamente
collegata alle motivazioni, alle intenzioni e le analogie che vi risiedono, per Barthes è
inverosimile ammettere che esse siano fornite dalla Natura e non abbiano piuttosto un
carattere storico. Egli, inoltre, non solo appiattisce il mito sul piano della storia -
170
Ivi, p. 212.
A tal proposito Roland Barthes nota che probabilmente il linguaggio che più “oppone resistenza” al
mito è quello poetico contemporaneo. Quest’ultimo, infatti, secondo l’autore, al contrario del mito, tenta
di ritrovare uno stadio pre-semiologico del linguaggio, ritrasformando il segno in senso e andando a
ricercare non il senso delle parole ma il senso stesso delle cose. La poesia contemporanea, infatti, - al
contrario di quella classica, molto più ‘mitica’ in questo senso - , estremizza l’astrazione della concetto
l’arbitrarietà del segno ed è proprio questo che la pone agli antipodi rispetto al mito.
172
Ivi, p. 211.
173
Ivi, p. 205.
171
70
svincolandosi a più riprese da approcci che in qualche modo seguono filoni
“archetipici” -
ma compie una vera e propria opera di discredito ontologico nei
confronti del discorso mitico, che , in ultima analisi, viene a costituire per il semiologo e
critico
francese
una
sorta
di
“impostore”
del
linguaggio
stesso174.
Uno spazio intermedio tra una visione squisitamente psicologico-naturalistica del mito
ed una prettamente logico-linguistica e storica è quello occupato da uno dei più grandi
mitologi di tutti i tempi: Joseph Campbell. Quest’ultimo, imbastendo un impianto
teorico che conciliasse lo studio della mitologia comparata con quello della psicologia
analitica (o complessa) di matrice junghiana, è uno dei primissimi studiosi a concepire i
temi mitologici di base - provenienti in tutte le religioni del mondo, dalle più primitive
alle più sofisticate, da un capo all’altro del globo terracqueo - come archetipi ricorrenti,
diversamente declinati a seconda della psiche del singolo individuo e del contesto
geografico e sociale in cui essi agiscono. Campbell nota come “Le immagini
mitologiche sono quelle attraverso le quali il conscio è messo in contatto con
l’inconscio. […] Se non abbiamo immagini mitologiche o se per una ragione o per
l’altra la nostra ragione la rifiuta, restiamo senza contatti con la parte più profonda di
noi.”175 Egli abbraccia completamente il concetto junghiano di archetipo e ammette la
sua preminenza all’interno dei miti, come nella vita di tutti i giorni di tutti gli esseri
umani.
Allo stesso modo, però, secondo il mitologo e storico delle religioni
statunitense, “l’immaginario dei miti è un linguaggio, una lingua franca, che esprime
174
Così si esprime l’“idiosincrasia”di Barthes per il mito: “Dal punto di vista etico ciò che disturba nel
mito è appunto il fatto che la forma sia motivata. Perché se c’è una ’salute’ del linguaggio, a fondarla è
l’arbitrarietà del segno. Ciò che disturba nel mito è il ricorso a una falsa natura, il lusso delle forme
significative, come in quegli oggetti che ornano la loro utilità con una apparenza naturale. La volontà di
appesantire la significazione di tutte le cauzioni della natura provoca una specie di nausea: il mito è
troppo ricco, e di troppo ha appunto la sua motivazione.” Ivi, p. 207, nota 1.
175
J. CAMPBELL, Pathways to Bliss. Mithology and Personal Transformation, Joseph Campbell
Foundation 2004, trad. it., Percorsi di felicità. Mitologia e trasformazione personale, a cura di David
Kudler, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p. 101.
71
qualcosa di fondamentale della nostra umanità più profonda”176. Campbell, circa
l’universalità e l’eternità del mito, nota come esso tratti tematiche senza tempo calate
all’interno di una particolare cultura (“Se non facciamo attenzione ai parallelismi
tematici, rischiamo di pensare che si tratti di storie diverse, mentre, in verità, non è
così”177). I miti, per l’antropologo statunitense, sono metafore delle potenzialità
spirituali dell’uomo e le storie e le ambizioni che vi si trovano al loro interno si
dipanano tutte da uno stesso “ceppo primigenio” e sono quindi declinate in vario modo
a seconda delle epoche e delle società nelle quali si sviluppano (“non è esagerato dire
che il mito costituisce il passaggio segreto attraverso il quale le inesauribili energie del
cosmo penetrano nelle forme della cultura dell'Uomo”178).179 Campbell dunque, in
riferimento ai miti, si colloca in una posizione intermedia tra – semplificando - lo
“psichismo” e il “naturalismo” di Jung e l’approccio linguistico e storico di Barthes,
sebbene a più riprese egli sembra propendere più per il primo. Ciò risulta evidente
quando, a proposito della genesi stessa delle mitologie, Campbell afferma come esse
“sono fondamentalmente le stesse ovunque. Di conseguenza, le immagini mitologiche
non si riferiscono in prima istanza a eventi storici provengono dalla psiche e parlano alla
176
Ivi, p. 35.
J. CAMPBELL, Il potere del mito, intervista di Bill Moyers, Apostrophe S Productions, Inc. 1988, p.
34.
178
J. CAMPBELL, The hero with a thousand faces, Pantheon Books, New York, 1953, trad. it., L'eroe
dai mille volti, Feltrinelli Editore, Milano, 1958, p. 15.
179
Lo stesso Campbell, nel libro intervista di Bill Moyers, risponde con queste parole alla domanda sullo
statuto di ereditarietà e globalità dei miti: “È proprio così: hai lo stesso corpo, gli stessi organi e le stesse
energie che aveva l’uomo di Cro-Magnon trentamila anni fa. La vita umana, nelle caverne o a New York,
passa attraverso le stesse fasi: l’infanzia, la maturità sessuale, la transizione dalla dipendenza infantile alla
responsabilità adulta, il matrimonio, il declino del corpo e infine la morte. Hai lo stesso corpo e le stesse
esperienze corporee, quindi reagisci alle stesse immagini”. E ancora: “Ogni mitologia tratta della
saggezza della vita in relazione a determinate situazioni culturali e storiche. Integra l’individuo nella sua
società e la società nella natura. Unifica il mondo della natura con il mondo dell’uomo: è una forza
armonizzatrice”.
J. CAMPBELL, Il potere del mito, cit., pp. 61-80.
177
72
psiche; il loro riferimento primario è lo psichico […] non l’evento storico”180. Un ordine
mitologico, per Campbell, è “un sistema di immagini che rende cosciente un certo
significato dell’esistenza”181 e il mito, in sé, possiede quattro funzioni principali. La
prima funzione è quella ludico-simulativa del “come far credere che noi stiamo facendo
questo e quest’altro”182, ossia quella che evoca nell’individuo un senso gratificante di
soggezione dinanzi al vivere nella vita stessa, immerso nel grande mistero
dell’esistenza. La seconda funzione sta nella presentazione di un’immagine stabile
dell’universo circostante che avvalori e trattenga tale soggezione; qui non è importante
il concetto di Verità, piuttosto quello di coerenza nei termini e nelle “regole del
gioco”183. Così un’immagine cosmologica non fa che offrire uno spazio ludico in cui
giocare il gioco che contribuisce a conciliare l’uomo con la sua stessa vita, la sua
condizione di essere vivente, la sua coscienza e le sue aspettative di senso. La terza
funzione di un ordine mitologico è corroborare e supportare un certo sistema sociale,
ovvero “un insieme condiviso di diritti e torti, di convenienze e scorrettezze” da cui
dipende la vita stessa del gruppo sociale di riferimento. Essa è strettamente legata al
concetto di moralità e serve a regolare e confermare l’apparato sociale entro determinati
limiti comportamentali. La quarta è ultima funzione, invece, è di natura
preminentemente psicologica. Secondo Campbell, infatti, il mito deve accompagnare
l’individuo nelle diverse fasi della sua vita, dalla nascita alla morte. Ogni individuo
dovrebbe scoprire qual è il suo “mito personale” e farsi trasportare per tutto il corso
della sua esistenza. Ciò, ovviamente, in accordo con l’ordine sociale dal momento che
180
J. CAMPBELL, Percorsi di felicità, cit., p. 106. Parrà evidente al lettore come tali affermazioni circa
la formazione e lo sviluppo del mito, sostanzialmente adiacenti a quelle di Gilbert Durand, siano però in
netto contrasto con le conclusioni alle quali, poco più sopra, era pervenuto Barthes.
181
Ivi, p. 18.
182
Ivi, p. 19.
183
Campbell afferma: “La gente vive giocando un gioco. Glielo si rovina intervenendo con un serioso
‘Bene, a cosa serve?’” Ivi, p. 19
73
sia il cosmo che l’immane mistero della vita al quale si accennava pocanzi sono sempre
declinati e posseggono un senso all’interno di un gruppo sociale di riferimento184. In
ultima analisi, per Campbell, i miti, sedimentati nel “mare notturno” cui l’uomo emerge
misteriosamente da millenni, vanno a costituire da una parte i sintomi dell’inconscio personale ma soprattutto collettivo – e, dall’altra, “affermazioni controllate e stabilite di
determinati principi spirituali, rimasti altrettanto costanti lungo il corso della storia
umana quanto la forma e la struttura nervosa del corpo umano”185. Le metafore che
risiedono racconto mitico uniscono, così, l’inconscio con i campi dell’azione pratica di
ogni individuo, andando a toccare le energie vitali ti tutta la psiche umana in un
rimando formidabile ed eterno186.
1.7 Archetipo come personalità
In quest’ultimo paragrafo andiamo a dipanare l’ultima prospettiva dalla quale guardare
gli archetipi, ovvero quella legata al tipo di personalità di un individuo e agli effetti e
alle ascendenze che in qualche misura governano la vita di tutti noi. Come afferma
Jung, infatti, “Imparare a memoria un elenco di archetipi non serve a nulla. Gli archetipi
sono complessi di esperienza che sopravvengono fatalmente, e il cui effetto si fa sentire
nella nostra vita più personale.”187
L'inconscio di ogni individuo contiene una sorta di “energia psichica” che si concreta
nella spinta, naturale ed innata, verso lo sviluppo della coscienza di sé, la quale tende a
fuoriuscire mediante il cosiddetto “processo di individuazione”. Esso rappresenta un
184
Così Campbell “Se il tuo mito privato […] coincide con quella della società sei in buon accordo con il
gruppo. Altrimenti ti aspetta un’avventura nella foresta buia.” J. CAMPBELL, Il potere del mito, cit., p.
64.
185
J. CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, cit., p. 229.
186
È proprio dalle immagini in opposizione dispiegate in storie e dagli studi sul mito di Lévi-Strauss che
Greimas costruisce la ben nota teoria del “quadrato semiotico”, basato sullo sviluppo logico di categorie
semiche binarie. A.J. GREIMAS, Du sens, Del Senso (ed. or. 1970), tr. Bompiani, Milano 1974
187
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 28.
74
percorso naturale – e tuttavia traumatico e difficoltoso – che ogni uomo è portato a
compiere per scoprire davvero il suo carattere e vivere con reale consapevolezza e
solidità psichica la sua esistenza188.
Ma il processo di individuazione va al di là del rapporto dialettico fra il germe innato
della totalità e gli eventi del mondo esteriore. Come afferma l’allieva di Carl Jung,
Marie-Louise von Franz, “L'esperienza soggettiva di esso ci rivela che qualche forza
soprapersonale opera attivamente in modo creativo. Si ha talvolta la sensazione precisa
che l'inconscio tracci la via da seguire secondo un disegno segreto. È come se una entità
indeterminata ci guardasse, una entità che non possiamo vedere, ma che ci vede - forse
il «grande uomo» che vive all'interno del nostro cuore, che esprime le sue opinioni su
noi per il tramite dei sogni”189. Tale processo, inoltre è fortemente soggettivo laddove
per ogni individuo esiste un determinato percorso da seguire, assolutamente personale
che non può essere in qualche modo confuso o sovrapposto con quello di un altro
individuo.190
188
Così lo psicologo svizzero: “La funzione trascendente non procede senza meta, ma conduce alla
rivelazione dell’uomo essenziale. Dapprima è un puro e semplice processo naturale, che in certi casi si
svolge senza conoscere e senza partecipazione, e deve anzi affrontare la resistenza dell’individuo
imponendosi con la forza. Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità
originariamente contenuta nel germe embrionale di tutti i suoi aspetti. È l’attuazione e il dispiegarsi
dell’originaria totalità potenziale. I simboli che l’inconscio adopera a questo scopo sono gli stessi che
l’umanità ha sempre usato per esprimere totalità, compimento e perfezione. Questo processo è stato da me
definito ‘processo di individuazione’”. C.G. JUNG, Due testi di psicologia analitica, cit., pp. 111-112.
189
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 130.
190
“Non si deve fare altro che ascoltare, per sapere ciò che la totalità interiore - il sé - vuole che si faccia
‘hic et nunc’, in una particolare situazione. Il nostro atteggiamento deve essere simile a quello del pino di
montagna […]: esso non si irrita quando il suo sviluppo è ostacolato da una pietra, né pianifica i modi in
cui potrà aver ragione degli ostacoli; cerca solo di avvertire se debba crescere in una direzione piuttosto
che in un'altra, nel senso della pendenza, o nel senso contrario. Come l'albero, dobbiamo cedere a questo
quasi impercettibile, ma poderoso impulso - un impulso che deriva dalla tendenza all'unica, creativa
autorealizzazione. E si tratta di un processo nel corso del quale si devono spesso ricercare soluzioni a
problemi che sono ignoti a qualsiasi altro soggetto. Gli impulsi direttivi provengono non dall'ego, ma
dalla totalità della psiche: il sé. È inutile, inoltre, spiare furtivamente gli altri, per individuare il modo in
cui si sviluppano le varie personalità, perché ciascuno si trova davanti un compito di autorealizzazione
che presenta caratteri di unicità. Se molti problemi umani sono simili, non sono mai identici. Tutti i pini si
assomigliano (altrimenti non li potremmo classificare come pini), ma nessuno è esattamente simile a un
altro. Proprio per l'incidenza di questi fattori di similitudine e differenza, è difficile schematizzare le
infinite possibilità di variazione del processo di individuazione. Il fatto è che ciascuno di noi deve fare
qualche cosa di diverso, qualche cosa di assolutamente privato e personale. C.G. JUNG, L’uomo e i suoi
simboli, cit., p. 132.
75
Il termine “individuo” significa “non diviso”: l’individuazione è, in sostanza, il processo
attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero, inscindibile e
tuttavia tendente alla realizzazione della totalità psichica, ossia all’integrazione delle
componenti consce ed inconsce.
Il processo di individuazione costituisce per Jung l’epilogo ideale dell'esistenza umana
per mezzo del quale l'uomo stesso dovrebbe giungere alla scoperta e alla realizzazione
dei propri bisogni individuali più reconditi e profondi. Lo sviluppo della personalità
viene a configurarsi, quindi, come un processo che va oltre la semplice maturazione
fisiologica: essa consiste nel divenire individuo e cioè non diviso nella sue molteplici
polarità interne (Io e Sé, maschile e femminile, ombra e luce ecc.) Segnatamente,
l’individuazione passa per alcune tappe specifiche che, sotto forma di archetipi
dominanti, “guidano” il tragitto del singolo attraverso la sua stessa esistenza.
Idealmente, tali archetipi dovrebbero transitare uno ad uno nel corso della vita di un
uomo; ciò non toglie che essi si presentano in un numero ridotto e che quindi non
portano a compimento la totalità della persona, e che piuttosto facciano restare
l’individuo dentro i confini di un determinato archetipo (il quale finirà fatalmente per
indirizzarlo per tutto il tempo in cui essi agisce in lui). L’individuazione consisterà, in
questo modo, con il congiungimento armonioso tra l’Io e il Sé e il raggiungimento della
definitiva maturità e della totalità della psiche. Tra i più importanti archetipi che
figurano nel processo di individuazione ritroviamo: l’Ombra, l’Anima, l’Animus, il
Vecchio Saggio, Il Fanciullo, la Grande Madre, la Persona e, soprattutto, il Sé.
1.7.1 L’Ombra
L’archetipo
dell’Ombra
rappresenta
una
parte
inconscia
della
personalità,
contraddistinta da inclinazioni e comportamenti - sia negativi che positivi - rimossi
dall’Io cosciente. L’Ombra è una sorta di alter ego dell’uomo che rappresenta in prima
istanza il suo inconscio individuale; essa è “parte viva della personalità e vuole vivere
con lei sotto qualche forma”191. L’uomo, attraverso la sua Ombra, va incontro a se
stesso e accetta la propria parte “oscura”, ben nascosta agli altri, quella fatta di azioni
irrazionali e violente, impulsi selvaggi, comportamenti contrari alla propria etica,
191
C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 123.
76
pulsioni e aberrazioni morali varie.192 Questo archetipo, secondo Jung, si rende
necessario dal momento che l’uomo deve imparare a conoscere se stesso per conoscere
la sua identità e non smarrirsi nei meandri del mondo e, prima ancora, in quelli della sua
psiche. L’archetipo dell’Ombra richiede una certa risolutezza morale laddove il suo
riconoscimento presuppone il superamento di qualsivoglia inibizione e pudore, e la
scoperta di tutti gli aspetti – leggasi tutti i “mostri” - della propria individualità; come
afferma lo stesso Jung, infatti, “in quanto la conoscenza di sé costituisce una misura
psicoterapeutica, essa comporta spesso un lavoro faticoso che può protrarsi per molto
tempo”193.
L’Ombra rappresenta per eccellenza l’archetipo più celato dall’uomo, il quale ha sempre
avuto orrore di se stesso, vivendo nel terrore che una “folata” di inconscio lo facesse
cadere nell’assoluta indeterminatezza. È per questo, secondo Jung, che “gli sforzi
dell’umanità sono stati interamente volti al consolidamento della coscienza mediante i
riti, le représentations collectives, i dogmi: che erano le dighe, le muraglie erette contro
i pericoli dell’inconscio”194. L’Ombra è il “lato oscuro” di ogni uomo, il secondo volto
sempre presente che egli, attraverso il totale ripiegamento sulla coscienza, tenta di
rinnegare. Ma ogni uomo, secondo lo psicologo svizzero, deve avere il coraggio e
l’ardire di confrontarsi con questa parte di se stesso, conoscendola e accettandola per
quella che è. Questo compito è estremamente difficile perché non soltanto mette in
causa l’uomo, cogliendolo sul vivo, ma perché lo mette di fronte alla sua miseria. Egli
però, per vivere in maniera davvero consapevole e tenere davvero i piedi sulla terra che
calpesta, deve aprire il “vaso di Pandora” del suo inconscio - il quale “nasconde
un’acqua vivente, cioè spirito divenuto natura”195– e accettare la sua natura altra ma al
contempo così profonda radicata nella sua psiche (una natura, peraltro, che può rivelarsi
negativa tanto quanto positiva). 196
192
In un passo dell’autore zurighese leggiamo: “Chi va verso se stesso rischia l’incontro con se stesso. Lo
specchio non lusinga, mostra fedelmente quel che in lui si riflette, e cioè quel volto che non mostriamo
mai al mondo.” Ivi, p. 122.
193
C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, cit., p. 8.
194
C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 125.
195
Ivi, p. 127.
196
Sui pericoli derivanti dalla sottovalutazione della dimensione inconscia si veda la nota n° del presente
capitolo.
77
1.7.2 La Persona
L’archetipo della Persona - in latino “maschera dell’attore” - esprime il ruolo sociale,
derivante dalle convenzioni e dalle aspettative della società e dell’educazione
dell’individuo. L’Io equilibrato è in rapporto con il mondo attraverso una Persona
adattabile. Secondo Jung l’identificazione assoluta con la Persona, cioè con il proprio
ruolo all’interno di una società, è in contrasto con lo sviluppo psicologico del soggetto,
il quale può venire seriamente fuorviato – o nella migliore delle ipotesi rallentato - nel
suo processo di individuazione. L’aspetto negativo dell’archetipo della Persona, infatti,
ostacola di fatto il rapporto tra gli uomini. D’altra parte, il suo lato positivo impedisce
agli elementi dell’inconscio di agire indiscriminatamente e permette all’Io di intervenire
su di essi e regolarli. Persona è l’archetipo dell’individuazione dove l’Io agisce
normalmente, e Persona ed Io sono molto legati. Ponendo un limite al nostro mondo
interiore, quindi, la Persona ci permette di interagire col mondo e le persone intorno a
noi in maniera equilibrata ma, al tempo stesso, una sua radicalizzazione finisce per
inficiare il rapporto dell’individuo nei confronti del suo prossimo e dell’universo in cui
egli si trova a vivere.
1.7.3 L’Anima
Presso i primitivi, come riporta lo stesso Jung, l’anima è “magico soffio vitale”197.
Questo archetipo può essere considerato probabilmente come il più importante per
l’uomo dal momento che “un essere dotato di anima è un essere vivente. L’anima è la
parte più viva dell’uomo, ciò che vive di per sé e dà vita […] Con astuzia e con giocoso
inganno, l’anima attira verso la vita l’indolenza della materia che non vuole vivere. Fa
credere all’uomo cose inverosimili affinché la vita sia vissuta”. L’Anima viene a
configurarsi, così, come dispensatrice di vita afferente alla dimensione sovrumana e
quella dell’inconscio; tuttavia essa non si identifica totalmente con quest’ultimo ma
rappresenta soltanto un archetipo tra molti (in altre parole solo particolare un aspetto
dell’inconscio). Essa è un fattore e non può essere costruita; è sempre l’elemento
aprioristico di umori, sentimenti, emozioni, reazioni della psiche. Con essa si incontra
“il regno degli déi”, ovvero della metafisica dal momento che tutto ciò che essa tange
diventa assoluto, magico, pericoloso, attinente sia alla dimensione paradisiaca che
197
Ivi, p. 131.
78
infernale. L’Anima, in conclusione può essere considerata come l’archetipo della vita
stessa. A sottolineare la sua preminenza e il suo carattere vivifico per ogni uomo è lo
stesso psicologo zurighese quando afferma – in maniera solenne e sfidando ogni
ragionevole contraddizione, - “se non fosse per l’agitazione e l’iridescenza dell’anima,
l’uomo si impaluderebbe nella sua massima passione, la pigrizia”198. Parole queste,
pregne di Verità, e che si adattano perfettamente anche ai tempi che stiamo
attraversando.
L’archetipo dell’Anima, inoltre, più specificamente all’interno del processo di
individuazione, va a denotare la parte inconscia femminile della personalità
dell’uomo.199 L’Anima rappresenta la funzione relazionale (eros), quindi la sua
evoluzione nell’uomo si manifesta nel modo di rapportarsi alle donne. L’identificazione
con l’Anima può avere come conseguenza l’emergere di tratti psicologici come
volubilità, eccitabilità, vanità, suscettibilità. A partire dal fatto che “in ciascun sesso è
insito (fino a una certa soglia) il sesso opposto, dato che, dal punto di vista biologico, è
soltanto la maggior quantità di geni maschili che fa pendere la bilancia in favore della
virilità” e siccome “la minore quantità di geni femminili sembra costituire un carattere
femminile che però, a causa della sua inferiorità quantitativa, di solito rimane
inconscio”200, a sua volta l’Anima possiede un suo corrispettivo maschile che prende il
nome di “Animus”.
L’archetipo dell’Animus definisce, pertanto, l’elemento maschile dell’inconscio
femminile e funziona allo stesso modo dell’Anima nell’uomo. Esso costituisce in
particolar modo la funzione razionale (logos) e compare nei sogni come figura
maschile. L’identificazione con l’Animus nella donna
può manifestarsi con
caratteristiche di ostinazione, caparbietà, durezza, mentre, nell’aspetto più positivo,
mette in relazione la donna con le energie creative e vivifiche dell’inconscio.
Secondo Jung “quando l’Animus e l’Anima si incontrano, l’Animus sfodera la spada
della forza, della potenza; l’Anima sprizza invece il veleno dell’inganno e della
seduzione [ma] il risultato non è necessariamente negativo poiché ci sono altrettante
198
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 88.
Jung spiega: “Ciò che in me, uomo, non è Io, cioè non è maschile, è molto probabilmente femminile, e
poiché il non-Io è considerato non appartenente all’Io e pertanto al di fuori di esso, l’immagine
dell’Anima è abitualmente proiettata su donne.” C.G.JUNG, L'Analisi dei Sogni - Gli Archetipi
dell'Inconscio - La Sincronicità, cit., p. 133.
200
Ivi p. 133.
199
79
possibilità che i due si innamorino”201 e ancora, sulle ricadute a livello di inconscio
personale e collettivo dei due archetipi, i quali vengono a rappresentare vere e proprie
‘chiavi’ per affacciarsi al di fuori della coscienza: “il rapporto Anima-Animus è sempre
‘animoso’, cioè emotivo e perciò collettivo: gli effetti abbassano il livello di relazione,
avvicinandolo alla base istintuale comune che non ha più in sé nulla di individuale. Non
di rado, quindi, la relazione sfugge interamente al controllo dei due attori umani, i quali
poi non sanno spiegarsi come tutto ciò sia potuto accadere”202.
1.7.4 Il Sé
L’archetipo del Sé è l’archetipo dell’unità e della totalità della psiche. Esso ha un effetto
ordinatore su quest’ultima e non va confuso con l’Io dal momento che – come abbiamo
diffusamente visto - il Sé è un concetto molto più amplio e che di fatto ingloba la
dimensione cosciente e razionale della mente.203 Il Sé si manifesta nelle visioni, nei
sogni, nei miti, nelle fiabe, nei racconti e in tutte le narrazioni come personalità di grado
superiore, ad esempio come figura regale o eroica oppure, in forme astratte, riferendosi
al motivo della totalità, come cerchio, quadrato, albero mandala. Il Sé, pur essendo
concettualmente un “tutto” e, al contempo, uno scontro di entità opposte (Dio-Lucifero,
Bene-Male, Forza-Debolezza ecc.), rimane fuori dagli schemi della nostra psiche,
essendo non paragonabile a nessun’altra dimensione esistente. Il Sé va a configurarsi
così come un’entità quasi trascendente; ciò darebbe adito a convincimenti circa la sua
natura e potrebbe indurre a pensare che esso sia piuttosto il frutto di una speculazione
umana priva di qualsiasi concretezza. Ma esso, lungi dall’essere un puro costrutto
filosofico, basato sul semplice esercizio del ragionamento, è ben presente e radicato
nella psiche e nella storia dei popoli dal momento che i fatti che lo evidenziano sono
numerosissimi. L’esperienza diretta col Sé lascia un’impronta indelebile nell’uomo, la
quale si manifesta di conseguenza nel suo agire cosciente. Essa è il coronamento di un
tragitto lungo e tortuoso a cui ogni individuo è chiamato; un percorso mai semplice ma
201
C.G. JUNG, Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, cit., p. 15.
Ivi, pp. 15-16.
203
A tal proposito Jung è categorico quando afferma: “Il fatto che l’Io sia assimilato al Sé va considerato
una catastrofe psichica” Ivi, p. 21.
202
80
che, una volta compiuto, apre all’uomo le porte della sua stessa umanità all’interno del
cosmo.204
1.7.5 Il Fanciullo
L’archetipo del Fanciullo - o Puer Aeternus, in latino “fanciullo eterno, divino”, proviene da un dio appartenente dell’antichità, in seguito identificato con Dioniso e
quindi con Eros. È il dio della giovinezza, della forza, della resurrezione dopo la morte,
del rinnovamento. Questo archetipo si manifesta, nel suo lato negativo, come fuga di
fronte responsabilità e agli impegni e con un protrarsi di una condizione adolescenziale;
in quello positivo, invece, esso risveglia la vigorìa, le risorse creative e le capacità di
rinnovamento della psiche. Per Jung osservare il motivo del fanciullo soltanto come
residuo del ricordo della nostra infanzia o adolescenza è fuorviante o quantomeno
limitante dal momento che, essendo un archetipo appartenente all’inconscio collettivo,
esso va a configurarsi piuttosto come “l’aspetto infantile preconscio dell’anima
collettiva”205. Questo archetipo descrive al contempo qualcosa che è stato, ma anche
qualcosa di attuale e in divenire. Il fanciullo, infatti, è “avvenire in potenza”206,
presagio: anche quando sembra riferirsi ad eventi legati al passato di un individuo, esso
serba in sé la promessa di sviluppi futuri ed il presagio di imminenti trasformazioni.
1.7.6 La Grande Madre
L’archetipo della Grande Madre nasce dalla storia delle religione e comprende le varie
specie del tipo di dea-madre (tra cui la mamma, la nonna, la matrigna la suocera, la
nutrice, la sovrana, la Vergine Maria ecc. ecc.). Le proprietà principali di questo
archetipo sono il “materno”, ossia “la magica autorità del femminile, la saggezza e
204
Da Due testi di psicologia analitica: “Il Sé potrebbe essere caratterizzato come una specie di
compensazione per il conflitto fra l’interno e l’esterno; formulazione non impropria in quanto il Sé ha il
carattere di un risultato, di una meta conseguita, di qualcosa prodottasi a poco a poco e divenuto
sperimentabile con molte fatiche. Pertanto il Sé è anche la meta della vita, perché è la più perfetta
espressione della combinazione fatale che si chiama individuo, e non solo del singolo uomo, ma di un
intero gruppo, nel quale l’uno integra l’altro per costituire l’immagine completa. Quando si riesce a
sentire il Sé come irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto né sottoposto
ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la terra attorno al sole, allora l’individuazione è
raggiunta […] In questa relazione non c’è nulla di conoscibile, perché noi non possiamo dir nulla circa i
contenuti del Sé. L’Io è l’unico contenuto del Sé che conosciamo. C.G. JUNG, Due testi di psicologia
analitica, cit., p. 235.
205
C.G. JUNG, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, cit., p. 155.
206
Ivi, p. 157.
81
l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo,
protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; l’istinto e
l’impulso soccorrevole [ma anche] ciò che è segreto, tenebroso, nefasto; ciò che divora,
seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile”207. L’archetipo della Madre,
dunque, come tutti gli archetipi possiede un lato positivo , quello della madre amorevole
e soccorrevole, e uno negativo ossia la madre terrificante e nefasta. Jung, a differenza di
Sigmund Freud, attribuisce un’importanza marginale alla madre personale, ossia a
quella naturale – o adottiva – di ciascun individuo. Egli sostiene, ad esempio, che i
contenuti delle fantasie anormali sono da riferirsi alla madre naturale soltanto in parte,
dal momento che essi in gran misura hanno motivazioni che si spingono al di là di tale
figura e degli episodi dell’infanzia ad essa legati. Motivazioni, queste, che andrebbero
ricercate, piuttosto, nelle produzioni della fantasia di carattere mitologico - e quindi
archetipico – le quali provengono sempre da un presupposto inconscio e possono
derivare da racconti di fiabe, storie, aneddoti, (ma anche, aggiungeremo noi da film,
cartoni animati, spot pubblicitari e qualsiasi produzione audiovisiva).
1.7.7 Il Vecchio Saggio
L’archetipo del “Vecchio Saggio” – o Senex,
in latino “vecchio” - rappresenta
l'archetipo dello spirito ossia il significato preesistente nella vita caotica. Rivela
anch’esso una natura dicotomica: da una lato, infatti, assume caratteristiche
psicologiche quali la stabilità, la maturità, la saggezza, il senso di responsabilità; in
senso negativo, invece, esso riferisce ad inclinazioni derivanti da eccessivo
tradizionalismo, dispotismo, cinismo, razionalità e mancanza di fantasia.
1.8 Gli “archetipi narrativi”: gli studi di Vladimir Propp
Accanto a quelli che potremmo definire gli archetipi “in sé” - declinati, come abbiamo
visto, in immagine, mito e personalità - esistono, altresì, quelli che potremmo
identificare come motivi e strutture archetipiche che attengono alla narrazione e alle
modalità di racconto.
207
Ivi, p. 83.
82
Vladimir Propp (San Pietroburgo 1895 – Stalingrado 1970) pubblica nel 1928 quello
che sarebbe diventato un classico non solo del folclore, ma delle scienze umane in
generale. Morfologia della fiaba208 è un’opera che ha precorso in maniera illuminante e
affatto originale le ricerche linguistiche di stampo strutturalista che da lì in poi si sono
dispiegate nei decenni. Canti, novelle, leggende e fiabe provenienti da antiche tradizioni
popolari sono storicamente state ascritte a genere letterario, da analizzare in ottica
filologica o estetica. Propp allarga il campo di analisi e ne fa un problema più
marcatamente etnologico, storico e, per certi versi, psicologico. La tesi del linguista
russo è quella di una sostanziale omogeneità strutturale di tutte le fiabe esistenti in
letteratura e nei racconti orali popolari. Essi, infatti, a prescindere dalla data della loro
creazione e dalle radici geografiche dalle quali hanno preso vita, conserverebbero in sé
la medesima struttura portante, una grammatica di fondo universale, coerente nei secoli
e attraverso le varie culture. In altre parole, Propp prefigura quello che potrebbe
definirsi una sorta di “archetipo narrativo” il quale, pur limitato dall’autore al racconto
folcloristico, può essere fatto ricondurre - senza troppi indugi ma con le dovute
eccezioni - alla più amplia dimensione della narrazione tout court. Secondo Propp, tutte
le fiabe (laddove per “fiaba” si intende anche “favola” dal momento che i due termini
sono usati indistintamente, mentre lo stesso autore preferisce riferirsi a “favole di
magia” per indicare ricchi e multiformi racconti del folclore aventi una determinata
struttura) posseggono caratteristiche comuni sintetizzabili in cinque punti:
1. "Gli elementi costanti, stabili, della favola sono le funzioni dei personaggi,
indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano
le parti componenti fondamentali della favola"209. La vera è propria discriminante per
Propp è rappresentata dalla funzione del personaggio. È dall’individuazione delle
funzioni dei personaggi, della loro combinazione della loro successione, infatti, che
prende forma l’ossatura del racconto. Essa è totalmente indipendente dall’identità stessa
del personaggio, nonché dalle modalità in cui essa è svolta. 210 Per Propp, infatti,
“nessun soggetto di racconto di fate può esser studiato a sé [così come] nessun motivo
208
V.J. PROPP, Morfologia della fiaba (1927), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1988.
Ivi, p. 27.
210
“Rinunciamo completamente per il momento a studiare la fiaba dal punto di vista del soggetto. Il
racconto di fate è un tutto, tutti i suoi soggetti sono reciprocamente legati e condizionati; da ciò deriva
l’impossibilità di isolare l’indagine del motivo”. V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate
(1946), Einaudi Editore, Torino, 1949, p. 31.
209
83
di racconto di fate può esser studiato prescindendo dalle sue relazioni con il tutto”211.
Secondo l’autore russo la successione degli avvenimenti all’interno della favola
possiede leggi ben definite ed è scrupolosamente identica; la possibilità di variazioni,
così, avrebbe limiti molto ristretti e facilmente individuabili.
2. "Il numero delle funzioni che compaiono nella favola di magia è limitato"212. In
totale, le funzioni213 individuate da Propp, sono 31 (avremo modo di trattarne fra breve).
3. "La successione delle funzioni è sempre identica"214. Poche sono le fiabe che
contengono al loro interno tutte le funzioni, tuttavia ciò non inficia la legge della
successione di cui sopra, dal momento che l’assenza di alcune funzioni non muta
l’ordine delle altre.
4. "Tutte le fiabe di magia hanno struttura monotipica"215, ovvero rappresentano
innumerevoli variazioni di una serie unica per tutte le fiabe.
Una volta individuate le funzioni, quindi, è possibile determinare isotopia tra le favole
che potranno così essere considerate tra esse “monotipiche”216. In base a questa
classificazione, secondo Propp, si può compilare un indice dei tipi fondato su precisi
tratti strutturali delle favole e non, come avevano cercato di fare altri linguisti - Volkov
e Veselovskij su tutti - sulla base del loro intreccio (metodo considerato piuttosto vago).
Tutte le funzioni della favola si vanno a disporre, in questo modo, in un unico racconto,
avente una sola serie di funzioni, senza che tra di esse ci possa essere un rapporto di
contraddizione o di mutua escludibilità. Esso in sostanza riprende le tre fasi aristoteliche
della narrazione, ossia: una fase preparatoria in cui qualcosa rompe l’equilibrio iniziale
e causa un allontanamento, una fase centrale nella quale si assiste alle lotte e alle
peripezie dell’eroe per raggiungere il suo obiettivo, e infine una fase finale che consiste
nella vittoria risolutiva e nel ritorno all’ordine.
211
Ivi, p. 30.
Ibidem.
213
Nota Propp: “Per funzione si intende l’azione del personaggio determinata dal punto di vista del suo
significato per l’andamento della narrazione” V.J. PROPP, Morfologia della fiaba, cit., p. 215.
214
Ivi, p.28.
215
Ivi, p. 29.
216
Nelle scienze umane è monotipico un gruppo tassonomico rappresentato da un solo tipo; ad esempio
una famiglia con un solo genere oppure un genere con una sola specie.
212
84
Come si accennava, le funzioni “universali” individuate da Vladimir Propp sono 31; in
questo elenco le riproponiamo nel dettaglio, attenendoci alle diciture originali
dell’autore.217
1.8.1 Le funzioni
I.
II.
Uno dei membri della famiglia si allontana da casa (Allontanamento).
All’eroe è imposto un divieto (Divieto)
III.
Il divieto è infranto (Infrazione del divieto)
IV.
L’antagonista tenta una ricognizione (Investigazione)
V.
VI.
L’antagonista riceve informazioni sulla sua vittima (Delazione)
L’antagonista tenta di ingannare la vittima per impadronirsi di lei o dei suoi
averi (Tranello)
VII.
La vittima cade nell’inganno e con ciò favorisce involontariamente il nemico
(Connivenza)
VIII.
L’antagonista arreca danno o menomazione a uno dei membri della famiglia
(Danneggiamento)
IX.
La sciaugura o mancanza è resa nota, ci si rivolge all’eroe con una preghiera o
un ordine, lo si manda o lo si lascia andare (Mediazione, momento di
connessione)
X.
XI.
XII.
Il cercatore acconsente o si decide a reagire (Inizio della reazione)
L’eroe abbandona la casa (Partenza)
L’eroe è messo alla prova, interrogato, aggredito ecc., come preparazione al
conseguimento di un mezzo o di un aiutante magico (Prima funzione del
donatore).
XIII.
L’eroe reagisce all’operato del futuro donatore (Reazione dell’eroe)
XIV.
“Il mezzo magico perviene in possesso dell’eroe” (Fornitura)
XV.
L’eroe si trasferisce, è portato o condotto sul luogo in cui si trova l’oggetto delle
sue ricerche (Trasferimento tra due reami)
XVI.
XVII.
XVIII.
217
L’eroe e l’antagonista ingaggiano direttamente la lotta (Lotta)
All’eroe è impresso un marchio (Marchiatura)
L’antagonista è vinto (Vittoria)
Ivi, Cap. 3.
85
XIX.
È rimossa la sciagura o la mancanza iniziale (Rimozione della sciagura o della
mancanza)
XX.
XXI.
XXII.
L’eroe ritorna (Ritorno)
L’eroe è sottoposto a persecuzione (Persecuzione, Inseguimento)
L’eroe si salva dalla persecuzione (Salvataggio)
XXIII.
L’eroe arriva in incognito a casa o in un altro paese (Arrivo in incognito)
XXIV.
Il falso eroe avanza pretese infondate (Pretese infondate)
XXV.
All’eroe è proposto un compito difficile (Compito difficile)
XXVI.
Il compito è eseguito (Adempimento)
XXVII.
L’eroe è riconosciuto (Identificazione)
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
Il falso eroe o antagonista è smascherato (Smascheramento)
L’eroe assume nuove sembianze (Trasfigurazione)
L’antagonista è punito (Punizione)
L’eroe si sposa e sale al trono (Nozze)
Tali funzioni, secondo Propp, sono da intendersi come universalmente valide poiché
rappresentano le fasi tipiche di qualsiasi racconto folcloristico e, aggiungeremo noi, di
qualsivoglia narrazione, sia antica che moderna. La stessa pubblicità, intesa come
racconto audiovisivo contemporaneo, non è affatto esente da questo discorso: basti
pensare alla miriade di spot che presentano, seppur in maniera sintetica e condensata, le
stesse funzioni descritte dal linguista russo, andando così a confermare, semmai ce ne
fosse stato il bisogno, la validità e l’applicabilità delle sue teorie.
Come accennato prima le funzioni devono essere intese come indipendenti dall’identità
di chi le compie e, altresì, dal modo in cui esse sono compiute. Ciò, però, può rendere
difficoltosa la loro identificazione poiché funzioni diverse possono essere attuate in
modo identico; si deve constatare, perciò, una certa influenza di alcune forme su altre
che può dar vita a processi di “assimilazione”218.219Assimilazioni e omissioni a parte,
218
Ivi, p. 71.
Così lo stesso autore sul fenomeno dell’assimilazione: “Prendiamo il caso seguente: Ivan chiede un
cavallo alla baba-jaga, che gli propone di scegliere il migliore di una mandria di puledri tutti uguali. Egli
fa la giusta scelta e ottiene l’animale. L’operato della baba-jaga rappresenta qui la messa alla prova
dell’eroe da parte del donatore, che sarà seguita dal conseguimento del mezzo magico. Vediamo però che
in un’altra favola l’eroe vuole in moglie la figlia del genio delle acque e questi pretende che egli si scelga
la sposa tra dodici ragazze tutte uguali. Possiamo parlare anche in questo caso di messa alla prova da
parte del donatore? È chiaro che pur se l’operato è identico, ci troviamo di fronte a un elemento
219
86
resta fedele la “struttura archetipica” del racconto di fate e la sua applicabilità generale
(o quasi).
Per quanto concerne i personaggi, invece, Propp ne individua sette principali all’interno
della fiaba220; dando preminenza, come detto, alla loro funzione, essi sono intesi più
propriamente come sfere di azione e si concretano in:
1. L’Antagonista (comprende il danneggiamento e il combattimento con l’eroe)
2. Il Donatore (comprende la trasmissione del mezzo magico e la sua preparazione)
3. L’Aiutante (comprende il trasferimento dell’eroe nello spazio, la rimozione della
sciagura o della mancanza, il salvataggio dalla persecuzione, l’adempimento dei
compiti difficili, la trasfigurazione dell’eroe)
4. La principessa e il padre della principessa (comprende l’assegnazione di compiti
difficili, la marchiatura, lo smascheramento, l’identificazione, la punizione del
secondo antagonista, le nozze
5. Il mandante (comprende l’invio, il momento della connessione)
6. L’eroe (comprende la partenza, la reazione alle richieste del donatore, le nozze)
7. Il falso eroe (idem)
Le sfere di azione corrispondono esattamente al personaggio, laddove un solo
personaggio può abbracciare più sfere d’azione. Anche i personaggi, dunque, così come
le funzioni dalle quali si plasmano, possono essere considerati costanti all’interno del
racconto di fate, entità che ricorrono in ogni contesto seppur in parte omessi o
“raddoppiati” nelle loro funzioni all’interno del racconto.
Propp è certo che i motivi dei racconti fate vadano ridotti sostanzialmente a fatti e che
questi fatti non sono una somma di elementi risolvibili nelle fonti ma il risultato di un
processo spirituale data l’universalità dei motivi stessi. A tal riguardo il legame con i
miti, all’interno della prospettiva proppiana, è evidentemente presente; tuttavia egli
preferisce compiere – in particolar modo con la sua opera successiva Le radici storiche
del racconto di fate221 - un’opera magna sui racconto del folclore e sulla sua struttura
completamente diverso e cioè al compito difficile collegato alla richiesta di matrimonio. Quello che ha
avuto luogo è l’assimilazione tra le due forme.” Ibidem.
220
Ivi, pp. 85-86.
221
V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate (1946), Einaudi Editore, Torino, 1949.
87
(argomento a lui più prossimo), senza addentrarsi troppo sul terreno dei raffronti e
lasciando in questo modo, presso gli studiosi, una moltitudine di gravide suggestioni.
Propp, tuttavia, non potendo ignorare il mito all’interno della sua ricerca afferma: “Per
mito si intenderà [..] un racconto su divinità o esseri divini nella cui realtà il popolo
crede […]. Il mito e il racconto di fate si differenziano non già dalla loro forma, ma per
tutta la loro funzione sociale […]. Formalmente esso non può essere distinto dal
racconto di fate. Il racconto di fate e il mito possono talvolta coincidere così
perfettamente, che nell’etnografia e nel folclore tali miti si chiamano spesso fiabe.”222
Secondo Propp la sostanziale vicinanza del mito al racconto di fate consiste nel
significato preminentemente sociale che hanno i due generi . Nel mito, infatti, così come
nella favola “Non è importante la tecnica della produzione come tale, bensì il regime
sociale che ad essa corrisponde.”223Entrambi, dunque, sembrano configurarsi come fatti
sostanzialmente storici e sociali, i quali affondano le loro radici nell’“humus”
contingente all’interno dei quali sono prodotti e amplificati e soprattutto essi
rappresentanto, verosimilmente, il retaggio di antichi rituali simbolizzati nei secoli
come quello dell’iniziazione, del matrimonio, del funerale ecc.224 Tuttavia Propp,
nonostante ripeta a più riprese che “l’unita di composizione della fiaba non va ricercata
in certe particolarità della psiche umana, né in una particolarità della creazione artistica,
ma nella realtà storica del passato” tra le righe lascia almeno trasparire al lettore che
miti, riti, leggende e racconti di fate posseggono un carattere squisitamente psicologico.
L’autore russo, infatti, afferma come “tanto il mito quanto il rito sono il prodotto della
mentalità. È talvolta assai difficile spiegare e definire queste forme di mentalità.
Tuttavia è indispensabile che il folclorista ne tenga conto, non solo, ma chiarisca a se
stesso quali rappresentazioni si trovano alla base di dati motivi”225. Secondo Propp la
mentalità primitiva è il dato fondamentale da prendere in analisi per risalire alla genesi
del racconto di fate. Essa, infatti, non conoscendo astrazioni di nessun genere, si
222
Ivi, p. 43.
Ivi, p. 34.
224
È Joseph Campbell a notare, a tal proposito, come “I riti delle tribù per la nascita, l’iniziazione, il
matrimonio, i funerali, l’insediamento, e così via, servono a tradurre in forme impersonali e classiche le
crisi e le azioni della vita dell’individuo. Esse lo svelano a se stesso, non come questa o quella persona ma
come il guerriero, la sposa, la vedova, il prete, il condottiero; e nel contempo ripetono per il resto della
comunità l’antica lezione degli stadi archetipi. Tutti partecipano al rito secondo il loro rango e le loro
funzioni. Tutta la società diventa visibile a se stessa come un’unità vivente ed imperitura. Generazioni di
individui passano, come cellule anonime di un corpo vivente; ma la forma eterna che sostiene rimane”. J.
CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, cit., p. 339.
225
V.J. PROPP, Le radici storiche del racconto di fate, cit., p. 49.
223
88
manifesta negli atti, nelle usanze, nella lingua, nei riti e nelle forme di organizzazione
sociale. Ora, a chiunque abbia anche minimamente interiorizzato la prospettiva
archetipica junghiana, verrebbe da compiere un salto logico preciso. Essi, infatti,
perverrebbero alla conclusione che tale mentalità rispondeva allora – come a tutt’oggi
risponde – , oltre agli aspetti storici e sociali l’individuo soggiaceva, a quelle immagini
e a quelle energie primigenie, a quelle “idee primordiali” preminenti nell’uomo che
Jung stesso definiva, per l’appunto, “archetipi”. Considerati i risultati emersi dallo
studio di Propp, i quali hanno evidenziato, come abbiamo visto, una struttura tipica dei
racconti folcloristici, universale, comune a tutte le epoche e a tutte le zone geografiche,
non parrà, dunque, al lettore un azzardo o un’ingenuità intellettuale evidenziare una
natura archetipica – anche metaforicamente archetipica – riferita a questo tipo di
racconti nonché, come abbiamo più volte accennato, alla narrazione in senso più
amplio. In questo modo, spingendoci ancora più in là con le nostre alchimie concettuali,
potremmo affermare che, come per l’uomo l’alfabeto primigenio del mondo è dettato,
attraverso l’inconscio collettivo, dalla luminosità ancestrale degli archetipi, così le varie
funzioni individuate da Propp ricorrenti in tutti i racconti di fate sono – poste le dovute
limitazioni - gli apriori universali di qualsivoglia discorso narrativo, dal momento che
esse vanno a figurare una struttura sempre valida e applicabile, la cui genesi affonda le
proprie radici nella notte dei tempi226.
1.9 Campbell e il “Viaggio dell’Eroe”
Operazione simile a quella proppiana, dalla quale trae certamente ispirazione, è quella
realizzata dallo stesso Joseph Campbell nella prima metà degli anni ’50. Quest’ultimo,
analogamente al linguista e antropologo russo, parte dal presupposto che tutte le storie
mitologiche intorno alla figura dell’eroe vadano a comporre, in realtà, una sola grande
storia universale, narrata all’infinito, al cui interno può sussistere un numero pressoché
illimitato di variazioni. Nella sua opera The hero with a thousand faces227, pietra miliare
226
Le correnti all’interno della semiotica, dell’analisi del discorso e della cosiddetta “narratologia”, sono
diverse ed hanno avuto la loro massima espansione tra Ottocento e Novecento. Ne facciamo qui, un
elenco riassuntivo con l’indicazione delle teorie e degli autori più rappresentativi: il “formalismo russo”
(Propp, Bakthin, Todorov), l’“ermeneutica tedesca” (Gadamer, Husserl), lo “strutturalismo francese”
(Barthes, Lévi-Strauss, Greimas, Bremond, Ricoeur), la “storiografia” e la “semiotica italiana” (Segre,
Avalle, Eco), il “neo-criticismo statunitense” (Frye, Scholes, Chomsky, Chatman, MacIntyre).
227
J. CAMPBELL, The hero with a thousand faces, cit., Pantheon Books, New York, 1953, trad. it.,
L'eroe dai mille volti, Feltrinelli Editore, Milano, 1958.
89
degli studi mitologici del XX secolo, Campbell nota come ogni mito segue uno schema
narrativo costituito da elementi strutturali comuni, una “sceneggiatura universale”, che
si ripete indipendentemente dall'appartenenza del racconto alla mitologia, occidentale, a
quella greca, a quella biblica o a quella orientale antica, andando a costituire ciò che egli
stesso chiama un unico, grande, “monomito”.
Con rigore scientifico, il mitologo americano pone a confronto centinaia di racconti e di
leggende tribali e arcaiche, estrapolati dalle più svariate culture e dai periodi storici più
disparati. Gradualmente, egli perviene alla conclusione che esiste, all’interno del
racconto mitici, una sorta di “trama-archetipo”, comune a tutte le storie. Per Campbell,
infatti, “sia l’eroe ridicolo o sublime, greco o barbaro, ebreo o gentile, il suo viaggio
varia ben poco nelle sue linee essenziali. Nelle favole popolari l’atto eroico è costituito
da un’azione fisica; nelle religioni più alte è presentato come un’azione morale; tuttavia
si troveranno variazioni sorprendentemente piccole nella morfologia dell’avventura, dei
personaggi, delle vittorie riportate”228, mentre sull’applicabilità dei tale percorso innato
egli afferma: “Quando in una determinata favola, leggenda o mito, sembra mancare
l’uno o l’altro degli elementi base del modello archetipo, esso vi è inevitabilmente
celato sotto questa o quella veste, e la sua apparente mancanza può illuminare sia la
storia che la patologia”.229
Le tappe della struttura mitica del “Viaggio dell’Eroe” individuate da Campbell –
diciassette in tutto – vanno a costituire così una vera e propria mappa psichica dei più
ricorrenti archetipi dell’inconscio collettivo, i quali afferiscono direttamente ai miti ma
che possono essere rintracciati altresì nelle stesse favole, nei sogni e nei processi
immaginativi in generale. Essi vanno a costituire il percorso archetipico di rivelazione
che ogni essere umano è chiamato ad intraprendere nel corso della sua esistenza (un
percorso che è concettualmente molto vicino a quello junghiano di “individuazione”230)
Esse, esattamente come le funzioni proppiane del racconto di fate, sono presenti, in
parte o in toto, in ogni mito, anche se non necessariamente nella stessa sequenza.
Segnatamente, le tappe del viaggio archetipico si dipanano raggruppate in tre stati
fondamentali che qui vediamo nel dettaglio.231
228
Ivi, p. 40
Ivi, pp. 40-41.
230
Cfr. par. 7. del presente lavoro.
231
Nella loro versione riveduta e ridotta le fasi del viaggio, comunemente studiate sono invece tredici,
rispettivamente: 1. Il Mondo Ordinario, Il Richiamo all'Avventura,Il Rifiuto dell'Appello, L'Incontro con
229
90
Stadio della Separazione o Partenza
1. L’appello
2. Rifiuto all’appello
3. L’aiuto soprannaturale
4. Il varco della prima soglia
5. Il ventre della balena
Stadio delle Prove e Vittorie dell’iniziazione
1. La strada delle prove
2. L’incontro con la dea (Magna Mater)
3. La donna quale tentatrice
4. Riconciliazione con il padre
5. Apoteosi
6. L’ultimo dono
Stadio del Ritorno e Reinserimento nella società
1. Rifiuto a tornare
2. La fuga magica
3. L’aiuto dall’esterno
4. Il varco della soglia del ritorno
5. Signore dei due mondi
6. Libero di vivere232
Lo schema individuato da Campbell, fonte crescente di ispirazione per moltissimi
studiosi provenienti da svariate discipline, viene fatto proprio, all’inizio degli anni ’90
del secolo scorso, dallo scrittore, sceneggiate e story analist Chris Vogler, il quale,
assumendo come faro l’opera del mitologo americano, ne compendia i tratti principali e
il Maestro, L'Attraversamento della Prima Soglia, Prove, Alleati, Nemici, L'Avvicinamento alla Caverna
più Segreta, Sacrificio e tradimento, La Prova Suprema o Iniziazione, Il Premio, La Via del Ritorno, La
Resurrezione e Il Ritorno con l'Elisir.
232
Ivi, pp. 39-40.
91
ne adatta i contenuti alla scrittura narrativa e cinematografica (nello specifico a quella di
Hollywood).
Ne Il viaggio dell’eroe233 Vogler fa assurgere il modello fondamentale di Campbell a
“codice segreto” di qualsivoglia narrazione, anche audiovisiva contemporanea 234. Egli,
rielaborando parzialmente e facendo propria la direzione descritta dal maestro, riassume
il Viaggio in dodici tappe fondamentali e si concentra, altresì, sui personaggi-funzione
che occorrono all’interno del racconto, ovvero gli archetipi intesi come personalità o
entità. Diamo qui, dunque, una breve descrizione delle fasi del Viaggio vogleriano,
direttamente mutuato, come si è detto, da quello di Campbell di cui abbiamo già
illustrato il percorso in maniera schematica. Le tappe come, si diceva, sono dodici.
Troviamo, nell’ordine: 1 Il Mondo Ordinario, Il Richiamo all’Avventura, Il Rifiuto del
Richiamo, L’Incontro col Mentore, Il Varco della prima soglia, Prove, alleati e nemici,
L’Avvicinamento alla caverna più recondita, La Prova centrale, La ricompensa, La via
del ritorno, la Resurrezione, Il Ritorno con l’Elisir.
Nella prima tappa, l'eroe, - sia esso uomo oppure donna - , viene bruscamente sottratto
alla sua vita ordinaria e trasportato in un mondo altro, nuovo ed alieno: si tratta della
classica teoria del “pesce fuor d’acqua”. L’appello all’avventura rivela la posta in gioco
e rende manifesta la meta. All’eroe si presenta un problema, una sfida o un’avventura da
intraprendere che compromette lo status quo; una volta che il Richiamo è pervenuto,
l'eroe non può più vivere nel abituale mondo della vita quotidiana. Il Rifiuto del
Richiamo è la metafora delle paure e delle debolezze comune, insita in ogni uomo; così
gli eroi pigri o pavidi devono essere chiamati più volte all'avventura e se cercano di
sottrarsi alla loro responsabilità, essi devono essere "incitati, blanditi, adulati, tentati o
costretti"235
L’eventuale rifiuto iniziale è, tuttavia, ragionevolmente comprensibile poiché l’eroe si
trova ad affrontare la più grande di tutte le paure ossia il terrore dell'ignoto.
Una volta risposto positivamente all'appello, l'eroe entra quasi sempre in contatto con
fonti saggezza o di sostegno prima di intraprendere l'avventura. Tale fonte
può
233
C. VOGLER, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema, Dino
Audino Editore, Roma, 1992.
234
Così lo stesso autore: “Non tutte le storie contemporanee sono mitologiche, né hanno necessariamente
a che fare con la sfera del mito, ma le storie che si raccontano ai nostri giorni hanno molto in comune con
quell’antica energia dei miti. La struttura e gli archetipi del mito sono alla base di tutta la narrativa
contemporanea e ogni scrittore dovrebbe conoscerne gli elementi.” Ivi, p. 5.
235
Ivi, p. 9.
92
manifestarsi in una persona (per es. il mago Merlino) ma anche in un oggetto, un’entità,
una suggestione, un motto che torna alla mente. Il Varco della Prima Soglia è l'atto di
volontà attraverso cui l'eroe sancisce formalmente il proprio impegno nella risoluzione
della situazione, confrontandosi seriamente con il problema e cominciando ad agire. È il
momento in cui il racconto decolla e l’avventura entra nella sua fase più significativa.
È qui che l'eroe incontra i primi Guardiani della Soglia, che a volte si presenteranno
sotto spoglie inquietanti ed ostili. Il loro fine principale è quello di mettere alla prova
l'eroe. Quest’ultimo potrà ritirarsi e fare marcia indietro, passare all'attacco, agire
d'astuzia o con il sotterfugio per evitarli, potrà cercare di sedarli, corromperli o di farli
diventare alleati.
Ad interpretare i Guardiani possono essere, in maniera sottaciuta, anche le persone più
care e prossime all'eroe: saranno loro a testare la sua determinazione poiché essi
rappresentano i demoni interiori che albergano nell’inconscio. L'eroe, dunque, in tale
marasma di complessi, deve riuscire a cavarsela ma anche a separare gli amici dai
nemici. In questa fase l'eroe incontra spesso la propria Anima, ossia, in perfetta sintonia
con le concezioni junghiana, un individuo di sesso opposto su cui l'eroe potrebbe
proiettare i propri bisogni o le proprie forze inconsce, rendendolo, così, fortemente
attraente.
Con l’Avvicinamento alla caverna l’eroe giunge finalmente ai confini di un luogo
pericoloso e spesso oscuro, dove è nascosto l’oggetto della sua ricerca. L’eroe,
entrandovi, attraversa la seconda soglia e, nel farlo, spesso è costretto a superare delle
prove preliminari (per es. eludere la sorveglianza di un luogo inaccessibile e
pericoloso).
Nella Prova Centrale l'eroe si trova di fronte al suo timore più grande: egli va incontro
alla morte – o meglio gli sembrerà di morire - , ma lo fa per poter rinascere e ritornare
cambiato, migliorato. Essa può essere rappresentata anche nella semplice e momentanea
interruzione di un rapporto. La prova è un momento cruciale e di grande suspence
all’interno della quale l’eroe si allontana drammaticamente dal suo obiettivo e tutto è
messo in serio pericolo. Ma è proprio dal brivido terribile di aver guardato negli occhi la
morte che l’eroe riceverà una spinta vitale straordinariamente potente ed inusitata. Vinta
la prova, all’eroe spetta la Ricompensa (per es. un’arma particolare, la futura sposa, il
santo Graal ecc.), attraverso cui egli prende possesso di ciò che ha cercato; a questo
93
punto,
egli
può
sentirsi
gratificato
e
realizzato
dalla
vittoria,
rendendosi
improvvisamente conto della sua reale natura, e rammaricandosi di quanto, in passato,
sia stato sciocco o testardo. L'eroe si prepara, quindi, a tornare nel Mondo Ordinario,
ma teme nel suo profondo che la suggestione della prova possa svanire nel nulla
dinnanzi alla cruda e cinica vita di tutti i giorni; egli deve dedicarsi, perciò, ad un
continuo cambiamento interiore. La Resurrezione costituisce l’acme di qualsivoglia
mito (e narrazione tout court): in questa fase l'eroe deve dimostrare che la sua vecchia
identità è del tutto decaduta e che quella nuova è immune alle tentazioni e alle
debolezze cui era succube. La Resurrezione implica il sacrificio che va a costituire di
fatto la caratteristica dell'eroe: dopo di essa egli è pronto a rinunciare a tutto per un
ideale, per una persona o per un gruppo. Qui la morte e l’oscurità si presentano al
cospetto dell’eroe per un’ultima prova prima di venire sconfitte in maniera definitiva;
egli dimostrerà così di aver imparato la lezione della Prova Centrale. L'ultima tappa del
Viaggio è Il Ritorno con l'Elisir.
Esso rappresenta l’oggetto che l’eroe porta via con sé, ma può manifestarsi sotto forma
di diversi valori, esperienze e virtù - amore, saggezza, la fama, conoscenze da
condividere con la comunità ma anche l'eccitante avventura di tutta una vita - ai quali
egli perviene alla fine del suo tortuoso percorso. L’Elisir trasforma, rende più
consapevoli, più “umani”, più integri, più parte di un insieme. Il Viaggio dell'Eroe è a
questo punto completato: se l'Eroe fallisce, dovrà ripetere tutte le prove finché non avrà
assimilato la lezione di vita e riportato a casa il suo Elisir da condividere con gli altri.
Tali fasi, come sottolineato a più riprese, non sono da intendersi come fisse o
imprescindibili ma, piuttosto, come elementi cangianti e dinamici che, seppur
riverberati attraverso diverse culture, generi ed epoche storiche, restano tuttavia
radicalmente presenti all’interno delle narrazioni. Esse possono essere omesse, aggiunte
e persino rimescolate senza, per questo, perdere la validità e la loro coincidenza con la
“spina dorsale” di ogni narrazione. Come lo stesso Vogler afferma, infatti,: “Gli
elementi del viaggio tipico sono solo le rappresentazioni simboliche di esperienze
universali di vita […] Tali simboli possono cambiare infinitamente per adeguarsi a
ciascun racconto e ai bisogni della società in cui viene raccontato”236.
236
Ivi, p. 31.
94
Le concezioni di Campbell e Vogler, corrono parallelamente a quelle di Jung anche per
ciò che concerne l’individuazione di medesimi tipi di personaggi riscontrabili nei miti e
nelle favole di tutte le epoche e, in una stadio anteriore, nell’inconscio personale e
collettivo della razza umana tutta. Il concetto di archetipo, in questa ottica, è strumento
imprescindibile per comprendere l’identità e la funzione dei personaggi di un racconto;
esso, infatti, è considerato da Vogler come parte del linguaggio comune della narrativa e
il suo controllo e la consapevolezza della loro atavica energia è, secondo l’autore
americano, un passaggio fondamentale per lo scrittore come lo è l’atto del respirare. È
l’universalità di tali modelli e la loro perenne vibrazione a rendere possibile che la
narrativa diventi un esperienza di tutti. Così come aveva illustrato Propp, Vogler non
intende per archetipo un ruolo statico ed esclusivo che il personaggio acquisisce e
mantiene per tutta la durata della storia. Diversamente, esso si declina in funzioni
flessibili che un personaggio può assumere (e abbandonare) durante il corso del
racconto; così facendo, essi vengono a configurarsi come una sorta di maschere
indossate dagli “attori” temporaneamente per un determinato scopo. Vogler è così
persuaso dal potere di tali archetipi che arriva ad affermare che “non si possono scrivere
racconti senza di essi”237. Lo studioso americano ne individua sette tra i più ricorrenti,
dando loro una definizione e analizzandoli sia da un punto di vista psicologico che
drammaturgico. Essi, ricalcando in gran parte gli archetipi “originali” teorizzati dal Carl
Jung (vedi paragrafo 7) sono, nell’ordine: l’Eroe, il Mentore (vecchio saggio o saggia),
il Guardiano della soglia, il Messaggero, il Mutaforme, l’Ombra, l’Imbroglione. Ne
riportiamo di seguito una breve descrizione.
L’Eroe
Un Eroe è pronto a proteggere e servire un’altra persona a lui cara o un gruppo di
persone, sacrificando, laddove necessario, la sua stessa vita. L’Eroe, come abbiamo
visto, è chiamato a portare al termine il suo personale viaggio, affrontando, con
sacrificio e dedizione numerose peripezie e paure. Egli agisce, impara e cresce traendo
benefici dalle sue esperienze. In termini psicologici l’archetipo dell’Eroe rappresenta la
tensione che, partendo dall’Io, abbraccia la globalità del Sé: in altre parole la ricerca
dell’identità e della compiutezza.
237
Ivi, p. 127.
95
L’eroe è il protagonista della narrazione ed è l’agente che sostanzialmente la fa
muovere. Esistono svariati tipi di eroi: si va dal classico Eroe coraggioso (pronto al
sacrificio, dinamico, entusiasta, valoroso), all’Eroe riluttante (passivo, recalcitrante,
pigro, pauroso), dall’Eroe buono e giusto, all’antieroe (cinico, amareggiato, vendicativo,
machiavellico, a volte persino violento ed immorale); dall’Eroe solitario e quello
filantropo, dedito alla comunità, dall’Eroe catalizzatore238 (il quale, a differenza degli
altri non accoglie grandi trasformazioni interiori ma piuttosto li provoca presso gli altri),
per l’Eroe imbroglione (si veda in seguito) all’eroe autoreferenziale e vanitoso, e così
via239.
Il Mentore (Vecchio saggio o saggia)
Il mentore è di solito una figura positiva che motiva, coadiuva, istruisce e offre doni
all’Eroe. Essi spesso parlano con una voce divina o comunque illuminata e sono spesso
la proiezione di ciò a cui l’Eroe tende nella vita. A livello psicologico questo archetipo
rappresenta la saggezza dell’Io cosciente: alcuni mentori, infatti, sono una specie di
voce della coscienza dell’eroe (si pensi a Grillo Parlante in Pinocchio). Esso è
strettamente collegato, inoltre, all’immagine del genitore o comunque del parente più
anziano.
Così come gli Eroi, anche i Mentori possono essere di diversi tipi: esiste, infatti, il
mentore donatore (che aiuta provvisoriamente l’eroe consegna dogli armi magiche,
chiavi, informazioni determinanti ecc.), il mentore motivatore (che sprona e incita l’eroe
affinché prosegua con successo nel suo tragitto), il mentore inventore (sotto forma di
scienziato, dottore ecc. offre mezzi, saperi o invenzioni all’eroe), il Mentore-coscienza
(che, come il Grillo Parlante, o la volpe della carta igienica “Foxy” un noto spot
pubblicitario, rappresentano la voce interiore e saggia dell’eroe), il Mentore sciamano
(colui che guarisce e opera in maniera magica), il Mentore caduto240 (ovvero quello
precedentemente smarrito durante il suo personale Viaggio dell’Eroe), il falso Mentore
238
Ivi, p. 42.
Campbell ne aveva individuati sette principali ovvero: l’eroe quale guerriero, l’eroe primordiale,
l’eroe umano, l’eroe quale amante, l’eroe quale imperatore e tiranno, l’eroe quale redentore del mondo,
l’eroe quale santo.
239
240
Ivi, p. 46.
96
(ingannatore, il cui intento è sviare l’eroe dalla sua meta, distogliendolo dal suo
obiettivo) ecc.
Il Guardiano della soglia
I Guardiani della soglia rappresentano di solito i personaggi cattivi o gli antagonisti
della storia comunque minori (sentinelle, soldati, criminali, mercenari ecc. ecc.) oppure
semplici figure neutrali che fanno parte del Mondo Stra-Ordinario al quale l’Eroe
approda dopo aver varcato la soglia. Il loro scopo principale è di vagliare la presenza
dell’eroe ed ostacolarlo in qualche modo; tuttavia l’eroe, oltre ad attaccarli o a fuggire
da essi, può riservarsi la possibilità di contrattare, corromperli e trasformarli in alleati.
L’Eroe più che sconfiggere i Guardiani deve assimilarli, carpendone esperienze e
competenze. In termini psicologici essi vengono a configurarsi come i “demoni
interiori” di ciascun individuo - vizi, nevrosi, ansie, dipendenze, tabù ecc - che si
frappongono sulla sua strada verso il cambiamento e la rivelazione.
Il Messaggero
Questi personaggi recapitano sfide e annunciano l’arrivo di importanti cambiamenti:
essi forniscono la motivazione e offrono una sfida all’eroe. Messaggero può essere una
persona (gli araldi della cavalleria, un telegrafista ecc.) o anche una forza (l’arrivo di un
tornado, il tremolio della terra ecc.). I Messaggeri hanno in sé la funzione psicologica di
annunciare la necessità di un significativo mutamento nella vita dell’individuo. Esso
rappresenta quella forza innovatrice (una figura dei sogni, una persona reale, una
suggestione immaginifica, una nuova esperienza o idea nella quale ci si imbatte ecc.)
che “avvisa” la psiche di essere finalmente pronta al cambiamento.
Il Mutaforme
L’archetipo del mutaforme si contraddistingue per la capacità di cambiare connotati
fisici, umori, carattere ed intenti, rendendosi, per questo motivo, di non facile
individuazione. Spesso è rappresentato dall’amante (es. la classica famme fatale) che si
trasforma in traditrice o addirittura folle omicida. La funzione drammaturgica del
Mutaforme è quella di seminare dubbi, ambiguità e suspance all’Eroe e all’interno della
storia stessa. Così come gli altri archetipi esso può manifestarsi in personaggi sia
97
maschili che femminili e, in termini più prettamente psicologici, è strettamente
collegato al concetto di proiezione e a quello junghiano di anima/animus che abbiamo
trattato precedentemente nel presente lavoro.
Voltumna, dio etrusco del cambiamento di foggia, è un classico esempio di mutaforme,
ma rientrano in questo archetipo tutti i personaggi “doppi” e mendaci (per es. Orson
Welles in The Stranger ma anche Robin Williams in Mrs. Doubtfire).
L’Ombra
L’Ombra rappresenta un fondamentale archetipo nel quale risiede la forza del lato
impenetrabile, degli aspetti inespressi, rimossi, rinnegati, nascosti. Esso è il coacervo
delle tendenze respinte o sottaciute che tuttavia sono sempre in agguato all’interno della
psiche. Il volto negativo dell’Ombra si sostanzia spesso, all’interno di una storia, nei
nemici e nei “cattivi”, oppure nei personaggi antagonisti. Mentre i primi si limitano a
cercare di eliminare o sconfiggere l’eroe, gli antagonisti possono essere meno ostili e
proiettarsi in personaggi alleati con l’eroe ma che, ad esempio, non condividono in
pieno la sua condotta. Ma l’Ombra può vivere anche all’interno dello stesso eroe e
rappresentare, come si diceva, il suo lato oscuro; accade, ad esempio, quando egli,
tormentato dalle sue paure o dai sensi di colpa, si comporta in maniera autolesionista, o
comunque non corretta. Attraverso questo archetipo l’eroe si confronta con il suo
inconscio e affronta tutte le sue nevrosi, psicosi, ansie e fantasie riprovevoli. L’Ombra
può essere semplicemente la parte della personalità che si ritiene in qualche modo
insana, sgradevole e limitante, un vizio, il mostro interno col quale si combatte dalla
nascita; l’eroe, per sconfiggerla, dovrà necessariamente affrontarla e, prima ancora,
identificarla e portarla alla luce.
L’Ombra, ha una enorme importanza all’interno del racconto poiché è con essa che
l’eroe misura il proprio valore. All’interno del racconto essa può essere rintracciata in
figure quali mostri, vampiri, alieni, figure diaboliche o altri nemici più o meno terribili.
Anche qui gli esempi si sprecano e si va dal Grendel della leggenda di Beowulf agli
alieni di Signs dai quali tenta di sfuggire Mel Gibson, laddove il Dr. Jekill e Mr. Hyde
ritraggono evidentemente la forza del lato oscuro di ogni uomo che rinviene dal mare
profondo del suo inconscio.
98
L’Imbroglione
L’ultimo archetipo, l’Imbroglione, congiunge le energie della goliardia, della leggerezza
d’animo e, al contempo, del desiderio di cambiamento. Esso, come tutti gli altri, ha
radici antichissime che risalgono al tempo delle leggende, dei miti e del folclore e sono
interpretati tutti quei personaggi che, all’interno della narrazione, assumono le vesti di
buffoni, giocherelloni ecc. Quest’ultimi hanno il ruolo di stemperare la tensione della
storia e i conflitti psicologici che da essa sono generati, venendo a creare intermezzi
comici o quantomeno distensivi. Gli Imbroglioni possono essere “spalle” dell’eroe
(amici, servitori, alleati ecc.) oppure personaggi indipendenti con trame proprie. In
termini psicologici essi svolgono diverse funzioni: suscitando risate aiutano a
comprendere i limiti e ad isolare follie, ipocrisie e contraddizioni. Attraverso il loro
comportamento l’eroe viene spesso richiamato ad una ritrovata oggettività ed umiltà e,
al contempo, ad un necessario ed imminente cambiamento nella situazione corrente
divenuta ormai stagnante.
Uno degli Imbroglioni per eccellenza è rappresentato da Loki, il dio normanno della
frode e dell’inganno ma innumerevoli sono gli esempi che possono essere tratti anche
dalla modernità (Bugs Bunny e i personaggi di Buster Keaton, ad esempio,
rappresentano i più classici degli “Eroi Imbroglioni”).
1.10 Conclusioni
Gli “archetipi della narrazione” sin qui descritti, e intesi sia come personaggi-funzione
sia, operando un’estensione, come strutture primigenie del raccontare, sono l’evidenza
che qualunque storia - come, d’altronde, qualsiasi vita umana - è innervata di forme ed
elementi base attraverso i quali si dipanano tutte le sue vicende. Sul diretto legame tra
narrazioni e predisposizioni universali dell’individuo non ci soffermeremo oltre; ci
affidiamo, piuttosto, all’autorevolezza e l’eleganza della prosa di Joseph Campbell, del
quale vale ben la pena di citare un intero passo, che va a costituire - a pare nostro - il
perfetto epilogo del presente paragrafo:
“Non è difficile per l’intellettuale moderno ammettere che il simbolismo della mitologia
ha un significato psicologico […]. Con la scoperta che la struttura e la logica delle fiabe
e del mito corrispondono a quelle dell’immaginazione, le chimere dell’uomo arcaico,
99
già tanto disprezzate, sono ritornate in primo piano nella coscienza moderna. Da questo
punto di vista appare evidente che attraverso i racconti fantastici […] viene fornita una
descrizione simbolica dei desideri inconsci, delle paure, delle tensioni che determinano
il comportamento umano cosciente. La mitologia è, in altre parole, psicologia scambiata
per biografia, storia e cosmologia. Lo psicologo moderno può ridarle il suo valore
originario e fornire così al mondo contemporaneo un documento ricco ed eloquente
degli abissi più profondi del carattere umano. Ai nostri occhi si rivelano così, come in
un fluoroscopio, gli occulti processi dell’enigma dell’individuo – occidentale e
orientale, primitivo e civile, contemporaneo ed arcaico. Abbiamo davanti il quadro
completo; dobbiamo soltanto leggerlo, studiarne le linee fondamentali, analizzare le
variazioni, e giungere quindi ad individuare le forze occulte che hanno plasmato il
destino dell’uomo e continuano a determinare la nostra vita sia privata che pubblica”241.
In ultima analisi possiamo affermare che chi parla attraverso i racconti e gli archetipi
parla con una voce immortale, che dalle grotte di Lascaux giunge fino ai giorni nostri,
con eco intatta e precisa: sta all’uomo moderno, in un’ottica di coinvolgimento ed
empatia col suo prossimo, saper riprodurre e declinare l’afflato archetipico in diverse
fogge, intercalandolo opportunamente nei suoi discorsi quotidiani, in modo da servirsi
della sua atavica e dirompente forza.
241
Ivi, pp. 227-228.
100
CAPITOLO II
Le immagini collettive della comunicazione
pubblicitaria
Colui che vuole comandare gli uomini deve aver vinto gli dèi.
R. Caillois, Nascita di Lucifero
Tratteremo ora la presenza degli archetipi all’interno della comunicazione pubblicitaria
d’impresa, segnatamente per quel concerne gli spot pubblicitari. Nonostante ad una
prima e superficiale analisi possa sembrare un ambito del tutto alieno – o quantomeno
distante - rispetto all’impianto teorico fin qui delineato, quello della comunicazione
pubblicitaria rappresenta, in realtà, un terreno gravido di spunti d’analisi che viene a
costituire, di fatto, la declinazione e l’applicazione ad un discorso contemporaneo dei
costrutti teorici di cui sopra. Il commercial, d’altronde, in quanto espressione della
creatività umana, rientra in pieno diritto nell’ambito dell’immaginazione e, dunque,
della ricezione e della produzione di archetipi dell’inconscio collettivo. La dimensione
comunitaria, auto-generativa e rassicurante
della pubblicità, in tal senso, con la
proposta di modelli e di figure del discorso che si ripetono attraverso i decenni – dal
mitico cowboy Marlboro al testimonial “Invictus” di Paco Rabanne - non fa altro che
avvalorare tale implicazione242. Ma per sgomberare prontamente il campo da qualsiasi
eventuale perplessità in merito alla scelta dell’oggetto di studi che ci accingiamo qui ad
analizzare, facciamo riferimento ancora una volta alle parole di Carl Gustav Jung il
242
Come afferma, tra gli altri, Umberto Eco: “L’artificio retorico che ci comunica il concetto non viene
inventato in quel momento: è già istituzionalizzato, fa parte di un codice pubblicitario assorbito col latte
materno, è già stato presentato sotto forme diverse un’infinità di altre volte e ci appare comunicante in
blocco”. U.ECO Ciò che non sappiamo della pubblicità televisiva, in Il costume di casa, Milano,
Bompiani 1973, p 169.
101
quale, nei suoi saggi Psicologia e arte poetica (del 1922) e Psicologia e poesia243
(1930-1950), a proposito dello statuto psicologico dell’opera d’arte afferma: “numerosi
sono i motivi mitologici che compaiono [all’interno dell’inconscio]; essi però si
dissimulano nel linguaggio figurato moderno, cioè non si tratta più dell’aquila di Giove,
ma di un aeroplano; la madre ctonia è una grossa erbivendola; Plutone, che rapisce
Proserpina, un automobilista temerario e così via.”244. Orbene, alla luce di quanto
affermato dall’illustre psicologo zurighese, e fatte le dovute distinzioni tra opera d’arte
intesa in senso “classico” e produzioni audiovisive massmediatiche, non risulta affatto
azzardato accostare le immagini delineate dallo stesso Jung a quelle in cui ci si imbatte
quotidianamente all’interno degli spot pubblicitari, laddove, ora la bimba innocente con
in mano un cesto di vimini, ora il giovane uomo intento a scoccare una freccia in una
natura silvana, ora il vispo canguro che saltella ovunque incessantemente245, possono
essere considerati il vivido retaggio, tradotto in segni, di ataviche ed universali forme
dell’inconscio collettivo. Essi rappresentano le figure che, a partire da un nucleo di
consistenza semantica universale e primigenio, si articolano di volta in volta a seconda
dei termini di relazione tra forma e contenuto, i quali possono variare a seconda di una
determinata epoca o di in una particolare cultura. Tuttavia, come si è più volte
rimarcato, anche all’interno degli spot pubblicitari è solo il significante a cambiare e
non il “tema archetipico” che si trova alla sua base, dal momento che quest’ultimo,
inciso dal peso del cosmo, è impresso nella mente dell’uomo sin dai suoi albori.
La ben nota rilevanza e pervasività dell’ambito pubblicitario in termini di implicazioni
culturali, sociali ed economiche da una parte, e la pertinenza che tale territorio mostra
avere con le varie teorie sugli archetipi affrontate in questo lavoro dall’altra, ci hanno
portato, dunque, alla decisione di approfondire, attraverso una composita ricerca, tale
accattivante legame.
La pubblicità, d’altronde, rappresenta a tutt’oggi le leva fondamentale per il marketing
d’impresa nell’ottica di favorire la propensione all’acquisto da parte dei potenziali
consumatori e, in generale, di aumentare la brand equity (ossia il valore complessivo
della marca) presso tutti i suoi pubblici di riferimento.
243
Entrambi i testi sono contenuti in C.G. JUNG, Psicologia e Poesia, Bollati Boringhieri Editore,
Torino, 1979
244
Ivi p. 69.
245
Il riferimento, qui, è ad alcuni spot oggetto del corpus d’analisi.
102
2.1 Sull’intenzionalità degli archetipi
Prima di procedere all’analisi della ricerca, ci preme far luce su una questione
controversa che è quella riguardante l’intenzionalità di coloro i quali, nella realizzazione
di un prodotto massmediatico destinato alla comunicazione di un particolare
prodotto/servizio o brand, vi inseriscono del materiale puramente archetipico. Tale
questione, come vedremo, seppur difficile nella sua trattazione particolare ed analitica,
risulta pressoché trascurabile in termini di effetti che essa produce e, allo stesso modo,
di volontà da cui essa è posta in essere.
Nel dirimere il (falso) problema testé descritto facciamo ancora una volta appello a
Jung, tornando ai saggi menzionati ad inizio capitolo di Psicologia e arte poetica (
e Psicologia e poesia in cui l’autore zurighese discute del rapporto tra autore letterario e
opera d’arte e delle loro motivazioni ed implicazioni psicologiche. La posizione di Jung,
è netta e si estrinseca nell’impossibilità di ridurre l’opera a mero sintomo di eventuali
nevrosi, o comunque a surrogato dei tratti psicologici dell’artista; piuttosto, essa, va ben
oltre la sfera dell’inconscio personale dell’individuo che la crea, per affondare le sue
radici nel grande mare dell’inconscio collettivo. A parere di Jung, infatti, l’opera
letteraria (e, per estensione, quella artistica in generale), oltre a delineare un possibile
quadro delle motivazioni psicologiche e delle vicissitudini individuali che si celano
dietro la sua realizzazione – un aspetto relativamente interessante per quanto concerne il
particolare oggetto d’analisi –, svela quelli che sono le corde ancestrali ed universali
tipiche dell’inconscio collettivo e degli archetipi che lo abitano, le quali
contraddistinguono ogni essere umano in quanto tale. Jung rivendica, così, l’autonomia
e l’impersonalità dell’opera creativa rispetto al suo creatore, tanto da arrivare ad
affermare che “[essa] porta con sé la propria forma; ciò che l’autore vorrebbe
aggiungervi viene respinto; ciò che egli vorrebbe respingere gli viene imposto […]
mentre la sua coscienza trovasi annientata e vuota di fronte al fenomeno, egli viene
sommerso da un fiume di idee ed immagini che non sono, in alcun modo, il prodotto
della sua intenzione e che la sua volontà mai avrebbe voluto creare”246. Emerge
evidente da queste affermazioni, la concezione dello psicologo svizzero secondo la
quale l’opera è frutto non solo dell’intenzionalità e del portato psichico del singolo
individuo, bensì anche – e soprattutto – delle spinte collettive e perenni inerenti alla
246
Op. cit. p.32
103
mitologia inconscia di ognuno247. Sta proprio nella presenza - quasi sempre non
volontaria - degli archetipi, dunque, il discrimine tra un’opera “semplicemente”
sintomatica che riguarda strettamente la psiche di chi l’ha generata e che Jung stesso
definisce “psicologica”, ed una pregnantemente simbolica, di portata molto più generale
che prende il nome di creazione artistica “visionaria”248. Così, laddove la prima “per
quanto gravemente possa scuotere un individuo, si dimostra docile alle forme proprie
delle arti umane, le seconda “strappa dall’alto in basso il velo sul quale sono dipinte le
immagini del cosmo, e consente allo sguardo di intravedere le inafferrabili profondità
del non ancora divenuto”249. È la componente visionaria dell’opera, dunque, la materia
vivida e sensibile nelle opere creative che permette a quest’ultime di trascendere la
biografia personale e la psiche del suo autore per giungere fin dentro lo spirito di
ognuno che la incontri lungo il suo percorso di vita250.
Ciò detto, non sembrerà azzardato, ancora una volta, il parallelo tra l’artista/creativo di
cui parla Jung e i creativi pubblicitari autori degli spot (come quelli analizzati
all’interno di questa ricerca). Anche quest’ultimi, infatti, nei limiti delle possibilità
logistiche, economiche e dei rapporti con i propri committenti, danno libero sfogo al
loro afflato creativo al fine di realizzare un prodotto che, in molti casi, avvicinandosi in
maniera mirabile a grandi arti come quella del cinema e del teatro, assurge al ruolo di
opera vera e propria. Essa, come sappiamo, seppur non opera d’arte propriamente detta,
rappresenta comunque un prodotto contemporaneo mediale e culturale di notevole
pervasività e, non di rado, di indubbio valore estetico.
Apparirà limpido dunque, alla luce di quanto emerso, come il quesito circa la
conoscenza diretta degli archetipi e il loro uso consapevole da parte dei creatori di spot
pubblicitari diventi una questione, se non trascurabile, quantomeno marginale. I creativi
pubblicitari, in maniera volontaria o non, vengono di fatto “rapiti” dalla corrente
archetipica perenne, trascinando con loro, di rimando, tutti gli spettatori dei simboli
247
“Tutti i processi psichici che si svolgono all’interno della coscienza possono essere spiegato
causalmente; ma la creatività, che ha le sue radici nell’indeterminatezza dell’inconscio, è chiusa in eterno
alla conoscenza umana”, Ivi, p. 53.
248
Ivi p. 57.
249
Ivi p. 58.
250
Così Jung a proposito del creativo: “una specifica psicologia artistica è un fatto collettivo e non
personale ; l’arte è innata in lui come un impulso che lo afferra e ne fa il suo strumento, In ultima analisi,
la volontà che in lui vuole non è lui, uomo, bensì l’opera d’arte. Come persona l’artista può avere
capricci, umori e mire sue proprie, ma come artista, nel senso più alto “uomo”, è “uomo collettivo”
portatore e rappresentante della vita psichica inconscia dell’umanità”. Ivi p. 75.
104
universali che essi hanno inscenato, non potendo quest’ultimi, da parte loro, sottrarsi al
richiamo ancestrale e collettivo che tali simboli sprigionano da sempre per natura.
2.2 Disegno della ricerca
La ricerca – ci preme specificarlo - trae ispirazione principalmente dal lavoro di
Cicalese251 Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, in cui sono ben evidenziati i
suddetti nessi che intercorrono tra le teorie sugli archetipi dell’inconscio collettivo e
l’articolazione del discorso pubblicitario, attraverso uno studio che, ai fini della presente
ricerca, è risultato essere particolarmente prezioso ed illuminante.
Obiettivo principale dello studio svolto, quindi, è quello di registrare la diffusione degli
archetipi – primariamente sotto forma di immagini - nelle manifestazioni del brand,
quest’ultime realizzate dai professionisti del settore della comunicazione (copywriter e
art director su tutti) e immesse nei canali mediatici legati alla televisione e ad Internet
attraverso lo strumento del commercial.
Addentrandoci nella ricerca, possiamo enuclearne i suoi molteplici obiettivi:

Rilevare la presenza degli archetipi nelle immagini (e, in seconda analisi, nel
wording) degli spot pubblicitari in onda in TV e quelli disponibili sul Web, e
quantificarli in maniera sistematica.

Verificare la loro “universalità” intesa come azione che prescinda dal luogo e
dalla data nella quale lo spot è stato diffuso.

Classificarli a partire dalla tassonomia dei simboli di Gilbert Durand (vedi
paragrafo 1.5.2, cap.1 ) per poi operare una rielaborazione e un adattamento
della tassonomia stessa.

Evidenziare eventuali pattern e tendenze nell’uso – anche combinato – degli
archetipi.
Come già accennato, il corpus d’analisi è formato da un insieme di spot pubblicitari.
Quest’ultimi, trasmessi principalmente dal mezzo televisivo sono stati raccolti
attraverso il metodo random, dalla piattaforma web “YouTube”. I commercial oggetto
di analisi sono 101. Essi sono stati selezionati a partire da un corpus più ampio di spot
visionati - circa 350 –, dal quale sono stati estratti gli spot contenenti immagini
251
Cfr. A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, cit., Cap. II, “Archetipi ed
immagini collettive” pp. 3-56.
105
archetipiche (circa 150) ; a partire da quest’ultimi, infine, sono stati selezionati gli spot
che contavano su una presenza più marcata degli archetipi stessi (101, per l’appunto).
Gli spot sono stati analizzati singolarmente, attraverso una lettura profonda e minuziosa
delle immagini presenti al loro interno. Attraverso il meccanismo dei “video correlati”,
già presente sul sito, è stato possibile passare da uno spot all’altro in maniera casuale,
riuscendo ad ottenere una grande varietà per quanto concerne sia il Paese di diffusione
del video, sia l’anno di diffusione/realizzazione dello stesso, sia la categoria
merceologica al quale il prodotto pubblicizzato appartiene. Tale principio, infatti,
sebbene suggerisca una certa omogeneità dei contenuti, in realtà si sostanzia in un
meccanismo che permette essenzialmente di passare da uno spot all’altro conservando
un’elevata eterogeneità di fondo.
Per facilitare l’analisi dei commercial raccolti, si è poi provveduto alla costruzione di
una matrice di dati recante, come righe, gli spot stessi e come colonne i diversi attributi
di analisi quali il nome del brand, il Paese di diffusione dello spot, l’anno in cui è stato
trasmesso per la prima volta, la categoria merceologica alla quale appartiene il
prodotto/servizio pubblicizzato e la serie di categorie e sottocategorie di simboli che si
rifanno a quelle testé menzionate ad opera di Durand (58 in tutto).
2.3 Composizione del campione
Per quanto concerne l’arco temporale in cui sono inseriti gli spot oggetto d’analisi, esso
copre più di mezzo secolo e va dal 1959 del primo spot in ordine cronologico
(segnatamente, lo spot del modello “Taunus” della Ford, trasmesso in Francia) al 2013
(tra gli altri, lo spot del nuovo “Galaxy Grand TVC”, trasmesso in India).
Nello specifico, è riportata qui la tabella 1 che mostra l’anno in cui sono stati trasmessi
gli spot del corpus di studio, indicando, inoltre, il numero di spot risalenti ad ogni
singolo anno:
106
Tabella 1- Distribuzione di frequenza per anno di distribuzione dello spot
Anno diffusione Frequenza
1959
1
1964
2
1966
1
1967
1
1969
1
1971
1
1973
1
1974
2
1978
1
1980
1
1982
2
1983
1
1984
1
1987
5
1988
2
1989
7
1990
5
1992
3
1993
1
1995
3
1996
1
1997
1
1998
1
1999
1
2000
2
2001
2
2002
3
2003
1
107
2004
1
2006
1
2007
4
2008
6
2009
3
2010
4
2011
8
2012
11
2013
9
Totale
101
Così come per l’anno di diffusione, in riferimento ai Paesi in cui gli spot sono stati
trasmessi si registra una notevole varietà. Abbracciando tutti e 5 i continenti, infatti, gli
spot hanno le provenienze più disparate (si va dall’Arabia Saudita all’Uruguay,
passando per Svezia, Kenia e Nuova Zelanda). Come è evidenziato dalla tabella in
basso ( Tabella 2 ) sono ben 31 le nazioni comprese.
Tabella 2 - Distribuzione di frequenza per Paese di diffusione dello spot
Paese diffusione
Frequenza
Arabia Saudita
1
Argentina
2
Australia
1
Bangladesh
1
Belgio
1
Cipro
1
Colombia
2
Corea del Sud
1
Danimarca
1
Francia
1
Germania
1
Giappone
2
108
India
1
Iran
1
Islanda
1
Italia
36
Kazakistan
1
Kenia
1
Messico
1
Nigeria
1
Norvegia
1
Nuova Zelanda
1
Olanda
2
Pakistan
1
Polonia
1
Rep. Ceca
1
Singapore
1
Spagna
1
Sud Africa
1
Turchia
1
Uruguay
1
W
31
Totale
101
Numerosi spot, inoltre, essendo inerenti a grandi brand multinazionali, sono stati in
realtà trasmessi in tutto il globo (o quasi). Ciò - insieme al fatto stesso che a comporre il
corpus d’analisi sono spot trasmessi in almeno 31 Paesi diversi - risponde perfettamente
al principio dell’universalità dell’archetipo che, per definizione, trascende la dimensione
temporale, ma anche quella spaziale.
In riferimento alla categoria merceologica, invece, i prodotti e servizi oggetto degli spot
sono stati classificati in 16 categorie diverse (a cui si aggiunge la categoria residuale
“Altro”):
Tabella 3- Distribuzione di frequenza per categoria merceologica
109
Categoria merceologica
Frequenza
Abbigliamento
3
Accessori
1
Auto e moto
20
Bevande
13
Casa e arredamento
5
Cibo
10
Cosmetici
4
Cura e igiene del corpo
2
Editoria
1
Elettronica
4
Giochi e Giocattoli
2
Medicinali
5
Prodotti assicurativi e bancari
5
Profumi e Deodoranti
13
Servizi
6
Altro
2
Totale
101
Si segnala una presenza considerevole di spot riguardanti automobili e moto (ben 20),
seguiti dai profumi e deodoranti e dalle bevande (13) e dai cibi (10). I prodotti editoriali
(una sola occorrenza) sono invece tra quelli meno presenti nel corpus. Lungi dal voler
intendere tali dati su scala generale, si può affermare con buon senso che, laddove
prodotti come bevande, cibo, profumi e automobili si prestino particolarmente ad una
rappresentazione “sinestetica” - e spesso narrativa - delle loro caratteristiche peculiari
(facendo molto spesso ricorso, nella descrizione del prodotto, alla dimensione sensoriale
ed estetico-immaginifica che quest’ultimo suggerisce), lo stesso non si può dire di
prodotti come quelli editoriali che, per la loro natura, prediligono storicamente canali
diversi da quello televisivo o comunque inerenti al video.
110
Soffermandoci per un istante sui primi risultati della ricerca - che avremo modo di
commentare diffusamente più avanti all’interno del presente capitolo - la presenza delle
immagini archetipiche all’interno degli spot pubblicitari risulta marcata, con un rapporto
che si stabilizza intorno all’1:3. Il primo dato registrabile, dunque, è che commercial
contrassegnati come “archetipici” sono circa un terzo di quelli visionati, laddove la
restante parte è caratterizzata principalmente dalla presenza di altre figure del discorso e
figure retoriche (su tutte l’ironia), dalla rappresentazione su schermo di stereotipi252,
slice of life prive di richiami simbolici degni di nota, dal dozzinale appello al sesso
(come avremo modo di commentare più avanti) o da una presenza di archetipi troppo
flebile per poter essere analizzata con dettaglio.
2.4 Risultati della ricerca
2.4.1 La classificazione
Come accennato in precedenza, per quanto riguarda le categorie simboliche archetipiche
inserite nella matrice di ricerca, ci si è basati su quelle largamente descritte nel primo
capitolo del presente lavoro e che compongono la tassonomia di Gilbert Durand, ovvero
simboli teriomorfi, nictomorfi, catamorfi, ascensionali, spettacolari, diairetici,
dell’inversione, dell’intimità e i simboli ciclici. La conditio sine qua non per la quale
ciascun simbolo presente all’interno di uno spot è stato reputato come rilevante – e
quindi registrato nella matrice – è la sua non assoluta incidentalità o mera contingenza
in termini di apporto semantico. Di contro, gli archetipi rintracciati nei commercial presi
in esame, sono stati reputati tutti significativi e funzionali agli obiettivi comunicativi –
consci o inconsci, è il caso di dirlo – di chi li ha ideati. Una volta marcati gli archetipi
come tali, quindi, si è proceduto alla loro classificazione che, come avremo modo di
approfondire più avanti, sebbene abbia avuto come riferimento le categorie di cui sopra,
ha richiesto preliminarmente un lavoro ulteriore di adattamento e “smussamento”
252
Lo stereotipo rappresenta l’espressione di specifici modelli, culture, luoghi, oggetti, atteggiamenti
tipici ecc. In questo senso, rispetto all’archetipo, esso assume un carattere particolare, statico e
semplicistico risultando molto meno appetibile, dunque, per l’audiance di riferimento.
Per un approfondimento sull’uso degli stereotipi e degli archetipi in pubblicità rimandiamo a
G.ZALTMAN, Come pensano i consumatori, Etas, Firenze, 2003.
111
rispetto alle categorie di partenza. La tabella n°4 mostra i risultati a cui si è giunti a
partire dal corpus della ricerca:
Tabella n°4- Distribuzione di frequenza dei simboli
Simboli
Frequenza
Spettacolari
57
Ascensionali
56
Dell’intimità
40
Diairetici
37
Ciclici
36
Nictomorfi
30
Teriomorfi
21
Dell’inversione
19
Catamorfi
14
Da un’analisi globale degli archetipi rinvenuti negli spot pubblicitari oggetto di analisi,
possiamo evincere come siano i simboli spettacolari e i simboli ascensionali a prevalere,
rispettivamente con 57 e 56 occorrenze (ovvero i casi in cui i simboli compaiono
entrambi all’interno dello spot). Inoltre, attraverso una visualizzazione incrociata delle
due distribuzioni è possibile registrare, per tali simboli, ben 31 co-occorrenze a
testimoniare la loro affinità e correlazione. Tale risultato, d’altronde, non deve procurare
sorpresa dal momento che le suddette categorie di simboli (che riferiscono, lo
ricordiamo, alla luce, alla solarità e all’elevazione) sono, a livello semantico,
indubbiamente quelle più positive, o quantomeno quelle più immediatamente e
facilmente percepibili come tali; un aspetto, quest’ultimo, che in una comunicazione
tradizionalmente “euforica” come quella pubblicitaria, diventa determinante. Per
l’identico motivo stupisce, invece, la presenza relativamente massiccia nel corpus di
simboli polarizzati negativamente: nella fattispecie i simboli nictomorfi (presenti in ben
30 spot) e quelli catamorfi (presenti in 14 spot). In realtà, andando ad osservare con
attenzione la matrice, si può notare come la presenza di tali simboli disforici sia nella
totalità dei casi o invertita semanticamente oppure compensata da quella di altri simboli,
polarizzati positivamente, che annullano l’effetto negativo iniziale. Nello specifico, i
112
simboli nictomorfi sono in 11 casi invertiti semanticamente, in 21 casi “mitigati” da
simboli spettacolari, in 13 casi da simboli ascensionali, in 9 da simboli diairetici e
dell’intimità, e in 6 casi da quelli ciclici. In riferimento ai simboli catamorfi, invece, essi
sono invertiti 6 volte e compensati in 12 casi da simboli ascensionali, in 7 da quelli
spettacolari e da quelli intimi, 5 volte dai simboli diairetici e in un caso anche da
simboli ciclici. La tabella che segue fa un resoconto ordinato di tali co-occorrenze:
Tabella n 5 – Co-occorenza simboli nictomorfi
S.
S. dell’
S.
S.
S.
S. dell’
S.
nictomorfi inversione
spettacolari ascensionali diairetici intimità Ciclici
30
21
11
13
9
9
6
Tabella n°6 – Co-occorenza simboli catamorfi
S.
S. dell’
S.
S.
S. dell’
S.
S.
catamorfi
inversione
Ascensionali
spettacolar
intimità
diairetici
Ciclici
7
5
1
i
14
6
12
7
È da notare, infine, per quanto riguarda i simboli nictomorfi e catamorfi, il fatto che essi
coesistano in soli due spot: ciò potrebbe trovare una spiegazione verosimile nel fatto
che, trattandosi in ogni caso dei simboli disforici, la loro presenza contemporanea
potrebbe risultare troppo marcata e più difficilmente dissipabile con l’intervento di altri
simboli di significato opposto.
Passando in rassegna la distribuzione dei simboli all’interno del corpus, risulta
significativa la presenza di altre tre categorie di simboli recanti un significato positivo,
ovvero i simboli dell’intimità (40 occorrenze), i simboli diairetici (37) e quelli ciclici
(36). Sono più di un terzo del campione, dunque, gli spot contenenti i suddetti simboli e
ciò è spiegato dal largo ricorso da parte dei pubblicitari ad immagini - spesso coadiuvate
da testi - che evocano senso di sicurezza, stabilità e affidabilità per quanto riguarda i
primi, dinamicità, aggressività, contrasto e purezza per quel concerne i secondi, ed
infine ricorsività, rinascita, ritorno alla Natura in riferimento agli ultimi simboli. In
ultimo, più staccati rispetto agli altri, troviamo i simboli teriomorfi (ovvero i riferimenti
agli animali e/o ai tratti animaleschi in generale) i quali coinvolgono circa un quinto
113
degli spot presi in esame, e, appena più distanti, i simboli dell’inversione. Quest’ultimi,
tuttavia, risultano relativamente molto presenti dal momento che lo spiazzamento, la
trasgressione e il ribaltamento di senso in pubblicità sono delle costanti (soprattutto,
come avremo modo di vedere in seguito, relativamente a prodotti quali profumi e
automobili).
A queste “macrocategorie” globali, però, sulla scorta della teoria dello stesso Durand, si
affiancano nella classificazione operata all’interno della ricerca, diverse sottocategorie
che, di fatto, vanno a comporre le prime. Come si accennava in precedenza, nel lavoro
di classificazione, da un lato, si sono tenuti pressoché alla lettera buona parte dei
“microsimboli” durandiani (ascritti ognuno ai diversi simboli riproposti pocanzi), e,
dall’altro, si sono operate delle aggiunte e delle modifiche funzionali al corpus d’analisi
– gli spot pubblicitari, per l’appunto. Tali aggiunte e rielaborazioni, lungi dal voler in
qualche modo scavalcare la tassonomia descritta dall’illustre antropologo francese, sono
state realizzate in maniera mirata ed oculata in un’ottica di integrazione e adattamento
degli strumenti teorici a disposizione, in modo da tale da rendere quest’ultimi
applicabili al discorso pubblicitario moderno con una pertinenza ed un’agilità
d’indagine indubbiamente maggiori253.
Simboli Teriomorfi
Nella fattispecie, per quanto concerne i simboli “teriomorfi” sono state definite 2
categorie: “Animali/tratti animali” e “Azioni animalesche”, in modo marcare la
presenza, all’interno di uno spot pubblicitario, primariamente di immagini inerenti ad
animali, ma anche di tratti o azioni collegati a persone e a cose che richiamino in
maniera evidente il mondo animale. È il caso, ad esempio, di Vanessa Paradis,
protagonista dello spot Chanel (spot n°96 della matrice), che assume le posture e le
movenze di un canarino in gabbia, del muso felino della Mazda 6 e dei suoi fari che
fendono la notte (spot n°77) oppure ancora dell’orda selvaggia di donne che si precipita
al cospetto del protagonista del celebre spot Axe (spot n°28).
253
A tal proposito, le sparute co-occorrenze e ambiguità che si possono riscontrare nell’opera di Durand
in merito all’appartenenza di un simbolo ad una determinata categoria di simboli, sono state risolte in
base all’interpretazione personale di chi scrive.
114
Tabella n°7 – Distribuzione di frequenza dei simboli teriomorfi
Sottocategorie
Frequenza
Animali/tratti animaleschi
20
Azioni animalesche
4
Totale
24
Analizzando, poi, le occorrenze più significative di ciascuna delle sottocategorie
simboliche definite per quel che concerne i simboli teriomorfi (tab. n°7), possiamo
notare come vi sia una netta prevalenza di richiami indiretti ad animali attraverso tratti
simili oppure - nella maggior parte dei casi - a immagini di animali veri e propri (20
occorrenze in tutto), a scapito delle azioni e dei gesti che rimandano alla dimensione
bestiale (solo 2 occorrenze).
Simboli Nictomorfi
Dai simboli “nictomorfi”, invece, si dipartono 7 sottocategorie: “Buio, oscurità,
penombra” (gli esempi sarebbero numerosi, per dovere di brevità ricordiamo
l’ambientazione dello spot del profumo “Guilty Black” di Gucci), “Vestiti, superfici,
ambienti dai colori scuri o disforici” (come le divise completamente nere dei personaggi
cattivi nello spot Nike n°80), “Luoghi angusti e oggetti che provocano costrizione”
(come le pile-crisalidi dello spot di Bebat n°49 dalle quali fuoriescono le farfalle
variopinte oppure le preziose, seppur limitanti, catene che Julia Roberts si scrolla via
con un gesto nello spot n°7 di Lancôme ), “Sporco/lordura” (è il caso piatti affastellati
nella cucina del monastero dello spot di “Svelto” n°50), “Disordine/caos” (come quello
ricreato dalla norvegese “Dnb” nella camera da letto della protagonista dello spot 11,
“Personaggi diabolici e/o mostruosi” (ricordiamo, tra gli altri, i mostriciattoli di
Nurofen, spot n° 55, colpevoli del mal di testa) ed infine “Pioggia, acqua scura o sporca,
mare agitato, spruzzi d’acqua violenti” (è il caso degli agenti atmosferici che
tormentano la protagonista dello spot n°8 Aspirina o anche degli spruzzi violenti
d’acqua arginati dai rubinetti Zucchetti dello spot n°79).
115
Tabella n°8 - Distribuzione di frequenza dei simboli nictomorfi
Sottocategorie
Frequenza
Buio, oscurità, penombra
14
Pioggia, acqua scura o sporca, mare agitato, spruzzi d’acqua violenti
12
Disordine/caos
11
Vestiti, superfici, ambienti dai colori scuri o disforici
5
Luoghi angusti e oggetti costrittivi
5
Sporco/lordura
4
Personaggi diabolici e/o mostruosi
3
Totale
54
Considerando le occorrenze all’interno dei simboli nictmorfi, invece, non stupisce la
prevalenza del buio e dell’oscurità (sono ben 14 gli spot in cui essi sono presenti) ma è
degna di nota, tuttavia, la presenza marcata di immagini relative all’acqua impura o
agitata (12 occorrenze) e delle situazioni di caos (11); lo sporco e la lordura, invece,
risultano meno frequenti (appena 4 occorrenze).
Simboli Catamorfi
I simboli “catamorfi”, a loro volta, si compongono di: simboli sotto forma di “Gesti,
posizioni, azioni che esprimono discesa o caduta” (è il caso, ad esempio, della discesa
nella piscina dorata della protagonista dello spot Dior n°37) e “Persone, animali, oggetti
o sostanze in caduta” (si pensi, tra gli altri, alla caduta del barattolo dell’olio per motori
Selenia nello spot n°38 o alla rovinosa distruzione della torre di mattoncini Urban Street
Jenga in riferimento alla riga 70 della matrice).
Tabella n°9 - Distribuzione di frequenza dei simboli catamorfi
Sottocategorie
Frequenza
Persone, animali, oggetti o sostanze in caduta
11
Gesti, posizioni, azioni che esprimono discesa o
4
caduta
Totale
15
116
Per tale sottocategoria si registra una scontata prevalenza dei corpi e degli oggetti in
caduta (11) piuttosto che quella dei gesti che indicano la discesa o la caduta stesse (4).
Simboli Ascensionali
Per quanto riguarda i simboli “ascensionali” riportati in tabella, invece, essi si dividono
in 8 sottocategorie simboliche: “Gesti, azioni di fuoriuscita o slancio verso l'alto” (come
quelli tesi a sollevare le tende e le bandiere dello spot n° 34 del Banco de la Načion
Argentina o come la risalita dei soldati dell’Esercito de Bangladesh dalle acque della
palude all’interno dello spot n° 26), “Strutture architettoniche o naturali slanciate” (è il
caso delle montagne dello spot Brooklyn n°42 o dell’imponente tour Eiffel ritratta nello
spot 92 di Givenchy Play), “Oggetti fusiformi” (come non ricordare le candele in mano
ai protagonisti dello spot Coca Cola natalizio n°33), “Persone, oggetti o sostanze
sospese, in volo, in risalita o posti verso l'alto” (come la Morris 1100 sospesa in volo
sopra il fossato dello spot n° 2 o l’aquilone di Fakro dello spot successivo), “Mezzi di
trasporto aereo” (l’aereo della South African Airway dello spot n°67 oppure l’ombrello
magico dello spot Mulino Bianco n°45), “Percorsi in salita” (come quello fatto da Eric
Bana, il protagonista dello spot Bulgari n°46, alle prese con le insidiose scale dell’antico
tempio), “Sguardi verso l’alto” (quelli, per esempio, dei gioviali protagonisti dello spot
pakistano dell’olio Dalda, n°88 nella matrice) ed infine “Indumenti, capelli sollevati dal
vento” (è il caso della protagonista dell’agenzia di viaggio kazaka Balting nello spot
n°62 il cui velo bianco è sollevato dolcemente dalla brezza marina).
Tabella n°10 - Distribuzione di frequenza dei simboli ascensionali
Sottocategorie
Persone, oggetti o sostanze sospese, in volo, in risalita o posti verso
Frequenza
33
l'alto
Gesti/azioni di fuoriuscita o slancio verso l'alto
27
Strutture architettoniche o naturali slanciate
14
Sguardi verso l’alto
13
Indumenti o capelli sollevati dal vento
9
117
Percorsi in salita
9
Oggetti fusiformi
7
Mezzi di trasporto aereo
4
Totale
114
Considerando le occorrenze all’interno di tali simboli, quella delle “Persone, oggetti o
sostanze sospese, in volo, in risalita o posti verso l'alto” e quella dei “Gesti/azioni di
fuoriuscita o slancio verso l'alto” sono le più frequenti (rispettivamente presenti in 33 e
in 27 spot presi in analisi), mentre sono ugualmente significative la terza e la quarta
posizione in tabella, occupate dalle strutture slanciate e dagli sguardi verso l’alto
(presenti, rispettivamente in 14 e in 13 commercial), le quali si attestano come supporti
abbastanza frequenti alle principali sottocategorie di cui sopra (così come rappresentano
un buon “rinforzo”, d’altronde, le immagini relative ai capelli sollevati dal vento e
quelle inerenti ai personaggi alle prese con percorsi in salita).
Simboli Spettacolari
Passando ai simboli spettacolari ritroviamo, nell’ordine: “Luce naturale intensa”
(adoperata in maniera significativa nella maggioranza degli spot del corpus), “Luce
artificiale intensa” (come quella protagonista nella Parigi notturna dello spot Givenchy
Play n°92), “Oggetti luccicanti” (il piccolo sole recato in mano dal protagonista dello
spot Allianz n°56), “Oggetti, ambienti, indumenti, capelli di colore biondo, giallo, oro,
rosso ecc.” (come, tra gli altri, il giallo del vetro caldo, della maglia e del costume da
bagno della protagonista dello spot iraniano n°13 o quello dei palloncini dello spot Tv
Sorrisi e Canzoni n°66), “Occhi, pertugi, superfici trasparenti che permettono la
visione” (è il caso dell’occhio benefico e risolutore dell’omino protagonista dello spot
Nurofen n°55, la telecamera che segue la Ford Taunus nello spot n°98 o anche il
pertugio dal quale i bambini curiosi del già citato spot del Forum di Istanbul guardano
all’interno della struttura in costruzione), e, in ultimo, “Ordine e armonia”, di solito
contrapposta alla categoria nictomorfa del “Disordine/Caos” (a tal riguardo lo spot
Buscopan n°32 in cui il mare diventa calmo e il cielo sereno dopo la burrasca provocata
dal mal di stomaco ne è un esempio lampante).
118
Tabella n°11 - Distribuzione di frequenza dei simboli spettacolari
Sottocategorie
Frequenza
Luce naturale intensa
41
Oggetti, ambienti, indumenti, capelli di colore biondo, giallo, oro, rosso
15
Ordine ed armonia
16
Occhi, pertugi, superfici trasparenti che permettono la visione
8
Luce artificiale intensa
6
Oggetti luccicanti
5
Totale
88
Come emerge dalla tab. n°11, procedendo all’analisi interno dei simboli spettacolari è
netta la predominanza dell’utilizzo della luce naturale intensa (presente in 41 spot del
corpus su un totale di 90 simboli spettacolari) laddove si attestano su un buon numero
(rispettivamente 16 e 15 occorrenze) le immagini inerenti a situazioni di armonia e di
ordine - quasi sempre ristabilito dopo una situazione caotica - e quelle contenenti
oggetti, ambienti e indumenti dai colori caldi.
Simboli Diairetici
In riferimento alla categoria dei simboli “diairetici”, poi, nella nostra classificazione
rintracciamo 6 sottocategorie. Si principia da quelli “classiche” de “Oggetti da taglio” e
“Azione del tagliare” (è il caso del celebre coltello dello spot Grana Padano, il n°22
della matrice, che taglia e squarcia diversi alimenti prima di arrivare al prodotto
reclamizzato), passando per un altro tipo di taglio, meno letterale e più metaforico, dei
“Veicoli sfreccianti” il quale racchiude tutte quelle immagini relative a veicoli che
attraversano gli ambienti entro cui scorrono in maniera dinamica e veloce tale da
descrivere, per l’appunto, delle parabole inerenti al taglio. Sono molto numerose, a tal
proposito, le pubblicità di automobili che ritraggono la vettura nell’azione di “tagliare”
il paesaggio circostante grazie alla loro velocità e aggressività (lo spot Alfa Romeo n°5
del 1989 che ritrae, con inquadrature frenetiche, le vetture che sfrecciano a gran velocità
lungo il paesaggio innevato, ne rappresenta un’evidenza). Sempre attenendoci ai dettami
di Durand, ma rielaborandoli parzialmente e adattandoli alla natura del corpus d’analisi,
ritroviamo le categorie “Oggetti, persone, ambienti emblemi della purezza” e
119
“Personaggi, oggetti, vestiti, ambienti, animali di colore bianco” inerenti alla
dimensione della purezza (anche qui gli esempi si sprecano, si pensi al simpatico
fantasmino dello spot Lavasbianco Fantasmatico n°16 della matrice o ai marinai in
divisa, perfetti ballerini, dello spot n°76 di Mastro Lindo 254), ed infine la categoria
“Contrapposizioni e divisioni antitetiche” ad indicare situazioni, personaggi e stati
d’animo evidentemente contrastanti (è il caso, tra gli altri, dello spot Volvo n°43 in cui è
evidente la contrapposizione tra la dimensione esasperatamente tecnologica in cui è
immerso il passeggero nell’auto alle prese col suo inseparabile smartphone e la postura
profondamente naturale e “poetica” del conducente e dell’ambiente in cui entrambi si
trovano a transitare, oppure ancora allo spot Baleno Lavapavimenti n°84 all’interno del
quale la contrapposizione tra la situazione della famiglia cliente Baleno e quella non
utilizzatrice del prodotto, è espressa chiaramente a livello visivo tramite una separazione
dello schermo in due parti).
Tabella n°12 - Distribuzione di frequenza dei simboli diairetici
Sottocategorie
Frequenza
Personaggi, oggetti, vestiti, ambienti, animali di colore bianco
16
Veicoli sfreccianti
15
Oggetti, persone, ambienti emblemi della purezza
10
Contrapposizioni e divisioni antitetiche
8
Azioni del tagliare
6
Oggetti da taglio
2
Totale
56
In riferimento alle occorrenze delle sottocategorie facenti capo ai simboli diairetici, con
sorpresa notiamo che quella “tipica” dell’azione del taglio compare soltanto in 6 spot,
laddove è netta la prevalenza di immagini relative a oggetti, vestiti, ambienti e animali
di colore bianco (a simboleggiare la purezza in 16 spot all’interno del corpus) e quelle
del “taglio metaforico” effettuato dai veicoli nei rispettivi paesaggi (15 occorrenze).
254
D’altronde, come afferma lo stesso Durand: “Spada, lama di fuoco, torcia, acqua e aria lustrale,
detersivi e smacchiatori costituiscono il grande arsenale dei simboli diairetici di cui l’immaginazione
dispone per tagliare, salvare, separare e distinguere dalle tenebre il luminoso valore”. G. DURAND, Le
strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 217.
120
Simboli dell’Inversione
Per quanto riguarda i simboli “dell’inversione”, invece, sulla scorta di quelle
durandiane, ritroviamo 3 sottocategorie: rispettivamente quella delle “Persone,
personaggi, oggetti piccoli o rimpiccioliti” (è il caso della protagonista dello spot
spagnolo dell’Aspirina che cammina tra le scatole del medicinale), quella del
“Contenitore contenuto” (si pensi allo spot Lindt, il numero 30 della matrice, il quale si
basa su un gioco di incastri che parte dal globo terrestre fino alla sfera del cioccolatino
reclamizzato)255 e infine “Inversione dell’investimento timico legato agli altri
simboli”256, una sottocategoria abbastanza presente nel corpus di spot pubblicitari
(soprattutto per quanto concerne la categoria dei profumi e delle auto), inerente al
ribaltamento del significato associato ad un determinato simbolo. Nella fattispecie,
riferendoci a quest’ultima categoria, quando, ad esempio, un simbolo nictomorfo –
evidentemente di significato negativo, “disforico” – è presentato con dei tratti positivi,
oppure diventa “euforico” nei suoi effetti, allora tale simbolo è considerato oggetto di
una vera e propria inversione semantica. Ne rappresentano un’evidenza, all’interno della
matrice di riferimento, lo spot Hugo Boss n°1, in cui il protagonista, in un corridoio
buio ed angusto e vestito di nero, attraversa un muro di semafori rossi dopo averli fatti
esplodere (mentre la voce off commenta con un eloquente “Red means go!”), o anche il
commercial del parco giochi coreano Caribbean Bay (spot n°15) in cui la catamorfia
della preparazione dei protagonisti alla caduta e quella della caduta stessa sono in
questo senso invertite dal momento che essi precipitano in un colorato, emozionante e
fantasmagorico scivolo.
255
Una ricorsività e un gioco di incastri rimarcato anche dalla componente verbale dello spot attraverso
l’utilizzo della figura retorica della ripetizione.
256
La categoria timica è introdotta dal Greimas in Du sens nel 1983 e segna l’iscrizione della componente
passionale all’interno del quadrato semiotico e della più generale teoria generativa della narratività, in cui
l’elemento patemico viene inserito dapprima al livello delle strutture semio- narrative profonde – in cui si
situa il quadrato- e superficiali e poi al livello discorsivo, in qualità di ruoli patemici rivestiti da specifici
attori. L’investimento timico si esprime nell’opposizione euforia/disforia, sovradeterminando ed essendo
alla base dei giudizi di valore positivi o negativi articolabili a partire da qualsiasi dicotomia e
contribuendo esso stesso a rendere assiologica una categoria. L’importanza della dimensione affettiva ha
condotto pertanto all’integrazione nella semiotica del testo, rispetto alla sola componente cognitiva,
dell’analisi della sfera passionale inscritta nei discorsi, dando vita così alla branca della semiotica delle
passioni, in riferimento alla quale si rimanda a Semiotica delle passioni di Greimas e Fontanille del 1991.
GREIMAS A. J., (1983), Du sens, Éditions Du seuil, Paris (trad.it., Del senso II, Narrativa, modalità,
passioni, Bompiani, Milano, 1984.
121
Tabella n°13 - Distribuzione di frequenza dei simboli dell’inversione
Sottocategorie
Frequenza
Inversione dell’investimento timico legato agli altri simboli
17
Persone, personaggi, oggetti piccoli o rimpiccioliti
1
Contenitore contenuto
1
Totale
19
Analizzando le occorrenze specifiche all’interno dei simboli dell’inversione, come
pronosticabile, sono ben 17 su 19 gli spot in cui è riscontrabile un’inversione di
significato relativo agli altri simboli, a testimoniare che l’inversione negli spot
pubblicitari è prevalentemente basata sul ribaltamento e la costruzione continua del
senso.
Simboli dell’Intimità
Per quanto riferisce ai simboli dell’intimità, poi, essi si dividono nelle seguenti 7
sottocategorie: “Contenitori” (come non ricordare il celebre spot del “bimbo in tazza”
Orzo bimbo, il n°27, vero e proprio trionfo dell’intimità, così come lo spot dei “Rigoli”
Mulino Bianco nel quale campeggiano decine e decine di contenitori di ogni forma e
dimensione ad evidenziare la qualità e la calda artigianalità del prodotto pubblicizzato),
“Azione del riempire” (spesso in concomitanza con la categoria dei contenitori),
“Azione del bere e presenza di liquidi” (è il caso degli spot che esaltano ed indugiano
sull’azione del bere da parte dei protagonisti, come nello spot n°41 della birra Splugen,
ma è anche il caso, ad esempio, della strada sdrucciolevole sotto gli pneumatici della
Morris 1100 all’interno dello spot n°31, affiancata dallo slogan “It floats on fluid” dal
font rigorosamente ondulato), “Ambienti riparati/sicuri/domestici” (la quale si rifà agli
spot che rendono funzionali e significative immagini di ambientazioni riparate come,
per citare un esempio, la casa dello spot giapponese della Nivea n°82 del 1971 in cui i
protagonisti, dopo essere stati raggiunti da un violento temporale, si muovono nel loro
spazio domestico accogliente e riparato), “Aloni, veli, superfici protettive” (la quale
rappresenta una della categorie aggiunte in fase di ricerca per la sua pertinenza, come
dimostra ad esempio, la sua presenza evidente e massiccia nello spot testé citato della
Morris 1100 trasmesso in Australia partire dal 1964 ), ed infine “Ambientazioni inerenti
122
al processo produttivo e agli ingredienti utilizzati” e “Veicoli e loro spazi interni”. Nello
specifico, queste ultime sottocategorie sono anch’esse frutto di un’aggiunta e di
un’interpretazione personale a partire dalla tassonomia di Durand, operata in base a
principi di pertinenza ed occorrenza. Segnatamente, la prima si riferisce a quelle
immagini che, ancora una volta nell’ottica di celebrare la qualità e la stabilità del
prodotto reclamizzato, si soffermano in maniera prolungata ed evidente sull’ambiente
riparato e alle azioni curate e precise inerenti al processo di lavorazione e/o al richiamo
degli ingredienti utilizzati per la realizzazione del prodotto stesso (è il caso, tra gli altri,
dello spot per il Web della Rolls Royce, il n°64 della matrice, in cui si può apprezzare il
processo di lavorazione della tappezzeria dell’automobile, o anche dello spot Fernet
Branca n°39 all’interno del quale sono mostrati tutti gli ingredienti alla base dell’amaro
digestivo). Infine, nell’ultima sottocategoria definita, ovvero “Veicoli e loro spazi
interni”, sono state fatte rientrare tutte le scene che ritraggono le parti interne dei veicoli
– per lo più quelle meccaniche delle automobili inerenti al motore – che, per la loro
messa in evidenza, sono state reputate non incidentali o contingenti alla mera
rappresentazione delle parti del prodotto, bensì funzionali alla comunicazione di
caratteristiche quali il comfort, la solidità, affidabilità, la potenza, la sicurezza ecc.
inerenti al brand e al prodotto stesso. Rammentiamo qui, a livello esemplificativo, lo
spot n°87 della Ford Escort Turbo in cui più volte si fa appello ad immagini, sia reali
che stilizzate, relative alla meccanica della vettura, oppure ancora lo spot n°5 di Alfa
Romeo in cui si vede il dettaglio della mano del pilota dell’auto nell’atto di impugnare il
manubrio e, pochi fotogrammi dopo, l’immagine del motore pulsante col marchio Alfa
Romeo impresso sulla parte frontale.
Tabella n°14 - Distribuzione di frequenza dei simboli dell’intimità
Sottocategorie
Frequenza
Contenitori
21
Ambienti riparati, sicuri, domestici
11
Ambientazioni inerenti al processo produttivo o agli ingredienti
13
Veicoli e loro spazi interni
5
Azione del riempire
7
Presenza di liquidi e azione del bere
6
123
Aloni, veli, superfici protettive
6
Totale
68
Per quanto riguarda le occorrenze nei simboli dell’intimità, la sottocategoria “classica”
delle immagini di contenitori si conferma come la più significativa, dal momento che
essa è presente in 21 spot. Più staccate, ma relativamente molto presenti, sono le
sottocategorie inerenti agli ambienti riparati e al processo di lavorazione, che riguardano
rispettivamente ben 11 e 10 spot, a testimoniare che tali simboli, frutto di un’aggiunta e
una rielaborazione rispetto alla struttura dell’immaginario originale di Durand, trovano
una loro importante collocazione all’interno del corpus preso in analisi nella presente
ricerca.
Simboli Ciclici
Infine, in riferimento all’ultima categoria di simboli, quelli “ciclici”, ritroviamo nella
matrice 9 sottocategorie: “Paesaggi e ambientazioni naturali, selvagge o agresti” (molto
diffuse negli spot, utilizzate come richiamo alla forza, alla bellezza e alla purezza eterna
di Madre Natura), “Alternanza giorno/notte” per indicare una continuità forte della vita
e del tempo (come quella rappresentata nello spot cartoon di Allianz n°56) “Alternanza
stagioni, paesaggi”, anch’essa indice di stabilità e continuità ma anche di versatilità e
diversificazione (come quelle dimostrate dalla Mercedes M Class guidata dal celebre
tennista Roger Federer nello spot n° 9, il quale, con un semplice tasto, muta
completamente l’ambiente dentro cui si trova a passare, alternando deserti a paesaggi
innevati, boschi fitti a trafficate arterie cittadine ecc.), “Alimenti” (con il riferimento a
cibi naturali), “Oggetti circolari o roteanti” (è il caso del barattolo gigante Nivea che
rotola sulle dune del deserto nello spot n°19, oppure della ruota di metallo con cui rotola
il protagonista simil-uomo vitruviano dello spot Seiko Kinetic n°83), “Strutture
architettoniche circolari” (come la finestra rotonda che filtra la luce del giorno nella
camera da letto della protagonista dello spot Lancôme n° 75), “Oggetti e scene che si
rifanno alle dimensione astrale” (è il caso delle esplosioni a mo’ di Bing Bang e
dell’immagine del versante del pianeta nello spot della birra Pilsner n°59, oppure delle
sfere in mano agli studenti che si raccolgono poi in un grande globo terrestre nello spot
cipriota n°6 diffuso dall’Università di Nicosia), “Atmosfere mondane e lascive” (da
124
quelle festanti e “ancestrali” del ballo con costumi tipici dello spot n°18 di Zuegg, a
quelle particolarmente licenziose e sensuali dello spot Siemens n°25 in cui è
rappresentato un ballo che si svolge in una sorta di bolgia dantesca e dove sono rese
evidenti attitudini sessuali promiscue), ed infine il “Corpo nudo o seminudo”, inteso
non dal punto di vista della sua carica erotica - o almeno solo in parte -, bensì come
stato naturale, “grado zero” della civiltà e ritorno alla Natura (è il caso dello spot n°100
di Vörður, in cui è ritratto un giovane uomo nudo immerso nella natura nell’atto di
scoccare una freccia).
Tabella n°15 - Distribuzione di frequenza dei simboli ciclici
Sottocategorie
Frequenza
Paesaggi e ambientazioni naturali selvagge o agresti
22
Corpo nudo o seminudo
8
Alternanza stagioni, paesaggi
6
Oggetti circolari e roteanti
5
Atmosfere lascive e mondane
5
Oggetti e scene che si rifanno alle dimensione astrale
5
Alternanza giorno/notte
4
Strutture architettoniche circolari
1
Alimenti
1
Totale
57
Prendendo in considerazione, infine, le occorrenze specifiche dei simboli ciclici,
possiamo facilmente evidenziare la prevalenza delle ambientazioni naturali. Esse,
facendo da sfondo complessivamente a ben 22 spot, si confermano come tendenza
abbastanza diffusa tra le fila dei creativi pubblicitari al richiamo ad uno stato di Natura
armonioso ed incontaminato (o quasi), al fine di comunicare particolari attributi e valori
legati al prodotto e al brand, quali la libertà, il desiderio di evasione, la naturalità, e, più
in generale, alla cifra positiva dei simboli ciclici che sappiamo rifarsi ad un senso di
ricorsività e rigenerazione della vita e del tempo (in questo senso i 10 spot in cui è
chiara l’alternanza tra il giorno e la notte e quella di paesaggi tra loro eterogenei non
sono un dato da trascurare). Anche il corpo nudo o seminudo – lo ripetiamo, caricato di
125
“ciclicità” piuttosto che di sensualità – registra, infine, una buona presenza, dal
momento che sono 8 gli spot contenenti questo particolare tipo di immagini.
A tal proposito è importante rimarcare, sulla scorta del lavoro di ricerca che ci ha
condotto a visionare un alto numero di spot, il fatto che l’uso del corpo in pubblicità in
termini sensuali è una tendenza assai diffusa tra i pubblicitari. Il ricorso al sesso da parte
di quest’ultimi - spesso in maniera esplicita e volgare – è molto frequente dal momento
che esso rappresenta un facile push comunicativo da utilizzare nei confronti dello
spettatore medio e della sua componente più istintuale. Pertanto, data la loro sostanziale
non aderenza alle categorie di Gilbert Durand e alla loro presenza diffusa e spesso
“vuota” di significato, si è deciso di non contemplare questa categoria di immagini nella
tassonomia definita nel presente studio.
126
2.4.2 Differenze tra le aree merceologiche
Giunti a questo punto, procediamo all’analisi incrociata delle occorrenze delle varie
categorie di simboli rispetto alla categorie merceologiche alle quali appartengono i
rispettivi prodotti o servizi pubblicizzati. La tabella n°14 evidenzia, in maniera globale,
tale relazione:
Tabella n°16 – Distribuzione dei simboli per aree merceologiche
Categoria
S.
S.
S.
S.
S.
S.
S.
S.
S.
TOT
merceologica
Ter.
Nict.
Cat.
Asc.
Spett.
Dia.
Inv.
Intim.
Cicl.
Abbigliamento
3
0
0
3
1
0
0
0
1
3
Accessori
0
1
0
0
1
0
0
0
1
1
Auto e moto
5
6
2
9
8
14
6
8
9
20
Bevande
5
2
1
7
5
2
0
8
4
13
Casa e
arredamento
Cibo
1
1
0
2
5
1
0
4
1
5
1
1
2
9
5
4
2
5
3
10
Cosmetici
0
1
1
4
2
3
0
2
1
4
Cura del corpo
0
0
1
2
0
1
0
0
0
2
Editoria
0
0
1
1
1
0
0
0
0
1
Elettronica
0
2
0
1
1
1
2
2
2
4
Giochi e
giocattoli
Medicinali
0
0
2
2
1
0
1
0
0
2
0
5
1
0
5
1
1
1
0
5
Prodotti
assicurativi e
bancari
Profumi e
Deodoranti
Prodotti per la
pulizia della
casa
Servizi
0
2
0
2
4
2
0
1
4
5
3
5
3
7
9
3
7
2
5
13
1
3
0
1
3
3
0
4
0
5
1
1
0
4
5
1
0
1
5
6
Altro
1
0
0
2
1
1
0
2
0
2
TOT
21
30
14
56
57
37
19
40
36
101
127
Prima di procedere al commento, ci pare doverosa una premessa: i casi raccolti ed
analizzati nella presente ricerca, seppure in numero relativamente alto, non sono
sufficienti, come è ovvio, a trarre delle generalizzazioni universali a partire dal corpus
di riferimento. Le conclusioni alle quali si è pervenuti, dunque, sono da considerarsi
puramente indicative; tuttavia, dall’analisi realizzata, è possibile trarre degli spunti
interessanti che ci accingiamo a descrivere di seguito.
I risultati mostrano, innanzitutto, una significativa concentrazione dei simboli
ascensionali – che abbiamo visto essere i più frequenti all’interno del corpus insieme a
quelli spettacolari – in riferimento della categoria merceologica delle auto e delle moto
e soprattutto dei cibi e delle bevande. Su 10 spot inerenti ai cibi, infatti, ben 9 sono
marcati con simboli ascensionali, laddove su 13 spot riguardanti le bevande, se ne
rinvengono 7; anche in riferimento alle occorrenze dei simboli stessi, le due categorie
merceologiche coprono, da sole, circa un terzo della loro distribuzione totale. Ciò può
essere spiegato dall’intenzione - o meglio dall’attitudine - ad esaltare, insieme al gusto e
alla qualità degli alimenti e delle bibite reclamizzate, anche la loro leggerezza, in
rispetto di una delle qualità più ricercate ed apprezzate presso il pubblico dei
consumatori, e, di conseguenza, una delle più riproposte in pubblicità. La presenza di
simboli ascensionali in circa la metà degli spot inerenti ad auto e moto – legata
maggiormente ai percorsi in salita e ai rilievo entro cui i veicoli si trovano a muoversi e,
in parte, alla contestualità dei simboli ciclici – sono da intendersi, invece, come il
cammino che il mezzo compie per raggiungere e dimostrare le qualità e i valori declinati
dal brand.
Altra considerazione possibile è quella che riguarda, per l’appunto, la categoria
merceologiche delle automobili e delle moto. In esse, infatti, possiamo rinvenire la
presenza massiccia di simboli diairetici – quasi tutti inerenti alla sottocategoria “veicoli
sfreccianti” che abbiamo descritto in precedenza – che riguardano 14 spot su 20 e
interessano quasi la metà delle occorrenze riguardanti i simboli diairetici. Ciò sta ad
esaltare chiaramente il carattere dinamico ed energico dei prodotti pubblicizzati, in una
comunicazione che difficilmente rinuncia a mostrare il prodotto alle prese con i più
svariati contesti, pronto ad affrontarli tutti con la sua velocità e la sua eleganza.
Significativa, in tal senso, è anche la presenza di 9 spot contenenti simboli ciclici, dal
128
momento che molto spesso a fare da sfondo ai veicoli sono ambientazioni naturali
selvagge o agresti; va da sé che il loro uso si trascina via anche la dimensione
dell’eternità e della ricorsività, e quindi, nella fattispecie, dell’affidabilità e della
durabilità nel tempo, proprie dei simboli ciclici. In ultimo, è rimarcabile la presenza di
diversi simboli intimi (ben 8 su 20, di cui 5 riconducibili alla sottocategoria “veicoli
mostrati nei loro spazi interni”) ad indicare un richiamo abbastanza diffuso a benefit
quali la solidità strutturale e meccanica dei veicoli, la loro potenza e il loro comfort.
Oltre alla costante dei simboli spettacolari ed ascensionali, più della metà degli spot di
profumi e deodoranti contano, poi, al loro interno, simboli dell’inversione (tutti legati
alla sottocategoria dell’inversione dell’investimento timico degli altri simboli); allo
stesso modo, tale categoria merceologica ricopre, da sola, circa un terzo del totale delle
occorrenze legate a questa determinata categoria simbolica. Ciò, come già accennato in
precedenza, è spiegabile in base al fatto che questo tipo di prodotto si presta
particolarmente, in sede di discorso pubblicitario, al processo di decostruzione,
negoziazione e riformulazione del senso, attraverso una comunicazione incentrata
spesso sulla trasgressione e sullo spiazzamento del consumatore come leve
fondamentali per attirare la sua attenzione.
Altro dato interessante è quello che emerge dagli spot relativi a prodotti medicinali;
ebbene, nella totalità degli spot presi in analisi, la “nictomorfia” presente al loro interno
(sotto forma di personaggi mostruosi, di acqua impura e soprattutto di situazioni
caotiche) è compensata dalla presenza di simboli spettacolari legati a condizioni di
ordine e armonia. La struttura di tali spot pubblicitari sembra recitare sempre lo stesso
copione, principiando da situazioni di pericolo e/o disordine che coinvolgono i
malcapitati protagonisti vittime dei disagi e delle minacce della malattia che incombe, e
terminando con la quiete e la salute finalmente ristabilite. Da quello che si evince dal
nostro studio, dunque, la tecnica del problem solving è sicuramente quella più utilizzata
da copywriter e art director in relazione ai prodotti medicinali, grazie alla sua “atavica”
semplicità ed immediatezza comunicativa.
Passando in rassegna la categoria merceologica dei prodotti per la pulizia della casa,
invece, notiamo come siano ben 4 su 5 sono gli spot che contengono al loro interno
simboli intimi, laddove si attestano a quota 3 i simboli nictomorfi, compensati dalla
presenza di quelli spettacolari, e infine da quelli diairetici della purezza. Questa
129
tendenza trova giustificazione, da una parte, nel “facile” richiamo alla sicurezza, alla
tranquillità e all’intimità, per l’appunto, delle mura domestiche, e, dall’altra, nel
meccanismo sporco/disordine-pulito/splendore di cui sopra.
Per quel che concerne i prodotti assicurativi e bancari, invece, oltre alla cospicua – e del
resto pressoché onnipresente – distribuzione di simboli spettacolari (4 su 5 gli spot in
cui essi sono presenti), sulla stessa cifra si attesta la presenza dei simboli ciclici. Tale
tendenza può essere spiegata ancora attraverso il ricorso da parte dei creatori di spot
pubblicitari a caratteristiche quali l’affidabilità, la stabilità e la durabilità nel tempo.
Prodotti a medio-lungo termine come quelli bancari e assicurativi, trovano così,
nell’evocazione dei moti perpetui della Natura e del tempo e nella promessa del futuro,
la loro dimensione – euforica – ideale.
In ultimo, per quanto riguarda gli spot relativi all’abbigliamento sportivo, si sono
riscontrati simboli teriomorfi in tutti i casi presi in esame. Il riferimento alle
caratteristiche e al comportamento animale sembra costituire, dunque, una corsia
creativa preferenziale da parte dei pubblicitari: ciò si può ben comprendere se si risolve
l’elementare ed intuitiva associazione forza-agilità animale con quelle dello sportivo che
fa uso del prodotto.257
2.5 Per un’analisi “archetipica” degli spot pubblicitari: alcuni esempi
Di seguito riportiamo alcuni esempi di commercial televisivi estratti dal nostro corpus
di riferimento, al fine di svolgere, sulla scorta degli strumenti teorici fin qui acquisiti,
una più approfondita ed articolata analisi in chiave “archetipica” degli spot stessi.
Lo spot Lancôme 2012, che vede come protagonista la celebre attrice statunitense Julia
Roberts, rappresenta un esempio significativo di “nictomorfia” sovvertita da simboli
spettacolari ed ascensionali. Il commercial si apre con la voce-off dell’attrice che si
257
Per quanto concerne il riferimento teriomorfo, stiamo assistendo sempre più spesso, negli ultimi mesi,
in Italia, al richiamo in chiave ironica e grottesca all’animale fine al di procurare un effetto di
spiazzamento ed ilarità presso il pubblico. Ripreso durante improponibili slice of life tipicamente umane e
spesso animato da voci celebri del mondo dello spettacolo, l’animale (ricreato attraverso un pupazzo)
rappresenta spesso il vero protagonista del commercial e, allo stesso modo, la mascotte del brand. Esempi
di questa tendenza ci pervengono dalla campagne Vodafone 2012-2013 in cui si sono avvicendati
rispettivamente l’orso Bruno (“doppiato” dal celebre attore Diego Abbatantuono), il pinguino Pino (con la
voce Elio, leader del gruppo “Elio e le storie tese”), e la foca Monica (alla quale presta la sua
inconfondibile voce l’attrice e comica Luciana Littizzetto). Ultimi in ordine di tempo, infine, sono i
pinguini-attori dello spot Fiat Panda dell’autunno 2013.
130
chiede: “In a world full of dictates and conventions could there be another way?”, ad
indicare il carattere anticonvenzionale e fuori dagli schemi del prodotto/brand. A questo
punto, si vede il panorama di Parigi di notte accendersi di scie luminose (luce artificiale
intensa legata ai simboli spettacolari) il quale, poi, attraverso uno stacco, “convoglia”
nelle fila di lampadari luminosi che campeggiano splendenti in un’elegante ed affollata
sala di ricevimento (simboli spettacolari). La protagonista, vestita di un bianco
splendente, entra nella sala e si pone inizialmente sulla stessa “scia luminosa” disegnata
dai lampadari (simboli spettacolari e diairetici nel senso di purezza). Tutti gli astanti,
intanto, sono vestiti di nero e la luce all’interno del salone è molto bassa (simboli
nictomorfi) laddove sono i lampadari bianchi e il vestito della Roberts ad illuminare la
scena, creando, in questo modo, un contrasto molto evidente (simboli diairetici). A
questo punto la protagonista vede comparire degli strani fili/corde che provengono
dall’alto e che sembrano intrappolare le persone intorno a lei e quasi “guidarle” nei loro
gesti ordinari e ripetitivi – chiara allegoria delle convenzioni e dell’omologazione di cui
sopra – le quali vanno ascritte ai simboli nictomorfi. Accortasi di essere anch’ella legata
dai fili, la testimonial provvede a tagliarli e a spazzarli via con un gesto deciso ma
elegante (simboli diairetici) per poi guadagnare il terrazzo della sala. A questo punto le
immagini enfatizzano la sua salita sul terrazzo per mezzo di alcuni gradini (simboli
ascensionali) e mostrano una luce molto intensa che invade, dall’orizzonte, tutta la
scena (simboli spettacolari) e che accompagna il sorriso orgoglioso e liberatorio che
l’attrice lancia alla platea, come a manifestare il suo percorso di superamento delle
convenzioni e delle banalità quotidiane grazie all’uso del profumo. Quest’ultimo è
rappresentato nella parte finale dello spot, la quale mostra una boccetta del prodotto
agitarsi elegantemente per liberarsi anch’essa dai legami costrittivi di cui prima,
esattamente come aveva fatto la protagonista, evidenziando ancora una volta la coerenza
di fondo tra la parte visiva e quella verbale del commercial.
Lo spot Nurofen n°31 è imperniato su di un “classico” esempio di strategia problem
solving, presentando una situazione iniziale di caos che poi si risolve in uno status di
pace ed armonia. Nello specifico, all’inizio dello spot stesso, sono mostrate le immagini
di un mare in tempesta intorno ad un faro e di un cielo scuro, con una presenza
massiccia di pioggia e raffiche di vento (simboli nictomorfi). A questo punto, dalla tasca
del guardiano del faro, fa capolino la scatola del medicinale oggetto del commercial:
131
egli ne estrae una dose e la lascia cadere nel mare sottostante (l’inquadratura del lancio
è per un tratto realizzata dal basso per non accentuare la cifra catamorfa - diremmo - del
gesto in sé). Appena il medicinale entra in acqua, di colpo le nuvole vengono dissipate,
il sole spunta dall’orizzonte e il mare diventa una tavola piatta (simboli spettacolari
legati alla luce e all’armonia). Il faro, infine, simbolo spettacolare di per sé, si illumina
sullo sfondo, assurgendo finalmente alla sua natura simbolica originaria.
Lo spot Brooklyn n°41 è stato selezionato in quanto racchiude diverse categorie di
simboli e soprattutto rappresenta perfettamente il connubio tra simboli ascensionali,
spettacolari e diairetici. Le immagini iniziali ritraggono un lupo bianco (simbolo
teriomorfo) che avanza lungo un pendio innevato (ascensionalità della salita e
diaireticità dell’ambiente intesa come purezza ma anche ciclicità della natura
incontaminata) con delle montagne “ascensionali” a fare da sfondo. A questo punto si
vede un velivolo che fa capolino dal cielo (anch’esso simbolo ascensionale), mentre si
susseguono le immagini dei protagonisti - presumibilmente scienziati o alpinisti – i cui
capelli sono vistosamente sollevati dal vento (simboli ascensionali) e che si muovono
anch’essi tra la neve vergine e sotto un sole splendente (simboli spettacolari). Anche
quando il velivolo atterra sull’acqua, lo fa sulla striscia di luce solare riflessa ed in
maniera morbida, quasi accennata, senza il benché minimo tonfo. Alla fine dello spot
uno dei personaggi porta alla bocca il chewingum e mentre lo mastica ha lo sguardo
rivolto verso l’alto (simboli ascensionali); a questo punto compaiono sullo sfondo la
catena montuosa in bella vista, il ponte di Brooklyn che dà il nome al prodotto
(entrambi sono simboli ascensionali in quanto strutture slanciate) ed infine, in
sovraimpressione, il pack, anch’esso inclinato verso l’alto.
Altro spot in cui si può apprezzare la commistione di vari simboli – nella fattispecie
soprattutto quelli spettacolari, ascensionali ed intimi – è quello della bevanda “Green
Da-ka-ra”, il n°46 della matrice, il quale vede come protagonista una irresistibilmente
dolce bambina giapponese alle prese con l’acquisto/raccolta di frutta fresca. Le
immagini ritraggono la bimba con un cesto di vimini in mano (simbolo intimo di una
sorta di Cappuccetto Rosso nipponico) che corre tra i vicoli e le piazze di un paesino
rurale battuto da un sole splendente (simboli spettacolari). Arrivata al mercato
ortofrutticolo - composto da bancarelle dai tendaggi rosseggianti – la piccola chiede
della frutta e i commercianti si precipitano a riempire la sua cesta di frutti variopinti e
132
anch’essi da colori caldi (simboli spettacolari). A questo punto la bambina compie una
magia trasformando la frutta del cesto in bottiglie marcate “Da-ka-ra” e lo fa sfilando
verso l’alto, con un ampio gesto, una tovaglia (simboli ascensionali). Le immagini
finali, vedono come protagonista la bambina e due commercianti che sono ripresi
nell’atto di sollevare la bottiglia e berne il contenuto (simboli ascensionali e intimi
dell’azione del bere). Alla fine dello spot si vede la bambina con la bottiglia in mano e,
sulla sinistra, un’altra bottiglia sospesa nel vuoto (simboli ascensionali).
Lo spot n° 63 delle scarpe “Canguro”, invece, è un caso esemplificativo di tratti
teriomorfi trasmessi al prodotto/brand pubblicizzato. Sorvolando sul nome del marchio
stesso e sul logo (il quale consiste nella stilizzazione di un canguro) che sono, di per sé,
chiaramente teriomorfi, si può notare, all’interno del commercial, la presenza di un
canguro-cartoon saltellante che accompagna in maniera incessante le gesta del
testimonial (il portiere della nazionale italiana di calcio Bordon) alle prese con i suoi
allenamenti quotidiani. La marcata presenza del canguro sullo schermo, descrive
chiaramente la traslazione di qualità come l’agilità, la leggiadria ed il comfort
nell’atterraggio, dall’animale al testimonial e a tutti gli altri consumatori che fanno uso
del prodotto. In questo senso, come si è già precedentemente accennato, il ricorso ai
tratti tipici teriomorfi è un semplice ed immediato strumento a disposizione di chi crea
pubblicità, e ciò è vero soprattutto nell’ambito dell’abbigliamento sportivo, dal
momento che lo sport è associato in maniera consolidata alle sfida contro i propri limiti
umani, attraverso gesti tecnici e movenze che trovano una loro corrispondenza pura e
vigorosa proprio all’interno del regno animale.
Lo spot TV Sorrisi e Canzoni, il numero 66 della matrice, rappresenta invece un buon
esempio di simboli catamorfi “mitigati” dalla presenza di simboli ascensionali e
spettacolari. Il commercial si apre con l’immagine di un aeroplano giallo in volo (primi
cenni di simboli ascensionali e spettacolari), il quale lascia cadere subito dopo le riviste
pubblicizzate. La caduta di quest’ultime, però è frenata dalla pronta apertura di miniparacadute, anch’essi di colore giallo chiaro, che si posano pian piano sulla città
brulicante di passanti. Le prime riviste sono raccolte con un balzo da una donna con i
capelli biondi, appoggiata ad un taxi di colore giallo (ancora simboli ascensionali e
spettacolari), mentre, poco dopo, si vede prima un uomo sul montacarichi di un camion
in movimento che legge la rivista facendo gonfiare il suo paracadute in maniera
133
orizzontale, e poi delle bambine che volteggiano su una giostra e che procurano alla
rivista e al suo paracadute il medesimo effetto (altri simboli ascensionali che smorzano
la catamorfia delle riviste cadenti). Alla fine dello spot, tutte le riviste ancora in volo
con i loro paracadute gialli, scendono su una collinetta e si concentrano per comporre la
scritta “TV”: ancora una volta, dunque, il loro atterraggio disforico è compensato (nella
fattispecie dal fatto che la loro discesa è stata funzionale alla formulazione della scritta).
Lo spot Honda SH mode n°94 del 2013, invece, rappresenta un esempio di simboli
contraddistinti da significati negativi, controbilanciati da simboli dell’inversione e
simboli “euforici” quali i simboli ascensionali, spettacolari e diairetici. Le immagini
iniziali si aprono in ambientazione cittadina notturna in cui un giovane uomo, seduto
sulla sella del suo scooter, si appresta ad indossare il casco prima di partire. A questo
punto egli si accorge che è appena iniziato un temporale perché le prime gocce si
posano sul faro frontale acceso del mezzo; ciò ovviamente, considerata la situazione,
assume i tratti di una piccola “sciagura” per il giovane. Tuttavia, il primo gesto del
ragazzo è quello di far scivolare la goccia, che intanto gli è caduta sul viso, all’interno
della bocca per berla (un primo “sintomo” di inversione dell’investimento timico legato
all’elemento pioggia, di base nictomorfo). Il ragazzo, intanto, mette in moto lo scooter
e parte, iniziando a descrivere delle serpentine sull’asfalto bagnato mentre tutti i
passanti si affrettano a coprirsi con gli ombrelli per ripararsi dal temporale. A un certo
punto percorre un tratto di strada e sullo sfondo appare un’intensa luce artificiale, quasi
accecante (simboli spettacolari) che lo conduce all’appuntamento con una giovane
donna. Sceso dal motorino, lui toglie il casco e lei richiude l’ombrello ed entrambi
iniziano a saltellare e fare piroette sotto la pioggia, quasi invocandola, in una danza
liberatoria (simboli dell’inversione più che mai evidenti). A questo punto, “esaurita”
l’inversione, si passa di colpo ad un’ambientazione notturna ad una diurna dove
predomina un sole splendente (simboli spettacolari), e si possono apprezzare dei salti e
delle acrobazie realizzate da funambolici skater (simboli ascensionali). Si susseguono
poi, sullo schermo, delle immagini ritraenti lo scooter che sfreccia velocemente tra le
strade e i vicoli della cittadina guidato da una giovane donna (simboli diairetici), quelle
di panni stesi ad asciugare, delle biglie e delle caramelle in primo piano dai colori accesi
(simboli spettacolari), quelle inerenti al taglio di un’arancia con un grosso coltello
(simboli diairetici) e quelle inerenti a fiori e piante mosse da un vento impetuoso
134
(simboli ascensionali). L’ultima parte del commercial, infine, mostra una coppia di
giovani in sella ad uno scooter e con i capelli al vento (simboli ascensionali) alle prese
con i giochi di luce solare di una galleria (simboli spettacolari), e poi ancora con
acrobazie ed evoluzioni di skater e rider vari (simboli ascensionali). Lo spot termina con
l’approdo di una piccola comitiva di ragazzi ad una spiaggia attraverso lo scooter;
quest’ultimi si spogliano in tutta fretta e a grandi gesti lanciando in aria i propri
indumenti e facendo dei salti acrobatici (simboli ascensionali) per poi tuffarsi
allegramente nell’acqua del mare (simboli ciclici e intimi dell’inghiottimento).
Il celebre spot Coca Cola del 2012, il n°97 della matrice, rappresenta perfettamente la
commistione di diversi simboli che si susseguono tra loro principalmente attraverso il
meccanismo della contrapposizione netta e del contrasto (che ricordiamo essere ascritto,
di per sé, alla dimensione diairetica). Lo spot si apre con un messaggio verbale sullo
schermo che recita “Hai mai provato a guardare il mondo con occhi diversi?”; subito
dopo si vede la scena di una scolaresca formata da bambini piccoli intenta a cantare in
un’aula molto illuminata dalla luce del sole (simboli spettacolari), la canzone che fa da
colonna sonora al commercial stesso (“I'm free to be whatever” degli Oasis) sotto la
guida del maestro. A questo punto, dopo la frase scritta “Per ogni persona corrotta…”,
si vede un’immagine dalle tinte scure che ritrae un mucchio di banconote sparse in
maniera disordinata sul tavolo, con un rosso scuro e tetro a fargli da sfondo, e che si
risolvono in un’esplosione finale (simboli nictomorfi). Sullo schermo appaiono, a
questo punto, una miriade di palloncini rosso fuoco che risalgono nell’aere (simboli
spettacolari e ascensionali) accompagnati dalla frase “8000 persone donano il sangue”.
Di seguito, è il turno delle immagini marcate verbalmente con un “Mentre si progetta
una nuova arma” e che rappresentano, ancora una volta con colori spenti e tetri, il lancio
di un missile sinistro e dalla base infuocata da una mare scuro e agitato (simboli
nictomorfi); a queste viene contrapposta la sequenza che ritrae una casalinga nella sua
cucina di casa alle prese con una torta, la quale spalma delicatamente sulla superficie
del dolce una panna bianchissima servendosi di un vassoio altrettanto bianco (simboli
diairetici), accompagnata dalla frase “una mamma prepara una torta”. A questo punto,
appare la frase “Per ogni coro razzista…” che precede la scena di un gruppo di ultras
particolarmente aggressivi e che tendono continuamente il braccio verso il campo (un
movimento, quello di tendere il braccio, potremmo dire storicamente e culturalmente
135
“nictomorfo” dato il suo rimando al celebre saluto vigente nella Germania nazista del
secolo scorso); a queste viene contrapposta l’immagine di un uomo canterino intento a
fare la doccia (volendo, una “spettacolarità” intima, psicologica), nella quale spiccano,
sulla sinistra dello schermo, delle confezioni fusiformi di shampoo e bagnoschiuma
(simbolo ascensionale accennato), precedute dalla frase “80000 uomini cantano sotto la
doccia”). Procedendo, nello spot appare un’altro testo che recita “Per ogni cattiva
notizia..” a cui fanno seguito le immagini di un telegiornale il quale, oltre a presentare
dei titoli “verbalmente nictomorfi” (ad esempio l’inquietante “GLOBAL WARMING”
in sovraimpressione), mostra i visi tristi e allarmati dei giornalisti (anche qui una sorta
di “nictomorfia dello stato d’animo” che si inserisce in altre più palesi); a queste scene
vengono contrapposte quelle di una coppia di giovani stesa sul letto in una camera
molto illuminata da una finestra aperta, e di bambini che giocano felici in un giardino
quasi accecante per la sua luminosità (simboli spettacolari), con la dicitura in alto “100
coppie cercano di avere un bambino”. L’ultima contrapposizione archetipica, invece, si
apre con la frase “Per ogni giornata nera” che fa da incipit alla scena in cui la
nictomorfia del disordine e della spazzatura in cui versa l’uomo inquadrato - tra l’altro,
in una posizione che suggerisce raccoglimento e sconforto - risulta evidente; a questa
scena è contrapposta quella – recuperata da un altro celebre spot della stessa Coca Cola
risalente all’anno 1990 e corrispondente allo spot n°33 della matrice - di persone
illuminate da un sole splendente che, con gli sguardi rivolti verso l’alto, recano in mano
una bottiglia di Cocacola (simboli spettacolari e ascensionali) mentre una frase in
sovraimpressione recita: “Migliaia di persone condividono una Coca-Cola”. Lo spot si
chiude con l’immagine di una ragazza che solleva la bottiglia di Coca Cola per
portarsela alla bocca (simboli intimi) mentre si vedono suoi capelli svolazzare nel vento
(simboli ascensionali) e sullo sfondo, esattamente in corrispondenza del bordo della
bottiglia, stagliarsi un sole luminoso e splendente (simboli spettacolari), quasi ad
indicare che il momento topico e che elargisce più felicità è proprio quello del
consumare il prodotto oggetto della pubblicità. L’headline finale è “Ci sono tante
ragioni per credere in un mondo migliore”, a ribadire, in maniera sintetica, ancora una
volta il concetto di negatività sovvertita e sconfitta dal bene e dalla speranza.
Lo spot islandese n°100, inerente ai prodotti assicurativi Vörður, costituisce una
presenza a dir poco singolare nell’ambito della nostra analisi incentrata sugli archetipi
136
all’interno degli spot televisivi. Esso si apre con la più classica delle ambientazioni
naturali, con le immagini – accelerate – di un promontorio che termina in una pianura
verdeggiante e incontaminata, coperto da grandi nuvole in transito nel cielo (simboli
ciclici legati alla natura e al divenire); a questo punto si vede un bambino a torso nudo
(simboli ciclici del “grado zero” del corpo) che lancia in aria una penna di uccello, la
quale si trasforma essa stessa in un uccello che vola via (simboli ascensionali). Sullo
schermo, poi, mentre va una colonna sonora perfettamente aderente al contesto,
compare vecchio uomo (anch’egli apparentemente nudo o seminudo) dai capelli e barba
bianchi (simboli spettacolari) intento a scrutare il paesaggio circostante , e un giovane
completamente nudo (ancora simboli ciclici) ripreso mentre tende con forza e attenzione
un arco in legno (altro simbolo ascensionale). È il turno poi, di una giovane donna,
ferma con le braccia sollevate sulla riva del mare, la quale indossa solamente un velo
che svolazza senza sosta spinto dal vento (ancora simboli ciclici e ascensionali). Intanto,
ad accompagnare e ad integrare le immagini del commercial ci sono le parole-chiave
della parte verbale
che
recitano,
nell’ordine: “Initiative..”,
“Knowledge…”,
“Independence…”, “Freedom…” , “Cooperation…”, “Force…”, “Preciseness…”. A
questo punto dello spot, dopo che le immagini sono ritornate prima sull’anziano che
scruta l’orizzonte dagli scogli e poi sul giovane con l’arco, interviene, a sorpresa facendo bloccare di colpo la musica con un effetto sonoro distorto - una presenza a dir
poco straniante. Fa il suo ingresso nella scena, infatti, un giovane ben vestito e dal
sorriso affabile ed irridente, il quale si piazza alle spalle dell’altro giovane (che lo
osserva incredulo) e guardando la telecamera dice: “Well, this hasn’t much to do with
insurance, does it? We at Vörður Insurances don’t like to complicate things. We simply
offer good insurances, and good services”. Lo spot si chiude , così, con un pay off finale
in corsivo e di piccole dimensioni - messo in risalto da uno sfondo completamente
bianco - che recita, attraverso una voce-off: “less image, more insurance” e a cui fa
seguito il logo dell’impresa.
L’ultimo spot del nostro corpus, quello Chanel n°5 del 2012, è stato selezionato per la
sua particolarità di presentare archetipi in forma quasi esclusivamente verbale, lasciando
per una volta da parte la componente visuale del messaggio pubblicitario. Il
commercial, che vede come protagonista il celeberrimo attore americano Brad Pitt,
rappresenta un esempio di come le parole possono, oltre che “supportare” le immagini
137
archetipiche presenti negli spot pubblicitari, sostituirsi a quest’ultime e diventare esse
stesse veicolo di archetipi. Come abbiamo avuto modo di notare nelle analisi precedenti,
la componente verbale, sebbene marginale o comunque secondaria, svolge spesso un
ruolo importante all’interno dei commercial laddove essa, ora attraverso accostamenti
evocativi, ora mediante termini più didascalici, va a corroborare la parte visuale,
arricchendola di significato. Nel caso dello spot Chanel N°5, però, il testo recitato da
Pitt si stacca da una dimensione comprimaria per assurgere a vero protagonista dello
spot. Ciò avviene perché la parola, divenuta finalmente “archetipica”, è messa
intenzionalmente e indiscutibilmente al centro della scena, dal momento che per quasi
tutta la durata del commercial non si vede altro che la figura dell’attore - vestito in
maniera abbastanza anonima ed ordinaria - che recita immobile al centro di una stanza
completamente spoglia, puntellando, con la sua voce, un silenzio assoluto, quasi
“cosmico”. L’uso inconsueto del bianco e nero in questo senso, non fa altro che ribadire
la
chiara
volontà
di
non
distogliere
in
alcun
modo
l’attenzione
dello
spettatore/consumatore dal testo che sente proferire sullo schermo, quasi invitandolo a
chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da quel “profluvio archetipico” che le parole,
scandite una per una, ricreano all’interno della sua psiche. Nella fattispecie il testo
proferito dal testimoniale è il seguente:
“Non è un viaggio,
tutti i viaggi finiscono
ma noi andiamo avanti.
Il mondo gira e noi
giriamo con lui.
I progetti svaniscono,
i sogni prendono il sopravvento.
Ma comunque vada
ci sei tu…
la mia sorte,
il mio destino,
la mia fortuna.
Chanel N°5…
Inevitabile.”
138
Il testo, con i suoi rimandi al tema del tempo, del destino, della circolarità, del viaggio anche attraverso la negazione iniziale - della finitudine e del nuovo inizio, può essere
considerato, nel suo insieme e sulla scorta delle categorie simboliche di Durand, come
un grande simbolo ciclico. I termini che lo compongono, di rara pregnanza semantica,
evocano in maniera disarmante la suddetta dimensione di ricorsività e di “immortalità”
del tempo da una parte, e delle vicissitudini e avventure umane dall’altro. La presenza di
entrambi questi richiami fa sì che, all’udire le parole dello spot, sia facile per l’uditore,
sentirsi immerso in un’atmosfera che è fortemente inerente alla storia personale di
ognuno e, al contempo, dentro la grande Storia dell’umanità e dell’universo intero,
diventando in questo senso, personale e collettiva. Nell’ultima parte del testo, il
richiamo alla coppia – quella metaforica tra il testimonial ed il profumo – si aggiunge ai
simboli ciclici testé descritti, andando ad arricchire il testo con la presenza di un’unità
estremamente forte che, per l’appunto, sfida il Tempo e i piccoli episodi dell’esistenza
di ogni persona, per un legame inscindibile ed eterno.
Dal punto di vista delle immagini, infine, lo spot compie un solo “stacco” da quella
dell’attore impegnato a recitare, interruzione che, di fatto, nei suoi contenuti, aderisce
perfettamente al testo enunciato fino a quel momento. Essa consiste, infatti, nella
raffigurazione della confezione del prodotto, la quale emerge in sovraimpressione da un
paesaggio che raffigura una porzione di spazio in cui si vede la superficie di un pianeta
- simboli ciclici, questa volta puramente visivi - puntellata da pepite di luce infuocate
(una sorta di pianeta Terra rivisitato in chiave “spettacolare”), e a sua volta illuminata in
lontananza da un sole splendente (simboli spettacolari). Ancora una volta, dunque, la
parte verbale e quella visiva di uno spot risultano semanticamente coerenti, tuttavia, nel
caso di specie, è la prima a dominare nettamente sulla seconda, e non viceversa come
vuole la norma all’interno della pubblicità (ormai da almeno 30 anni a questa parte)258
258
Per una panoramica sull’iconic turn della comunicazione pubblicitaria a discapito della parte verbale
del messaggio, avvenuta a partire dalla fine degli anni ’70, e sul rapporto tra pubblicità e arte letteraria, si
rimanda al lavoro di tesi triennale in “Comunicazione audiovisiva e scritture mediali” ad opera di chi
scrive, dal titolo “Poesia venale”:quando la musa è un detersivo. Il rapporto tra pubblicità e parola
letteraria.
139
CAPITOLO III
Per una prospettiva “archetipica” al governo d’impresa:
l’Archetypal Branding
“Ma tutto ciò che sono, non ve lo posso dire, a dirlo non son buono,
mi proverò a cantar…!”
(Ettore Petrolini nelle vesti di “Fortunello”)
L’Archetypal Branding rappresenta, ad oggi, una delle tendenze più interessanti ed
originali nell’ambito del management d’impresa. Esso può essere definito come “un
framework per individuare le personalità archetipiche fondamentali per la cultura
dell’organizzazione e per lo sviluppo di un’identità interna ed esterna chiara e in grado
di essere appetibile per i clienti e tutti gli stakeholder; esso, inoltre, mette in guardia
dal possesso da parte di un determinato archetipo e sollecita al controllo contro il
rischio di essere trascinati dal suo potenziale negativo”259.
È proprio dagli archetipi junghiani della personalità (vedi paragrafo 7 del cap.1), infatti,
unitamente alle teorie sul mito di J. Campbell (vedi paragrafi 6 e 9 del cap. 1), che la
psicologa e docente universitaria Carol S. Pearson260, pioniere per quel che concerne
l’Archetypal Branding e, tra le altre cose, presidente del Pacifica Graduate School of
Santa Barbara in California e del Center for Archetypal Studies and Applications, inizia
i propri studi alla fine degli anni ’90. Le ricerche di Pearson, a cui si aggiungono quelle
di altri autori che menzioneremo tra breve, hanno in sé l’originale e ambizioso obiettivo
di porsi metà tra la psicologia, la sociologia e il management d’impresa allo scopo di
259
C.S.PEARSON,M. MARK The Hero and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the
Power of Archetypes, McGraw-Hill, New York, 2002
140
individuare una serie di archetipi che, sulla scorta di quelli teorizzati da Carl Gustav
Jung, si applichino in maniera pertinente e funzionale ai “tipi” della società
contemporanea e, soprattutto, all’identità – e alla personalità261 - delle imprese operanti
nel mercato odierno. L’idea alla base, per l’appunto, è che, così come per le persone
esistono delle attitudini e delle inclinazioni identitarie, ereditate dalla notte dei tempi e
che si susseguono durante il corso della propria vita (idealmente affrontandole tutti fino
ad arrivare all’archetipo del “Sé” che abbiamo visto essere quello della totalità), così per
le imprese possono essere adottati modelli comportamentali specifici in termini di
branding allo scopo di seguire delle linee guida coerenti ed “universali” che permettono
di raggiungere un’elevata efficacia presso i propri pubblici di riferimento.
Per arrivare a stilare la sua lista definitiva di archetipi – inizialmente 6, poi divenuti 12 –
Pearson conta sull’ausilio di autorevoli imprese di consulenza inerenti al brand
management, al marketing, e alla comunicazione quali “Forges” e “Storybranding”,
oltre che su quello di Margaret Mark, Presidente della “Archai” (un istituto di ricerca
focalizzato sulle applicazioni e gli studi inerenti agli archetipi) e con un passato di vice
presidente esecutivo presso la celebre agenzia di comunicazione Young & Rubicam.
La teoria di Pearson, multidisciplinare ed eterogenea in termini di background
accademico-professionale posto in essere dietro alla sua definizione, attualmente risulta
avere un cospicuo riverbero tra gli esperti di branding, tant’è che la Rete brulica di
articoli e di siti inerenti a tale paradigma, il quale va nella direzione di una “condotta
archetipica” del governo d’impresa262.
261
Cfr. N. MARKWICK, C. FILL., “Towards a framework of managing corporate identity”, European
Journal of Marketing, 1995, Vol.31, pag. 397.
262
Sul Web, tra le decine di articoli e siti Web dedicati all’Archetypal Branding diverse sono le
classificazioni realizzate sulla scorta dei 12 archetipi di Pearson. Tra queste, proponiamo qui quella lunga
ed articolata di “Forty Agency”, un’impresa di consulenza di marketing e comunicazione, che ha stilato
una lista di ben 20 archetipi dai quali sono scaturiti, tra l’altro, diverse pubblicazioni (traduzione nostra):
1)Il Ribelle, marchi: Harley Davidson, Virgin, Mtv; obiettivo: per raggiungere la libertà attraverso la
sfida, la disobbedienza, e l’anticonformismo. 2)L’Uomo Qualunque, marche IKEA,Walmart, Visa ;
obiettivo: legare con gli altri per essere umile. 3)L’Innocente, marche: Google, Apple; obiettivo:
semplicità, fare sempre la cosa più giusta. 4)L’Intrattenitore, marchi: Budweiser, Fanta, Jack in the Box;
obiettivo: fare amicizia (ed evitare i nemici) usando l'umorismo e divertimento.
5)L’Antagonista, marchi: Megadeth, Hot Topic, LA Ink; obiettivo: Soddisfare le passioni attraverso
qualsiasi mezzo.6) L Intellettuale, marche: Ask.com, CNN, MIT; obiettivo: trovare la verità attraverso la
ricerca, l'obiettività, e la diligenza. 7)L’Edonista, marche: Victoria 's Secret, BMW, Versace; obiettivo:
perseguire il piacere attraverso esperienze fisiche. 8)Il Servitore, marche: Croce Rossa, Amnesty
International, Peace Corps; obiettivo: mettere da parte se stessi per la cura degli altri. 9)Il Tradizionalista,
marche: Procter & Gamble, Wells Fargo, GAP; obiettivo: ripristinare il mondo di una volta attraverso un
ritorno ai vecchi valori. 10)La Nutrice , marche: Campbell, Pampers, Johnson & Johnson; obiettivo:
aiutare gli altri e provvedere ai loro bisogni e desideri. 11) Il Connettore, marchi: Facebook, LinkedIn,
141
La classificazione che ci accingiamo qui a proporre, in assoluta la più riconosciuta e
citata allo stato dell’arte attuale, è contenuta nel libro più noto della Pearson, The Hero
and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes (di
cui la stessa Mark è co-autrice). La descrizione degli archetipi, nello specifico, è
dapprima focalizzata sul “tipo psicologico” alla base (con i vari esempi tratti dalla
società, dalla letteratura, dalla pubblicità, dal mondo dello spettacolo ecc.) e poi inerente
all’applicazione di tali tipi al governo di impresa (in particolare alla brand personality e
alla brand identity).263
Procediamo, dunque, con l’esposizione del modello:
L’INNOCENTE
L’Innocente è la figura della purezza e della bontà d’animo (in francese antico ed in
latino la radice della parola “innocente” significa: “nulla di male”). Egli è naturalmente
idealista, ottimista e speranzoso, perseverante di fronte agli ostacoli e solerte nel
motivare gli altri ad avere fiducia nella buona risoluzione dei problemi. Gli innocenti
sono sempre pronti ad affrontare nuove sfide, superando quelle barriere che avrebbero
scoraggiato chiunque si fosse imbattuto in esse. Esse sono genuine, a volte puerili e con
un velo di nostalgia.
Twitter; obiettivo: conoscere le persone giuste. 12)L’Artista, marche: Hp, Adobe, Lego; Bbiettivo: creare
qualcosa di bello, duraturo e di valore. 13)Il Filosofo, marchi: Scientology, Calvin Klein,
Nikon; obiettivo: aiutare la gente a vedere le cose da una prospettiva diversa. 14)Il Sognatore, marchi:
Disney, Axe, Rock Band ; obiettivo: aiutare le persone a realizzare esperienze soprannaturali,
promuovendo la fede e la meraviglia. 15)Il Motivatore, marchi: Electronic Frontier Foundation,
Moveon.org; obiettivo: raggiungere obiettivi sorprendenti rendendo la gente entusiasta per una causa.
16)Il Governante, marchi: Microsoft, Rolex, Gillette; obiettivo: condurre le persone verso una
destinazione comune attraverso la fiducia e la determinazione. 17)L’Esploratore, marchi: North Face,
Subaru, Starbucks; obiettivo: cambiare il proprio ambiente. 18)Il Difensore, marchi: US Army,
Greenpeace, Marlboro; obiettivo: proteggere gli altri dal male con coraggio. 19)Il Combattente, marchi:
X Games, Mountain Dew; obiettivo: ottenere grandi ricompense attraverso grandi rischi.
20)L’Atleta, marchi: Nike, Ford, Adidas; obiettivo: mettere alla prova se stessi attraverso sfide continue.
263
Essa, inoltre, sconta l’apporto di due esperti di brand management, operanti a livello internazionale e
con un’esperienza decennale sul campo, ovvero Nikolaus Eberl e Herman Schoonbee. Quest’ultimi, a
partire dai 12 archetipi stilati da Pearson, hanno operato alcuni approfondimenti ed integrazioni,
unitamente alla nascita del loro progetto “BrandOvation”, un’azienda di consulenza che promuove l’uso
degli archetipi nel branding e che ha collaborato, tra le altre cose, a margine dell’evento dei Mondiali di
calcio in Sud Africa del 2010.
142
Esempi da Hollywood vanno dal Tom Hanks di “Forrest Gump”, a Bambi e Biancaneve
dei film Walt Disney. Fanciulli, personaggi buoni e infantili - ma anche monaci,
monache e persone sante - rappresentano al meglio questa particolare figura.
Le organizzazioni “Innocent” suggeriscono ai propri clienti che per riuscire non serve
aggressività ma ottimismo e genuinità: esse offrono soluzioni semplici a problemi ben
identificati e attraverso la loro comunicazione proiettano i loro consumatori in una
dimensione infantile e pura. Un’impresa che ricopre il ruolo di “Innocente” è
un’impresa che, con ottimismo e tenacia, non si arrende di fronte a difficoltà limitanti
per qualsiasi altra azienda, riuscendo ad individuare cosa è meglio per essa e
mantenendo la fiducia nei propri valori che sono quelli della semplicità, della
tradizionalità, della bontà, del benessere e dell’ottimismo. Esempi di brand incentrati su
questo particolare archetipo sono Coca Cola, Mc Donald, Walt Disney ecc.
Motto: libero di essere te e me stesso
Desiderio fondamentale: andare in paradiso
Obiettivo: essere felice
Paura più grande: essere punito per aver fatto qualcosa di sbagliato
Strategia: fare le cose nel modo giusto
Debolezza: noioso a causa della sua innocenza naive
Talento: fiducia nella potenza del pensiero positivo e dell’ottimismo
L’innocente è anche conosciuto come: utopista, tradizionalista, naive, mistico, santo,
romantico, sognatore ecc.
L’UOMO QUALUNQUE
Gli uomini e le donne qualunque sono individui che traggono soddisfazione nell’essere
se stessi e nel far sentire gli altri a proprio agio, incentivando i loro processi di
adattamento a situazioni e a gruppi di persone. Essi sono per natura empatici, onesti,
accomodanti, sensibili, gentili e danno il meglio di sé a contatto con altre persone. Gli
uomini e le donne “qualunque” sono schiette, inclini alle relazioni e capaci di
intrattenere rapporti basati sulla sincerità e sulla sinergia.
143
Uno degli esempi più evidenti che perviene dalla letteratura è sicuramente l’Oliver
Twist di Charles Dickens, mentre, in riferimento all’immaginario cinematografico, mai
come nel periodo neorealista il personaggio comune, “del popolo”, ha avuto così tanto
risalto (si pensi ai grandi film italiani degli anni ’40 come “Roma città aperta” di
Rossellini, “Ladri di biciclette”di Vittorio de Sica e “Riso amaro” di De Santis). In
pubblicità l’archetipo dell’uomo e della donna qualunque è altrettanto utilizzato come
catalizzatore dell’attenzione del pubblico: il suo essere semplice, comune e al pari
livello del consumatore, infatti, agevola il meccanismo di immedesimazione ed
influenza presso quest’ultimo. Gli Everyperson, infatti, ripresi in slice of life
opportunamente costruite e lontane da atmosfere più lussureggianti e sofisticate, fanno
leva sul loro appeal di “comuni mortali” per coinvolgere il pubblico e aumentare la sua
propensione all’acquisto.
Organizzazioni “Everyperson” sono quelle che, allo stesso modo, trasmettono ai propri
clienti senso di appartenenza ad un gruppo, fiducia, autostima, amicizia; per
quest’ultimi non è importante sentirsi unici o speciali a tutti i costi. Le imprese che si
rifanno all’“Uomo Qualunque”, inoltre, assicurano un alto livello di benessere e dignità
e forniscono un forte senso di appartenenza presso i propri stakeholder. Esse sono
dedite creazione di gruppi di lavoro motivati nella loro attività, in cui regna una reale
comunione di valori e di intenti. I prodotti “everyperson” sono di solito usati tutti i
giorni. Esempi di imprese Everyperson pervengono da IKEA, Visa, ING Direct ecc.
Motto: tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali
Desiderio fondamentale: connettersi con gli altri
Obiettivo: appartenere ad un gruppo
Paura più grande: essere lasciato in disparte o spiccare nella folla
Strategia: sviluppare solide virtù ordinarie, avere i piedi per terra
Debolezza: perdere il proprio sé nello sforzo di assimilarsi agli altri
Talento: trasparenza, empatia, assenza di falsità
L’Uomo Qualunque è anche conosciuto come: l’orfano, la persona della porta
accanto, il “good old boy”, il realista, il lavoratore, il cittadino modello, il buon vicino,
il lavoratore ecc.
144
L’EROE
L'eroe agisce coraggiosamente per migliorare una situazione che presenta limitazioni
e/o
pericoli.
Naturalmente
determinato,
razionale,
concentrato,
dimostra
un
atteggiamento vincente e risoluto che spesso può motivare gli altri a raggiungere i suoi
obiettivi. Egli è attratto dal caos e dalla difficoltà poiché vi intravede la possibilità
dell'eroismo e gli è propria la capacità di “fare squadra” contro il nemico individuato.
L’Eroe è un archetipo che fonda le sue radici dalla notte dei tempi. Il mito dell'eroe
universale, ad esempio, si riferisce sempre a “un uomo potente o ad un uomo-dio che
annienta le forze del male materializzate in dragoni, serpenti, mostri, demoni e così via,
e che libera il proprio popolo dalla distruzione e dalla morte” 264. Ritroviamo la figura
dell’Eroe nella mitologia classica della Grecia e di Roma, nel Medioevo, nell'Estremo
Oriente e anche fra le tribù primitive contemporanee (Sargon a Babilonia, Mosè nella
Bibbia, Karna in India, Edipo, Danae e Perseo in Grecia, Romolo e Remo a Roma,
Sigfrido nell’Europa del nord, Rolando in quella occidentale del 700 ecc. ecc. ). Gli eroi
e le eroine contemporanee dei fumetti e dei cartoni animati (da Superman a Wonder
Woman) costituiscono un’evidenzia immediata di questo particolare tipo, laddove
possono altresì evocare tale figura la polizia, gli autisti di ambulanze, i vigili del fuoco
ecc. In pubblicità l’Eroe vanta una casistica corposa: esso può essere impersonato, ad
esempio, da atleti determinati a raggiungere un obiettivo sportivo, da semplici uomini e
donne impegnate nelle piccole-grandi sfide quotidiane ecc. ecc.
Le imprese “eroiche” sono quelle attratte dalla competizione: esse creano innovazioni
che hanno un grande impatto sul mercato, riuscendo, a volte, a contribuire alla soluzione
di problemi sociali e ad incoraggiare altri soggetti a perseguire la stessa causa. I loro
prodotti aiutano le persone a raggiungere i propri obiettivi e a sconfiggere delle
avversità ben precise. Il brand “Eroe” è difficilmente leader del mercato: esso è capace,
però, di porsi grandi obiettivi e di conseguirli tutti con grande determinazione e grande
tenacia e senso di rivalsa curando, al contempo, l’aspetto del “fare squadra” e del
sentirsi parte di un gruppo unito ed omogeneo. Esempi di marche “eroiche” sono Nike,
Champion, Sector, ecc.
264
C.G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 60.
145
Motto: dove c’è la volontà, c’è una via
Desiderio fondamentale: dimostrare il proprio valore attraverso atti coraggiosi
Obiettivo: diventare esperto in qualcosa che migliori il mondo
Paura più grande: debolezza, vulnerabilità, essere codardi
Strategia: essere il più forte e competente possibile
Debolezza: arroganza, il bisogno di avere sempre una battaglia da combattere
Talento: competenza e coraggio
L’eroe è anche conosciuto come: il guerriero, il crociato, il salvatore, il supereroe, il
soldato, l’uccisore di draghi, il vincitore e chi lavora bene in squadra
L’ANGELO CUSTODE
L'archetipo dell’Angelo Custode (Caregiver) è una figura altruista, motivata dal
desiderio di aiutare gli altri e proteggerli dal male e dai pericoli della vita. I Caregiver
sono gratificati quando possono fare la differenza per qualcun altro. Compassionevoli e
servili per inclinazione, essi sono intenti a dimostrare la loro volontà nel sostegno e
possono anche indurre gli altri a fornire un servizio o una cura migliore. Sono di solito
sempre pronti e ben disposti ad andare incontro ai bisogni dell’altro (anche a costo di
sacrificare se stessi) e sono spesso tesi alla costruzione di ambienti stabili e sicuri dove
sostenere il prossimo con cure e attenzioni di ogni genere. Gli esempi, limitandoci alla
nostra contemporaneità, includono figure sante e filantrope come Madre Teresa di
Calcutta, Martin Luther King, le categorie dei medici, degli infermieri, dei volontari,
degli assistenti sociali, la figura della madre o del padre premuroso all’interno di uno
spot televisivo ecc ecc.
Le aziende “Caregiver” sono quelle capaci di offrire ai propri clienti e ai propri
dipendenti assistenza e servizi di alto livello, costruendo ambienti lavorativi accoglienti
e vivibili e facendo sentire i propri stakeholder “a casa propria”. Nella comunicazione
esse non sono mai ruvide o aggressive ma piuttosto genuine e naturali e fanno leva
sull’empatia e la fiducia. I brand Caregiver si contraddistinguono per il loro interesse
manifesto verso l’incolumità e il benessere del prossimo e per la realizzazione di
prodotti che preservano la salute dei consumatori e che permettono loro di stare in
contatto e prendersi cura l’uno dell’altro.
146
Imprese “Angelo Custode” sono, tra le altre: Chicco, Pampers, Volvo ecc.
Motto: ama il tuo prossimo come te stesso
Desiderio fondamentale: proteggere e curare gli altri
Obiettivo: aiutare gli altri
Paura più grande: egoismo e ingratitudine
Strategia: fare qualcosa per gli altri
Debolezza: il martirio e l’essere sfruttato
Talento: compassione e generosità
L’angelo custode è anche conosciuto come: il santo, l’altruista, il genitore, l’aiutante,
il sostenitore ecc.
L’ESPLORATORE
L'Esploratore vuole scoprire e conoscere nuovi ambienti allo scopo di raggiungere e
mantenere l’indipendenza. Per natura autonomi, autentici, curiosi e volitivi gli
Esploratori sono in grado di seguire percorsi unici e motivare gli altri ad esplorare
territori sconosciuti; essi sono di solito entusiasti per l'opportunità di tracciare un
sentiero nuovo. La loro esplorazione può essere geografica - come lo è stata per
Cristoforo Colombo, Marco Polo e la flotta di Star Trek – ma può anche essere interna,
come nel caso di un individuo che venga a conoscenza di informazioni su se stesso e
sulla sua stessa vita. L’Esploratore è sempre aggiornato sulle ultime tendenze e
incoraggia l'iniziativa individuale fornendo gli altri l'opportunità di imparare e di
crescere. Questo atteggiamento, dal canto suo, nasconde spesso irrequietudine e
indolenza. Ulisse è l’esempio tipico della mitologia e della letteratura classica ma anche
Francis Crick e James Watson, i biologi molecolari scopritori della struttura del DNA,
evocano evidentemente la figura dell’Esploratore. Così come, d’altronde, essa è
perpetrata nell’advertising laddove, ad esempio, il personaggio di un messaggio
promozionale è intento a scoprire, attraverso l’acquisto e il consumo del prodotto
reclamizzato, nuove percezioni, ambientazioni ed esperienze di vita inedite .
Le imprese “Explorer” sono sempre alle prese con nuove sfide e nuovi obiettivi; esse
sono tese al continuo aggiornamento sugli ultimi trend nell’ottica di una incessante
147
innovazione e di una continua crescita dell’organizzazione. I brand “esploratori” fanno
sentire i propri consumatori liberi, autonomi e anticonformisti laddove i loro prodotti
sono tipicamente contraddistinti da una natura forte e selvaggia. Ne sono degli esempi i
marchi: Jeep, Discovery Channel, Land Rover ecc.
Motto: non recintarmi
Desiderio fondamentale: la libertà di scoprire chi si è esplorando il mondo
Obiettivo: fare un’esperienza migliore, più autentica e appagante della vita
Paura più grande: essere intrappolato, la conformità e il vuoto interiore
Strategia: viaggiare, cercare e far esperienza del nuovo, scappare dalla noia
Debolezza: vagare senza meta, diventare un disadattato
Talento: autonomia, ambizione e sincerità con se stessi
L’Esploratore è anche conosciuto come: il cercatore, l’iconoclasta, il girovago, il
pioniere, l’individualista, il pellegrino ecc.
Il RIVOLUZIONARIO
I Rivoluzionari sono individui dall’attitudine essenzialmente ribelle la cui soddisfazione
consiste nel riuscire a cambiare un determinato status quo che necessita di un
mutamento. Spesso pensatori non convenzionali e originali, i Rivoluzionari possono
sviluppare nuovi approcci e paradigmi. Essi danno il meglio di loro stessi sfidando la
situazione corrente e motivando gli altri a pensare in modo diverso.
Il Rivoluzionario (Revolutionary o anche Rebel) spesso riesce a sviluppare, inoltre, idee
veramente e radicali che hanno delle ricadute su un intero gruppo di persone. Egli è un
“cane sciolto” che si ribella e rompe le regole e trae soddisfazione anche dall’essere “il
cattivo della situazione” ed incutere un certo timore presso gli altri.
Nella mitologia Lucifero è il ribelle per eccellenza, mentre, ai giorni nostri, personaggi
famosi come i Rolling Stones, Madonna e Jack Nicholson ne proseguono in qualche
modo il motivo. Quella del Ribelle, altresì, è mai come negli ultimi anni una figura
imperante in pubblicità dal momento che sono numerose le marche che, nella loro
comunicazione,
decidono
di
posizionarsi
nel
versante
della
trasgressione,
dell’indipendenza e dell’originalità a tutti i costi.
148
Anche la categoria dell’imprenditore, infine, nel momento in cui egli, nell’esercizio
della sua attività, si trova a rompere con il passato al fine di iniziare qualcosa di
innovativo (lanciando ad esempio un nuovo prodotto sul mercato) può rimandare alla
figura del Rivoluzionario.
Le aziende rivoluzionarie, infatti, sono quelle aziende che riescono a sviluppare idee
realmente originali e profondamente innovative, attraverso un’organizzazione votata a
sviluppare un ambiente libero, creativo e, allo stesso tempo, efficiente. I prodotti
“rivoluzionari” sono quelli che sostanzialmente vanno contro i valori, gli atteggiamenti
e modi di pensare allo scopo di affermare la propria identità e la propria moralità (anche
se quest’ultima non è invisa alla maggior parte delle persone). Consumatori e impiegati
collegati ad imprese “Rebel”, in tal senso, si sentono spesso estranei ai valori correnti
della società e del mercato, sentendosi piuttosto consonanti con i valori del brand.
Esempi di marchi Ribelli sono dati da: Harley Davidson, Sarah Chole ecc.
Motto: le regole sono fatte per essere infrante
Desiderio fondamentale: vendetta o rivoluzione
Obiettivo: capovolgere quello che non funziona
Paura più grande: essere privo di potere o inefficace
Strategia: disturbare, distruggere o scioccare
Debolezza: passare al lato oscuro, rendersi autore di un crimine
Talento: forte vocazione alla libertà
Il rivoluzionario è anche conosciuto come: il ribelle, l’uomo selvaggio, il disturbatore,
l’iconoclasta, l’irriverente, il cane sciolto ecc.
L’AMANTE
L’archetipo dell’amante è in perenne ricerca - e offerta - di amore attraverso la
costruzione di relazioni. L’Amante si occupa di stare vicino alle persone, ai luoghi e alle
attività che egli ama. Questi individui sono per inclinazione riconoscenti, appassionati
ed impegnati e sono gratificati nel creare consenso e nel motivare altri soggetti a
scoprire e utilizzare i loro doni speciali. Gli amanti sono per inclinazione tesi godere
della ricchezza e della pienezza della vita e dei piaceri derivanti dal corpo. Rifacendoci
149
alla mitologia, alla religione e alla letteratura sono centinaia gli esempi di Amanti
celebri - da Adamo ed Eva ad Apollo e Dafne, da Tristano e Isotta a Romeo e Giulietta
– ma allo stesso tempo diverse star di Hollywood incarnano – ed hanno incarnato nel
recente passato –
questa figura, per esempio, all’interno dei circuiti pubblicitari
collegati soprattutto a prodotti di cosmesi (si pensi a sex symbol del calibro di Marilyn
Monroe, Nicole Kidman e Brad Pitt che hanno legato la loro immagine a quella della
prestigiosa marca di profumo Chanel N°5).
Imprese di tipo “Lover” - in cui rientrano i cosiddetti lovemark -
fanno spesso
affidamento sulle sensazioni e sulla creazione di esperienze multi-sensoriali in cui il
corpo (e il sesso) rivestono un ruolo importante. Esse, inoltre, sono molto interessate a
costruire una reale partnership tra dipendenti e clienti, considerare le possibilità di una
maggiore qualità della vita all'interno e all'esterno del luogo di lavoro, e ideare metodi e
luoghi armoniosi per lavorare meglio insieme (si pensi alle politiche incentrate sul
miglioramento del workplace dei dipendenti). Esempi di imprese “Lover” sono L’Oréal,
Alfa Romeo, Chanel, ecc.
Motto: tu sei l’unico
Desiderio fondamentale: intimità ed esperienza
Obiettivo: essere in relazione con le persone, il lavoro e gli ambienti amati
Paura più grande: essere solo, timido, non voluto, non amato
Strategia: diventare sempre più attraente dal punto di vista fisico ed emotivo
Debolezza: desiderio di compiacere gli altri a rischio di perdere la propria identità
Talento: passione, gratitudine, apprezzamento ed impegno
L’Amante è anche conosciuto come: il partner, l’amico, l’amante, l’entusiasta, il
sensuale, lo sposo, l’edonista ecc.
IL CREATIVO
I soggetti “Creativi” traggono soddisfazione nel vedere nuove idee prendere forma. Di
inclinazione espressiva, originale, fantasiosa e trasognante, essi si compiacciono nel
mostrare la loro inventiva e spesso sono in grado di far maturare il pensiero creativo in
altri individui. I Creativi sono affascinati da tutte le opportunità di esprimersi o di
150
avanzare nuove idee e proposte. Spesso questo archetipo è associato alla figura
dell’artista, dello scrittore, del compositore, dell’inventore ecc. Omero, Leonardo da
Vinci e Mozart sono le personalità che più evidentemente aderiscono a questa figura,
laddove nella contemporaneità, attenendoci, ad esempio al campo dei grandi
imprenditori, evidenze lampanti di Creativi sono Steve Jobs – vero e proprio mito legato
ad Apple –, Niklas Zennstrom, co-fondatore di Kazaa e Sky, e Mark Zuckerberg,
fondatore di Facebook.
Organizzazioni Creative, pertanto, sono proprio quelle che riescono a
sviluppare
prodotti e servizi distintivi e originali e/o nuove soluzioni innovative a problemi
esistenti. Esse si contraddistinguono per una natura fantasiosa ed anticonformista:
cercano e offrono ai propri clienti diverse alternative ed opzioni nell’ottica di esercitare
l’espressività e la libertà di scelta in ogni circostanza, strizzando l’occhio
all’innovazione, nonché all’aspetto artistico al fine di stabilire un vero e proprio circolo
virtuoso di creatività.
Le imprese “Creator” capaci di creare, altresì, un contesto fertile che possa incentivare
la creatività dell’organizzazione e, allo stesso tempo, in grado di lasciare spazio
all’iniziativa individuale (laddove, ovviamente, questa sia presente nel consumatore e
nel caso in cui quest’ultimo abbia abbastanza tempo da dedicare alla sua dimensione
creativa). Esempi di imprese creative sono, Lego, Mac, Sony ecc.
Motto: se puoi immaginarlo, puoi realizzarlo
Desiderio fondamentale: creare cose di valore e durature nel tempo
Obiettivo: realizzare una visione ed esprimerla, creare cultura
Paura più grande: avere un’ispirazione o un’esecuzione mediocre
Strategia: sviluppare capacità artistiche
Debolezza: perfezionismo estremo, cattive soluzioni
Talento: creatività e immaginazione
Il Creativo è anche conosciuto come: l’artista, l’inventore, l’innovatore, il musicista,
lo scrittore, il sognatore ecc.
151
IL GIULLARE
I Giullari sono per natura giocosi, spontanei, irriverenti, scanzonati e divertenti; amano
la spensieratezza e la sincerità e possono condurre altri individui ad apprezzare il valore
del divertimento e dell’ironia. Il Giullare, chiamato di solito in causa per alleggerire
situazioni ansiogene, stressanti e/o imbarazzanti, spesso dice cose che altri non hanno
l’ardire di proferire e, grazie alla sua franchezza e alla sua naturalezza, può avere
un’influenza molto forte su chi lo circonda. Nell’immaginario collettivo quelli più
immediatamente riconducibili a questo tipo sono i giullari di corte, i quali hanno
caratterizzato diverse epoche storiche; in anni più recenti, invece, il cinema ha incarnato
questa figura, con personaggi quali Joker (interpretato da Heath Ledger), Jack Sparrow
(Johnny Depp) , Borat (Sacha Baron Cohen) ecc. ecc. Nella pubblicità il Giullare è una
figura “euforica” ricorrente: si pensi ad esempio a tutte le situazioni in cui si inneggia
alla spensieratezza del vivere, al valore del divertimento, della leggerezza, della pausa
ecc.
I brand “giullari” vanno incontro al desiderio di tutti i consumatori (o quasi) ovvero
quello di volersi divertire e stare in contatto con altri soggetti;
attraverso la
ridicolizzazione delle convenzioni e l’informalità, essi diventano catalizzatori del
cambiamento.
Le imprese che riferiscono a questo particolare archetipo, di solito sono quelle che
praticano tecniche di brainstorming e fanno pensare fuori dagli schemi la loro politica
aziendale al fine di trovare modi intelligenti per aggirare gli ostacoli e divertirsi nel
mentre si lavora per raggiungere gli obiettivi prefissati. Esempi di brand “Jester” sono
rappresentati da Snickers, Diesel ecc.
Motto: si vive una sola volta
Desiderio fondamentale: vivere nel presente divertendosi
Obiettivo: passare bei momenti e illuminare il mondo
Paura più grande: annoiarsi o annoiare gli altri
Strategia: giocare, fare scherzi, essere divertenti
Debolezza: frivolezza, perdita di tempo
Talento: solarità
152
Il Giullare è anche conosciuto come: il folle, il prestigiatore, il pagliaccio, il comico
ecc.
IL SAGGIO
L’archetipo del saggio riferisce ad individui che traggono soddisfazione dal fornire le
risposte alle grandi domande della vita. Essi sono intelligenti, riflessivi, acculturati,
informati e possono motivare gli altri a cercare la Verità. Il Saggio si trova a suo agio
all’interno di situazioni e problemi che hanno bisogno di essere meglio compresi; egli
aiuta le persone a capire il loro mondo e la strada da seguire. Platone e Confucio, sono
saggi per eccellenza, ma questo archetipo è ricorrente in moltissime forme265, basti
pensare a tutti quei personaggi della Storia, delle leggende, dei miti, della religione,
della letteratura, del cinema e, in ultimo, della pubblicità che appaiono come faro
intellettuale e guida spirituale per gli individui – o per gli interi gruppi di persone - con i
quali si trovano ad agire. Essi sono generalmente “incarnati” da uomini e donne anziani,
dotati di grande carisma, autorevolezza e cultura e dispensatori di consigli,
ammonimenti e soluzioni a problemi particolarmente intricati.
Imprese sagge sono soprattutto quelle che riescono a sviluppare competenze
significative da elargire a terzi, nonché quelle che si dedicano in maniera particolare alla
raccolta e all’analisi dei dati in modo che questi siano utili per l’azienda stessa, per i
suoi stakeholders e per la collettività tutta in cui ci si trova ad operare. Esse
incoraggiano i loro clienti a pensare e realizzano prodotti di alta qualità. Esempi di
imprese “Sage” sono: The New York Times, MIT ecc. ecc.
Motto: la Verità ti renderà libero
Desiderio fondamentale: trovare la Verità
Obiettivo: usare l’intelligenza e l’analisi per capire il mondo
Paura più grande: l’ignoranza, essere ingannato, fuorviato,
265
si pensi soltanto alle recenti vicissitudini politiche in Italia, dove, dopo le elezioni politiche del 24 e 25
Febbraio 2013 e la sopraggiunta ingovernabilità del Paese, il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha convocato a sé, con grande clamore mediatico, i cosiddetti “dieci saggi” – uomini di
politica e professionisti appartenenti a diversi partiti – al fine di trovare una soluzione all’emergenza
politica post-elezioni.
153
Strategia: cercare informazioni e conoscenza, riflettere e capire i processi del pensiero
Debolezza: studiare i dettagli all’infinito senza mai agire
Talento: saggezza, intelligenza
Il Saggio è anche conosciuto come: l’esperto, lo scolaro, il detective, il pensatore, il
filosofo, l’accademico, il ricercatore, il pensatore, il pianificatore, il mentore,
l’insegnante ecc.
IL MAGO
Il ruolo del Mago è principalmente quello di trasformatore. Uno dei temi di fondo di
questo particolare archetipo è scoprire le leggi dell'universo al fine di far accadere le
cose. Il Mago, a volte ricoperto da un alone di mistero, è gravido di intuizioni e presta
molta attenzione alle coincidenze significative. Egli trae soddisfazione da una
previsione o da un’intuizione realizzata. Naturalmente intelligenti, intuitivi, astuti e
perspicaci, i Maghi sono in grado di percepire molteplici prospettive e cogliere diverse
opportunità intorno ad una stessa situazione, motivando gli altri a credere che nulla è
precluso e che tutto è possibile. Essi, inoltre, si esaltano in condizioni di particolare
fermento e trasformazione.
Solo per citare due esempi della Storia del ‘900, Nelson Mandela e Ken Saro-Wiwa
sono due figure che rispondono perfettamente all’archetipo del Mago.
Ad evocare questa figura nei giorni nostri, invece, potrebbe essere invece un normale
chirurgo estetico o un personal trainer; allo stesso modo accade con annuncio stampa in
cui il prodotto cosmetico promette risultati entusiasmanti ai suoi acquirenti.
Le imprese che si rifanno all’archetipo del Mago realizzano prodotti innovativi che sono
in grado di far approdare i propri clienti in una dimensione fino a quel momento
inusitata e di trasformare la loro identità e il loro mondo. Essi di solito sono molto
all’avanguardia sebbene facili da utilizzare.
“Magiche”, inoltre, sono quelle imprese catalizzatrici del cambiamento, nonché della
collaborazione sinergica con altre aziende. Esse di solito trasformano problemi in
opportunità, ridimensionano difficoltà a prime vista insuperabili, concedono spazio alle
persone, formano gruppi e reti di imprese attraverso un meccanismo di tipo win/win che
154
assicura soluzioni flessibili per tutti i soggetti coinvolti. Ne sono degli esempi marchi
come Svelto, Apple ecc.
Motto: Io faccio accadere le cose
Desiderio fondamentale: capire le fondamentali leggi dell’universo
Obiettivo: realizzare i sogni
Paura più grande: conseguenze negative fortuite
Strategia: sviluppare una visione e vivere in accordo a questa
Debolezza: diventare un manipolatore
Talento: trovare soluzioni vincenti per tutti
Il mago è anche conosciuto come: il visionario,, il leader carismatico, lo sciamano, il
guaritore ecc.
IL SOVRANO266
266
Operazione simile a quella della Pearson – anche se rispetto ad essa molto più limitata e specifica – è
quella portata avanti da Calamandrei nel libro Archetipi d’impresa, Istruzioni per uno sviluppo “eroico”
della piccola impresa, uno studio che ha come oggetto l’interessante e peculiare universo delle piccole
imprese di artigianato localizzate nella regione Toscana. Intendendo gli archetipi d’impresa come quelle
attitudini e quegli “argomenti-chiave ai quali l’impresa e sensibile e fa [e potrebbe fare] prevalentemente
riferimento”, nonché come portato di valori e azioni tramandato nei decenni attraverso l’”humus”
imprenditoriale del luogo, Calamandrei stila una lista di 9 archetipi rispecchianti le imprese del tessuto
artigianale locale. Segnatamente essi sono: L’Artista, ossia l’archetipo che ispira gli artigiani con
particolari doti creative e dalla personalità artistica la cui attitudine è quella di realizzare prodotti unici e
riconoscibili per la loro raffinata e personale manodopera, in grado di trasmettere emozioni e suggestione
nei pressi degli acquirenti (la loro meta è “Affermare la propria personalità”); Il Conquistatore è
l’archetipo nel cui alveo rientrato quelle imprese particolarmente solerti nell’aggressione di mercati
emergenti, specie di quelli internazionali, attraverso una politica di alta qualità dei prodotti (il suo motto
è: “Conquistare nuovi mercati geografici sorprendendoli”); Il Seduttore è l’archetipo di quelle imprese
fanno del loro marchio una vera e propria Griffe, non solo attraverso manodopera d’autore, ma soprattutto
con la ricerca e con politiche industriali mirate a costruire una larga riconoscibilità dei prodotti grazie alla
loro originalità e spesso anche grazie alla personalità e alla biografia dell’imprenditore (il suo motto è:
“Diventare un simbolo”); Il Maestro è l’archetipo che conduce le imprese a realizzare prodotti di qualità
eccelsa – anche se tra loro similari - sulla scorta dell’insegnamento degli antichi artigiani locali (il motto è
“fare le cose a regola d’arte”); Il Tipico, simile al Maestro ma specializzato nel settore alimentare e con
una più spiccata propensione alla relazione diretta con in consumatore finale (il suo motto è “Fare le cose
buone di una volta”); Il Diversificatore, che fa riferimento a quelle imprese artigianali la cui struttura
produttiva è molteplice (ad esempio un’impresa con un marchio proprio che contemporaneamente
produce anche per terzi), tale da consentire una maggiore stabilità e longevità dell’attività imprenditoriale
(il motto è “cercare la sicurezza attraverso una pluralità di aree d’affari”; Il Diversificatore qualificato,
simile al Il Diversificatore ma con una spiccata propensione alla qualità dei prodotti e dei servizi inerenti
alle aree in cui è impegnato ( il motto è: ”Cercare sicurezza su più aree d’affari ma facendosi riconoscere
per la propria qualità”); L’Anonimo è l’archetipo che fa riferimento alle imprese con una caratterizzazione
identitaria scarsa o nulla, le quali danno vita a prodotti “normali” attraverso competenze tecniche e knowhow non eccellenti, ma venduti ad un prezzo conveniente (il suo motto è:”Fare quel che ci viene chiesto
155
Il Sovrano (The Ruler, secondo la terminologia di Pearson) è colui che mira al controllo
e al potere creando l'ordine a partire caos. I Sovrani traggono la loro soddisfazione dalla
dimostrazione della loro leadership, dal governo delle situazioni complesse e
dall’incidenza del loro ascendente sugli altri individui. Per predisposizione carismatici,
fiduciosi, competenti e responsabili, fanno spesso sfoggio del loro buon senso e
riescono a motivare gli altri a dare il meglio di loro stessi.
La Storia è ricca di esempi di grandi Sovrani: da Ramses II a Luigi XIV passando per
Akbar e Carlo Magno, fino ad arrivare, in epoche più recenti, a Margaret Thatcher e
Barack Obama. In pubblicità il Sovrano è spesso percepito in maniera “disforica” e
inteso come emblema di un potere sceso dall’alto, di una costrizione all’interno di
regole ferree le quali, come espressioni della limitazione della libertà dell’individuo,
sono da combattere a tutti i costi (attraverso il consumo di determinati beni o servizi,
ovviamente).
Le imprese Sovrano sono spesso leader del mercato, cosa che offre presso gli
stakeholder un senso di stabilità e sicurezza in un mondo caotico e cangiante. I prodotti
“Sovrano” sono generalmente prodotti di alta qualità e duraturi nel tempo: essi aiutano i
consumatori a sentirsi più sicuri e ad essere più organizzati. Organizzazioni “Sovrano”,
inoltre, hanno maggiore successo quando possono prendere decisioni i cui benefici
coinvolgono altri soggetti. Esse usano la loro leadership e la loro influenza per ottenere
risultati positivi e per raggiungere e mantenere ordine e potere. Spesso esse sono un
esempio da seguire per le altre imprese e per i consumatori stessi.
Esempi tra i brand che assurgono a questo particolare archetipo sono: Rolls Royce,
BMW ecc.267
nel modo più economico possibile”); Il Prigioniero, corrispondente alle imprese che sono imbrigliate nel
loro eccessivo tradizionalismo del modus operandi, della produzione, delle relazioni ecc, un
tradizionalismo che si traduce in vero e proprio immobilismo e all’inevitabile disadattamento, prima, ed
espulsione poi, dal mercato (Il suo motto è “fare le cose così come le abbiamo sempre fatte”).
Calamandrei, per validare la bontà della sua schematizzazione, ci tiene a sottolineare come essa sia stato
frutto di diversi focus group interprovinciali cui hanno partecipato imprese e professionisti del settore.
Egli, infine, afferma come tali archetipi possano essere molteplici all’interno della stessa impresa nel
tempo, nonché talvolta concomitanti, laddove il processo di formazione della propria identità può
richiedere all’impresa l’uso di un vero è proprio mix di archetipi. Cfr. D. CALAMANDREI, Archetipi
d’impresa, Istruzioni per uno sviluppo “eroico” della piccola impresa, Franco Angeli, Milano, 2010
267
Sempre per quanto concerne studi italiani, si veda anche Lombardi , il quale elabora un modello basato
anch’esso su 12 archetipi d’impresa, ognuno corrispondenti a delle specifiche qualità, e che si articolano
in: Il Saggio (generosità), il Padre (autorevolezza), la Madre (generosità), l’Angelo (l’innocenza), la Fata
(il piacere), l’Esploratore (la scoperta), il Creativo (la creazione), il Mago (la trasformazione), il
Guardiano (la protezione), l’Amico (l’amicizia), il Guerriero (il potere) e l’Innamorato (il romanticismo).
156
Motto: il potere non è tutto, è l’unica cosa che conta
Desiderio fondamentale: controllo
Obiettivo: creare una famiglia o una comunità prosperosa e di successo
Paura più grande: caos, essere detronizzato
Strategia: l’esercizio del potere
Debolezza: essere autoritario, incapace di delegare, imbrogliarsi in eccessive gerarchie
e lungaggini burocratiche
Talento: responsabilità, attitudine alla leadership
Il Sovrano è anche conosciuto come: il capo, il leader, l’aristocratico, il re, la regina, il
politico, il manager, l’amministratore ecc.
3.1 L’analisi delle mission e delle vision dei brand contemplati nel modello
Per validare lo studio proposto sugli archetipi come personalità d’impresa, infine,
abbiamo proceduto alla verifica “sul campo” degli aspetti linguistici collegati alle
mission e alle vision delle imprese proposti come esempi all’interno del frame work.
Nella fattispecie, si sono messe in evidenza, per ciascun testo, le parole-chiave e i
contenuti semanticamente aderenti alle peculiarità dell’archetipo a cui il brand stesso
riferisce. Ove riscontrata una netta difformità di contenuti, inoltre, si è operato una
sostituzione dell’esempio in questione, attraverso la ricerca di imprese i cui valori
fossero calzanti con le linee guida delineate nel modello.
Questo il materiale rintracciato sul Web:
COCA COLA (Innocente)
“Da sempre rinfreschiamo i nostri consumatori nel corpo e nello spirito, con la volontà
di trasmettere ottimismo attraverso le nostre scelte ed i nostri prodotti: vogliamo creare
valore e fare davvero la differenza in qualunque iniziativa intraprendiamo. Leadership,
collaborazione, integrità, affidabilità, passione, innovazione e qualità: ciò che anima
Cfr. M. LOMBARDI, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli, Milano, 1998.
157
l'universo Coca-Cola va oltre il marchio e significa affrontare ogni scelta in modo
ottimista.”268
IKEA (Uomo Qualunque)
“I nostri valori e la passione per la vita quotidiana in casa ci guidano in tutto quello
che facciamo. Ogni prodotto che creiamo è un’idea per migliorare la casa. Il Gruppo
IKEA ha 298 negozi in 26 paesi.
Vision: La nostra visione strategica, creare una vita quotidiana migliore per la
maggioranza delle persone, è sostenuta dalla nostra idea commerciale: offrire un vasto
assortimento di articoli d’arredamento funzionali e di buon design a prezzi così
vantaggiosi da permettere al maggior numero possibile di persone di acquistarli.
Cerchiamo di coniugare qualità e prezzi accessibili ottimizzando la catena del valore,
stabilendo relazioni a lungo termine con i fornitori, investendo nell’automazione
industriale e producendo in grandi volumi. Ma la nostra visione strategica non
riguarda solo l’home furnishing. Vogliamo creare una vita quotidiana migliore per
tutte le persone interessate dal nostro business.”269
NIKE (Eroe)
“La nostra mission: portare ispirazione e innovazione per ogni atleta nel mondo”.270
CHICCO (Angelo Custode)
“La felicità è un viaggio che inizia da piccoli. C’è un mestiere più bello che far
sorridere un bambino?
Secondo noi, no. Forse è per questo che ci sembra ancora il migliore del mondo. E ci
sentiamo fortunati perché possiamo pensare ogni giorno a come farlo. Così, ogni cosa
che pensiamo nasce con un solo scopo. Arrivare un giorno in una casa, incontrare un
bambino e renderlo felice.
268
http://www.coca-colaitalia.it/default.aspx
http://www.ikea.com/ms/it_IT/about-the-ikea-group/company-information/index.html
270
http://nikeinc.com/pages/about-nike-inc
269
158
Per noi, non c'è nulla che valga più di questo. Perché sappiamo che in cambio avremo
il regalo più bello del mondo. Il sorriso di un bambino.”271
JEEP (Esploratore)
“The iconic Jeep ® brand is recognized the world over — forever tied to freedom,
capability and adventure. Every Jeep vehicle has a unique story to tell, with a rich
heritage that links back to the original Willys MA.”272
DIESEL (Rivoluzionario)273
271
http://www.chicco.com/AboutChicco/Mission/tabid/117/language/it-IT/Default.aspx
http://www.jeep-official.it/life.html#jeep_history
273
Il modello inscriveva Diesel nell’archetipo del Giullare, laddove esso sembra essere più attinente a
quello del Ribelle/Rivoluzionario. Passando in rassegna le campagne Diesel - da quelle più recenti a
quelle risalenti ai primissimi anni ’90 - risulta evidente il leit motiv dell’attitudine all’irriverente e al
dissacrante, ma, soprattutto, alla rivoluzione intesa come originalità, spirito di iniziativa e trasgressione
delle regole e dei costumi vigenti. L’aderenza della comunicazione esterna Diesel ai valori fondativi del
brand e del suo storico fondatore Renzo Rossi, ossia esprimersi in libertà, seguire la propria strada unica e
irripetibile e non omologarsi ai trend, sembra, dunque, non essere messa in discussione. Lo testimoniano
perfettamente, solo per fare alcuni esempi, il primo spot della campagna “for successful living” del 1997,
quello del profumo “Fuel for life Spirit” della primavera 2013 e l’ultima campagna stampa lanciata
nell’Agosto del 2013 dal titolo “reboot”, ovvero “riavvio”. Lo spot, ambientato nel vecchio West di fine
‘800 (che strizza l’occhio alle ambientazioni “spaghetti western” delle celebri pellicole di Sergio Leone)
inscena il più classico dei duelli armati tra il personaggio buono, virtuoso e di bell’aspetto e “il cattivo”,
rozzo, grasso e burbero che si risolve, sorprendentemente, con la vittoria di quest’ultimo, ad esprimere
una rottura netta, sia dal punto di vista del “capovolgimento timico” legato ai valori e ai disvalori
rappresentati, sia del format narrativo classico legato al particolare genere letterario-cinematografico in
questione. L’altro spot Diesel, invece, questa volta legato al profumo “Fuel for life Spirit”,esprime alla
perfezione il concetto di libertà, espressione e realizzazione di se stessi rappresentando la scena di un
gruppo di ragazzi che, irrompendo in piena notte in una soporifera tavola calda, convince la giovane e
avvenente barista ad unirsi a loro nel ballo senza alcuna inibizione (con tanto di salita sui tavoli del
locale) e , alla fine, a licenziarsi e fuggire assieme su di una sfrecciante decappottabile. La campagna
stampa di cui sopra, infine, nasce appunto dal concetto di “riavvio” e di “costruzione a partire dalla
decostruzione” - non a caso Diesel ha recentemente cambiato il suo direttore creativo - e sceglie di non
utilizzare modelli per gli scatti, bensì professionisti del campo della moda, del design e della street art
(alcuni di loro vistosamente in sovrappeso) raggiungendo il massimo del clamore con un annuncio
raffigurante una giovane donna tuatuata e seminuda, vestita solo da un burka, il cui headline recita “I am
not what i appear to be” (annuncio che ha provocato inevitabili e durissime polemiche, soprattutto
provenienti dal mondo islamico). Verosimilmente, l’esempio di Diesel ascritto inizialmente all’archetipo
del Giullare è dovuto all’affinità di fondo che, in termini comunicativi, accomuna quest’ultimo con
l’archetipo del Rivoluzionario/Ribelle e, con tutta probabilità, all’analisi della famosa campagna Diesel
“Be Stupid” del 2010 in cui il valore della trasgressione era espresso con toni e parole-chiave in effetti
molto vicine semanticamente alla dimensione “Jester”. La campagna poteva, a ragione, far pensare ad una
Diesel Giullare laddove essa, come abbiamo visto, è decisamente e coerentemente Ribelle.
272
159
We're
currently
recruiting
for
several
positions
throughout
the
world.
Whatever you're into, as long as you have passion, an insatiable love for fashion and
will do almost anything to get into Diesel (or even if you just have the innate ability to
break the rules): Email your CV, Covering letter and a shot of yourself to the email
address below274.
THE BEERS (Amante)275
"There are no measurements to describe how to find your perfect diamond. However
important the 4 C`s are - beauty is the only arbiter. All diamonds should show Fire,
Life, and Brilliance. Fire is the beautiful rainbow effect that is produced by the
dispersion of light, Life is the scintillation and sparkle when you move the stone in front
of your eyes, and Brilliance is the brightness of the diamond due to reflected white light
when the diamond is still. Ultimately though, it is the diamond that chooses you."
Andrew Coxon, President of the De Beers Institute of Diamonds”276
LEGO (Creativo)
“Missione:
"ispirare e sviluppare i costruttori del domani"
Il nostro scopo è ispirare ed educare i bambini a pensare creativamente, ragionare in
modo sistematico e realizzare il loro potenziale, plasmando il loro futuro e
sperimentando le infinite possibilità umane.
“Visione:
"inventare il futuro del gioco"
Desideriamo sperimentare nuovi modi di giocare, nuovi materiali di gioco e modelli di
274
http://www.diesel.com/jobs
L’esempio contemplato nel modello per l’archetipo dell’Amante è L’Oréal il quale, però, ci è sembrato
molto più attinente alla sfera del Sovrano. La scelta, dunque, è ricaduta su De Beer, che costituisce a
nostro parere un esempio molto più calzante rispetto a quello originario.
276
http://www.debeers.com/about-de-beers
275
160
business, facendo leva sulla globalizzazione e la digitalizzazione... non è solo una
questione di prodotti, ma vogliamo realizzare le infinite potenzialità delle persone.”277
CHUPA CHUPS (Giullare)278
LIFE LESS SERIUOUS
“Welcome to the official Chupa Chups Australia website! Please enjoy our page as we
continue with our mission to encourage more people to live a Life Less Serious.
Chupa Chups are a delicious confectionery treat that throughout its history has bought
happiness to people of all ages. It combines a strong sense of tradition with
contemporary creativity and innovation.
The brand has a strong personality and unique relationship with it’s consumers which
has set hundreds of pleasurable and fun stories rolling.”279
THE NEW YORK TIMES (Saggio)
“The core purpose of The New York Times is to enhance society by creating, collecting
and distributing high-quality news and information. Producing content of the highest
quality and integrity is the basis for our reputation and the means by which we fulfill
the public trust and our customers’ expectations.”280
SVELTO (Mago)
“UN POSTO MAGICO CHIAMATO MONDO DI SVELTO”
Benvenuti nel Mondo di Svelto!Questo è un luogo in cui la magia di Svelto regna su
ogni coltello e forchetta, su ogni tazza e piattino, padella e pentolino. È un mondo in cui
i nostri sogni di stoviglie si realizzano grazie all'aiuto di Svelto: stella del nostro
universo, in grado di porre fine a tutti i nostri problemi di stoviglie.
277
http://aboutus.lego.com/it-it/lego-group/mission-and-vision
Qui il modello prevedeva Diesel che, come detto, è stato spostato nell’archetipo del Rivoluzionario.
Chupa Chups, invece, sembra rappresentare perfettamente le caratteristiche e i dettami del Giullare.
279
http://www.chupachups.com.au/
280
http://www.nytco.com/who-we-are/culture/standards-and-ethics/
278
161
Qui troverete di tutto, dagli scolapasta ai taglieri, dalle pentole ai cucchiai, ciascuno
con una personalità diversa e un problema da raccontare. Troverete soluzioni a
problemi reali. Non passa giorno senza che un suscettibile contenitore o delle
puzzolenti ciotole di plastica o delle forchette pignole non facciano storie. Ed è qui che
il magico Svelto porta una ventata d'aria fresca! Grazie alla sua formula tutti i
problemi delle stoviglie sono acqua passata rendendoci le stoviglie più pulite e brillanti
della città.
Il nostro ospite di eccezione è sempre Spugna, che diffonde la magia di Svelto per
renderci puliti e brillanti. È una tipa tranquilla e di poche parole, ma una volta che si
mette in moto è impossibile fermarla! Vedrete presto che i fatti contano più di mille
parole!Vieni a conoscere il nostro magico mondo. Purtroppo voi umani non potete
vivere nel nostro mondo dove Svelto porta a nuova vita la nostra cucina. Ma grazie alla
magia della moderna tecnologia potrai venirci a trovare ogni volta che lo vorrai.
Speriamo che tu ti diverta in questa tua visita e che tornerai spesso a trovarci: ci
farebbe piacere rivederti!”281
L’ORÉAL (Il Sovrano)282
“L'Oréal Paris, un marchio presente in tutto il mondo senza eguali nell'universo della
bellezza, dedica agli uomini e alle donne di tutti i continenti le sue continue innovazioni
tecnologiche, offrendo prodotti di bellezza e di trattamento all'avanguardia.
L'innovazione è l'essenza della marca. Perseguendo l'eccellenza,
L'Oréal Paris prepara il futuro della bellezza.
Presente in più di 120 nazioni, il marchio L'Oréal Paris si sviluppa intorno ad un'unica
filosofia: innovare e offrire al maggior numero possibile di consumatori i prodotti più
efficaci al prezzo migliore. La chiave della forza propulsiva e del successo di L'Oréal
Paris è senza alcun dubbio la Ricerca Scientifica, alla quale l'azienda dedica ampi
mezzi e potenti risorse. Un approccio basato sulla scienza e su prodotti di qualità
superiore.
Pionieri dell'innovazione scientifica, i nostri gruppi di ricerca utilizzano le tecnologie
più all'avanguardia per sviluppare prodotti esclusivi, sicuri ed efficaci, facili da capire
281
282
http://www.svelto.com/About-Us/default.aspx
Vedi nota n°16.
162
e da utilizzare: la nostra missione è rendere le nostre innovazioni scientifiche
accessibili a tutti.
L'Oréal Paris ha l'obiettivo di offrire un'ampia gamma di prodotti, che rispecchi la
diversità e l'eterogeneità del mondo in cui viviamo.
Packaging innovativi dei nostri prodotti, elevati standard qualitativi dei nostri siti
produttivi e nuovi concetti di allestimento del punto vendita, traducono la nostra visione
di bellezza, eccellenza e lusso accessibile a tutti.“ 283
3.2 Conclusioni
Esaurita la descrizione della teoria degli archetipi applicati al management e alla
comunicazione d’impresa di Pearson et alii, possiamo trarre, qui, degli spunti
interessanti esponendo quelli che, a nostro modesto parere, risultano essere i punti di
forza e i punti di debolezza dell’impianto teorico sin qui delineato.
Il framework esposto sopra rappresenta di certo un accattivante modello di riferimento
per le imprese, nell’ottica della costruzione di una personalità (in termini di valori)
prima, e di un’identità poi, definita e coerente nel tempo. L’approccio “archetipico” al
governo d’impresa, infatti, può risultare piuttosto utile al management, il quale, potendo
contare su linee guida fondamentali che si ricollegano ai costrutti psicologici universali
ed ancestrali che abbiamo ampiamente descritto nel presente lavoro, possono più
agevolmente raggiungere i propri obiettivi di allineamento tra personalità, identità,
immagine e reputazione aziendale. Avere a disposizione un semplice ed immediato
schema di riferimento per quanto concerne valori, comportamenti e comunicazione
pianificata d’impresa – è il caso della comunicazione pubblicitaria – è di sicuro un
supporto aggiuntivo che può rivelarsi utile, come detto, in una duplice prospettiva,
“interna” ed “esterna”. Per quanto concerne la prima, infatti, il modello può risultare
utile per la definizione dei valori fondamentali su cui poggia la personalità d’impresa, i
quali possono essere poi manifestati in maniera coerente attraverso l’identità d’impresa
- che comprende il comportamento, il simbolismo la comunicazione – per poi venire
registrata attraverso la corporate image (l’opinione che hanno i pubblici di riferimento
del brand in un determinato istante) e infine mediante la corporate reputation
283
http://www.loreal-paris.it/la-marca/chi-siamo.aspx
163
(l’opinione e l’atteggiamento rispetto all’impresa maturati in un arco temporale lungo).
In un’ottica “esterna”, invece, il frame work offre di per sé un valido “grimaldello” in
termini di percezione e coinvolgimento dei propri stakeholders poiché, facendo leva
primariamente sul loro inconscio e andando a toccare i loro “pulsanti primordiali” più
reconditi, assicura, da un punto di vista psicologico, una presa significativa e profonda.
In termini più pragmatici, una volta definito un profilo valoriale d’impresa aderente, ad
esempio, all’archetipo dell’Innocente, quella determinata impresa dovrà perseguire al
suo interno e in tutte le sue manifestazioni esterne valori-base come la bontà, la
semplicità e la tradizionalità non perdendo mai di mira la sua identità e restando vigile
sui rischi legati, da una parte, alla confusione con un archetipo differente (ad esempio
quello del Rivoluzionario o dell’Esploratore, che presentano attitudini notevolmente
divergenti) e, dall’altra, all’“interpretazione” non ottimale dell’archetipo stesso (che, nel
caso di specie, sfocia nella banalità e nell’eccessiva “edulcorazione” caratterizzanti la
brand identity).
Se, però, da un lato, il modello dei 12 archetipi applicati al brand management presenta
indubbi vantaggi e possibilità di applicazione, è anche vero che la sua impostazione
mostra il fianco a diverse – e in alcuni casi piuttosto limitanti – ambiguità e punti di
debolezza.
Innanzitutto il modello comportamentale così impostato da Pearson – e soprattutto dagli
altri autori che hanno tentato di riadattare e approfondire la sua teoria da un punto di
vista del branding – ha in sé il rischio di condurre ad una staticità identitaria, soprattutto
in termini di comunicazione. Fatta salva la coerenza accettabile del profilo valoriale
(facente parte, lo ricordiamo, della brand personality), non emerge, infatti, in maniera
abbastanza chiara, la possibilità da parte di un brand appartenente ad un determinato
archetipo di poter variare le sue manifestazioni nei confronti dei propri pubblici e
renderle, a seconda dei casi e dei periodi storici, più affini a quelle che
contraddistinguono altri archetipi. Tale rigidità impedirebbe, ad esempio, ad un’impresa
“Innocente” di fare leva, all’interno di una campagna pubblicitaria, su aspetti quali
l’ironia, l’irriverenza e la giovialità (tipiche delle imprese “Giullari”) oppure sulla
ricerca di nuovi mondi e prospettive diverse (l’obiettivo dell’”Esploratore”) e così via.
In altri termini, perseguendo alla lettera il modello si corre il pericolo di
“cristallizzazione” della brand identity che, in un mercato variabile e dinamico come
164
quello odierno, non è di certo una condizione auspicabile. Molto più verosimile in
questo senso, invece, è l’interpretazione degli archetipi come linee guida fondamentali
dalle quali partire per definire l’identità d’impresa, tenendo ben presente la possibilità di
“variare sul tema”. Com’è ovvio, tali variazioni284 andrebbero operate conservando
un’affinità di fondo, ma in ogni caso facendo una chiara distinzione tra coerenza delle
espressioni e fissità e monotonia delle stesse. Il dubbio che perviene, in conclusione, è
che tale classificazione riguardi più la comunicazione che l’intera personalità e identità
d’impresa, fatto questo che non fa altro che aggiungere ambiguità al modello stesso.
Come abbiamo avuto modo di notare attraverso la pur sommaria analisi delle effettive
mission e vision aziendali, il modello tradisce diverse inconsistenze e ambiguità per
quanto concerne la definizione degli esempi d’impresa per ogni archetipo descritto; a tal
proposito, però, come risulterà d’altronde ovvio, c’è da sottolineare che il modello è
antecedente alla nostra ricerca e che quindi alcune di queste difformità possono essere
dettate dal lasso di tempo trascorso dalla pubblicazione dei vari studi proposti.
Altro punto debole della classificazione è la non mutua esclusività di alcune delle sue
classi. È registrabile, infatti, una certa labilità dei confini appartenenti ad alcuni di essi.
Si pensi, a questo proposito, all’affinità che intercorre tra l’archetipo del Creativo
(caratterizzato da imprese che puntano principalmente sull’innovazione e sullo sviluppo
della creatività) e quello del Rivoluzionario (inerente a quelle imprese che vanno
284
Intendiamo qui, per variazione tematica, una variazione al livello discorsivo e non dei valori-guida e
della personalità collegati all’archetipo d’impresa. Per dirla con Cicalese, ci muoviamo sul livello “della
manifestazione” piuttosto che “dell’immanenza”. Nel suo modello di analisi del testo narrativo, che
integra e arricchisce teorie semiotiche e narratologiche diverse (da Hjelmslev a Eco transitando per
Greimas), Cicalese prevede, infatti, otto livelli di testo inclusivi ed inestricabili tra loro. Nello specifico,
partendo dalla base fino ad arrivare al livello più superficiale, essi si dipanano in: Livello archetipico
(archetipi, inconscio collettivo, miti), Livello valoriale (assiologie e ideologie), Livello socio-semiotico
(stili di vita, ideologie, tendenze, mode, credenze, gusti, rituali, preferenze, connotazioni e timìe), Livello
semantico (contenuto, mondi, temi, storie, intertestualità, riferimenti enciclopedici), Livello formale
(forme della storia, griglie di genere, architesti, frame testuali, grammatiche narrative), Livello
fenomenologico (segni, stilistiche, pragmatica, enunciazione, costruzione dell’interazione con i simulacri,
tone of voice, passioni) Livello mediatico (specificità del medium, varietà delle materie, tecnologie
disponibili), Livello autoriale (cifra dell’autore e della marca). È evidente che nel passaggio/inclusione
tra un livello e l’altro all’interno del processo creativo - e comunicativo - le forme discorsive possono
mutare; quello che non muta, invece, sono i valori di marca di base, riferiti, a loro volta, ad un
determinato archetipo. Ad esempio, se il valore di marca è “la libertà”, esso può manifestarsi a livello
discorsivo nella figura del Saggio, che fornirà il suo lucido e sapiente punto di vista sul perché è giusto
perseguire tale ideale, dal Giullare, che attraverso la spensieratezza e il disimpegno potrà evidenziare
come la libertà possa dare accesso al benessere e al divertimento, dal Creativo che della libertà può fare il
senso stesso della vita e così via. Cfr. A. CICALESE, Fatti di consumo, cit. Cap IV, p. 71.
165
controcorrente, alla ricerca di prodotti e soluzioni sempre nuove e che producono un
cambiamento), oppure ancora tra quest’ultimi e quello del Mago (anch’esso foriero di
intuizione, innovazione e cambiamento nell’ambito dell’impresa). Tale scarsità
dell’autonomia di alcune categorie, può essere spiegata dal numero relativamente alto
degli archetipi contemplati nel modello e dalla necessità di evidenziare delle differenze
tra gli archetipi anche (fin troppo) sottili. Tuttavia, tale somiglianza, sulla scorta delle
affermazioni di cui sopra sul rischio di rigidità dell’identità aziendale, può rivelarsi
un’opportunità a disposizione del governo d’impresa per diversificare il proprio assetto
in termini di brand identity nell’ottica di una presa sempre rinnovata e mai stagnante nei
confronti degli stakeholder di riferimento.
Muovendo un’ulteriore critica al modello dei 12 archetipi, possiamo evidenziarne,
inoltre, la confusione latente che viene fatta tra i valori e l’identità che una certa impresa
persegue (o che dovrebbe perseguire) e le caratteristiche e l’immaginario legati in
maniera specifica ai suoi prodotti. Tra la righe del modello, infatti, si può notare come il
confine tra il profilo valoriale, comportamentale, simbolico e comunicativo dell’impresa
sia talvolta sovrapposto o comunque confuso con la natura e i benefit legati al prodotto e
con la loro percezione presso i pubblici si riferimento: una classificazione accorta,
ovviamente, dovrebbe considerare soltanto il primo aspetto, tralasciando in ogni caso il
secondo. A tal riguardo, rappresenta un’evidenza il caso di Discovery Channel, brand
fatto risalire all’archetipo dell’Esploratore per ragioni difficilmente rintracciabili oltre a
quelle relative alla destinazione del prodotto in sé (intrattenimento televisivo a sfondo
documentaristico), oppure ancora al caso di Pampers e Snickers che sembrano essere
state classificate - rispettivamente come Angelo Custode e Giullare – esclusivamente
per la funzione dei loro prodotti o, tutt’al più, per i contenuti ed il tono dei commercial
ad essi inerenti. La stessa menzione dei prodotti all’interno della descrizione dei “tipi”
può rivelarsi, in questo senso, fuorviante.
In conclusione, l’essenzialità e, se vogliamo, il semplicismo e il non oculato
approfondimento teorico che sta dietro alla stesura di tale frame work, ne minano in
maniera significativa la sua validità e applicabilità all’interno del brand management.
Tuttavia, se si considera il modello come un semplice spunto in termini di linee guida
fondamentali che il governo dell’impresa può considerare nell’ottica di una maggiore
166
coerenza tra brand personality, brand identity e brand image e reputation, allora esso
può rappresentare un supporto prezioso che porta con sé un’eco sempiterna.
3.3 Per un modello “aggiornato” degli archetipi d’impresa:
In conclusione della nostra descrizione degli studi sull’Archetypal Branding,
proponiamo, a titolo esemplificativo, uno schema riassuntivo degli archetipi fin qui
trattati (Fig. 1), il quale sconta le modifiche e gli aggiustamenti operati a margine della
nostra analisi.285
285
Elaborazione personale da:
https://www.austintexas.gov/sites/default/files/files/AustinGO/Appendix_Q_Branding_Report.pdf
167
I 4 quadranti nei quali si articolano i 12 archetipi d’impresa (con i relativi esempi di
brand) sono costituiti dalle dicotomie “Ego/Social” e “Order/Freedom”. Sulla scorta di
quanto descritto all’interno del modello, risulta semplice intuire, per quanto concerne la
prima, l’espressione di due determinati desideri e motivazioni: da una parte la
soddisfazione del piacere personale e le sfide e gli obiettivi individuali - o tutt’al più con
se stessi - dall’altra, invece l’interesse, la sensibilità e l’amore per l’altro e per la
collettività tutta. Per quanto riguarda gli altri due quadranti (“Order” e “Freedom”) essi
riferiscono, rispettivamente, al mantenimento/rafforzamento della situazione corrente, e
al desiderio di libertà, disimpegno, divertimento e capovolgimento dello status quo.
168
CAPITOLO IV
Lo Storytelling d’impresa
Sous ses formes presque infinies, le récit est présent dans tous les temps, dans tous les lieux, dans toutes
les sociétés ; le récit commence avec l'histoire même de l'humanité ; il n'y a pas, il n'y a jamais eu nulle
part aucun peuple sans récit ; toutes les classes, tous les groupes humains ont leurs récits, et bien souvent
ces récits sont goûtés en commun, par des hommes de culture différente, voire opposée : le récit se moque
de la bonne et de la mauvaise littérature : international, transhistorique, transculturel, le récit est là,
comme la vie.
(Roland Barthes, Poétique du récit)
A man tells his stories so many times that he becomes the stories.
They live on after him, and in that way he becomes immortal.
(dal film “Big Fish”)
Sulla scorta dell’impianto teorico descritto nel primo capitolo del presente lavoro,
riguardante la narrazione intesa come peculiarità psichica fondamentale e i cui principi e
strutture archetipiche universali si ripetono nei millenni attraverso leggende, miti e
storie di ogni genere286, ci addentriamo ora nell’analisi del cosiddetto Narrative turn,
ossia la “svolta narrativa” che sembra caratterizzare la società e la cultura
contemporanee, e, in particolar modo, un numero sempre maggiore di imprese operanti
sul mercato odierno.
L’interesse per la natura e le dinamiche collegate alla narrazione sta trovando negli
ultimi anni sempre più spazio all’interno degli ambiti più svariati, da quello della
formazione e dell’educazione a quello della comunicazione d’impresa. Segnatamente,
all’interno di quest’ultimo si registra una rinnovata attenzione per le storie e per la loro
ancestrale efficacia che, a partire dai primordi dell’umanità fino ad arrivare ai nostri
giorni, si conferma di generazione in generazione.
286
Cfr. Cap. 1, Propp (1927) , Campbell (1953), Levi-Strauss (1958) , Durand (1963), Bruner (1988).
169
Prima di affrontare l’argomento cardine del presente capitolo – lo storytelling
d’impresa – è doveroso un breve passo indietro che consideri la narrazione in
termini psicologici e culturali, al fine di comprendere al meglio l’importanza che
rivestono i racconti nella vita dell’uomo.
Quest’ultimo, infatti, come sappiamo, ha comunicato con i suoi simili attraverso
le storie fin da quando abitava le caverne. Anticamente la narrazione costituiva il
principale mezzo di trasmissione delle informazioni dal momento che, attraverso
di essa, le comunità arcaiche codificavano e rappresentavano le situazioni e le
azioni aderenti alle norme sociali correnti ed ereditavano dagli avi leggende,
rituali e saperi vari (basti pensare alla grande tradizione orale dei cantori greci
antecedente all’Iliade e all’Odissea di Omero). Raccontare storie può essere
considerata un’attività insita nell’uomo, quasi istintuale, al pari dell’azione del
respirare o del camminare: un’attitudine innata che va incontro all’esigenza di
semplificazione e comprensione del mondo. Con l’analisi delle strutture narrative
profonde e “archetipiche” analizzate da Vladimir Propp e Joseph Campbell,
abbiamo avuto già modo di notare come esse rappresentino, per dirla con Vogler,
“un insieme di principi che governano il modo di vivere e il mondo della
narrazione così come la fisica e la chimica regolano il mondo fisico”287, mentre è
con Bruner che si arriva alla definizione di una vera e propria modalità di
pensiero narrativa presente nella psiche, contrapposta a quella logico-scientifica.
È Walter Fisher, invece, a parlare per primo di “homo narrans”288, riferendosi alla
narrazione come strumento cognitivo primario capace di fornire modelli di
comprensione concettuale delle situazioni e di cooperare nella definizione
dell’agire quotidiano laddove, a parere di Collison e McKenzie, le storie
costituiscono “uno degli strumenti di base inventati dalla mente dell’uomo allo
scopo di accrescere la comprensione. Ci sono state grandi civiltà che non hanno
usato la ruota, ma non ne sono esistite che non hanno raccontato storie”
289
. Del
resto, a delineare tale concetto, era stato lo stesso Barthes, a parere del quale “il
287
VOGLER C., cit. p. 5.
W. FISHER, Narration as a Human Communication Paradigm: the case of Pubblic Moral
Argument, Communication Monographs, 51-1984.
289
C. COLLISON, A. MACKENZIE, The Power of Story in Organisations, Journal of workplace
learning, 1999, vol. 11, p. 39.
288
170
racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito
in alcun luogo un popolo senza racconti”290.
Da sempre l’uomo ha prodotto storie e tratto insegnamenti da esse; le narrazioni
sono un medium collegato direttamente al funzionamento dei processi mentali
umani, dal momento che attribuiscono senso a ciò che succede e consentono alla
memoria a lungo termine di cristallizzarsi. Esse possono essere definite come un
dispositivo di crescita e apprendimento presente in tutte le culture e avente una
dimensione collettiva. Il discorso universale delle storie, in cui gli episodi e le
emozioni ad essi relate si susseguono in maniera ordinata, coinvolge
indistintamente e profondamente tutti coloro che ne fruiscono poiché il
funzionamento stesso della psiche si presta particolarmente alla loro ricezione e
memorizzazione. A tal riguardo è Simmons ad affermare come “Qualcuno con
una cattiva memoria può comunque ricordare una storia se essa è memorabile […]
Si ricordano le storie che risvegliano le nostre emozioni”, laddove, sempre a
questo proposito, l’autrice ravvisa la capacità delle storie di costituire un
differente stato di conoscenza, il quale “è meno analitico, più ricettivo e
maggiormente collegato agli strati più inconsci“291.
Gli individui costruiscono e raccontano storie quotidianamente per attribuire un
significato alla realtà sensibile che li circonda e che “gli accade” intorno: grazie ai
nessi causa-effetto che si stabiliscono tra gli eventi, infatti, quest’ultimi appaiono
più semplici e agevoli da ricordare. Mediante le storie, inoltre, le persone
comunicano le proprie conoscenze e ne acquisiscono di nuove, stabilendo
collegamenti, implicazioni e analogie tra quello che è già noto e le nuove
informazioni che man mano pervengono292. La narrazione, dunque, è allo stesso
tempo un processo cognitivo ed emozionale, in grado, perciò, di interessare
entrambi gli emisferi del cervello umano. Parkin, a tal riguardo, nota che “le
reazioni alle informazioni presentate sottoforma di storia sono diverse da quelle
290
, R. BARTHES, “Introduction to the Structural Analysis of Narratives”, in S. Heath, Image –
Music – Text, Glasgow, 1966, pp. 79-124; trad.it. “Introduzione all’analisi strutturale dei
racconti», in R. BARTHES et al., L’analisi del racconto, Milano, 1969, pp. 7-46, p. 7.
291
A. SIMMONS, The Story Factor. Secrets of Influence from the Art of Storytelling, Perseus
Publishing, Cambridge, 2002, p. 126.
292
Per la teoria psicolinguistica afferente al “given.new contract” si veda H.H. CLARK, S.E.
HAVILAND, Comprehension and Given-new contract, School of Social Sciences, University of
California, Irvine, 1975.
171
indotte dalla forma analitica” e che “La narrazione di storie è interattiva e
complessa, e richiede all’ascoltatore di utilizzare entrambi gli emisferi del cervello
per gestire le informazioni”293. Le storie, grazie alla loro struttura e alla loro
pregnanza semantica, sono in grado di restituire tutte (o quasi) le sfumature delle
esperienze che le persone si trovano a vivere nel corso della loro esistenza; mentre
ordinano e collegano tra loro gli eventi/episodi, infatti, le storie investono i fatti di
implicazioni affettive che contribuiscono così a fissarli nella memoria294 e a
stabilirsi nelle profondità della psiche. In tal merito è ancora Parkin a notare come
“Il potere della storia sta nel fatto che mentre le nostre menti coscienti sono
assorbite, il subconscio è libero di assimilare la morale o il messaggio contenuti
nel racconto. L’assorbimento prodotto dalla storia dipende dal fatto che la sua
fruizione avviene in una condizione di rilassamento, di basso livello di stress,
nella quale entrambi gli emisferi del cervello sono chiamati in causa: il sinistro,
razionale, per elaborare analiticamente le parole; il destro, creativo, per presiedere
la visualizzazione e i modelli di apprendimento.” 295
La conseguenza logica di tali affermazioni è che le storie attengono più di ogni
altra forma comunicativa alla dimensione relazionale della psiche. Esse, infatti,
tramite i racconti di eventi, episodi, esperienze di vita personale e collettiva – le
storie degli uomini, da una parte, e la grande Storia dall’altra – e attraverso
l’espressione delle relative emozioni, sentimenti e stati d’animo, creano un legame
molto forte tra l’individuo e il suo prossimo, nonché con tutta la sua collettività di
riferimento. Le storie definiscono, così, le esperienze umane e le mettono in
contatto attraverso un innato meccanismo di condivisione ed empatia, venendo a
rappresentare uno spazio di condivisione fondamentale per l’espressione
dell’individuo stesso. Notare che la propria storia personale è comune a tante
altre, e sentirsi parte di una grande storia che coinvolge e tiene in piedi tutta
l’umanità, acquieta la solitudine dell’individuo e lo rende più sicuro e consapevole
del suo posto nel mondo. Esse, in questo senso, possono essere considerate le
293
M. PARKIN, Racconti per la formazione. 50 storie per facilitare l’apprendimento, ETAS,
Milano, p. 45.
294
Snowden, a tal proposito, sintetizza : “le storie trasmettono idee complesse in una forma
semplice, coerente e memorabile” 294
295
M. PARKIN, Racconti per la formazione. 50 storie per facilitare
l’apprendimento, 2005, p. 35.
172
“barriere” più resistenti innalzate a difesa di se stessi contro il caos e la caducità
che contraddistinguono la condizione umana.
In ultima analisi, non risulterà stucchevole affermare che l’uomo vive di storie e
che le storie, aggiungeremmo, sono fatte della sua stessa materia (e viceversa).
Esse lo pongono in stretto contatto – quasi in “comunione” - con altri soggetti e,
chiamando in causa sia la sua dimensione razionale, sia quella emozionalerelazionale, avviluppano la parte più profonda della sua psiche, in una presa che lo
trascina sin dalle viscere del suo essere.
4.1 Il Corporate Storytelling
Il concetto di “Storytelling” propriamente detto nasce a partire dalla prima metà
degli anni ‘90 negli Stati Uniti e riferisce, letteralmente, all’arte di “raccontare
storie”. Esso rappresenta il portato degli studi in materia di narrazione
precedentemente analizzati, declinato in un contesto inusitato e dinamico: quello
dell’identità e della comunicazione d’impresa.
Il periodo storico che stiamo attraversando, infatti, è caratterizzato dal suddetto
multidisciplinare fenomeno del “narrative turn”, vale a dire l’improvviso
incremento dell’interesse nei confronti delle storie296 in ambito sociale, educativo
ed aziendale, laddove i precedenti contributi in merito alla narrazione si
limitavano per lo più agli studi umanistici. Salmon, a tal riguardo, identifica come
age narratif297 l’epoca in cui una pluralità di persone sembra aver riscoperto le
potenzialità della narrazione298, e in cui, più specificatamente, le imprese hanno
296
Nelle pagine a seguire si farà spesso riferimento ai termini “storia”, “racconto” e “narrazione”,
i quali verranno trattati sostanzialmente come sinonimi. In realtà con Genette intendiamo la
“storia” come “l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione di un
avvenimento o di una serie di avvenimenti”, il “racconto” come contenuto di avvenimenti
dell'enunciato narrativo, ovvero la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che fanno l'oggetto
del discorso narrativo e le loro diverse relazioni di concatenamento, opposizione, ripetizione, ecc.,
e infine la narrazione come enunciazione narrativa, vale a dire “non quello che si racconta, ma
quello che consiste nel fatto che qualcuno racconta qualcosa: l'atto del narrare preso in se stesso”.
G. GENETTE, Discours du récit Figures III. Paris: Éditions du Seuil, coll. «Poétique», 1972, pp.
71-73, trad. it., Figure III. Discorso del racconto, L. ZECCHI, Torino, Einaudi, 1976.
297
C. SALMON, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris,
2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 12.
298
Lynn Smith, a tal proposito, nel suo articolo dal titolo Not the same old story, pubblicato sul
Los Angeles Times nell’aprile 2001, afferma “il pensiero narrativo si è propagato ad altri campi:
storici, giuristi, economisti e psicologi hanno riscoperto il potere che le storie hanno di costruire la
realtà. E lo storytelling ha cominciato a rivaleggiare con il pensiero logico”.
173
cominciato a dialogare con i propri pubblici di riferimento facendo leva sul loro
lato emozionale, al fine di comunicare la propria realtà nel modo più efficace
possibile, sia all’interno che verso l’esterno, attraverso il meccanismo
dell’immedesimazione e della condivisione dei vissuti personali.
Più specificamente il corporate storytelling (o brand storytelling) è inteso come
tecnica, artificio adoperabile al fine di rendere la comunicazione più coinvolgente
ed accattivante. In questa ottica diventa oggetto di interesse tutto ciò che può
contenere al proprio interno un elemento narrativo, tradotto a sua volta in un
segno, capace di “parlare” a pubblici diversi. Possono diventare “storie”, così,
tutti i discorsi all’interno dell’organizzazione con cui l’organo di governo cerca di
orientare l’opinione dei propri stakeholders di riferimento, ma possono essere
declinati in termini narrativi, allo stesso modo, anche i messaggi, le conversazioni,
gli aneddoti, i rumors e le tracce di vissuti personali diffusi - o trapelati all’interno dell’impresa, così come, da un punto di vista esterno all’impresa, i
messaggi e i relativi feedback comunicativi da parte dei consumatori, atti a
definire e tenere traccia dell’universo dei significati intorno alla marca.
4.2 Perché lo Storytelling? una breve panoramica dei contributi
Il motivo dell’“esplosione” dello Storytelling d’impresa, ovvero dell’“utilizzo
strategico della narrazione di storie per un fine organizzativo”299, è abbastanza
agevole da rintracciare.
Tutte le imprese che si trovano ad agire nel mercato odierno, infatti, parlano e,
parlando, si raccontano. Essendo “comunità umane basate su discorsi umani che
parlano di problemi umani”300, esattamente come accade agli individui, esse
narrano i loro prodotti e servizi, facendo riferimento a “tracce emotive e traiettorie
affettive”301 coerenti con il vissuto personale di ogni componente dell’audience di
riferimento (o almeno, di larga parte di esso); emozioni e testimonianze che
trascendono la dimensione oggettiva e descrittiva legata all’azienda o al prodotto
299
. A. FONTANA, Lo Storytelling per la comunicazione d'impresa, in M. Barone, A. Fontana,
Franco Angeli, Milano, 2005.
300
R. LEVINE, C. LOCKE, C. SEARLS, D. WEINBERGHER, Cluetrain Manifesto. The end of
business as usual, Fazi Editore, trad. it. Roma, 2001.
301
K. FOG, C. BUDTZ, B. YAKABOYLU, Storytelling Branding in practice, Samfundslitteratur
Press, Frederiksberg, 2004, p. 12.
174
pubblicizzato, per abbracciare profondamente quella immateriale, che riferisce
piuttosto ai valori, agli ideali e alle esperienze a cui quest’ultimi rimandano. A tal
proposito Cortese afferma che le imprese possono raccontarsi in due sensi.
Primariamente “l’organizzazione si racconta perché elabora ed esprime un
racconto di sé”: in questo senso essa è intesa come molteplicità di narrazioni
provenienti da tutti i soggetti organizzativi, sia interni che esterni ad essa. In
secondo luogo, l’organizzazione si racconta perché “può essere narrata”, e quindi
può costituire essa stessa oggetto di narrazione a partire dalla sua personalità, dai
suoi simbolismi e dalla sua condotta.302
Le organizzazioni contemporanee, d’altronde, vivono in un mercato sempre più
variabile e complesso, reso ancora più instabile dalla tristemente notoria crisi
economica mondiale che imperversa ormai da almeno un lustro. Esse, per
perseguire i propri obiettivi, sono sottoposte a continui mutamenti d’identità
organizzativa i quali, se da una parte, nell’ottica di aderire ai nuovi trend esistenti,
vanno incontro alle nuove esigenze e agli atteggiamenti dei vari stakeholders di
riferimento – sempre più volubili, demotivati e annoiati –, dall’altra, finiscono per
“logorare” l’impresa stessa nell’incessante ridefinizione del sé, delle proprie
politiche e della propria mission.
È in questo scenario che trova una sua raison d’être forte lo strumento dello
storytelling. Esso, infatti, assolve al delicato compito di raccogliere, organizzare e
“canalizzare” il senso più profondo dell’impresa, ovvero quei valori, quei miti e
quegli ideali che sono alla base della personalità d’impresa e che si riverberano,
poi, all’interno della corporate identity.
Barbara Czarniawska definisce “istituzionalizzazione”303 il processo attraverso cui
l’impresa si trasforma da apparato “asettico” ed efficientista a veicolo di
gratificazione collettivo intriso di valori e cultura d’impresa, attraverso i quali essa
acquisisce istintività nei confronti dei sovra-sistemi e dei sotto-sistemi, siano essi
esterni o interni alla stessa organizzazione.
Sullo sfondo emerge, dunque, la nuova prospettiva dell’impresa cognitiva, che
non ha più come principale fine la produzione delle merci e l’erogazione dei
302
C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, Guerini e Associati, Milano, 1999, p. 4.
B. CZARNIAWSKA, A Narrative Approach to Organizations Studies, Sage Publications,
London, 1998.
303
175
servizi, ma, come afferma Salmon stesso: “la condivisione delle conoscenze, la
circolazione delle informazioni, la gestione delle emozioni”304. Oggi più che mai
le imprese, nei loro valori, nella loro condotta, nel loro comportamento e nelle
loro manifestazioni simboliche, significano e si raccontano ad una pluralità di
pubblici, che va dai consumatori dei propri prodotti/servizi agli investitori
finanziari, passando per i fornitori e, ovviamente, per i dipendenti dell’impresa
stessa. In questo senso, come afferma Andrea Fontana305, l’organizzazione va a
configurarsi come “un set multiplo di narrazioni, una serie di racconti (più o meno
mirati ed efficaci), una vasta gamma di gadget tangibili/oggettivi e
intangibili/simbolici che – a seconda dei diversi periodi storico-culturali – si
esprimono attraverso i diversi mezzi di comunicazione interna o esterna, di
formazione, di sviluppo organizzativo [cosicché] Il raccontare storie è parte della
condizione organizzativa, è un aspetto estremamente serio che il management non
può lasciare al caso o, peggio, all’istinto.”306
Silverman, a proposito dello storytelling applicato all’impresa sostiene che le
storie permettano alle organizzazioni di raggiungere grandi risultati “grazie alla
loro abilità di toccare le persone intellettualmente, fisicamente, emozionalmente e
spiritualmente”307, laddove Taylor, dal canto suo, afferma come esso risulti molto
utile alle aziende dal momento che “contribuisce non solo all’apprendimento
organizzativo, ma anche alla soluzione dei problemi, […], alla socializzazione dei
nuovi dipendenti, alla creazione di significato”308.
304
C. SALMON, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris,
2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 38.
305
In Italia Fontana è considerato un vero e proprio guru del corporate storytelling; a lui va il
sicuro merito di aver profuso energie nella promozione e divulgazione della materia all’interno del
nostro Paese. Docente di "Storytelling e narrazione d`Impresa" all`Università degli Studi di Pavia
e di “Metodologia della formazione" all`Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fontana, tra le
altre cose, è co-fondatore di “Storyfactory”, prima società italiana nel campo della consulenza
narrativa d’impresa, e Presidente dell’Osservatorio Italiano di Corporate Storytelling presso
l’Università di Pavia.
306
A. FONTANA, Manuale di Storytelling, Raccontare con efficacia prodotti, marchi e identità
d’impresa, Etas, Milano, 2009, p. 56.
pp. 38-39.
307
L. SILVERMAN , Strategic Storytelling, Association Management, 2004, vol. 56, p. 48.
308
S.TAYLOR, D. FISCHER, R. DUFRESNE, How Can Storytelling Become a Key Part of
Managerial and Organizational Learning, People Management, 2003, vol. 9, p. 54.
176
Secondo Durrance, invece, dal momento che “una narrazione […] porta con sé la
cultura condivisa, le credenze e la storia di un gruppo”309 le storie svolgono
l’importante ruolo di aiutare le persone a dare il meglio di loro stessi sul luogo di
lavoro, mentre è più “venale”, in tal senso, Steve Denning, uno dei principali
studiosi della disciplina, il quale sostiene come storytelling possa essere
considerato a tutti gli effetti come “l’ultima tecnologia basso costo-grande
risultato”310 riferendosi alla sua natura semplice e accessibile che non necessita,
di per sé, di grossi investimenti, né a livello hardware, né a livello software.
Lo storytelling, inoltre, si concreta in una comunicazione che possiede una cifra
fortemente intuitiva, dal momento che le storie rappresentano un ottimo
dispositivo di trasmissione della conoscenza tacita, fondamentale all’interno e
all’esterno dell’organizzazione; è Gabriel a tal proposito ad affermare che “poiché
sappiamo più di quanto possiamo dire, attraverso lo storytelling possiamo dire più
di quanto sappiamo (conoscenza esplicita)”311.
Lo storytelling, poi, oltre a permettere di comunicare in modo chiaro e creare
senso in un contesto in cui vige il caos – come abbiamo visto, collegando spazio,
tempo e scopi umani e strutturandoli in una sequenza ordinata di eventi -,
rappresenta una modalità comunicativa meno “brusca” e più collaborativa e
interattiva rispetto alle altre. Nel caso della comunicazione interna, ad esempio,
l’organo di governo dell’impresa invita a seguire le storie passo a passo e ad
accedere in maniera graduale al messaggio, con la possibilità – qualora
contemplata - di intervenire attivamente nella sua stessa definizione o
riformulazione (a tal proposito, come afferma Boje, “lo storytelling assomiglia più
a una danza che ad una battaglia”312). In questo senso, dal momento che la storia
può essere co-creata da chi la racconta e da chi la ascolta, essa viene meglio
compresa ed interiorizzata attraverso un meccanismo altamente interattivo e
persuasivo (ben lontano dalle classiche comunicazioni aziendali altamente formali
309
B. DURRANCE, Stories at Work, Training & Development, 1997, vol. 51, P.26.
S. DENNING. Squirrel Inc. A Fable of Leadership through Storytelling, John Wiley & Sons,
2004, ed. it. a cura di N. GAIARIN, Scoiattoli Spa. Storie di noci e di leadership, ETAS, Milano,
2005, p. 121.
311
Y. GABRIEL, Sorytelling in organizations: facts, fictions and fantasies, Oxford University
Press, New York, 2000.
312
D.M. BOJE, Narrative methods for Organizational and Communication Research, Sage,
London, 2001.
310
177
e dal carattere strettamente unilaterale ed esecutivo). Per lo stesso motivo lo
storytelling rappresenta un forte richiamo all’azione: esso, infatti, non esaurisce la
sua funzione colmando il gap conoscitivo tra l’emittente il pubblico destinatario
del messaggio, ma stimola quest’ultimo alla co-creazione del racconto stesso, in
una logica di partecipazione e collaborazione attiva.
In ultima analisi, non è azzardato affermare che la comunicazione che si serve
dello storytelling risulti mediamente più accattivante e divertente rispetto alle
altre. Come sostiene lo stesso Boje, d’altronde, “le comunicazioni astratte sono
noiose e aride perché non sono popolate da persone ma da cose. Come esseri
umani noi siamo attratti da ciò che è vivente”. Raccontare storie fatte di
personaggi, ambientazioni, fatti, peripezie ed emozioni legate ad essi, dunque,
rappresenta sicuramente un modo altamente coinvolgente per trasmettere i propri
discorsi ai rispettivi pubblici di riferimento dell’impresa, capace di catturare la
loro attenzione e di “coglierli sul vivo” attraverso l’empatia e l’immedesimazione
nelle vicende rappresentate.
Ciò detto, creare e gestire il flusso narrativo all’interno e all’esterno dell’impresa è
divenuto fondamentale per le organizzazioni che si trovano ad operare nel mercato
odierno dal momento che i valori, l’identità e la dimensione simbolico-affettiva
collegata ad esse risultano ormai cruciali per il successo nei confronti dei propri
pubblici di riferimento, nonché per la loro stessa sopravvivenza. Le “storie
d’impresa”, in questo senso – e lo vedremo meglio più avanti – rappresentano, da
una parte, uno strumento di espressione e controllo della corporate personality e,
dall’altra, un forte “push” comunicativo nei confronti dei propri stakeholder
nell’ottica di un più profondo coinvolgimento e/o di una maggiore motivazione e
fiducia nei confronti dell’impresa stessa.
Lo storytelling, dunque, sta diventando sempre più uno strumento dal quale
difficilmente le imprese possono prescindere: come afferma Fontana “fare
storytelling significa per un’impresa, saper gestire meglio il cambiamento
culturale ed organizzativo, raccontandolo con nuovi codici e stili linguistici. Vuol
dire anche dare vita a prodotti che siano significativi in mercati ad alto assedio
testuale. Allo stesso modo, acquistare un brand significa oggi acquistare sempre
178
una storia (un racconto, una narrazione) un modo in cui immedesimarsi e
progettarsi in modo simulato, temporaneo, vicario”313
Alla luce di quanto accennato fin qui e volendo rispondere sinteticamente al
quesito da cui prende il nome il presente paragrafo, potremmo infine ricorrere alle
parole dello stesso Denning, il quale, alla domanda inerente al perché dell’utilizzo
dello storytelling nell’ambito dell’impresa, fornisce una risposta quanto mai
semplice ed efficace: “Perché funziona!”, invitando studiosi e professionisti del
settore ad occuparsi di tale emergente ed accattivante materia in maniera più
sistematica e consapevole.
4.3 Obiettivi e aree di applicazione
Come ci illustra Fontana, attraverso il racconto di storie è possibile per l’impresa
perseguire diversi obiettivi comunicativi, che si declinano su molteplici aree,
canali314 e mezzi di intervento e in riferimento a diversi stakeholder.
Segnatamente, il corporate storytelling serve a:
1) Condividere obiettivi specifici;
2) Dare senso alle azioni della realtà organizzativa quotidiana, che altrimenti
sarebbe vuota e priva di spinta motivazionale;
3) Creare un’identità (individuale o di gruppo), che permette di riconoscersi sul
lavoro e nella vita;
4) Mantenere la memoria (individuale o collettiva), garantendo così una
continuità dei saperi e un orientamento dei comportamenti;
313
A. FONTANA, Manuale di storytelling, cit. p. 32.
Lo stesso Fontana fornisce delle griglie dettagliate in merito alle aree, forme, canali e strumenti
possibili per lo storytelling. A tal proposito uno dei canali più interessanti ed emergenti è
sicuramente quello del Web. Attraverso l’immissione dei contenuti narrativi on-line (spot
tradizionali ma anche immagini, foto, testi, messaggi brevi ecc.) si vanno infatti a “stressare” –
come si usa dire in gergo – le peculiarità del mezzo nell’ottica di aumentare in maniera
considerevole il coinvolgimento, la pervasività e la possibilità di co-creazione delle storie stesse
attraverso la partecipazione diretta ed immediata dell’utente. Il Digital Storytelling rappresenta una
tecnica accattivante e che, data la sua nascita relativamente molto recente, ha in sé potenzialità di
crescita e affinamento. Esso si inserisce perfettamente nell’ottica di una sempre più crescente e
imperversante “transmedialità” - o“crossmedialità” - dei contenuti, frutto dell’attuale “cultura della
convergenza”.
314
179
5) Orientare l’opinione del sociale d’impresa, con storie che fanno ridere,
portano a piangere, suscitano paura, generano speranza e molti altri
sentimenti, attraverso l’identificazione e la proiezione;
6) Costruire e presidiare una cultura, fatta di valori e atteggiamenti che poi si
riverberano nei fatti quotidiani;
7) Sostenere nella progettazione del futuro, che per essere realizzato deve anche
essere ripetuto, ri-raccontato, “venduto”, più e più volte, sia a noi stessi che
agli altri.315
Lo storytelling d’impresa è uno strumento quasi trasversale ad essa, dal momento
che esso può essere applicato in tante aree-funzioni delle organizzazioni, che
corrispondono, a loro volta, ad attività manageriali specifiche quali: la governance
dell’identità e dell’immagine d’impresa, la gestione del cambiamento interno ed
esterno, la guida complessa delle relazioni istituzionali e infine il presidio e lo
sviluppo commerciale.
Vedere l’organizzazione sotto questa lente “narrativa” di ingrandimento porta a
ripensare i ruoli:

Dei vertici aziendali e di chi declina le linee guida valoriali in strategic
statements (che dovrebbero contenere un’alta densità epica);

Della comunicazione interna e le sue capacità di orientare e sensibilizzare i
pubblici interni (che dovrebbe suscitare un interesse favoloso);

Del training e dello sviluppo organizzativo (che oggi più che mai ha
l’esigenza di formare comportamenti e indicare atteggiamenti di lavoro a
estesa endurance eroica); del brand management e della possibilità di
creare una personalità d’impresa narrante capace di parlare all’animo
delle persone (il cosiddetto “animadvertising”);

Della comunicazione esterna con l’opportunità di fidelizzare i diversi
stakeholder esterni (generando un’identificazione);

Della creazione di prodotti (i quali necessitano sempre di più un nuovo
ordine narrativo che sappia generare distintività di scelta).316
315
A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 47.
180
Le storie all’interno dell’impresa, dunque, sono molteplici così come sono
molteplici i soggetti - e i gruppo di soggetti - dai quali esse possono scaturire e
all’interno dei quali possono diffondersi. In particolare la somma delle storie
soggiacenti alla personalità d’impresa viene a costituire la cosiddetta core
corporate story317; essa, infatti, rappresenta lo “zoccolo duro” iniziale
dell’organizzazione, ovvero vision, mission, valori, ideali e competenze
d’impresa, intorno alla quale si sviluppano poi le storie interne, esterne e quelle di
consumo inerenti al brand.
Le imprese, in questo senso, possono essere considerate come veri e propri “spazi
di narrazione aperta”318, ovvero luoghi in cui si intrecciano diverse storie e
racconti, le quali, a loro volta si estendono dalla varietà delle conversazioni che si
innescano all’interno dell’organizzazione - sia in forma scritta che orale – alla
redazione della documentazione aziendale (persino quella di carattere più tecnico
come, ad esempio, il bilancio sociale)319.
Più specificamente, le storie che nascono e si sviluppano all’interno e all’esterno
dell’impresa possono essere divise in tre gruppi:

Da un punto di vista individuale: tutte quelle narrazioni - insieme di
produzioni letterarie, verbali o scritte - con cui gli attori esprimono la
propria esperienza di lavoro nell’organizzazione.

Da un punto di vista strategico: il set di storie strategico - l’insieme di
produzioni narrative mirate - per promuovere attività, iniziative, progetti
interni. Si tratta di un set adoperato secondo una logica multicanale (carta,
relazione, digitalità, eventi);

Da un punto di vista del consumo: la gamma di narrazioni (visual design,
musica, arredo, ecc.) che promuove e orienta le esperienze di shopping
contemporaneo (sia di acquisto che di vendita).320
316
FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., pp. 48-49.
M. SCHULTZ, M.J. HATCH, M. HOLTEN LARSEN, The Expressive Organization: Linking
Identity, Reputation, and the Corporate Brand, Oxford University Press, New York, 2000, p. 196.
318
C. KANEKLIN, G. SCARATTI, Formazione e Narrazione, Raffaello Cortina editore, Milano,
1998, p. 30.
319
Per una breve e generale panoramica sull’applicabilità dello storytelling all’interno
dell’organizzazione e specificamente nella documentazione aziendale, si veda l’intervista a
Lorenzo Carpané di “Palestra della scrittura”: http://www.youtube.com/watch?v=5z2QicJjRdQ
320
A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 27.
317
181
Esistono, alla luce di quanto riportato, tre tipi di storytelling: uno “interno”,
definito “organizational storytelling”, che rimanda alla produzione di storie da
parte dei soggetti interni all’organizzazione e inerenti all’esperienza di lavoro,
individuali o collettive che siano; un altro strategico, detto “management
storytelling”, che riferisce sostanzialmente al presidio della brand identity a
partire dalla brand personality e alla gestione di tutte le storie inerenti
all’organizzazione; infine l’altro “esterno”, che prende il nome di “marketing
storytelling”, che si occupa della comunicazione in chiave narrativa dei prodotti (o
servizi) dell’azienda. Procediamo adesso alla loro descrizione che, per pertinenza
del percorso di studio ed esigenza di brevità, si soffermerà sugli aspetti teorici
principali delle diverse aree, senza scendere nel dettaglio dei processi strategici
legati alla loro implementazione.
4.4 Il Management Storytelling
Abbiamo visto, nel corso del presente lavoro, come le strutture narrative
rappresentino le forme attraverso cui gli individui comprendono la realtà, le
proprie vite, le proprie azioni e quelle degli altri soggetti. L’inserimento in una
cornice di riferimento, dunque, rende ciascun evento comprensibile in funzione
del contesto in cui esso va a collocarsi e che, al contempo, esso stesso contribuisce
a generare. In questo senso, lo storytelling è in stretto rapporto, altresì, con la
memoria autobiografica - sia individuale che collettiva - di ognuno, in quanto
quest’ultima consiste in un “dispositivo narrativo che ha il compito di mantenere
il filo della coerenza agli atti unici della nostra vita, in connessione con quella degli altri”321. Così, come qualsivoglia comunità umana è costituita e mantenuta in
vita da storie che si propagano, si ripetono e si corroborano all’interno degli usi e
delle tradizioni sociali, allo stesso modo l’emergere e la tenuta di
un’organizzazione sono legate alla possibilità da parte dei propri membri di
riconoscersi in schemi e cornici interpretative condivise, le quali vanno a
rappresentare la base solida della cultura d’impresa. In questo senso, il
management storytelling va a configurarsi come un potente dispositivo di
allineamento tra i tanti racconti interni ed esterni all’azienda, ovvero tra l’apparato
321
K. FOG, C. BUDTZ, B. YAKABOYLU, Storytelling Branding in practice, cit. p. 97.
182
di storie proposto dall’impresa, i racconti delle persone che vivono in azienda, l’
“autobiografia” dell’impresa stessa e, infine, i molteplici discorsi sviluppati
nell’interazione biunivoca con i mercati di riferimento322.
Come afferma Fontana “vivere all’interno dell’organizzazione significa accorgersi
che ogni impresa recita precisi copioni condensati in formati specifici, e adopera
particolari costrutti narrativi basati certamente sul pensiero logico-deduttivo
(budget, organigrammi, piani operativi) ma anche e soprattutto sul pensiero
logico-narrativo (miti, credenze, ideali), i quali coinvolgono sia i soggetti interni
all’azienda, sia quelli al di fuori di essa.”323.
Il ruolo dei racconti inerenti all’impresa risulta, dunque, decisivo per la percezione
che i pubblici hanno di essa e del loro stesso ruolo all’interno dell’azienda. Come
sostiene lo stesso Fontana, infatti, “chi possiede le strutture narrative di
un’organizzazione possiede i modi di costruire i significati perché le strutture
narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e
la manipolano […] chi ha in mano queste strutture è un gatekeeper narrativo, un
custode dei “cancelli del senso” di un certo contesto o di una certa situazione
reale324.
Alla luce di quanto accennato, i costrutti narrativi vengono a rappresentare un
sofisticato mezzo retorico di mantenimento e scambio del potere all’interno
dell’organizzazione, tale da consentire a colui che possiede le chiavi d’accesso ai
suddetti “cancelli del senso” - cioè ai processi di creazione dei significati – di
plasmare e definire la percezione del reale da parte degli individui interni
all’impresa, e, di conseguenza, anche gli effetti ed i comportamenti possibili in un
determinato contesto. Dal momento che “l’organizzazione postmoderna vive in
una boundery position in cui si attraversano più pratiche discorsive e più ruoli
nello stesso tempo - quella dell’imprenditore, quella del manager, quella degli
staff segretariali, quella del personale operativo, quella del mercato” 325 -, i vertici
322
“All’identità organizzativa, intesa come sostanza, si sostituisce un nuovo modello, nel quale
l’identità è vissuta invece come racconto: non più una struttura monolitica, ma un filo che
continuamente si dipana nel tempo, attraverso le storie dei diversi stakeholder con cui l’azienda
interagisce” A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit. p. 59.
323
Ivi p.39.
324
Ivi, p.39.
325
C. SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, trad. it. Guerini e Associati Editori,
Milano, 2008.
183
dell’impresa cercano di presidiare tali posizioni di confine assumendo la funzione
di gatekeeper, in modo da definire e controllare l’universo di senso intorno alla
propria impresa. Chi non si occupa di tali posizioni, infatti, non assume fin in
fondo il controllo dell’organizzazione, la quale è destinata prima o poi ad essere
controllata e dominata dalla “supremazia narrativa” di qualche altro soggetto.326
Riassumendo e venendo agli aspetti più concreti del management storytelling,
come schematizza Fontana327, i discorsi che afferiscono allo storytelling interno,
sono tesi a:
1) Informare, di solito su politiche e prassi di lavoro;
2) Motivare, tendenzialmente per accettare nuovi cambiamenti;
3) Orientare, generalmente verso l’assunzione di certe modalità di
comportamento;
4) Persuadere, abitualmente a assumere certi atteggiamenti interni;
5) Promuovere, molto spesso servizi interni (ritroviamo qui la logica del
marketing che, da strumento esterno, si ritrova a essere usato come
dispositivo di motivazione interna);
6) Far percepire: certe nuove modalità fisiche del lavoro (la nuova
procedura, la nuova disposizione spaziale delle scrivanie, la nuova
macchina in produzione ecc.)
Per Fontana, infine, “le storie organizzano, ordinano, sistemano, modellano e
plasmano la vita organizzativa sia nei suoi valori che nelle sue prassi”. Esse,
all’interno della vita organizzativa non hanno tutte la stessa funzione, ma si
326
Tali affermazioni, com’è ovvio, allargano di parecchio lo spettro in cui agisce chi si occupa di
definire ed esercitare, all’interno di un’organizzazione, la personalità e l’identità d’impresa, tale
che “Governare la narrazione in un’impresa significa per il manager divenire “stratega mediatico”
capace di favorire la socializzazione delle conoscenze, la governante della prassi di lavoro
(rendendo pubbliche le proprie competenze per il raggiungimento degli obiettivi comuni), la
percezione dei propri prodotti/servizi, la formazione di comunità di riconoscimento interno ed
esterno. [Quest’ultima] rappresenta una comunità di pratiche, dal momento che condivide modi
per gestire i problemi, le situazioni tipiche e le routine all’interno dell’impresa e, altresì, una
comunità di discorso laddove condivide modalità comuni per discutere di quest’ultimi.” A.
FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 40.
327
Ivi, pp. 35-36.
184
dipanano in quattro funzioni narrative primarie, ovvero quella “di presidio, di
apprendimento”, di “cambiamento e di attivazione emozionale328.
Con funzione “di presidio” si hanno le narrazioni di controllo, il mantenimento e
la diffusione delle conoscenze, delle esperienze e dei valori all’interno delle
organizzazioni. La funzione “di apprendimento”, invece, è quella che si concreta
nelle narrazioni a scopi introduttivi e/o di presentazione, le quali hanno il compito
di diffondere pratiche morali e inserirle opportunamente all’interno delle pratiche
d’impresa. Le storie “di adattamento”, d’altra parte, svolgono la funzione di
spiegare, promuovere, incentivare o presidiare i cambiamenti - incessanti - che
avvengono all’interno dell’organizzazione (si pensi, ad esempio, all’introduzione
di nuove prassi oppure il ben più traumatico taglio del personale). Infine, le
narrazioni “di eccitamento” sono quelle storie che stimolano particolarmente il
pubblico generando investimenti affettivi di carattere positivo.
Il management storytelling, in ultima analisi, cine a configurarsi come uno
strumento fondamentale di implementazione della brand identity, a cui i vertici
aziendali fanno ricorso per una maggiore coerenza all’interno e all’esterno della
propria organizzazione e per il presidio delle posizioni di “potere narrativo” al suo
interno.
4.5 L’Organizational Storytelling
Dal punto di vista dei dipendenti, invece, il termine storie organizzative sta ad
indicare “quelle narrazioni, quell’insieme di produzioni letterarie, verbali o scritte,
iconiche e filmiche, con cui gli attori organizzativi esprimono, a sé e agli altri, la
propria esperienza di lavoro e gli danno un senso nell’organizzazione”329, oppure
ancora, per Cortese, “un resoconto soggettivo, strutturato in forma di racconto,
relativo a un evento passato connesso ad una problematica rilevante, che consente
di pervenire ad una attribuzione di significato”330. Tramite le narrazioni individuali e di gruppo - dunque, viene concessa a ciascun individuo narrante la
328
M. BARONE, A. FONTANA, Prospettive per la comunicazione interna e il benessere
organizzativo, Franco Angeli, Milano, 2005
329
A. FONTANA, 2005
330
C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, cit., p. 55.
185
possibilità di recuperare ed esprimere la dimensione personale dei vissuti e delle
esperienze di lavoro all’interno della realtà aziendale mediante la “comprensione
della dinamica degli eventi e delle situazioni, di messa a fuoco degli elementi più
significativi, di valutazione delle cause e degli effetti”331. È indubbio, come si
accennava precedentemente a tal proposito, il tentativo da parte dell’organo di
governo dell’azienda di “de-verticalizzare” l’assetto narrativo dell’organizzazione
nell’ottica di una maggiore partecipazione da parte dei dipendenti e di una vera e
propria co-creazione delle storie. Quest’ultimi, attraverso la testimonianza dei
vissuti personali, dei colori, delle emozioni, delle avventure, delle soddisfazioni e
- perché no? - delle delusioni e dei disagi all’interno dell’impresa, possono in
qualche modo riappropriarsi di essa e attribuire nuovi sensi al ruolo che svolgono
al suo interno.
In questo senso le storie dei dipendenti, così come quelle del brand, possono
essere anch’esse, analizzate dal punto di vista delle strutture archetipiche
fondamentali della narrazione, dal momento che esse si dipaneranno attraverso un
inizio, l’evidenziazione di un problema o una minaccia, l’impiego di strumenti
(tangibili o cognitivi) per andare incontro a tale problema, e infine la sua
risoluzione e il ritorno/approdo ad una situazione stabile (che può, in ogni caso,
evidenziare delle criticità).
Riprendere le storie delle persone che lavorano all’interno di un’azienda, però,
non si esaurisce in un’operazione di semplice, magari malinconico, ricordo delle
esperienze trascorse all’interno del contesto lavorativo. Lo storytelling, infatti,
rappresenta piuttosto il “collante” ideale per ricostituire all’interno di
un’organizzazione aziendale un senso di appartenenza ed uno spirito di squadra
forti, attraverso l’emersione del talento, delle storie virtuose e degli esempi di
eccellenza da seguire.
Esso, inserendo all’interno del medesimo piano narrativo le singole storie di chi
lavora all’interno dell’impresa, unite in un “canovaccio” comune, viene a
configurarsi come un processo di rafforzamento ed incentivazione dell’unità
all’interno dell’azienda, attraverso i valori della solidarietà e, al contempo, della
meritocrazia. Obiettivo dell’organizational storytelling, dunque, è quello di far
331
Ivi, p. 60.
186
sentire i propri dipendenti parte integrante di una storia, la grande storia
dell’impresa che, dal canto suo, sulla base della core corporate story, lascia
partire una miriade di racconti inerenti ed essa allo scopo di creare valore e
motivazione presso i propri stakeholder interni. Consiste proprio in tale prospetta
il “quid” dello storytelling, che si concreta, così, in una modalità di
comunicazione che va oltre la dimensione tecnica e routinaria dei turni di lavoro,
delle prassi, delle politiche commerciali, per rivolgersi al lato umano – il più
umano possibile, potremmo dire – dei propri attori interni.
Considerare con più attenzione tale modalità di raccontare in maniera partecipata
la propria impresa, pertanto, è diventato ad oggi un obbligo per le imprese che
operano nei mercati: ciò è vero se non altro perché, scetticismi e perplessità
metodologiche degli addetti ai lavori a parte (ancora presenti a tutt’oggi), investire
su un personale consapevole e coinvolto e quindi motivato a “dare il massimo”
all’interno dell’organizzazione può avere dei cospicui ritorni in termini di
redditività e rendere soddisfatti, in tal senso, tutti i manager che fanno capo
all’impresa stessa332.
4.5.1 Sulla condivisione e l’autenticità delle storie all’interno dell’impresa
Al fine di mantenere un equilibrio tra le diverse voci degli attori in scena, risulta
cruciale, in quest’ottica, la costruzione di un’ “aura” narrativa coerente e forte
all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Essa, partendo dagli input – o forse
sarebbe più corretto parlare di incipit – forniti dall’organo di governo
dell’impresa, dovrà, però, necessariamente scontare la partecipazione di una
varietà di individui ad essa collegati nell’ottica di una vera e propria co-creazione
dell’identità.
332
A proposito dei dubbi e delle ritrosie (dettati per lo più dalle lacune enciclopediche) dei
manager d’impresa sono particolarmente incisive e divertenti le parole di Denning che,
testimoniando la sua . seppur datata - esperienza nel campo del corporate storytelling afferma:
“Do stories really have a role to play in the business world? Believe me, I’m familiar with the
skepticism about them. When you talk about ‘storytelling’ to a group of hardheaded executives,
you’d better be prepared for some eye rolling. If the group is polite as well as tough, don’t be
surprised if the eyes simply glaze over.” S. DENNING, Telling stories, Harvard Business Review,
Watertown, 2004.
187
A tal riguardo è chiaro il monito di Czarniawska, per la quale “non basta scegliere
un’identità attraente e poi presentarla con l’aiuto di una retorica appropriata.
L’identità deve essere accettata dagli attori coinvolti”333. Secondo l’autorevole
autrice polacca, la semplice presentazione di una storia o di un set di storie da
parte dei vertici dell’azienda in maniera rigidamente verticale (top-down) non
rappresenta la maniera migliore per ottenere accettazione ed adesione da parte
delle persone coinvolte. Quest’ultime, infatti, per essere davvero coinvolte e
motivate nei discorsi intorno all’organizzazione devono assurgere a vere
protagoniste della creazione dell’identità, attraverso l’ascolto delle loro
testimonianze e la valorizzazione dei loro contributi (Storylistening). Dello stesso
avviso è Christian Salmon, per il quale lo storytelling “è un’operazione più
complessa di quanto si potrebbe credere a prima vista: non si tratta soltanto di
“raccontare storie” ai dipendenti, di nascondere la realtà con un velo di invenzioni
ingannevoli, ma anche di far condividere un insieme di credenze atte a suscitare
l’adesione e di orientare i flussi di emozioni, di creare insomma un mito collettivo
vincolante.”334
L’approccio narrativo può intervenire, quindi, anche in questa prospettiva, dal
momento che “uno dei [suoi] punti di forza sta nel fatto che esso è in grado di
dare voce ad un ampio spettro di attori organizzativi, mostrando in che modo le
loro interpretazioni della realtà organizzativa possono corrispondere o differire”335
contribuendo, in questo modo, a renderle credibili e coerenti grazie alla
negoziazione del senso partecipata.
Altro vantaggio dello organizational storytelling interno, poi, consiste nella
ricostruzione dell’autenticità e della spontaneità degli attori organizzativi poiché
permette a quest’ultimi di non recitare astrazioni e contesti formulate da altri, ma
di articolare in prima persona storie che diventano la testimonianza di un proprio
vissuto personale, fatto di realtà proprie, di eventi, di emozioni e di colori unici ed
irripetibili. Questo aspetto, in particolare, risulta decisivo nell’ottica d’impresa
333
B. CZARNIAWSKA, Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale,
Edizioni di Comunità, Milano, 2000, p. 217
334
C. SALMON, C, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits,
Paris, 2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008, p. 61.
335
B. CZARNIAWSKA, Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale, cit.,
p. 5.
188
poiché, attraverso l’incentivazione del racconto libero e schietto del sé all’interno
dell’azienda da parte dei dipendenti che vi lavorano, permette all’organo di
governo di “tastare il polso” della situazione all’interno dell’organizzazione ed
individuare quali sono le criticità sulle quali intervenire336.
4.5.2 L’organizational storytelling secondo Van Riel
Nel suo libro “The expressive organization: linking reputation, identity and
corporate brand”, Van Riel pone subito al centro la storia aziendale: “I shall claim
that communication will be more effective if organizations rely on a so-called
sustainable corporate story as a source of inspiration for all internal and external
communication programs. Stories are hard to imitate, and they promote
consistency in all corporate messages”. L’eminente studioso olandese intende la
corporate story come una storia unica, distintiva ed irrepetibile, in grado di
differenziare l’azienda rispetto ai propri concorrenti attraverso la creazione di un
vero e proprio vantaggio competitivo. Essa viene a configurarsi, dunque, come
una solida e proficua fonte di ispirazione in riferimento all’implementazione di
qualsivoglia piano di comunicazione o di management. Per Van Riel, inoltre, la
“storia d’impresa” costituisce non soltanto il nucleo della personalità dell’impresa
ma, allo stesso tempo, la “pietra angolare” sulla quale sono costruiti tutti i racconti
facenti capo all’organizzazione (“An ideal (normative) sustainable corporate story
is a realistic and relevant description of an organization, created in an open
dialogue with stakeholders the organization depends upon”337). È per assurgere a
tale ruolo che, prosegue Van Riel, essa deve riportare quattro caratteristiche
fondamentali, ossia debba essere:
336
Un singolare esempio di Organization Storytelling è quello che dei lavoratori “Agile” - ex
“Eutelia” – e del loro libro Il tempo senza lavoro, curato da Massimo Cirri, che raccoglie le
testimonianza di 12 lavoratori dell’azienda (a loro volti coadiuvati nella scrittura dalla Scuola
Holden). Il libro racconta le tormentate vicende professionali ed umane dei lavoratori Agile –
Eutelia - i cui manager sono finiti in tribunale per aver sottratto più di 30 milioni di euro
all’aziende - alle prese, loro malgrado, con lo stato di inoccupati. Il libro è una sorta di “catarsi
collettiva” in cui la scrittura, sotto forma di testimonianza dei propri vissuti, delle proprie emozioni
e dei propri tormenti, diventa terapeutica e mette su carta i disagi interiori nella speranza che essi
vengano al più presto risolti (il processo è tuttora in corso).
337
C. B. M .VAN RIEL – J. M. T. BALMER, Corporate identity: the concept, its measurament
and management,” European Journal of Marketing”, volume 6, 1997.
189
- Distintiva, perché i portatori di interesse siano consapevoli che il messaggio
intrinseco che la storia reca in sé costituisce un valore aggiunto dell’impresa,
rendendo l’intero racconto unico ed irripetibile.
- Realistica, in modo tale che gli stakeholder la intendano come il “nucleo
pulsante” dell’azienda, che di quest’ultima rappresenta i valori e gli ideali,
scortando le sue peculiarità e le sue competenze.
- Interattiva, nel senso che corporate story deve avere una natura dinamica: essa
è non è costituita a priori, ma prodotta e riprodotta incessantemente dalla continua
interazione e dal continuo confronto fra portatori di interesse interni ed esterni.
Tale dialettica deve essere in grado di valutare e “soppesare” di volta in volta la
rilevanza e la credibilità dei racconti, attraverso continui feedback inernti alle
percezioni interne ed esterne all’impresa, nonché alle esigenze da parte delle
audience di riferimento.
- Sostenibile, strettamente relata con quella precedente, la caratteristica della
sostenibilità è quella probabilmente più importante a parere dello stesso Riel.
Nella fattispecie, ogni corporate story “will only be sustainable if it succeeds in
finding and maintaining the right balance between the competing demands of all
relevant stakeholders and the desire of the organization itself”.
Il concetto di sostenibilità, dunque, si estrinseca essenzialmente nel balance tra le
richieste dei portatori d’interesse, da una parte, e i valori e i desideri
dell’organizzazione stessa dall’altra.
4.6 Il Marketing Storytelling
Il focus di questo paragrafo è posizionato sullo storytelling applicato alla
comunicazione esterna d’impresa, segnatamente per quel che concerne la
comunicazione pubblicitaria, la quale rappresenta, a tutt’oggi, l’investimento più
importante a livello finanziario che le imprese periodicamente effettuano allo
scopo di comunicare con i loro pubblici esterni. Essa, di fatto, costituisce un ponte
190
di collegamento tra le organizzazioni, i mercati in cui quest’ultime agiscono e i
loro stakeholder di riferimento.
Sintetizzando ancora con Fontana, gli obiettivi dello storytelling esterno
d’impresa possono consistere nel:
1) Convincere a comprare i propri prodotti e servizi facendo leva su la
razionalità e la logica;
2) Enfatizzare le componenti emozionali dei prodotti e servizi (per
manipolare l’impulso irrazionale di acquisto compulsivo);
3) Persuadere nella legittimazione dei propri valori ideali (qui si “compra”
un set di idee guida).
4) Coinvolgere nell’esperienza di consumo, ormai teatralizzata, per generare
un riconoscimento tra le autobiografie umane e le autobiografie delle
marche-prodotti.338
Nel contesto economico attuale, che si contraddistingue per l’ipercompetitività del
mercato e per una crescente omogeneità oggettiva dei prodotti in commercio, è
divenuto ormai necessario per le imprese fare appello alle proprie peculiarità più
soggettive e meno imitabili, quali sono appunto i valori, la cultura, e le storia
(intesa come core corporate story) che caratterizzano la marca.
Inoltre, data la crisi imperversante dei mercati internazionali, i consumatori hanno
sviluppato mediamente, negli ultimi anni, una maggiore attenzione al rapporto
qualità/prezzo inerente alle merci e ai servizi, e, di conseguenza, una minore
propensione alla fedeltà alla marca; ciò non ha fatto altro che rendere ancora più
urgente l’impiego di strumenti comunicativi in grado di coinvolgere fortemente il
pubblico dei consumatori – sempre meno attento e affascinabile e con un reddito
sempre più basso - al fine di renderlo partecipe ed immedesimarsi nei valori e
nella storia del brand.
D’altronde, da quanto si è discusso a proposito delle caratteristiche e delle
specificità dell’approccio narrativo, emerge chiaramente come, nel momento in
cui un brand sceglie di comunicare i benefit del proprio prodotto attraverso la
338
A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p.36.
191
modalità narrativa, esso non comunicherà soltanto il prodotto in quanto tale, ma lo
arricchirà di suggestioni ed emozioni che trascendono la dimensione oggettivodescrittiva della merce e mirano al coinvolgimento diretto dei destinatari del
messaggio. Tali elementi “aggiuntivi”, dunque, renderanno la comunicazione
stessa maggiormente accattivante per il pubblico consumatore, incrementandone,
allo stesso tempo, la memorabilità e la distintività rispetto alle imprese
competitor.
A tal proposito è “radicale” il parere di Jensen secondo cui sono proprio le storie
in sé a determinare la nascita dei brand, arrivando a sostenere come “solo quando
la storia è stata raccontata ad un numero sufficiente di consumatori ed essi sono in
grado di ricordarla, allora l’azienda potrà affermare di avere un brand”339.
Ogni impresa, in effetti, ha un passato ricco di avvenimenti, una genesi da
raccontare, dei fondatori (o compratori) da rendere mitici e una cultura, un
insieme di valori, ideali e competenze che le rendono uniche e che le hanno
condotto allo sviluppo e alla definizione della strategia di business; è proprio tra
questi elementi firm-specific che le storie devono attingere il loro materiale,
raccontando ai suoi pubblici l’universo della marca e dei suoi prodotti, e
conducendoli all’interno del proprio immaginario.
In particolare, le storie inerenti ai prodotti possono essere: costruite insieme a
quest’ultimi; realizzate ad hoc per un particolare momento; prese in prestito dalle
arti o dalla cultura popolare. Qualunque sia la loro origine, però, esse devono
essere coerenti con la strategia e la vision aziendale, nell’ottica di un’aderenza fondamentale per ogni organizzazione - tra brand personality, brand identity e
brand image.
L’uso delle storie nella comunicazione pubblicitaria, come è ben noto, ha radici
lontanissime. In Italia, ad esempio, fin dai tempi di Carosello, quando le finalità
commerciali delle pubblicità erano annacquate e concentrate nel famoso “codino”
finale, la pubblicità ha raccontato delle storie, costruendo, a partire dalla fantasia
dei creativi, contesti narrativi fantastici per coinvolgere, emozionare o
semplicemente divertire l’audience dei consumatori/spettatori. Si tratta, in termini
339
R. JENSEN, The Dream Society. How the Coming Shift from Information to Imagination Will
Transform Your Business, McGraw Hill, New York, 1999, p. 56.
192
più attuali, del cosiddetto “advertinment”340(risultato della crasi tra “advertising”,
“pubblicità”, ed “entertainment”, ossia “intrattenimento”) che unisce in un unico
artefatto mediale gli scopi commerciali di un particolare brand - con l’obiettivo di
pubblicizzare e favorire la propensione all’acquisto presso i consumatori - con
quelli inerenti al divertimento, e in generale al coinvolgimento emotivo, da parte
dello stesso pubblico. La finzionalità della pubblicità contemporanea viene, così, a
configurarsi come la produzione (e la promozione) di esperienze che trascendono
le dicotomie vero-falso, apparenza-esistenza, assumendo significati inusitati e
innovativi. A sua volta, l’alone immaginifico e narrativo di cui sono avvolti i
prodotti, è divenuto, con il passare degli anni, parte integrante del loro stesso
valore economico all’interno del mercato, assurgendo ad asset ormai
imprescindibile per qualsivoglia bene o servizio.
Se fin da tempi lontanissimi, infatti, la comunicazione pubblicitaria ha fatto leva
su precisi meccanismi propri della narrazione allo scopo di destare l’attenzione del
suo pubblico, è con l’avvento dell’era postmoderna che le marche hanno iniziato a
costruire intorno al prodotto un vero e proprio “mondo possibile”341 inscindibile
dal prodotto stesso, un immaginario valoriale (e “sensoriale”) e che in molti casi
viene a configurarsi come elemento davvero distintivo per i brand ed essenziale
nella scelta del consumatore, più di quanto non lo siano gli aspetti materiali e
tangibili.
340
P. MUSSO, Advertainment. La comunicazione pubblicitaria alle soglie del Duemila,
in “Comunicazioni Sociali”, N.2, Anno XXI, Aprile-Giugno 1999, Vita e Pensiero, Pubblicazione
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pp. 246-256.
341
La nozione di “mondo possibile” di Umberto Eco, con la quale si intende un costrutto culturale
ipotizzato dal destinatario, che possiede una natura narrativa contenente valori, attori e situazioni e
che configura un possibile corso di eventi, è stata declinata da Andrea Semprini nei mondi
possibili della marca. Secondo Semprini, tutti i mondi possibili di marca sono principalmente
caratterizzati dalle seguenti caratteristiche: una natura funzionale (anche se tale natura può
apparire come particolarmente vicina alla realtà quotidiana, e può dunque impiegare un linguaggio
quotidiano); un’elevata coerenza interna; la capacità di produrre un elevato livello di
differenziazione rispetto agli analoghi mondi possibili delle marche concorrenti; la capacità di
selezionare un proprio specifico pubblico.
I mondi possibili di marca, secondo l’eminente studioso italiano, sono dei mondi virtuali che
possono attualizzarsi soltanto con la partecipazione diretta del destinatario finale. La marca in sé,
dunque, non costruisce il mondo possibile in maniera autoreferenziale ma sono i consumatori che,
aderendo alla costruzione immaginaria della marca stesa, attribuiscono al mondo una vera
esistenza. Cfr. A. SEMPRINI, Marche e mondi possibili. Un approccio semiotico al marketing
della marca, Franco Angeli, Milano, 1993.
193
Le merci contemporanee, infatti, possono essere identificate con quelle che
Carmagnola definisce delle vere e proprie “merci immaginarie”342 il cui
“fantasma” che vi si cela dietro, però, non è un fantasma nefasto o ingannatore,
bensì un “disvelatore", un dispositivo di valorizzazione dell’identità che ha
bisogno di processi narrativi per riconoscersi e viversi”343. Una merce “mitica”,
dunque, è una merce in sé ad alto coefficiente narrativo, inserita in strutture
tipiche – o per meglio dire, archetipiche – che nasce e si sviluppa all’interno
dell’incertezza esistenziale e comportamentale della società: a partire da
quest’ultima, essa è in grado di creare risposte “oggettive” e credibili che
diventano vere e proprie strategie di vita per ciascun individuo, acquisendo così,
un carattere quasi divinatorio e numinoso. Essa è in grado di fornire molteplici
risposte a più esperienze di vita, dall’immaterialità alla praticità, ma la sua essenza
sta, prima di tutto, nell’essere “merce autobiografica” che fornisce risposte alle
“forme di vita” delle persone, addirittura, in alcuni casi, orientandole e
definendole ex-novo. 344
In questo senso la narrazione può costituire, così, un ottimo volano per le imprese
nella definizione, prima, e nella trasmissione poi, dell’immaginario di marca,
incrementando l’appeal emozionale legato ai prodotti e alla loro comunicazione,
nonché il valore della marca in generale. Le storie, infatti, riescono ad avere una
forte presa sul pubblico, dal momento che trasportano quest’ultimo direttamente
nell’universo della marca, facilitando in maniera esponenziale la comprensione
dei fatti, l’evolversi degli avvenimenti e delle azioni legate all’impresa, nonché
l’assimilazione dei valori ad essa relati. Agisce ancora una volta, attraverso la
narrazione - in questo caso pubblicitaria -, quella atavica forza che “instaura”
l’individuo nel mondo che abita e nella sua stessa esistenza, spingendolo,
attraverso l’eterna moltitudine di progetti, conflitti, eventi, cambiamenti e
342
F. CARMAGNOLA, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction
economy, Mondadori, Milano, 2006.
343
A. FONTANA, Manuale di Storytelling, cit., p. 77.
344
Sull’importanza degli aspetti immateriali legati alla marca, e in generale, sulle sue implicazioni
psicologiche e culturali all’interno della società contemporanea si confronti, oltre al già citato
Semprini, tra gli altri, L. MINESTRONI, L'alchimia della marca, Franco Angeli, Milano, 2002,
L. MINESTRONI, G. FABRIS, Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca
di successo, Franco Angeli, Milano, 2004, J.M. FLOCH, Semiotica, marketing e comunicazione.
Dietro i segni, le strategie, trad. it., Franco Angeli, Milano, 2003, G. MARRONE, Il discorso di
marca, modelli semiotici per il branding, Laterza, Roma-Bari, 2007.
194
trasformazioni ineluttabili, verso una determinata direzione all’interno della
propria esistenza.
D’altronde, le “storie dell’impresa” sono del tutto riconducibili a quelle che
l’uomo si racconta ogni giorno dalla notte dei tempi, le cui strutture portanti e
figure tipiche principali sono state messa in evidenza, come abbiamo visto nel
primo capitolo, da studiosi eminenti del calibro di Vladimir Propp. Sulla scorta di
quest’ultime, dunque, non risulterà ostico equiparare, in una sorta di “metanarrazione” il percorso di vita delle persone a quello del brand, il quale, così come
ogni Eroe che si rispetti, persegue degli obiettivi - segnatamente economici ma
anche intangibili legati alla brand loyalty - in vista del raggiungimento delle sue
Nozze e del suo Incoronamento (che può essere inteso sotto diverse forme, la cui
principale si sostanzia nell’acquisto di nuovi clienti e/o la fidelizzazione di quelli
esistenti), scontrandosi e duellando con diversi Antagonisiti (principalmente i
competitors dell’impresa stessa) ma coadiuvata da personaggi o fattori favorevoli
alla sua azione (su, tutti, gli stessi stakeholder dell’impresa che con il loro
consenso permettono a quest’ultima di perseguire gli obiettivi di cui sopra,
venendo ad assurgere al ruolo di Aiutanti/Donatori). Per quanto riguarda i
messaggi veicolati tramite le storie rappresentate all’interno delle singole
campagne pubblicitarie e dei singoli annunci/spot, il discorso è assai simile e per
lo più si riduce ad una struttura narrativa semplice e corroborata nei decenni. Essa
consiste, il più delle volte, nella presenza di un eroe – che può essere anche un
“uomo qualunque” oppure un autentico antieroe - alle prese con un ostacolo o
comunque un problema (Antagonista e suo Danneggiamento) che gli impedisce di
raggiungere il proprio obiettivo (Nozze e Incoronamento); obiettivo che egli riesce
a raggiungere grazie all’impiego del Mezzo magico (ossia lo stesso prodotto
pubblicizzato).
Le marche, così come i miti di cui abbiamo trattato all’interno del primo capitolo,
si muovono sul terreno dell’ideologia, dei sogni, delle emozioni e degli affetti più
intimi dell’individuo. L’integrazione sociale del mito sta proprio nella sua
capacità di congiungere il sogno privato con quello collettivo, coltivando in sé una
promessa che, parlando all’individuo nella sua unicità, si allarga a tutti mediante
scale di valori e strutture di senso universalmente riconoscibili.
195
La forza dello storytelling, in questo senso, sta nel coinvolgimento diretto
dell’audience di riferimento e nell’intercettazione delle tracce emotive ed
esperienziali inerenti alle biografia di ognuno.
Come afferma Fontana, infatti, “lo storytelling diventa marketing autobiografico
perché la memoria d’impresa, consapevole della vita sul territorio in cui si trova
ad operare e responsabile in qualche modo di essa, intercetta e si fonde con la
memoria autobiografica dei diversi soggetti a cui l’impresa tenta di rivolgersi. Il
brand che si racconta diventa una delle principali istanze mitopoietiche delle
società avanzate, generatrici di senso e di significati condivisi.”
Lo storytelling, in definitiva, viene a configurarsi come un utile strumento di
supporto alla comunicazione d’impresa - sia interna che esterna -, contribuendo a
migliorare l’impatto, la credibilità, l’efficacia e la memorabilità dei messaggi
trasmessi ai propri stakeholders di riferimento, nell’ottica di una maggiore
coerenza tra brand personality, brand identity e brand image345. Attraverso di
esso le imprese assurgono al ruolo di “cantastorie” dell’era contemporanea,
canalizzando le traiettorie emotive ed esperienziali comuni a ciascun
consumatore/spettatore al fine di condurre quest’ultimo nella dimensione
universale ed eterna – diremmo noi “archetipica” – delle umane vicissitudini.
Ed è proprio l’immedesimazione, in ultima analisi, il grimaldello fondamentale
che apre le porte che separano il brand e lo spettatore/consumatore e dà il via a
quella “corrispondenza di sensi” la quale, seppur non propriamente “amorosa”,
risulta quantomeno empatica e, addirittura, pregna di infinito.
345
A tal proposito Jon Thomas, in un articolo sul digital storytelling (ovvero sullo storytelling
diffuso sul Web) apparso su “postadvertising.come” riassume in 7 punti le ragioni per il quale esso
risulti importante per la comunicazione d’impresa. Nello specifico, secondo l’autore:“stories
produces experiences - reveal what makes your message unique - are the emotional glue that
connects you to your customers, - shape information into meaning, - can motivate an audience
toward your goal - are more likely to be shared - are less likely to be resisted.”
http://www.postadvertising.com/2012/08/7-reasons-storytelling-is-important-for-branded-content/
196
4.7 Storytelling e spot pubblicitari: due esempi
Le storie ai tempi di Carosello: Unca Dunca e le caldaie Riello
Procediamo ora all’analisi, attraverso le funzioni e i personaggi tipici della teoria
di Propp (cfr. par. 1.8.1) di uno spot basato su di un plot narrativo346 che risale ai
tempi del glorioso Carosello, il già citato - e sterminato - contenitore di storie
inerenti alle imprese (oggi riproposto, seppur in forma ridotta e differente rispetto
all’originale, sulla rete ammiraglia Rai nel prime time serale). Lo spot in
questione347 risale al 1961 e fa parte di una lunga serie di spot andati in onda tra il
1961 al 1970. Esso pubblicizza una (allora) nota marca di caldaie e condizionatori
costruiti in Veneto ed ha come protagonista "Unca Dunca", uno stralunato
indiano, disegnato dalla matita di un giovane Bruno Bozzetto, uno dei più celebri
cartoonisti italiani.
La storia inizia con “Unca Dunca” (l’Eroe), capo del villaggio di indiani
d’America, ritratto felice e sorridente sul suo trono mentre incalza frenetica la
colonna sonora dello spot (nella quale spicca la presenza del tamburo, il più
classico degli strumenti tribali). Il protagonista riceve subito un monito - cantato
- da quello che sembra essere il vecchio sciamano del villaggio (il Mandante), il
quale lo avverte di un pericolo imminente: l’intenzione da parte di Giaguaro
Pezzato (l’Antagonista) di detronizzarlo e privarlo della sua stessa capanna
(Danneggiamento). A questo punto Unca Dunca, spronato dal suo mentore ad
intervenire (Mediazione, momento di connessione), è afferrato e portato via di
peso da un gruppo di uomini (Donatori) che, una volta poggiato a terra il sovrano,
gli porgono frusta, scudo e cavallo per prepararlo al duello (Fornitura). Unca
Dunca, convinto ormai di sconfiggere il suo nemico parte per il deserto (Partenza)
in sella al suo pigro e inebetito cavallo (l’Aiutante), una sorta di Ronzinante del
vecchio West. Qui incontra, per la strada, degli improbabili cartelloni pubblicitari
346
Per quel che riguarda le storie dell’advertainment , esse possono auto concludersi in un solo
spot (è il caso dei 2 esempi presi in esame), oppure dispiegarsi su intere campagne pubblicitarie
che possono occupare anni ed anni di programmazione televisiva (si pensi, solo per restare nel
nostro Paese alle campagna Tim che segue le avventure della celebre cantante-ragazza qualunque
Chiara Galiazzo) . Il tema della serialità, meccanismo di produzione testuale che risale ai romanzi
a puntate – i cosiddetti feuilleton – della Francia di inizio ‘800, è argomento articolato e
meriterebbe, perciò, una trattazione a parte. Per un approfondimento si rimanda a A. CICALESE,
Fatti di consumo, cit., Cap V, “Serialità e transtestualità”, p. 101.
347
http://www.youtube.com/watch?v=LscaNw48iM8
197
dotati di visual e headline che raffigurano il Giaguaro pezzato ritratto con la sua
proverbiale frusta in atteggiamenti intimidatori: i cartelli recitano, nell’ordine:
“Giaguaro Pezzato…”, “Schianta, devasta, polverizza” e “Pussa via!”
(Trasferimento tra due reami). Il protagonista arriva, dunque, al cospetto del suo
nemico che gli fa subito una dimostrazione della sua forza e della sua abilità
riducendo in tanti pezzettini una mela che pende dal ramo di un albero con il solo
uso della sua fedele frusta. Unca Dunca ne rimane impressionato e, fuggendo
dalle prime scoccate della temibile arma (Lotta), si nasconde dietro un grande
masso. Il riparo di fortuna però, si rivela precario, dato che Giaguaro Pezzato in
pochi colpi riserva alla pietra la stessa sorte che aveva serbato alla mela poco
prima. A questo punto Unca Dunca rimane scoperto ed indifeso e Giuaguaro
Pezzato con un colpo gli taglia in due la sua amata penna, simbolo del suo potere
e della sua stessa identità (Marchiatura). È qui che Unca Dunca si vede ferito nel
profondo, si arrabbia e imbraccia anch’egli la sua frusta, sbattendola a terra con
decisione. Quest’ultimo, non fa in tempo a mostrare preoccupazione e paura per lo
slancio del suo avversario che viene subito colpito dalla sua frusta, la quale gli
taglia entrambe le penne che porta sul capo, tutti i suoi capelli e persino parte del
vestito che porta addosso, costringendolo a raccoglierlo e tenerlo su prima che si
sfili del tutto mostrando la sua indignitosa e comica nudità. Giauguaro Pezzato,
sconfitto ed umiliato nel profondo, fugge a gambe levate (Vittoria) abbandonando
definitivamente le sue manie di sopruso (Rimozione della sciagura o della
mancanza). Unca Dunca, dopo aver esclamato un altro dei suoi proverbiali
“Augh!”, fa ritorno al suo villaggio (Ritorno) e viene sollevato di peso - questa
volta per inneggiare alla sua vittoria - da una folla festante con tanto di cartelloni
dedicati che lo restituisce al posto che gli compete, il suo trono, incoronandolo
con una grande corona di penne, proprio come quella che aveva in testa prima
dell’allontanamento (Nozze e Incoronamento). A questo punto lo spot termina con
Unca Dunca, felice e rilassato sul suo amato trono, che ferma la musica
esclamando un sonoro “Sileeeenzio! Ora voglio stare tranquillo!”, al quale
risponde una schiera di personaggi sorridenti che urlano insieme “Riello”, il nome
della marca che con un’assonanza chiude il cartone animato e introduce al codino
pubblicitario finale (staccato, come è ben noto, dai valori di marca).
198
“Thank you, Caregiver”, lo spot Procter and Gamble
Pervenendo alla narrazione pubblicitaria contemporanea, segnatamente per quel
che riguarda gli spot pubblicitari, gli esempi di storytelling sono innumerevoli.
Essi si contraddistinguono soprattutto per la loro spettacolarità - legata spesso a
ricercati artefici cinematografici e letterari - e per la loro brevità, che costringe
imprese e creativi a condensare i racconti nello spazio di poche decine di secondi.
Le storie così, divengono un “concentrato di senso” che, a partire da una struttura
narrativa essenziale e un numero ridotto di figure del discorso, si propaga nella
mente dello spettatore/consumatore permettendogli, in questo modo, di collegare
tra loro tutte le isotopie soggiacenti al testo.
È il caso, ad esempio, dello spot Procter & Gamble348, inserito nella campagna
pubblicitaria apparsa sugli schermi a partire dalla primavera del 2012, che ha
come protagonista la categoria delle mamme e come tema di fondo di quello degli
(allora) imminenti giochi olimpici svoltisi a Londra nell’estate dello stesso anno.
Il commercial, firmato dal regista messicano Alejandro González Iñárritu e
dall’agenzia Wieden&Kennedy, mette in scena quattro madri che in quattro
diverse città del pianeta, Londra, Rio De Janeiro, Los Angeles, Pechino,
accompagnano e assistono i propri figli piccoli nelle loro attività sportive
(rispettivamente la ginnastica, la pallavolo, la corsa e il nuoto). Le immagini, che
scorrono all’interno di un montaggio alternato accompagnate splendidamente
dalle note del brano “Divenire” ad opera di Ludovico Einaudi, mostrano le
mamme impegnate prima a dare la sveglia ai propri piccoli assonnati, mentre
ancora albeggia il sole, e poi a preparare loro con cura la colazione. Dopo il pasto
mattutino è tempo di prepararsi ed uscire per andare agli allenamenti, i quali si
svolgono sotto gli occhi attenti e amorevoli delle madri, che guardano i loro figli
impegnarsi e divertirsi. Si vedono, poi, le stesse mamme alle prese i vari
trasferimenti in macchina, con le faticose faccende di casa (inerenti soprattutto al
lavaggio e alla cura degli indumenti sportivi dei loro bimbi) e, nel caso della
mamma afro-americana di Los Angeles, affaccendate a curare le ferite e i traumi
riportati dall’attività fisica. Scorrono poi, le immagini delle mamme che incitano e
incoraggiano i propri figli durante i duri allenamenti a cui sono sottoposti: si vede,
348
http://www.youtube.com/watch?v=0ruHOaHrGnQ
199
ad esempio, la mamma cinese che sul bordo della piscina segue bracciata per
bracciata l’incedere della propria figlia in acqua, mentre è la mamma americana
che rassicura con un affettuoso sguardo la sua bambina che ha appena sbagliato
un esercizio con la sbarra. A questo punto la scena cambia e la bambina, cresciuta
dopo l’ellissi temporale, si ritrova ad eseguire il suo esercizio sulla pedana delle
olimpiadi di Londra 2012 in un’arena gremita di pubblico, mentre la colonna
sonora incalza ed aumenta il tempo. Stessa cosa accade al ragazzino nero che,
cresciuto, dalla palestra della sua città si ritrova a scattare sulla pista olimpica in
uno stadio tambureggiante, poi alla giovane nuotatrice cinese, che appare in
televisione sotto gli occhi ansiosi ed emozionati di amici e parenti e il pallavolista
e infine al pallavolista brasiliano che, con un abile effetto della regia, si solleva
per schiacciare la palla sulla sabbia della spiaggia di Rio per poi ritrovarsi, ormai
adulto,a segnare il punto in un palazzo dello sport di Londra. A questo punto le
immagini tornano sulla ginnasta che, una volta eseguito l’esercizio, corre
emozionata ad abbracciare la sua mamma sugli spalti; il forte impatto emozionale
della scena è accentuato dal “rallentamento” della musica che fa sì che tutta
l’attenzione e il raccoglimento del pubblico siano dedicati al momento del
ricongiungimento commosso e liberatorio tra mamma e figlia). Grondanti di
lacrime sono anche gli occhi della mamma cinese che, dopo la vittoria della figlia
e la sua dedica personale affidata all’obiettivo della telecamera, non trattiene la
commozione. È il turno, poi del centometrista americano che, vinta la gara si
inginocchia esultante ed esausto sulla pista e manda un bacio alla sua mamma, la
quale, in piedi nel pubblico, congiunge le mani quasi a voler accennare una
preghiera mentre i suoi occhi si arrossiscono e si allarga sul suo volto un sorriso
pieno di contentezza e di amore. Infine è il turno del pallavolista che corre
esultante ad abbracciare la mamma, la quale lo prende per il collo, gli dice
qualcosa e lo abbraccia fortemente mentre la folla intorno è impazzita di gioia. A
questo punto sullo schermo, davanti ad uno sfondo interamente bianco, appare la
frase “The hardest job in the world, is the best job in the world”, seguito da un
semplice ma quanto mai efficace “Thank you, mom”, a riassumere l’enorme
impegno e dedizione che comportano il “mestiere di mamma” ma, al contempo, le
grandi soddisfazioni che esso regala nel momento in cui i figli mettono a frutto il
200
loro sacrifici e i loro insegnamenti. Lo spot si chiude e con il logo dell’azienda e il
pay off finale “P&G, Proud sponsor of moms” che viene anche recitato da una
voce fuori campo, rigorosamente femminile.
Il commercial, puntando sulla rappresentazione di vicissitudini autobiografiche e
sull’infrangibile legame mamma-figlio/a comune a tutti gli individui, genera una
sicura presa emotiva nello spettatore che non può fare a meno di immedesimarsi
nelle vicende dei giovani atleti e delle loro amorevoli mamme, fino a gioire e a
commuoversi con loro. A questo punto, è spianata la strada per il messaggio finale
della marca, il quale sembra rivolgersi a tutte le mamme del mondo e dire
“Conosciamo il tuo passato, la tua vita quotidiana, i tuoi sacrifici e il tuo impegno:
per questo ti forniamo prodotti che rispecchiano proprio quello di cui hai
bisogno”.
L’analisi dello spot da un punto di vista delle strutture “archetipiche” della
narrazione è intuitiva e, come si accennava prima, si riduce a pochi ma incisivi
passaggi. I protagonisti dello spot sono i bambini (poi divenuti giovani donne e
uomini) che assurgono ad Eroi in uno dei più classici contesti “mitici” ed epici
contemporanei: quello dello sport. La loro meta, o almeno il loro sogno nel
cassetto, è quello di vincere
un giorno le olimpiadi. Essi
sono assistiti e
incoraggiati ad ogni loro passo dalle loro madri (Aiutanti, Donatori, Mentori e, in
realtà, co-protagoniste a tutti gli effetti) che, attraverso il sacrifico e l’attenzione
quotidiana profusa nei confronti dei loro piccoli, aiutano quest’ultimi a superare le
delusioni, gli scoraggiamenti, gli ostacoli (anche logistici), le ferite (anche fisiche)
e tutte le difficoltà che incontrano sul proprio cammino da giovani atleti (le quali
rappresentano, metaforicamente, l’Antagonista).
Dopo i tanti anni di “gavetta” e di allenamenti duri e, dall’altra parte, di
insegnamenti, cure ed affetto da parte delle loro madri (in qualche modo una
Fornitura del Mezzo Magico ), i giovani finalmente arrivano a gareggiare nella
massima competizione sportiva, ritrovandosi dalle palestre e dai campetti di casa a
calcare i palcoscenici più importanti a livello mondiale (un vero e proprio
Trasferimento tra due reami). A questo punto gli atleti, sulla scorta della lunga e
sofferta preparazione, sfoggiano finalmente la loro performance in gara (ossia la
Lotta sportiva), trionfano con grande gioia ed esuberanza (Vittoria) e corrono
201
sugli spalti ad abbracciare le loro madri, a cui è dedicata la vittoria stessa. Tale
commosso ricongiungimento può essere letto come un Ritorno metaforico alla
dimensione affettiva e domestica (gli atleti “tornano” letteralmente tra le braccia
delle madri, le stesse braccia che da piccoli li sollevavano dal letto per prepararli
ad uscire) laddove, in seconda battuta esso è un coronamento delle Nozze, in senso
lato, tra mamma e figlio, stretti – e il caso di dirlo – in un amore perenne che non
conosce confini.
4.8. “Silénziati o diva”: i limiti del corporate storytelling
Come si è evinto dalla panoramica fin qui tracciata sullo storytelling d’impresa,
esso rappresenta una tecnica che incorpora numerosi e considerevoli vantaggi e
che permette alle imprese di comunicare con i loro pubblici di riferimento
attraverso uno strumento antico quanto efficace: le storie. Esistono, però,
all’interno di alcuni contesti di impresa e di mercato, dei casi in cui il corporate
storytelling, risulta essere inefficace o, al peggio, addirittura controproducente349.
Alvesson, a tal proposito, esprime forti perplessità a monte sull’efficacia del
corporate storytelling notando come “la capacità di una storia di rispecchiare
l’organizzazione […] è tutta da determinare”350 in quanto spesso le storie
diventano visioni strettamente parziali ed artefatte che esprimono soltanto il punto
di vista dei soggetti organizzativi che le producono e le diffondono.
349
Da un punto di vista strettamente manageriale Andrea Fontana riassume in 3 punti le
precondizioni organizzative che permettono allo storytelling di essere efficace ed evitare i rischi di
fallimento della comunicazione. A parere di Fontana, infatti, per un corretto e proficuo utilizzo
dello storytelling d’impresa c’è bisogno di: “’Sponsorship istituzionale “medio-forte”. Il
management, infatti, deve impegnarsi in prima persona nelle attività e diffondere gli eventuale
istrumenti. Il top manager deve sponsorizzare continuamente l’iniziativa e il middle manager deve
farla vivere concretamente sul campo e nelle varie funzioni.
Comunicazioni di supporto parallelo. Lo storytelling interno ha bisogno di continuo supporto,
soprattutto le prime volte che si introduce in un’impresa. Non ha nessun sesno generare un
bellissimo piano di employer branding usando logiche di programmazione narrativa per poi non
diffondere l’iniziativa anche con tutti gli altri strumento di comunicazione classici.
Il momento giusto per la giusta cultura d’impresa. Lo storytelling è un approccio che può essere
applicato a qualsiasi cultura d’impresa; è importante però saper collocare una storytelling
operation nel momento giusto, quando il pubblico è abbastanza maturo da voler partecipare agli
eventi interni. Prima sarebbe una forzatura percepita negativamente.” A. FONTANA, Manuale di
Storytelling, cit., p. 54.
350
M. ALVESSON, Prospettive culturali per l’organizzazione, Guerini e Associati, Milano, 1993,
p. 83.
202
Il principale “lato oscuro” del corporate storytelling, segnatamente per quel
concerne quello di tipo management, risiede proprio nel fatto che esso spesso
riflette una temperie proveniente da una minoranza organizzativa, oppure è
studiato a tavolino con l’unico scopo – in questo senso “propagandistico” - di
rafforzare l’ideologia dominante. Essendo le storie d’impresa legate, come è
ovvio, strettamente ai soggetti che le diffondono (la coalizione dominante) essa
riflettono la loro cultura e i loro valori e, per tale motivo, possono risultare
eccessivamente prescrittive e “calate dall’alto” anziché interattive e foriere di
confronti
e
dialettiche
interne
tra
dipendenti
e
organo
di
governo
dell’organizzazione. La storie in sé, d’altronde, essendo una costruzione fantastica
e soggettiva, si espongono a tutti i rischi di parzialità e distorsione, edulcorazione
e nascondimento della realtà nell’ottica di orientare - leggi manipolare - gli
atteggiamenti e i comportanti altrui.351
Si è già fatta menzione in precedenza, poi, del diffuso scetticismo che ancora
regna in buona parte della classe dirigente facente capo alle organizzazioni
odierne a proposito dell’impiego di strumenti “alternativi” di corporate identity
come può essere quello dello storytelling; essi, di fatto, alimentano la credenza
secondo la quale l’oggettività debba prevalere su ogni aspetto dell’impresa, dal
momento che “quando si sostiene una ragione occorre basarla sui dati di
fatto”352anche se si ha a che fare con elementi inquantificabili come il capitale
intellettuale. Stesso criterio è applicato, in quest’ottica, alla gestione e alla
trasmissione delle informazioni all’interno dell’organizzazione, quest’ultime
concepite come “un immenso database” il cui possesso della chiave è condizione
necessaria e sufficiente “per raggiungere un sapere definitivo”353. Le narrazioni,
invece, basandosi sostanzialmente sulla comunicazione di valori ed emozioni e
necessitando di un’interazione e della partecipazione attiva costante da parte dei
diversi attori organizzativi, provocano un’instabilità e un’insicurezza di fondo,
351
A proposito è interessante lo spunto fornito da Lars von Trier, celebre regista cinematografico
danese, il quale dichiara in maniera radicale che: “le storie sono il nemico […] un modo per
presentare al mondo un puzzle già risolto”.
http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/280000/278823.xml?key=Wu+Ming&first=1&orderby=0&f=f
ir.
352
J. ALLAN, G. FAIRTLOUGH, B, HEINZEN, The Power of the Tale: Using Narrative for
Organizational Success, John Wiley & Sons, 2001, trad. it., a cura di M. GAIARIN, Raccontare in
azienda. Storie e saghe nelle organizzazioni, ETAS, Milano, 2002, p.4.
353
Ibidem.
203
con il rischio di cadere nella continua, e perciò sterile ed asfittica, rielaborazione
dei fatti di impresa e delle esperienze personali ad essa legati.354
Secondo il già citato “decano” Steve Denning, infine, i casi in cui non è
inopportuno impiegare le storie nella comunicazione d’impresa sono diversi.
Prima di tutto, secondo lo studioso australiano, le storie non vanno raccontate
“quando l’audience non vuole una storia”; in particolare, quando ci si trova
davanti ad una comunicazione che deve essere imprescindibilmente informativa, e
ai racconti e alle emozioni ad esse legate, devono essere preferiti grafici, matrici
ed evidenze tangibili dei dati rilevati, laddove la loro assenza causerebbe scarsa
consistenza della comunicazione e farebbe nascere il sospetto di un premeditato e
scaltro nascondimento. A tal proposito, però, come ricorda lo stesso Denning,
“non bisogna dimenticare che spesso una storia può anche aiutare a comprendere i
numeri”, ossia rappresentare un valido supporto all’esposizione tecnico-oggettiva
delle informazioni, seppur non potendo sostituirsi completamente a quest’ultima
355
. Nessuna storia, poi, deve essere raccontate se essa “non è positiva” ovvero, se
è costruita a partire da una realtà di impresa non buona che tradisce diversi
“scheletri nell’armadio” dell’organizzazione in termini di condotta: il tentativo
nascondimento o la distorsione di eventi e comportamenti da parte dell’impresa
può essere accolta, infatti, come un’operazione particolarmente detestabile da
parte dei pubblici di riferimento. Non è opportuno, inoltre, procedere ad un
racconto se esso “non è pronto”: questo assunto si traduce nel fatto che, prima di
utilizzare una storia, essa deve “maturare” all’interno dell’organizzazione, essere
credibile e aderente ai suoi valori-guida, e soprattutto essere testata in maniera
fattiva attraverso feedback diretti da parte degli attori coinvolti. Infine, secondo
Denning lo storytelling non va utilizzato laddove le storie che si andrebbero a
raccontare risulterebbero ingannevoli per gli stakeholder di riferimento.
354
Altri autori, inoltre, hanno evidenziano il rischio che l’impresa-cantastorie si trasformi in una
sorta di “parco divertimenti a tema” ovvero un sistema chiuso, autosufficiente, avulso dalla realtà,
dalle sue problematiche e dalle sue fitte dialettiche: in altre parole “una condizione di equilibrio
entropico, che esclude per principio ogni sbocco sull’altrove”. G. QUALIZZA, Lo storytelling
nella comunicazione d’impresa, in “Tigor”: rivista di scienze della comunicazione , n.2 lugliodicembre 2009.
355
A tal proposito sono esemplari le lezioni di Hans Rosling, medico, professore e divulgatore
svedese che, sul sito della BBC sul suo canale YouTube fornisce uno sfoggio di come le
informazioni più tecniche e “fredde” possono essere, con l’ausilio della tecnologia digitale,
trasformate in storie appassionanti e memorabili. http://www.bbc.co.uk/programmes/b00wgq0l
204
Quantunque si tratti di uno strumento potente, in grado di esprimersi attraverso le
emozioni, le suggestioni e le note più disparate, esso non deve rappresentare,
ancora una volta, un modo per edulcorare oltremodo la realtà delle cose o, peggio
ancora,
distorcerla.
Il
concetto
di
autenticità,
accennato
a
proposito
dell’organizational storytelling, vale, in realtà, per tutte le aree di comunicazione
dell’organizzazione, dal momento che i racconti destinati ai vari pubblici di
interesse, seppur acquistando necessariamente un carattere favolistico e
finzionale, devono obbligatoriamente rispettare la verosimiglianza e la plausibilità
del discorso che si porta avanti. Un comportamento menzognero in effetti,
potrebbe in un primo momento dare facili e subitanei vantaggi nel breve periodo laddove si va ad “ammaliare” lo spettatore/consumatore con fatti e promesse
scarsamente aderenti alla realtà del brand, - ma, allo stesso tempo, esso potrebbe
rivelarsi nel medio e nel lungo termine un pericoloso “boomerang” in termini di
fiducia da parte dei portatori di interesse sell’impresa356.
Il monito di Denning è quello di non considerare “lo storytelling come una
panacea” ma di pianificare e controllare il flusso narrativo sulla scorta della storia
e della cultura aziendale e in base a precisi obiettivi strategici dell’impresa,
tenendo presente che la falsità e l’eccessiva manipolazione dei messaggi finisce a
lungo termine per intaccare la credibilità e fiducia che i pubblici nutrono nei
confronti dell’organizzazione stessa. A tal riguardo è di fondamentale importanza
il fatto che le storie, senza il traino delle azioni concrete dell’impresa, rischiano di
tramutarsi in chiacchiere vacue che non fanno altro che irritare – o quantomeno
annoiare – i pubblici di riferimento e screditare coloro che se ne rendono
protagonisti e narratori. Raccontare l’identità di un’organizzazione, ed insieme ad
essa i valori-guida, gli ideali, la mission e la vision ad essa collegate, risulta del
tutto inutile se ai racconti non fanno seguito – o se non hanno fatto seguito in
passato – fatti concreti ed accertati in tal merito. Come afferma Gagliardi, infatti,
diventa cruciale “bilanciare gli ideali presentati nelle storie con la pratica
356
Si pensi, ad esempio al recente fenomeno del “greenwashing”, ovvero dell’appropriazione
indebita da parte di enti e imprese del valore, oggi sempre più determinante, della sostenibilità,
laddove azioni ed eventi inerenti all’organizzazione stessa vanno nella direzione opposta,
smentendo, nei fatti, le virtù e le buone azioni millantate all’interno della sua comunicazione (la
quale risulta essere soltanto affabulatoria e menzognera).
205
concreta”357, per evitare il rischio di un gap tra gli impegni promessi dall’impresa
e le azioni concrete poste in essere; una distanza, che, specie per quel che riferisce
ai valori etici - CSR, sostenibilità ambientale su tutte -, può rappresentare il vero
discrimine tra un’organizzazione e l’altra presso i pubblici di riferimento, sempre
più sensibili alle questioni emergenti collegate alla sfera sociale. In altre parole il
rischio - serissimo - è quello di danneggiare la corporate reputation, ormai
divenuta la risorsa più importante per le imprese che operano nel mercato odierno,
e resa sempre più precaria dalla complessità esponenziale dello scenario
economico e dall’esplosione del Web 2.0.
357
P. GAGLIARDI, (a cura di), Le imprese come culture, Isedi, Torino, 1995, p. 277.
206
Conclusioni
Giunti alla fine della nostra analisi, possiamo trarne le dovute conclusioni. La
prima parte del lavoro, incentrata doverosamente su di un robusto ed articolato
impianto teorico, ci ha condotti dalle lande sconfinate e turbolente della psiche
umana alle forme primigenie che caratterizzano i suoi processi immaginativi,
giungendo, in ultimo, alla descrizione delle strutture fondamentali e ricorrenti
della narrazione, attitudine innata dell’essere umano che affonda le sue radici
nella notte dei tempi.
Il concetto junghiano di archetipo, ovvero di “rappresentazione collettiva
primordiale”, declinato in tutte le sue forme ed accezioni, ci ha permesso così di
operare un interessante raccordo tra gli strumenti teorici di cui sopra - inerenti a
discipline quali la psicologia, l’antropologia, la filosofia, la storia dell’arte ecc. –
ed il campo ben più recente, ma altrettanto complesso e stratificato, della
comunicazione d’impresa (la corporate communication).
In particolare, per ciò che concerne il nostro tentativo di indagine sulla presenza
degli archetipi nella comunicazione esterna d’impresa - segnatamente quella
inerente alla comunicazione pubblicitaria il cui strumento è lo spot e i cui canali
sono la Rete e soprattutto la Tv – è emerso, attraverso una ricca e dettagliata
analisi, come essa risulti diffusa e tentacolare. Come abbiamo avuto modo di
notare, infatti, circa uno spot su tre presenta delle immagini che rimandano a
specifici archetipi e ciò rappresenta un dato molto significativo se si considera la
grande quantità di commercial che per dare forma ai propri contenuti, fa appello
alla ricostruzione di ordinarie e comuni slice of life e routine quotidiane popolate
da stereotipi, all’ironia o al richiamo a sé stante dell’istinto sessuale. Un impiego,
quello dei simboli archetipici all’interno degli spot pubblicitari che, come
abbiamo visto, non conosce limiti temporali o spaziali, attraversando cinque
continenti e altrettanti decenni di trasmissioni televisive e riproduzioni on-line per
una casistica che non stentiamo ad immaginare sterminata. È da prendere per
207
vero, dunque, alla luce di quanto emerso dalla nostra ricerca, il fatto che gli
archetipi nei commercial rappresentano senza dubbio una delle principali vie a
disposizione delle imprese (e delle istituzioni pubbliche) per comunicare i propri
messaggi,
siano
essi
inerenti
ai
prodotti
o
servizi
offerti,
oppure
all’organizzazione in sé.
D’altronde, essendo gli archetipi presenti in maniera marcata e viscerale
all’interno della vita di ogni uomo e nelle sue manifestazioni intellettuali ed
emotive, sarebbe stato inverosimile il contrario; è difficile, infatti, in una
comunicazione audiovisiva mediale come quella degli spot pubblicitari, non
affidarsi - in maniera volontaria o meno - a quell’eco universale ed atavica che
rimbomba da millenni attraverso l’umanità e che indirizza da sempre la nostra
psiche entro i canali innati e fondanti della nostra stessa materia.
Nello specifico, riferendoci prettamente alla realizzazione degli spot pubblicitari,
è noto che le aziende si affidano alla figura dei creativi pubblicitari e ai
professionisti dell’audiovisivo, siano essi interni o esterni all’impresa stessa.
Quest’ultimi, in quanto esseri umani depositari e ricettori di forme primarie legate
all’inconscio collettivo, e siccome alle prese con la costruzione articolata di un
messaggio destinato al circuito mediale (ed artistico) come quello della
comunicazione pubblicitaria, si ritrovano ad essere - insieme con i loro
committenti che forniscono loro le opportune linee guida - veri e propri costruttori
ed “amplificatori” di archetipi. L’uso massiccio che essi ne fanno è dettato, come
sottolineato più volte, non necessariamente dalla loro intenzionalità e
consapevolezza sulla natura, sul ruolo o sulla presenza degli archetipi stessi, anzi.
Il più delle volte i creativi pubblicitari si trovano ad usare in maniera funzionale
simboli archetipici facendo appello, piuttosto, al bagaglio impersonale ed
universale che portano alla base della loro psiche: un appello che sappiamo essere,
di per sé, involontario ed istintuale. Ciò detto, è indubbio che un loro uso
consapevole può costituire un considerevole vantaggio per le imprese e per gli
autori di spot stessi che si ritroverebbero, in questo modo, a governare e
centellinare - per quanto possibile - a seconda dei loro obiettivi comunicativi,
quell’universo simbolico straordinario che prende il nome di “archetipi”. Nelle
loro mani, attraverso l’utilizzo di quest’ultimi, essi possono recare il mistero e la
208
forza millenaria dell’umanità, distribuendola e incanalandola in specifici flussi
comunicativi, quasi come se dall’imperscrutabile disegno dell’universo si
potessero isolare e raccogliere forme finite ed armoniose pregne di vita e di senso.
L’uso degli archetipi negli spot televisivi, con la loro presa “ancestrale” sulla
parte più profonda della psiche, rappresenta uno strumento straordinariamente
efficace poiché capace di coinvolgere e toccare nel profondo coloro che vi si
imbattono. Come afferma Cicalese, infatti, “l’archetipo in pubblicità […],
ricordando all’inquieto inconscio ostacoli e soluzioni già vissute dagli avi, può
riproporre cammini già percorsi ed andati a buon fine, rassicurando e confortando
lo spettatore anche a sua insaputa”358. Quella archetipica, pertanto, rappresenta
un’arma debordante, quasi divina – o “diabolica”, se si preferisce - in mano ai
creatori di commercial per coinvolgere e tirare a sé i propri pubblici di
riferimento; un’arma che, se maneggiata con sapienza e precisione, può facilitare
in maniera esponenziale i loro scopi. Con gli archetipi è possibile, in qualche
modo, “scavalcare” ed osservare dall’alto la condizione umana tutta, pur
rimanendo contemporaneamente coi piedi ben piantati alla sua base: essi
rappresentano, in ultima analisi, quanto di più afferente all’umano si possa
immaginare e, allo stesso tempo, una facoltà che sembra aver a che fare piuttosto
con una dimensione celeste o comunque ultraterrena.
Aspetto da non tralasciare, però, come accennato all’inizio del presente capitolo, è
il fatto che, nell’uso opinato e consapevole degli stessi archetipi, coloro i quali che
li adoperano debbono cercare di rispettare i termini correnti della relazione tra
significante e significato in modo che gli spettatori possano facilmente rintracciare
le isotopie ad essi collegati, pena il serio rischio di non venire compresi o, peggio
ancora, di venire fraintesi. È ancora Cicalese, a tal proposito, a notare che
“L’archetipo non si esprime […] attraverso simbolismi immediatamente
riconoscibili ma secondo il grado di coscienza culturale cui si è giunti in un dato
momento storico”, dal momento che “resta, in linea di principio, che il processo
che lo trasforma in forma leggibile e sensibile si basa su una similitudine
comprensibile solo se si riconoscono i termini della relazione o se si conosce a
358
A. CICALESE, Fatti di consumo. Noi tra gli spot e le marche, cit., cap. II, “Archetipi ed
immagini collettive”, p. 35.
209
priori la relazione già stereotipata”359. Particolarmente delicato, dunque, risulta il
compito delle imprese e dei creativi pubblicitari nel ritrovare, all’interno della loro
contemporaneità e del discorso pubblicitario che di volta in volta vanno
imbastendo, quelle forme particolari in grado di ricollegarsi opportunamente ai
motivi universali, ossia a quell’energia primordiale, a quel “magma” perenne che,
da tempo immemore, spinge contro la superficie della materia sensibile.
In ogni caso, al di là della già discussa questione sulla volontarietà del suo utilizzo
e delle condizioni necessarie perché essa sortisca gli effetti desiderati, quella degli
archetipi risulta essere, e Jung docet, non soltanto, nei fatti, una strada preferibile
ma, - citando senza timore di “eresia accademica” anche Brad Pitt nell’ultimo spot
preso in analisi dalla nostra ricerca - “inevitabile”. Per questo motivo, che siano
essi intenzionali ed accorti o meno, gli archetipi continueranno per sempre a
germinare all’interno della comunicazione d’impresa – così come all’interno di
molte altre manifestazioni psichiche dell’uomo - mantenendo intatto il loro
fascino e la loro sotterranea ed atavica potenza.
In riferimento al paradigma dell’Archetypal Branding, il quale si sostanzia, come
evidenziato, in una prospettiva “archetipica” al governo della personalità e
dell’identità d’impresa, esso si conferma essere una delle tendenze più accattivanti
ed originali del corporate management. Attraverso la descrizione di 12 differenti
archetipi d’impresa - i “tipi”, utilizzando la terminologia di Carl Gustav Jung - il
framework si propone come un insieme di linee guida fondamentali che,
ricollegandosi alla dimensione universale ed ancestrale dell’essere umano, sono in
grado di fornire un valido ausilio ai manager d’impresa nell’ottica di un più
agevole raggiungimento dei propri obiettivi di allineamento tra brand personality,
brand identity, brand image e brand reputation. Avere a disposizione, infatti, un
semplice ed immediato schema di riferimento per quanto concerne valori,
comportamenti e comunicazione pianificata d’impresa – è il caso della
comunicazione pubblicitaria - è di sicuro un supporto aggiuntivo che può rivelarsi
utile in una duplice prospettiva, sia interna che esterna all’organizzazione. Il
modello, tuttavia, oltre a presentare numerosi vantaggi e possibilità di
applicazione, mostra il fianco a diverse, e in alcuni casi piuttosto limitanti,
359
Ibidem.
210
ambiguità e punti di debolezza che vanno dal rischio di eccessiva fissità e
monotonia dell’identità d’impresa (in particolare per quel che concerne la
comunicazione) alla non mutua esclusività di alcune delle sue classi. Esso viene a
configurarsi, in definitiva, come il prodotto di una disciplina ancora in nuce che si
trascina dietro varie imprecisioni e semplicismi i quali però, pur indebolendo in
maniera importante la sua validità e la sua applicabilità al governo d’impresa, non
ne minano del tutto il fascino le potenzialità future. Ciò è vero, in particolar modo,
se ci si limita considerare il framework come un basico, ma al contempo solido
dispositivo
per
dell’organizzazione,
promuovere
un
la
supporto
coerenza
prezioso
all’interno
che,
sostenuto
e
all’esterno
dall’“energia
archetipica” di cui sopra, si trascina dietro una sempiterna eco.
Infine, giungendo all’ultima parte del lavoro, quella incentrata sulla tecnica dello
storytelling d’impresa, abbiamo visto come “l’arte di raccontare storie” possa
rappresentare un utile strumento a disposizione dell’organizzazione per
promuovere e presidiare la personalità, prima, e l’identità poi, sia all’interno, sia
all’esterno di essa. Per quanto concerne la comunicazione interna, si è evidenziato
come quest’ultima debba mirare alla partecipazione attiva ed autentica degli attori
interni nell’ottica di una reale co-creazione delle storie e, per estensione, del
portato di senso relativo all’impresa stessa. Il suo impiego, allo stesso tempo, non
può prescindere da una preparazione rigorosa da parte del management, il quale è
chiamato a ridefinire la sua sfera d’azione all’interno dell’azienda, assurgendo al
ruolo di vero e proprio “stratega mediatico”, capace di indirizzare, promuovere,
orientare e gestire il flusso comunicativo, sia esso interno od esterno
all’organizzazione. Lo storytelling – e questo parrà chiaro – non si improvvisa;
piuttosto, esso deve essere pianificato ed implementato con attenzione,
soppesando di volta in volta le potenzialità ed i rischi legati al suo utilizzo. In
riferimento alla comunicazione esterna, infine, si è detto della necessità stringente
delle imprese odierne di fare leva sugli aspetti intangibili legati ai loro prodotti e
servizi, puntando, nella fattispecie, sul coinvolgimento affettivo ed emozionale
che solo i racconti sono in grado di imbastire tra il brand ed si suoi pubblici di
riferimento. A tal proposito, le strutture fondamentali ed ataviche della narrazione,
con il loro corollario di emozioni, colori, suggestioni ed esperienze rappresentate
211
e adattate alle tendenze della contemporaneità, vengono a costituire un volano
decisivo per l’immedesimazione ed il coinvolgimento del consumatore/spettatore:
il grimaldello universale che spalanca le porte della sua psiche.
212
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Sitografia corpus della ricerca
Num.
Brand
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1
Hugo Boss
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2
Morris
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3
Fakro
http://www.youtube.com/watch?v=mhorwG2Ae3g
4
Fiat 124
http://www.youtube.com/watch?v=PNd1droDz2c&feature=ends
Spot
creen
5
Alfa Romeo
http://www.youtube.com/watch?v=wvhWZmJCOIc
6
Università di
Nicosia
http:// www.youtube.com/watch?v=ZVwX-XtiiTw
7
Lancôme
http://www.youtube.com/watch?v=vFgD5-X7_zQ
8
Aspirina
http://www.youtube.com/watch?v=IQfQvWpQ9cI
9
Mercedes
Benz M
Class
http://www.youtube.com/watch?v=jOpQb4uPC3g
10
Mulino
Bianco
http://www.youtube.com/watch?v=667A0mD1hVc
11
Dnb
http://www.youtube.com/watch?v=C_8TGTKdrlY
12
Fiat 131
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dscreen
13
Nari Vetrerie
http://www.youtube.com/watch?v=CANlz-VMO60
222
14
Barilla
http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I
15
Caribbean
Bay
http://www.youtube.com/watch?v=VteDC2M6vFM
16
Lavasbianca
Fantasmatico
http://www.youtube.com/watch?v=iLhJDo7ijlw
17
Peugeout
http://www.youtube.com/watch?v=0eyzW5rQH24
18
Zuegg
http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I
19
Nivea
http://www.youtube.com/watch?v=VY3iZverZYY
20
Telefunken
http://www.youtube.com/watch?v=Vzr9jhwF-xg
21
Fiat Gucci
http://www.youtube.com/watch?v=Wq_8Ty7aVkg
22
Grana
Padano
http://www.youtube.com/watch?v=yxI-hNgDrAI
23
Volkswagen
Passat
Alltrack
http://www.youtube.com/watch?v=IKyCt2Fpy4M
24
Martini
http://www.youtube.com/watch?v=254716eydUs
25
Siemens
http://www.youtube.com/watch?v=P9FAe-8Qf38
26
Esercito del
Bangladesh
http://www.youtube.com/watch?v=M8x_O0j8eOI
27
Orzo Bimbo
http://www.youtube.com/watch?v=U_Pow6dyN60&list=PL0Z31
kxVito9RTEmWk8JVAfqdvv-sslOg
28
Axe
http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=I9tWZB7OUSU&feat
ure=endscreen
29
Mulino
Bianco
http://www.youtube.com/watch?v=tRNoBN5zjKw
30
Lindt
http://www.youtube.com/watch?v=sZa8iBDIBHw
223
31
Morris 1100
http://www.youtube.com/watch?v=qiO_Q4ykLVQ
32
Buscopan
http://www.youtube.com/watch?v=P9FAe-8Qf38
33
Coca Cola
http://www.youtube.com/watch?v=fEAKmP7lehE
34
Banco de la
Nacion
Argentina
http://www.youtube.com/watch?v=t4EvD84hn2Q
35
Gucci Guilty
Black
http://www.youtube.com/watch?v=LP99AOpcE30
36
San
Benedetto
http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE
37
Dior (J'adore) http://www.youtube.com/watch?v=JZlTQZVn6Hc
38
Selenia
http://www.youtube.com/watch?v=Ia5GhWObOos
39
Fernet
Branca
http://www.youtube.com/watch?v=JZlTQZVn6Hc
40
Opel Corsa
http://www.youtube.com/watch?v=wR1oPPKC9A8
41
Splugen
http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I
42
Brooklyn
http://www.youtube.com/watch?v=VyMJimX1XY4
43
Volvo V40
http://www.youtube.com/watch?v=mjwkpfmZ7z0
44
Impulse
http://www.youtube.com/watch?v=zxokStX9HtA
45
Pan di Stelle
Mulino
Bianco
http://www.youtube.com/watch?v=5IxOBqHhCRw
46
Bulgari
http://www.youtube.com/watch?v=SYfJ1EoIyNY
47
Green Da-kara
http://www.youtube.com/watch?v=vNd-xdN7hQE
48
Lines
http://www.youtube.com/watch?v=ymKhPsUcMnI
224
49
Bebat
http://www.youtube.com/watch?v=fuu3T9UqknE
50
Svelto
http://www.youtube.com/watch?v=m1y9x5TxQdE
51
Nivea
http://www.youtube.com/watch?v=t7-LBxYxxiA
52
Armani
Acqua di
Gioia
http://www.youtube.com/watch?v=KGDVY_jyfDM
53
Passaia
http://www.youtube.com/watch?v=5pXs7eDgLYY
54
Nike
http://www.youtube.com/watch?v=MVHfRrQLpxM
55
Nurofen
http://www.youtube.com/watch?v=EF bh-9fO-rcj4
56
Allianz
http://www.youtube.com/watch?v=AwgKJogsNW0
57
Coca Cola
http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE
58
Skandia
http://www.youtube.com/watch?v=nuwWJ-OpVcM
59
Pilsner
http://www.youtube.com/watch?v=L3Fmu14Vgb4
60
GDF Suez
http://www.youtube.com/watch?v=Qs4g_7oAYP4
61
HPX
http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI
62
Balting
http://www.youtube.com/watch?v=rVE1k-phVZU
63
Canguro
http://www.youtube.com/watch?v=E8l1a2r-rIY
64
Rolls Royce
http://www.youtube.com/watch?v=xqlOLav1LtA
65
Samsung
http://www.youtube.com/watch?v=N0lFh2nUEu8
66
TV Sorrisi e
Canzoni
http://www.youtube.com/watch?v=wLkwd1-Mbl8
67
South
African
Airway
http://www.youtube.com/watch?v=McjuvuydWkA
225
68
Audi Land of
4
http://www.youtube.com/watch?v=M5bRDYYKH18
69
Urban Street
Janga
http://www.youtube.com/watch?v=R8tyX5R-Mkw
70
Dash
http://www.youtube.com/watch?v=KhXrxavqGWI
71
Dolce &
Gabbana
http://www.youtube.com/watch?v=kiN6pUrCzvs
72
Aluminios de
l'Uruguay
http://www.youtube.com/watch?v=npwqaSYsk98
73
Forum di
Istanbul
http://www.youtube.com/watch?v=7SqtOwDgSc8
74
Audi
http://www.youtube.com/watch?v=7SqtOwDgSc8
75
Lancôme
http://www.youtube.com/watch?v=znY4i_zXfUE
76
Mastro Lindo
http://www.youtube.com/watch?v=oQofe4B1u_I
77
Mazda 6
http://www.youtube.com/watch?v=HM8TpvDUnqE
78
Nivea
http://www.youtube.com/watch?v=m1y9x5TxQdE
79
Zucchetti
http://www.youtube.com/watch?v=8Cfo06DvA5M
80
Nike
http://www.youtube.com/watch?v=HEGczK70DNc
81
Moment Act
http://www.youtube.com/watch?v=FoYBi-IeDsI
82
Nivea
http://www.youtube.com/watch?v=SMVErGJu0LI
83
Seiko Kinetic
http://www.youtube.com/watch?v=GOEwRaHXn3s
84
Baleno
http://www.youtube.com/watch?v=udr8_MBNTQw
85
Herdez
http://www.youtube.com/watch?v=KnBZNoHHzic
86
Eldorado
Calippo
http://www.youtube.com/watch?v=61CXeu3DJnE
226
87
Ford Escort
Turbo
http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI
88
Dalda
http://www.youtube.com/watch?v=oK-AFGn869k
89
Manne
Hanke
http://www.youtube.com/watch?v=G0TJeMqjbuU
90
Bisolvon
http://www.youtube.com/watch?v=mhYA2ji5xtA
91
Ignis Frost
http://www.youtube.com/watch?v=mhYA2ji5xtA 3:18
92
Givenchy
Play
http://www.youtube.com/watch?v=W5pFQ7_Z-lw
93
Nivea
http://www.youtube.com/watch?v=50JA4JaXvxw
94
Honda SH
Mode 125
http://www.youtube.com/channel/UCEIR3GF5KiYoOVLIWCT
95
FAAC
Cancelli
automatici
http://www.youtube.com/watch?v=kgpfPCXmlxI
96
Chanel
http://www.youtube.com/watch?v=sGtmjZ9Yuj0
97
Coca Cola
http://www.youtube.com/watch?v=GQxRXt4ANJU
98
Ford Taunus
http://www.youtube.com/watch?v=hf1Yu_qWqv8
99
Amstel
http://www.youtube.com/watch?v=jvFfwsW5IoM
100
Vörður
http: //www.youtube.com/watch?v=e4_16iMeKWE
101
Chanel N°5
http://www.youtube.com/watch?v=oF8NAyqxGfk
nX-w
227
Ringraziamenti
In primo luogo desidero ringraziare la professoressa Anna Cicalese, per gli
indirizzi necessari alla stesura della tesi e per la lettura critica del lavoro stesso: il
suo garbo e la sua professionalità sono stati fondamentali per la realizzazione del
mio percorso di studio.
Ringrazio il prof. Emilio D’Agostino per la supervisione dell’elaborato e per il
supporto professionale dedicatomi.
Ringrazio i miei compagni di studio: ognuno di loro rappresenta un tassello
importante nella mia - intensissima ed indimenticabile - esperienza universitaria.
Ringrazio i miei amici Mara e Raffaele, sempre e sinceramente presenti.
Grazie a Raffaella, la mia “Saggia” e la mia “Amante”, il mio “Angelo Custode” e
il mio “Giullare”, in altre parole, la mia compagna di vita senza la quale non
potrei mai essere così felice e sereno.
Grazie a mia madre, e qui ogni parola ulteriore risulterebbe superflua. Il tuo
orgoglio, mamma, è il minimo che io possa darti.
Grazie.
228