istituto di istruzione superiore "a. paradisi" - vignola

Transcript

istituto di istruzione superiore "a. paradisi" - vignola
ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE
"A. PARADISI" - VIGNOLA
Area di Progetto: "Capitan Pastene"
Classi 3°Am, 3°Bm, 3°Ai, 3°Bi
Rigoberta Menchu
Premio Nobel
per la pace
Donna Mapuche
IL NUOVO MONDO
E
LA SCOPERTA DELL' "ALTRO"
Classe 3°A Mercurio
Il Subcomandante Marcos
A. S. 2000/2001
Coordinatore Prof. Paolo Pollastri
Area di Progetto “Capitan Pastene” : Premessa
Questo lavoro fa parte di un più ampio Progetto realizzato insieme alle classi
3°B Mercurio, 3° A Igea, 3° B Igea
Era compito della nostra classe affrontare il tema delle grandi esplorazioni
geografiche, della scoperta di nuovi mondi e dell’impatto tra l’Europa cristiana e
‘civile’ e questi popoli ‘selvaggi’ e sconosciuti.
Abbiamo così anche noi scoperto che le grandi conquiste dell’umanita’ e l’avanzare
del progresso possono richiedere alti costi umani e comportare tragedie e sofferenze.
La scoperta del Nuovo Mondo è stata senza dubbio un progresso per l’umanita’, ma
la conseguenza e’ stata la distruzione di intere civilta’, la sottomissione di interi
popoli, i cui discendenti, oggi, combattono per il riconoscimento della propria cultura
e dei propri diritti.
Abbiamo avuto, inoltre, la possibilita’ di venire a conoscenza degli ultimi eredi di
uno di questi popoli, i Mapuches, nativi di una regione del Cile, l’Araucania, dove
sorge il paese di Capitan Pastene e dove vive dall’inizio del XX secolo una comunita’
di nostri connazionali, anzi, di famiglie del nostro Appennino e delle nostre zone.
Questo lavoro e’ stato in gran parte realizzato nella prima settimana di dicembre, poi
‘perfezionato’ e concluso nel mese di marzo.
Coordinati dal prof. Paolo Pollastri, insegnante di Lettere, abbiamo utilizzato per una
settimana anche le ore di tutti gli altri insegnanti, che hanno contribuito in questa
modalita’ alla realizzazione del progetto.
Ringraziamo ancora una volta il Cav. Antonio Parenti, che, con la sua
documentazione, le sue informazioni, i suoi suggerimenti ha reso possibile questa
“impresa”;
le Amministrazioni Comunali di Guiglia, Spilamberto, Vignola e Zocca, che ci hanno
sostenuto anche dal punto di vista finanziario;
il sig. Adriano Setti, che ci ha gentilmente tradotto dallo spagnolo alcuni importanti
documenti
ITC ‘Paradisi’ , Marzo 2001
L’insegnante coordinatore
Prof. Paolo Pollastri
La classe 3° A Mercurio:
Alice M. Laura B. Monica A. Cristian C. Ivan P. Alberto V. Simona R. Francesca C.
Matteo P. Stefania B. Elisa P. Silvia O. Sara T. Isabella L. Alice L. Cristhian R.
Jennifer M. Marcello B.
INDICE
Parte prima
1. Verso un mondo globalizzato
2. Dal mediteraneo agli oceani: l'Europa alla conquista del mondo:
- un mondo nuovo
- cosa spinse l'Europa fuori dall'Europa
- le conseguenze delle scoperte
3. L'orizzonte onirico
4. Le direttrici della conquista:
- esplorazione dell'Asia e dell'Africa
- la scoperta dell'America
- i conquistadores: una storia di atrocità
5. Viaggi e scoperte: cronologia
6. Il Comandante Giovanni Battista Pastene
7. Scontro fra due civiltà:
- la rapida sconfitta delle popolazioni indigene
- la scoperta dell' "altro": prime descrizioni del Nuovo Mondo
- la scoperta dell' "altro": uomini o bestie?
- la scoperta dell' "altro": il mito del buon selvaggio
8. Il trauma della conquista
9. La società coloniale:
- le istituzioni politiche
- la stratificazione sociale
- l'organizzazione economica
- la vita materiale culturale e religiosa
10. L'America Latina e la conquista:
- il genocidio
- la destrutturazione delle società amerindie
- le trasformazioni dell'ecosistema
- le resistenze alla colonizzazione
11. La conquista non termina……..
12. Il colore della terra
Parte seconda
Il popolo Mapuche
Parte terza
Materiali di lavoro
Parte quarta
Documenti
Bibliografia
Parte Prima
L'EUROPA ALLA CONQUISTA DEL MONDO
Carta di Hewes 1500
VERSO UN MONDO GLOBALIZZATO
Globalizzazione è la parola chiave di questo nuovo millennio.
Se ne parla per indicare l'estensione su scala mondiale dei processi economici,
sociali e culturali che creano un sistema complesso e sempre più fittamente
intrecciato di scambi e interdipendenze fra le varie aree e popolazioni del pianeta
Questo termine, in parte sinonimo di mondializzazione, si è imposto negli ultimi
vent'anni e coglie specificamente gli esiti della rivoluzione informatica e telematica.
Oggi, per esempio, un paio di jeans può essere disegnato da un'équipe di stilisti in
Italia, fabbricato con tessuto giapponese e confezionato in Pakistan o in Bangla
Desh; oppure in poche frazioni di secondo, tramite computer, si possono spostare
capitali da una parte all'altra del globo o, con Internet, irradiare messaggi su reti
planetarie; possiamo seguire in diretta eventi istantanei o essere informati in tempo
reale su fatti che hanno luogo in qualunque punto del pianeta.
L'abbattimento delle distanze spaziali riduce enormemente anche le distanze
culturali; tramite i mass media i modelli occidentali di vita e di consumo
raggiungono tutte le parti del mondo e con poche ore di volo si può andare a cercare
lavoro e migliori condizioni di vita a migliaia di kilometri di distanza, senza sentirsi
del tutto spaesati in un mondo alieno.
Il “villaggio globale” è l’ l'intero pianeta unificato dai sistemi di comunicazione,
che rimescolano e omogeneizzano gli orizzonti mentali e culturali al di là delle
frontiere.
Del resto, decisioni politiche prese in una parte del mondo possono avere
conseguenze ovunque e un crollo di Borsa in Brasile o in Giappone ha effetti su
tutti i sistemi finanziari. L’esigenza di governare i processi economici e politici
sempre più “globali” ha moltiplicato le istituzioni sovranazionali con autorità in vari
campi -ONU, Banca Mondiale, Fondo Monetario, Tribunali Internazionali...-, che
riflettono una storia umana ormai universalmente interconnessa
Ma la dimensione planetaria, con cui si è aperto il terzo millennio, è andata
sviluppandosi in tempi relativamente assai recenti della storia e vede i suoi albori
nella mondializzazione inaugurata dall'epoca delle grandi esplorazioni oceaniche e
dallo slancio espansivo dell'Europa verso gli altri continenti.
Le conseguenze delle scoperte geografiche
1.
CONSEGUENZE ECONOMICHE
• Spostamento del traffico commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico
• Arricchimento degli stati bagnati dall’Oceano Atlantico (Spagna, Portogallo,Inghilterra,.Francia)
• Sviluppo delle marine mercantili
↓
Formazione di enormi capitali da parte di potenti compagnie mercantili
↓
favoriscono la nascita del moderno capitalismo.
• Afflusso in Europa di oro e argento dal nuovo continente,soprattutto dal Messico e dal Perù.
↓
Aumento del denaro circolante
↓
Rivoluzione dei prezzi
2.
CONSEGUENZE POLITICHE
• Formazione di vasti imperi coloniali (spagnolo, portoghese, inglese, olandese, francese)
• Lotte tra le maggiori potenze per il predominio sulle nuove terre.
3.
CONSEGUENZE SOCIALI
Emigrazione → partenza per nuove terre attirati da facili ricchezze
Alla ricerca di lavoro
Per sfuggire a persecuzioni politiche e religiose
La scoperta dell’America concluse la fase della storia “mediterranea” a vantaggio di quella “atlantica” .
Ci fu uno sviluppo delle scienze fisiche e naturali, della conoscenza di principi relativi all’astronomia e alla
geografia.
Questo spiega perché fu scelto il 1492 come inizio dell’ETA’ MODERNA.
L’Italia apparve tagliata fuori dalle nuove linee di comunicazione per
a. divisione in piccoli stati
b. mancanza di attrezzature adeguate e capitali scarsi
Tutto questo le impedì di giocare un ruolo di primo piano nel nuovo scenario.
Dal Mediterraneo agli oceani: l’Europa alla scoperta del mondo
Un mondo nuovo
Il 1492, l’anno del primo sbarco di Colombo nelle nuove terre americane, è la
data che segna tradizionalmente la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna.
Come tutte le grandi partizioni epocali della storia , anche questa data ha un
valore puramente simbolico e convenzionale e passò del tutto inavvertita agli
uomini del tempo, a cominciare dallo stesso Colombo, ignaro della sua scoperta
di un nuovo continente e convinto allora di aver raggiunto le Indie orientali
navigando da occidente. Quell’evento segnava invece una svolta carica di
conseguenze di enorme portata per il futuro dell’Europa come per le sorti delle
popolazioni del Nuovo Mondo, da allora inseparabilmente intrecciate, con un
impatto iniziale che prese la forma della conquista e del dominio, alla storia del
vecchio continente.
La scoperta dell’America fu il momento culminante di un’epoca di esplorazioni
e di avventure oceaniche in cui gli Europei si erano lanciati cinquant’anni prima
e che avrebbero portato nel giro di tre secoli, solcando i mari in tutte le
direzioni, a disegnare i contorni di vecchi e nuovi continenti, a dare forma e
dimensioni certe al globo terrestre, prima fantasticate come orizzonti
dell’ignoto, fino a unificare il mondo in una nuova storia dominata dal primato
europeo. Si incontravano e si scoprivano reciprocamente per la prima volta pezzi
di umanità che avevano per millenni abitato il pianeta in spazi storici chiusi e
incomunicanti, ignorando l’esistenza di altri uomini e civiltà al di là degli
oceani.
Per la prima volta, dunque, culture che avevano vissuto “storie parallele” senza
contatti reciproci o con contatti estremamente superficiali si incontravano in
modo profondo e duraturo: il mondo umano si avvia a diventare qualcosa di
unitario e non più diviso.
Si spostavano gli equilibri geopolitici e le linee degli scambi: il Mediterraneo
andava perdendo la sua centralità di grande bacino di comunicazione fra le
diverse civiltà del Vecchio Mondo (Europa, Asia, Africa), che avevano istituito
intense relazioni e reciproci scambi per tutta l’antichità e il medioevo. Il nuovo
asse portante degli scambi economici si spostava dal Mediterraneo all’Atlantico,
ponendo le basi della crescente fortuna delle potenze europee affacciate sulle
sue coste (Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra) e di un progressivo declino
dell’Italia, che dalla centralità mediterranea aveva ricavato nelle epoche
precedenti un indubbio punto di forza.
Noi viviamo tuttora in una situazione modellata dal modo in cui questo ‘evento
epocale’ si è realizzato: una regione politicamente frammentata come l’Europa
ha preso l’iniziativa e ha stabilito contatti via mare con quasi tutte le altre
regioni del pianeta, ha sottomesso alcune di queste regioni (America centrale e
meridionale) attraverso l’occupazione fisica del territorio e la distruzione dei
regimi politici prima esistenti e ha monopolizzato i commerci più redditizi di
altre regioni (India, Indonesia).
Due sono quindi gli aspetti decisivi di questa vicenda: il processo di
esplorazione e di espansione è stato unilaterale - l’Europa alla scoperta del
mondo- e si è svolto attraverso gli oceani. Il mare, e non la terra, si è rivelato il
fattore di unificazione dell’umanità.
Cosa spinse l’Europa fuori dell’Europa?
Quali furono i motivi o i fattori che resero possibile l’avventura degli Europei
oltre le colonne d’Ercole, aprendo la strada alla loro supremazia planetaria e
alla storia da allora irreversibilmente interconnessa dell’umanità? Le ragioni
dell’espansione occidentale, del folle volo, sono molteplici e complesse.
Se confrontata con i grandi centri economico-politico-culturali del pianeta (Cina,
subcontinente indiano, grande area musulmana), l’Europa ha una posizione
periferica e subalterna: è una regione piuttosto piccola in termini puramente
geografici, isolata all’estremo Occidente dalla massa di terre emerse
rappresentate dall’Eurasia e dall’Africa, relativamente povera sul piano
economico, debole e frammentata sul piano politico, in uno stato di guerra
endemica, arretrata sul piano tecnologico-scientifico.
Complessivamente, dunque, esisteva una situazione di inferiorità nei confronti
dell’Oriente, che gli europei immaginavano come un luogo di ricchezze
incredibili, in cui l’oro, l’argento, le spezie abbondavano e in cui trovavano
incarnazione tutti i loro più profondi desideri inconsci.
Proprio per questa condizione, reale e psicologica, è stato l’Occidente ad andare
verso l’Oriente, e non viceversa. I cinesi e gli indiani non erano interessati a
raggiungere l’Occidente, essendo la loro civiltà complessivamente più evoluta
e raffinata.
Nel Medioevo i collegamenti tra Europa ed Oriente erano opera di singoli
mercanti o viaggiatori, come i Marco Polo o i Giovanni da Pian del Carpine,
senza un piano organico. Ma per realizzare le grandi scoperte non bastavano le
iniziative dei singoli: c’era bisogno di altre condizioni e di altri protagonisti.
Certamente giocarono un ruolo le innovazioni nelle
tecniche nautiche e, in particolare, della bussola,
dell’astrolabio e degli altri strumenti di misurazione
astronomica che consentirono di passare dal
cabotaggio lungo le coste alla navigazione in mare
aperto, come i progressi della cartografia e delle
costruzioni navali.
Proprio le carte nautiche
rappresentano un
importante capitolo della storia delle esplorazioni. La
cartografia medievale conosceva tre tipi di carte: le
carte regionali, le carte marittime e i mappamondi,
che rappresentano sia la terra nella sua totalità sia solo l’ecumene,cioè la totalità
del mondo ritenuto abitato. I mappamondi erano divisi a T da due assi: quello
verticale indicava il Mediterraneo, quello orizzontale il Nilo e il suo
‘prolungamento’, il Tanai (Don). All’interno dello spazio abitato, concepito
come circolare, cioè perfetto, stava la croce cristiana, simbolo della redenzione.
Al centro era collocata Gerusalemme, luogo di inizio della storia della salvezza.
Il vero scopo di questi mappamondi non era di aiutare ad orientarsi sulla terra e
sul mare fisici, ma facilitare la meditazione sul significato della vita umana:
erano essenzialmente simbolici.
Spetta alle città marinare italiane di aver compiuto la rivoluzione nel modo di
concepire lo spazio, con la realizzazione delle prime carte nautiche che, seppure
con difetti, descrivono lo spazio non più in modo simbolico, ma geometrico.
L’atteggiamento nei confronti della natura non è più di contemplazione, ma di
dominio: il mare è una via di comunicazione che va usata.
Ma le innovazioni tecniche, per quanto condizioni indispensabili, non bastano di
per sé a spiegare la sfida all’ignoto che portò alla conquista degli oceani: il
fattore decisivo venne agli Europei da precise necessità economiche e politiche
imposte dal mutato quadro internazionale che andava delineandosi nel corso del
Quattrocento.
L’ avanzata dei Turchi in Medio Oriente, culminata con la presa di Bisanzio
nel 1453, sconvolgeva la linea tradizionale dei traffici e infliggeva un duro colpo
alle fortune delle città italiane, in particolare Genova e Venezia. Ma ne risentiva
anche il resto dell’Europa, che vedeva interrompersi il flusso di metalli e pietre
preziose, sete e tessuti raffinati e soprattutto spezie. Era dunque un’esigenza
vitale trovare nuovi collegamenti marini con l’Oriente che aggirassero il blocco
dell’Impero Ottomano.
Al di là delle esigenze economiche agiva anche l’impellente urgenza politica
delle grandi monarchie nazionali di far fronte al dissesto finanziario provocato
dalle crescenti spese per la creazione di apparati amministrativi e di eserciti
moderni, che poteva essere bilanciato solo da nuovi afflussi di oro e metalli
preziosi. I monarchi europei erano perciò alla perenne ricerca di nuove risorse
economiche, anche all’esterno dei loro regni. La politica di potenza degli Stati e
l’agguerrita concorrenza delle economie furono dunque le forze che
mobilitarono gli ingenti mezzi finanziari e le straordinarie energie che
lanciarono l’Europa fuori dell’Europa.
Ma gli Stati nazionali non furono gli unici artefici delle esplorazioni: ne furono
protagonisti audaci marinai (i Colombo, i Vespucci, i Caboto, i Magellano, i
Pastene...) e mercanti intraprendenti, spregiudicati avventurieri e missionari
evangelizzatori. Le spinte espansive coinvolsero, dunque, ampi e variegati
settori della società.
La ‘rivoluzione commerciale’, a partire dall’Italia del Duecento, aveva visto il
formarsi di una classe mercantile dalla mentalità innovativa e aperta, pronta a
cercare e a cogliere ovunque occasioni di traffici e di profitto.
Nel corso del Quattrocento avvenne, inoltre, una trasformazione culturale
decisiva, che spinse gli europei a superare l’antitesi tra economia e religione,
affari e fede, guadagno e salvezza. Gli europei si convinsero che la ricerca
dell’oro e delle ricchezze orientali poteva essere conciliata con la fede
cristiana, perché offriva sia nuove risorse per la ‘crociata’ sia l’occasione per
convertire nuove popolazioni al cristianesimo. Lo stesso Cristoforo Colombo
intendeva utilizzare i guadagni ricavati dalle sue scoperte per la liberazione del
Santo Sepolcro a Gerusalemme. Inoltre, il profondo spirito religioso dell’epoca
vedeva nella conversione delle popolazioni americane una novella crociata per
il trionfo della fede.
Vi sono anche spiegazioni di carattere sociale: in Spagna, ad esempio, con la
fine della Reconquista e la cacciata di ebrei e moriscos (1492), le condizioni di
vita di molti hidalgos (appartenenti alla piccola nobiltà) e contadini erano
peggiorate e ciò favorì i sogni di avventura e di fortuna in terre lontane -le Indiedi cui si favoleggiavano le immense ricchezze.
Infine, tra i fattori che spiegano lo slancio alla conquista di nuovi spazi, va
considerato il carattere razionalistico, attivistico e sperimentale della nuova
cultura umanistico-rinascimentale. Colombo forse non è il primo europeo a
sbarcare in America, ma è certo il primo a giungervi sulla base di un progetto
specifico, di un’ipotesi scientifica (la rotondità della terra) che lo spinse a
“cercare l’Oriente da Occidente” e a trovarne la decisiva conferma sperimentale
Le conseguenze delle scoperte
La scoperta dell’America, le altre scoperte geografiche e la colonizzazione
causarono profonde trasformazioni ed ebbero conseguenze rivoluzionarie per la
storia economica, politica, sociale e culturale dell’Europa.
Dal punto di vista economico:
• il progressivo spostamento del traffico commerciale dal Mediterraneo
all’Atlantico determina un grave danno ai paesi mediterranei e in particolare alle
repubbliche marinare italiane, che commerciavano con l’Oriente;
• di conseguenza, si arricchiscono i Paesi bagnati dall’Oceano Atlantico, in
primo luogo la Spagna, il Portogallo, l’Inghilterra e la Francia, tagliati fuori
dalle linee del grande traffico mediterraneo con l’Oriente;
• lo sviluppo delle marine mercantili dei vari Paesi e la formazione di enormi
capitali da parte di potenti compagnie commerciali, che favorirono la nascita del
capitalismo;
• l’afflusso in Europa dalle miniere del Messico e del Perù di enormi quantità di
oro e argento, che, trasformate in denaro circolante, provocarono un’inevitabile
crisi, nota come rivoluzione dei prezzi;
• la trasformazione della produzione agricola, determinata dal trapianto nel
Nuovo
• Mondo di prodotti europei (vite, lino, canapa, caffè, canna da zucchero, ecc..)
e dalla importazione dall’America di prodotti sconosciuti in Europa: mais,
pomodoro,
patata,
tabacco.
Dal punto di vista politico:
• la formazione di vasti imperi coloniali (spagnolo, portoghese, inglese,
olandese e francese);
• lotte e guerre tra le maggiori potenze per assicurarsi il dominio sulle nuove
terre ed eliminare con la forza delle armi ogni possibile concorrente.
Dal punto di vista sociale:
• la tendenza all’emigrazione di avventurieri attirati dalla speranza di facili
guadagni o di persone alla ricerca di un lavoro o che volevano sfuggire a
persecuzioni politiche o religiose;
• l’ascesa impetuosa della ricca borghesia degli affari a tutto danno della
nobiltà, costretta a vivere di rendita e a veder diminuire il proprio potere e
prestigio;
• il conseguente mutamento di molte usanze e consuetudini di vita;
• l’estinzione totale o parziale di molte popolazioni dell’America meridionale;
• l’importazione degli schiavi dall’Africa.
Le grandi scoperte ebbero un impatto di grande portata anche sulla cultura
europea , aprirono a nuove esperienze e campi di riflessione, incrinarono
modelli dottrinari e convinzioni millenarie.
Con l’accesso all’Oceano Indiano e il periplo dell’Africa svanivano gli orizzonti
onirici e leggendari della geografia medievale e con la scoperta dell’America e
la circumnavigazione del globo si modificava radicalmente l’immagine del
mondo, che prendeva ora una forma chiusa e definita nei suoi confini estremi.
Con la dimostrazione della sfericità della terra e dell’esistenza di terre abitate
anche nell’altro emisfero, si avvia al definitivo tramonto la cosmografia
aristotelico-tolemaica: esplorando la terra, i grandi viaggi oceanici ridefinirono
lo spazio planetario, primo atto di quel processo di costruzione della moderna
visione dell’intero spazio cosmico che sarebbe stata realizzata, un secolo dopo,
dalla scienza galileiana.
Sviluppo delle scienze fisiche e naturali, conoscenza di nuovi principi relativi
all’astronomia e alla geografia, costruzione di carte nautiche di estrema
precisione furono effetti culturali di notevole importanza; ma la novità più
sconvolgente per gli Europei, la più difficile da accogliere entro la propria
cultura, fu la scoperta degli abitanti del Nuovo Mondo, la scoperta dell’
“altro”.
L’esistenza di quella umanità sconosciuta urtava contro gli schemi tradizionali,
fondati sulla Bibbia, della storia del genere umano: da dove venivano gli
indios?, erano discendenti di Adamo?, come si conciliavano con la cronologia
biblica e le stirpi di Noè?, Cristo aveva salvato anche loro?. Oltre al problema
teologico, si poneva il confronto con la diversità radicale dei loro usi e costumi,
e in particolare della vita delle tribù primitive organizzate in società senza Stato
e senza proprietà privata, che spinse a catalogarle sotto l’ambigua categoria del
“selvaggio”, ai confini o al di sotto della piena umanità.
Le popolazioni nere dell’Africa non suscitarono uguali impressioni o
interrogativi: erano da tempo conosciute e, inoltre, occupavano un posto preciso
nella tradizione biblica (discendenti di Cam). L’incontro con gli Indiani
d’America, invece, costituì uno snodo fondamentale per la cultura europea.
Dalla scoperta della pluralità e diversità delle culture e civiltà umane, dopo lo
shock iniziale, nacquero ampie riflessioni antropologiche che influenzarono le
utopie sociali del Rinascimento (Tommaso Moro, Campanella), con le
suggestioni derivate dal comunismo dei beni praticato da quei popoli lontani, e il
pensiero politico moderno nelle sue teorizzazioni intorno allo ‘stato di natura’ e
alla ‘società civile’ (da Hobbes a Locke a Rousseau).
Gli orizzonti culturali europei, dunque, si allargano: da un lato il mondo, senza
più barriere, diventava universalmente percorribile e conosciuto, dall’altro si
dilatava in direzione di una storia universale che comprendeva l’intera umanità.
Scheda
L’orizzonte onirico
L’occidente medievale aveva una scarsa conoscenza dell’Oceano Indiano, un
mare chiuso, dominio riservato degli arabi, dei persiani, dei cinesi. I
viaggiatori occidentali spesso l’hanno sfiorato, passando a Nord, per la via
mongola, ma ne hanno parlato
in toni favolistici, raccontando
cose meravigliose in realtà mai
viste,
rafforzando
così
l’ignoranza degli occidentali.
L’Europa
preferisce
immaginare gli
altri mondi, sognarli a misura
delle sue esigenze, cosicché le
Indie diventano il luogo dei suoi
sogni e della liberazione delle
sue inibizioni, il luogo di tutte le delizie, del paradiso terrestre oppure il
luogo dei mostri, degli esseri strani.
La prima cosa che si narra delle Indie è la ricchezza favolosa: l’Oceano
Indiano sembra essere la sorgente di tutti i beni della terra; qui si trovano le
“isole fortunate”, dodicimilasettecento, secondo Marco Polo, e una enorme
quantità di metalli preziosi, di legni e pietre preziose, di spezie. I governanti
sono giusti e magnanimi, tolleranti verso tutti i culti: pagani, musulmani,
buddisti, cristiani possono convivere in pace .E’ un modo di popoli ‘virtuosi’,
come si legge anche nel “De vita solitaria” del Petrarca.
Ci sono tuttavia racconti fantastici di altra natura. Odorico da Pordenone
racconta di uomini crudeli, di padri che mangiano i figli e viceversa, di
uomini che vivono come selvaggi, senza leggi, senza indumenti, senza pudore.
Secondo altri racconti, le Indie pullulano di esseri fantastici e mostruosi:
creature per metà umane e per metà bestiali, con i piedi girati all’indietro o
con la testa da cani; bambini che nascono con i capelli bianchi e muoiono
con i capelli nerissimi; corpi con un piede solo che s’innalza a ombrello; un
solo occhio sulla fronte...
Il mondo animale non è meno vario e fantastico: ecco la leucocroca, un po’
asino, un po’ cervo, un po’ leone; o la mantichora, dal muso umano e dalla
coda di scorpione, sibilante come un serpente; o i draghi, posti a custodia
dei tesori.
Nei racconti europei sulle Indie si incontrano altre meraviglie: fontane
dell’eterna giovinezza, alberi sempreverdi, panacee per tutti i mali, la fenice
immortale, il liocorno, gli alberi parlanti, l’albero-sole e l’albero-luna.
Non poteva essere diversamente per una terra in cui Dio aveva posto il
Paradiso terrestre. E’ anche una delle ragioni per cui l’Occidente guarda
alle Indie con tanta curiosità: trovare il passaggio al Paradiso terrestre che
la tradizione situava ai confini dell’India, nella montagna da cui nascevano i
quattro grandi fiumi della fecondità asiatica e mediterranea: il Gange, il
Tigri, l’Eufrate e il Nilo.
L’Occidente immaginava perché non conosceva e occultava l’ignoranza con
una esplosione di sogni. Ciò che gli Europei raccontano delle Indie non
riguardava le Indie, bensì le speranze, le attese, i drammi, le paure della
cultura dell’Occidente, che si confessa e si libera. Così le Indie ricche e
opulenti sono il risvolto della grande povertà europea; allo stesso modo,
un’Europa dominata da iniquità e oppressa da regnanti ottusi e intolleranti
sogna una terra giusta e magnanima, governata da sovrani illuminati. Di
fronte alla rigida morale imposta dalla Chiesa, alla sessuofobia imperante,
l’uomo europeo è sedotto dall’idea di un mondo liberato da tutti i tabù, da
tutte le proibizioni e che pratica la libertà sessuale, la nudità, la poligamia.
Anche il presentare una natura bizzarra, fatta di mostri inverosimili e di
alberi esotici significa immaginare una realtà infinitamente più ricca e
affascinante di quella dell’Occidente. Il sogno comune è quello della scoperta
di un luogo perfetto, di un Paradiso terrestre, in cui l’umanità ritrovasse la
felicità perduta.
Le visioni oniriche delle Indie non sono sempre identiche nel tempo: la
prospettiva meravigliosa e ottimistica prevale nei secoli di ascesa
dell’Europa come il Duecento, mentre quella pessimistica si afferma quando
l’Europa deve rinchiudersi in se stessa: nel Tre-Quattrocento il bel sogno
dell’Oriente si rovescia esprimendo tutte le paure di cui soffre l’Europa e
diventa il paese dei mostri, degli uomini senza bocca, dei Ciclopi pronti a
scatenarsi contro la cristianità.
A lungo andare, l’Europa, se voleva sopravvivere, non poteva più limitarsi ai
sogni, quali che fossero. Le Indie restavano la culla del mondo, la porta del
Paradiso terrestre, il luogo più vicino a Dio, il deposito di tutte le ricchezze e
di tutti i tesori della terra, la meta di ogni aspirazione umana e insieme
religiosa. Se esse non ‘arrivavano’ più all’Europa - in termini di merci, beni,
speranze, sogni appaganti doveva essere l’Europa a muoversi per andare ad esse, per farle sue.
Ed è appunto il tentativo di raggiungere le Indie per una via che non fosse più
quella ormai sbarrata del Mediterraneo a portare alla scoperta dei nuovi
mondi dell’Africa e delle Americhe
LE DIRETTRICI DELLA CONQUISTA
ESPLORAZIONE DELL'ASIA E DELL'AFRICA
I viaggi di esplorazione furono inizialmente intrapresi dai missionari e dai mercanti.
Verso la metà del Duecento il francescano Giovanni Da Pian del Carpine arrivò alla corte del Gran Khan in
Mongolia. Sulle sue orme si avventurarono nel 1271, i mercanti veneziani Matteo e Niccolò Polo e il loro nipote,
Marco.
Nel 1291 Ugolino e Guido Vival di tentarono di raggiungere la via delle Indie circumnavigando l'Africa, ma non fecero
ritorno. Tra i principali fattori che sollecitavano la ricerca di nuove vie per raggiungere l'Oriente vi erano: la
concorrenza con Venezia, che deteneva il monopolio delle spezie; l'aumento della popolazione; il miglioramento del
tenore di vitae il conseguente aumento della domanda di beni di lusso, reperibili nei mercato orientali; la necessità di
aggirare il blocco delle vie terrestri per l'Asia attuato dai turchi ottomani.
Il re portoghese Enrico I, ben consapevoli degli enormi vantaggi economici che sarebbero derivati dalle scoperte
geografiche, incoraggiò le esplorazioni di Bartolomeo Diaz, che nel 1488 arrivò al Capo di Buona Speranza, e di
Vasco De Gama, che nel 1498 raggiunse l'India dopo aver circumnavigato l'Africa. Nel XVI secolo il Portogallo
ottenne il controllo dei commerci con l'Oriente e creò centri fortificati lungo le coste dell'Africa e dell'Asia,
raggiungendo perfino la Cina e il Giappone.
LA SCOPERTA DELL'AMERICA
Basandosi sul principio della sfericità della Terra, il genovese Cristoforo Colombo volle tentare di raggiungere le Indie
procedendo in linea retta verso l'occidente.
La regina Isabella di Castiglia, preoccupata per l'intraprendenza esplorativa e commerciale dei Portoghesi, lo aiutò a
realizzare il suo progetto. Il 12 ottobre 1492 Colombo giunse nell'arcipelago delle attuali Bahamas; in seguito scoprì le
isole di Cuba e Haiti e, nei tre viaggi successivi (tra il 1493 e il 1502), le Piccole Antille e le coste dell'America del Sud.
Con il Trattato di Tordesillas (1494) Spagna e Portogallo si spartirono il Nuovo Mondo fissando lungo l'Atlantico un
immaginaria linea di demarcazione: i Portoghesi si attribuirono la parte orientale, gli Spagnoli quella occidentale.
Sulle orme di Colombo si avventurarono altri navigatori: il veneziano Giovanni Caboto, al servizio dell'Inghilterra, che
scoprì le coste si Terranova e del Canada (1497-1498); Pedro Alvares Cabràl (Portogallo),che prese possesso del
Brasile (1500), Vasco Nunez de Balboa (Spagna), che superò l'Istmo di Panama e giunse fino all'Oceano Pacifico
(1513); Ferdinando Magellano (Portogallo), la cui spedizione compì la prima circumnavigazione del globo; il
fiorentino Giovanni da Verrazzano, che si addentrò nell'America settentrionale (1524), nella quale si sarebbe insediata
l'Inghilterra; il francese Jacques Cartier, che si avventurò nel Canada, aprendo la strada all'occupazione francese della
regione (1535-1536).
I CONQUISTADORES: UNA STORIA DI ATROCITA'
La scoperta delle nuove terre non tardò a trasformarsi in appropriazione e a dare luogo a massacri e maltrattamenti della
popolazione e al saccheggio delle risorse del territorio. I conquistadores spagnoli, avventurieri senza scrupoli assetati di
ricchezze, si distinsero per brutalità e perfidia. Tra di essi spicca la figura di Hernàn Cortès, che tra il 1519 e il 1524
distrusse la civiltà azteca, fiorente nell'altopiano messicano. Tra il 1524 e il 1547 Francisco de Monbtejio sottomise le
prospere città- Stato dei Maya (nell'attuale Guatemala), medesima sorte toccò tra il 1531 e il 1536 al ricco impero degli
Incas (Perù) per mano di Francisco Pizarro e Diego de Almagro. La monarchia spagnola intervenne per stabilire la
propria autorità sui territori in mano ai conquistadores e istituì il Consiglio supremo delle Indie, un organo
amministrativo, giudiziario ed ecclesiastico che non fece legittimare le condizione di sopraffazione, violenza e
sfruttamento nelle quali era ridotta la popolazione locale.
Il territorio conquistato fu diviso in feudi (encomiendas) e ai funzionari della corona fu concesso il diritto di sottoporre
ai lavori forzati la popolazione non residente nelle encomiendas. In seguito alle denunce da parte di alcuni missionari
delle violenze perpetrate sugli indigeni, il re di Spagna si decise a intervenire: furono creati due vicereami (Nuova
Spagna e Perù) con funzione di controllo sulle attività dei conquistadores e promulgate le Nuove Leggi, per la difesa
degli indigeni contro gli abusi. Nel 1530 i Portoghesi colonizzarono le coste del Brasile. Sull'esempio delle
encomiendas spagnole anche il territorio brasiliano fu diviso in capitanie, ciascuna con il proprio donatario.
La conquista del Cile In Cile arrivarono ondate di conquistadores, alla ricerca del
mitico Eldorado.
Il primo di questi fu Diego de Almagro, che nel 1535 intraprese una spedizione nei
territori meridionali dell’impero inca, per i quali aveva ottenuto un governatorato e
dove sperava di trovare un tesoro più grande di quello di Atahualpa. Ma qui incontrò
un'organizzata resistenza delle popolazioni indigene, così nel 1537 ritornò in Perù.
Successivamente, dopo aver partecipato a spedizioni in Venezuela e Perù al fianco di
Pizarro, si diresse in Cile Pedro de Valdivia, dove, nonostante le grandi difficoltà
dovute all’ambiente e all’ostilità degli indios, riuscì a fondare numerose città. Pedro
stava consolidando la conquista, quando nel 1535 incontrò la fiera resistenza degli
araucani che lo uccisero a Tucapel.
Nel 1557 il vicerè del Perù nominò nuovo governatore del Cile il figlio Garcia
Hurtado de Mendoza, che continuò senza risultato la lotta contro gli araucani: la
guerra araucana continuerà così fino alla fine del XIX secolo
ANNO
ESPLORATORE
AL SERVIZIO
DI
1484
Diego Cao
Portoghesi
1487
Bartolomeo Diaz
Portoghesi
SCOPERTE
Raggiunge le coste del Congo
E annuncia di aver visto la costa più
a sud piegare verso est.
Varca casualmente il capo di Buona Speranza, entrando per
la prima volta nell’Oceano Indiano.
-1492
1° viaggio
-1493/1496 2°
viaggio
-1498/1500
3° viaggio
-1502/1504
3° viaggio
Cristoforo Colombo
Spagnoli
Nel 1492 Colombo sbarca nell’isola di San Salvador.
Nel secondo viaggio scopre Puerto Rico, Domenica,
Antigua, Guadalupa e Giamaica.
Durante il terzo viaggio Colombo raggiunge le coste
dell’America meridionale.
Nel 1502/1504 compie un altro viaggio nel continente da lui
scoperto.
8 luglio 1497
Vasco De Gama
Portoghesi
Traccia la rotta orientale per le Indie.
Marzo 1500
-1499
1°viaggio
-1502
2° viaggio
1509
1519
Amilcar Cabral
Portoghesi
Scoperta del Brasile
Amerigo Vespucci
Spagnoli
Costeggia il Brasile, giungendo fino in Patagonia.
Sebastiano Caboto
Inglesi
Si spinge fino alla Baia di Hudson.
Ferdinando Magellano
Spagnoli
Trova un passaggio tra le isole a sud della Patagonia, entra
nel Pacifico attraverso quello stretto, riesce ad attraversarlo
giungendo all’Oceano Indiano da est.
Viaggi e scoperte: Cronologia
1415: I portoghesi conquistano Ceuta, località del Marocco, di fronte a Gibilterra.
1416: Enrico il Navigatore fonda a Sagres un arsenale, un osservatorio e una scuola nautica e cartografica
1416 I navigatori portoghesi raggiungono Madera e Porto Santo
1444: Il portoghese Nuno Tristao raggiunge le foci del Senegal.
1455: Alvise Cà da Mosto raggiunge l'arcipelago di Capo Verde.
1469: Il portoghese Fernao Gomes naviga lungo le coste di Liberia, Costa d'Avorio e Ghana.
1481: Costruzione in Ghana del primo grande avamposto portoghese in Africa equatoriale
1482: Esploratori portoghesi raggiungono le foci del Congo.
1487: Bartolomeo Diaz doppia il Capo di Buona Speranza.
1492: Cristoforo Colombo sbarca sul continente americano, a Guanahani (San Salvador).
1493/1494: Colombo esplora le coste dell'isola di Cuba.
1497: Il veneziano Giovanni Caboto, al servizio della corona inglese, scopre il continente
nordamericano; probabilmente avvista Terranova.
1498: Vasco de Gama apre la via marittima per le Indie.
Colombo raggiunge le foci dell' Orinoco, e l'Istmo di Panama.
1499: Amerigo Vespucci con lo spagnolo Alonzo de Ojeda, raggiunge il Rio delle Amazzoni.
1500: Il portoghese Pedro Alvarez Cabral avvista le coste del Brasile.
1501/1502: Vespucci, con la spedizione portoghese comandata da Gonzalo Coelho, naviga lungo la costa del
Sud America e raggiunge le foci del Rio della Plata.
1507: Viene pubblicato ad opera del cartografo Martin Waldseemuller, il primo planisfero che disegna le
coste americane come parte di un nuovo continente staccato dall’Asia
1513: Lo spagnolo Vasco Nunez de Balboa, raggiunge l'Oceano Pacifico dopo aver attraversato l'Istmo di
Panama.
1516: Primo punto di appoggio portoghese a Canton
1518: Il Banco dei Fugger finanzia l’impresa di Magellano
1519/1522: La spedizione guidata da Ferdinando Magellano compie la prima circumnavigazione della
Terra.
1523: Giovanni da Verrazzano esplora le coste dell'America settentrionale, spingendosi fino all'altezza
dell'attuale New York.
1527: Juan de Saavedra scopre la rotta del Messico occidentale alle Molucche attraverso il Pacifico.
1534: Jacques Cartier scopre la Baia di San Lorenzo e si spinge nell'interno del Canada fino all'attuale
Montreal.
IL COMANDANTE GIOVANNI BATTISTA PASTENE
Giovanni Battista Pastene, marinaio genovese, nasce nel 1507 da Tommaso, navigatore,
ed Esmeralda Solimana, di origine araba; ha due fratelli e una sorella. Dopo l’ avventurosa
esplorazione delle coste australi del Cile e la fondazione del villaggio ‘Capitan Pastene’, si
sposa a Panama o a Quito con Ginevra de Ceio, imparentata con un conquistatore del Perù.
Tornato in Cile, la sua diventa una delle famiglie più prestigiose e rispettabili della
Conquista. Ha cinque suoi figli, che occuperanno posti di prestigio e si imparenteranno con
le principali famiglie di conquistadores. Anche i suoi nipoti formeranno una estesa
famiglia che, nel secolo XVII, conta magistrati, alti prelati, governatori, ecc..con una
grande influenza sulla società cilena.
Nell’aprile del 1543 Pastene viene invitato in
America Latina dal governatore del Perù,
Cristobal Vaca de Castro, per soccorrere con
vettovaglie, armi e attrezzature di ferro il
conquistador Pedro di Valdivia, uomo di fiducia
di Pizarro, in grave difficoltà nel tentativo di
conquistare il sud del Cile dopo l’incendio e la
distruzione della città di Santiago nel 1541.
Il governatore Cristobal cercava una persona
abile, fidata e ricca di esperienza che navigasse
lungo le coste del Cile e avvisasse Valdivia
dell’arrivo di navi francesi attraverso lo stretto di
Magellano.
Il marinaio Pastene giunge nel porto di Valparaiso
nel luglio del 1543 al comando della nave San
Pedro;
viene nominato capitano e gli viene affidato un
altro importante incarico: la vigilanza del litorale infestato dai pirati inglesi e olandesi nel
corso della guerra tra la Francia e l’imperatore Carlo V.
Il capitano Pastene doveva risolvere anche un grave problema: la comunicazione rapida
tra queste regioni del Cile e il governatore che risiedeva a Lima. A causa di questa
difficoltà di comunicazione, a mille leghe di distanza, in zone desertiche e piene di
pericoli, la spedizione spagnola in Cile aveva rischiato più volte di essere annientata,
sopraffatta dagli attacchi degli indios e dalla durezza degli inverni.
La nave San Pedro resta ferma per una quindicina di giorni nella baia di Valparaiso, senza
che la notizia giunga a Santiago, poiché i forti temporali, le intemperie e la scarsa
conoscenza della strada per la capitale impediva di avvertire Valdivia. Alla fine, in agosto,
dopo circa un mese dall’arrivo di Pastene a Valparaiso, un indio accetta di recarsi a
Santiago per dare la notizia.
Pedro di Valdivia si reca subito a Valparaiso con un gran seguito di funzionari per
incontrare Pastene, diventa suo amico, e si rende conto che il genovese è un vero marinaio,
un navigatore esperto, un capitano di guerra, al quale si può affidare un incarico delicato:
l’esplorazione e la conquista, in nome di sua maestà, del terre costiere ancora inesplorate,
fino allo stretto di Magellano.
Valdivia, che ha il titolo di “governatore e capitano generale del mare”, nomina Pastene
“tenente del governatore” e “capitano del mare” e il 3 settembre, alla vigilia della partenza
del San Pedro, con una solenne cerimonia gli consegna lo stendardo reale e dichiara
fondata la città di Valparaiso.
Il giorno successivo, dopo aver fatto giuramento nelle mani del governatore Valdivia e
avergli reso omaggio, capitan Pastene parte dal porto di Valparaiso con trenta uomini e
un’altra imbarcazione da guerra per scoprire, in nome di sua maestà, la costa australe del
Cile fino allo stretto di Magellano.
Il San Pedro naviga per tredici giorni seguendo sempre la costa, di notte solo con una vela
per timore dei forti venti di nord-est e del cielo sempre più minaccioso.
Il 17 settembre, in un giorno finalmente di sole e relativamente tranquillo, l’equipaggio si
avvicina alla terraferma, getta l’ancora e, in nome di Dio, di sua maestà e del governatore,
fonda il porto di San Pedro, in onore della propria nave e del nome di Valdivia. Senza
scendere a terra, poiché l’ora era già tarda, capitan Pastene può vedere dalla nave una tribù
di indios e terre coltivate.
Il giorno dopo, all’alba, il capitano con alcuni ufficiali e soldati, oltre al notaio, giunge
sulla terraferma, dove si erano radunati, con intenzioni pacifiche, alcuni indios attratti dalla
novità di una nave così grande. Pastene, per precauzione, lascia tre compagni
sull’imbarcazione, pronti in caso di ritirata forzosa. Per potersi avvicinare ai 13-14 indios
che erano sulla spiaggia, gli spagnoli mostrano loro alcuni oggetti; il capitano genovese
ordina di prendere per mano due donne e due uomini indios dichiarandoli suoi ostaggi e
attraverso di loro prende possesso di tutti gli indios, della loro terra, in nome del
governatore Valdivia e di Carlo V. Nel corso di una solenne cerimonia, di fronte al notaio,
tagliando con la spada molti rami, strappando con le mani erba e bevendo acqua del
ruscello Lepileudo, il capitano Pastene dichiara ad alta voce di prendere possesso degli
indios, delle loro terre e dell’intera regione; incide su un albero e in terra tre croci, mentre
tutti si inginocchiano e ringraziano Dio.
Ancora oggi la baia del porto di San Pedro conserva il nome del suo scopritore, Capitan
Pastene: si trova nella provincia di Valdivia, a sud della foce del Rio Bueno. Il nome
indigeno di questa regione era Lepilmapu.
Gli esploratori, presi i quattro indios in ostaggio, tolgono le àncore e si dirigono per il
ritorno verso Nord, viaggiando lentamente con solo una vela. Giunti nei pressi di un
promontorio, scendono a terra per prendere possesso ufficiale anche di quella regione e
ritornano sulla nave con una pecora donata dagli indios.
Il giorno dopo, 22 settembre, capitan Pastene scende a terra con 20 soldati, poiché sulla
riva c’erano più di mille indios: ne prende alcuni in ostaggio, mentre gli altri scappano e si
rifugiano nella boscaglia; ripete la cerimonia del possesso di quella zona, a cui dà il nome
di ‘Punta San Matteo’ e che oggi è indicata sulle mappe come ‘Punta Galera’. La
spedizione riparte con gli ostaggi e con venti pecore e, navigando a vista, giunge lunedì 22
settembre alla foce del rio Ainilebo, a cui dà il nome di “rio Porto di Valdivia”; dal mare il
capitano dichiara possedute quelle terre, così come l’isola di Chiloè, che incontra
navigando verso nord.
Il giorno 26 o 27, l’equipaggio arriva alle foci del Bìo-Bio, in provincia di Ra uco, che
confina con la provincia di Itata, possesso di Valdivia. In realtà lo scopritore della regione
di Bìo-Bio e il fondatore della città di Concepciòn, fu capitan Pastene, poiché Valdivia non
aveva mai effettuato alcuna spedizione a sud di Itata: due suoi capitani avevano raggiunto
un mese prima di Pastene le sponde del Maule e del rio Itata.
Il 30 settembre, dopo 27 giorni di navigazione, il San Pedro giunge nel porto di
Valparaiso, dopo aver scoperto ed esplorato 180 leghe di costa australe e i suoi principali
porti e fiumi.
Con questa importante spedizione il capitano Pastene segnalò al conquistatore del Cile,
Pedro di Valdivia, la via da seguire per consolidare le conquiste già attuate e per fissare,
anche se in modo impreciso, i confini del suo go vernatorato.
SCONTRO FRA DUE CIVILTA'
LA RAPIDA SCONFITTA DELLE POPOLAZIONI INDIGENE
La rapidità con cui gli spagnoli vinsero e sottomisero le civiltà amerindie è da attribuire a diversi fattori:
Superiorità negli armamenti e il diverso codice guerriero degli spagnoli: le armi da fuoco davano ai
conquistatori una grande superiorità di ordine psicologico ed una maggior possibilità di combattere a
distanza; i cavalli, poi, indispensabili e veloci mezzi di trasporto e di battaglia, crearono negli Indios un
impatto psicologico di paura e di rispetto; l’uso dell’acciaio, infine, consentiva armi molto più resistenti.
• Arrivo di malattie sconosciute portate dagli europei e per le quali gli indigeni non avevano sviluppato difese
immunitarie, come, ad esempio, vaiolo, morbillo, influenza
• Contrasti interni alle civiltà amerindie. In Perù era in corso una lotta per la successione al
trono; in
Messico la dominazione azteca aveva suscitato l’inimicizia di molte popolazioni sottomesse
• Incapacità di comprendere il comportamento individualistico e imprevedibile degli spagnoli sa parte di
società più statiche e ritualizzate
• Le concezioni religiose di alcune popolazioni indie che credevano nel ritorno degli antichi dei civilizzatori e
attribuivano importanza a presagi e segni funesti.
• L’ evangelizzazione come forma complementare di aggressione
La
conquista
spagnola
dei
territori
dell'America
centrale e meridionale si realizzò con una violenza brutale che
si può spiegare tenendo conto di vari elementi:
• I conquistatori desideravano arricchirsi in breve tempo per
ottenere non solo agiatezza e lusso, ma anche onore e prestigio
sociale. Le enormi ricchezze esaltarono questi uomini fino alla
follia.
• Molti conquistatori, reduci dalle violenze della Reconquista,
giustificate in nome della lotta contro gli infedeli, le riprodussero
in questa nuova impresa, che vivevano come nuova tappa
dell’evangelizzazione.
•
•
La solitudine in un mondo sconosciuto e la distanza dalla patria,
dal suo controllo sociale oltre che giuridico, fecero sì che i
conquistatori “dimenticassero” le loro leggi, anche quelle morali
La scoperta dell’ “altro” : prime descrizioni dal
‘Nuovo Mondo’
Dai diari e resoconti degli esploratori, giunsero in Europa, le prime immagini di un mondo sconosciuto e
misterioso. Le prime osservazioni ci vengono dal giornale di bordo e dalle lettere di Colombo. Egli, tuttavia,
prestò maggior attenzione all’ambiente naturale che agli esseri umani, di cui, fra l’altro, non comprende il
diverso sistema di valori: l’uomo non è oggetto di approfondite riflessioni e osservazioni.
Gli europei che successivamente descrissero le popolazioni amerindie mostrarono lo stesso atteggiamento di
Colombo: essi non colsero gli aspetti più profondi dei loro costumi e della loro organizzazione e la logica
interna al loro modo di vivere. Si limitarono agli aspetti più evidenti e maggiormente contrastanti con la
mentalità europea, come la nudità, il cannibalismo, le pratiche sessuali, le concezioni e pratiche religiose.
Dopo l'inferno della navigazione, con le sue paure e i suoi pericoli, dalle dimensioni epiche, Vespucci
racconta:
«noi navigammo sessantasette giorni nei quali avemmo aspra e crudel fortuna perciochè nei
quarantaquattro giorni, facendo il cielo grandissimo romore e strepito, non avemmo mai altro che baleni,
tuoni, saette e piogge grandissime; e una oscura nebbia aveva coperto il cielo di maniera che di dì e di notte
non vedevamo altramente che quando la luna non luce e la notte è di grandissima tenebre offuscata. E perciò
il timor della morte ci sopravvenne di modo che già ci pareva quasi di aver perduta la vita.»
L'approdo alle nuove terre suscitano alla meraviglia degli scopritori l'immagine del Paradiso Terrestre:
«Li alberi sono di tanta bellezza e soavità che ci pensavamo di essere nel Paradiso teresto […] tutti rendono
odore tanto soave che nono si puote immaginare, e per tutto mandano fuori gomme e liquori e sughi: e se noi
conoscessimo la loro virtù, penso che niuna cosa ci fusse per mancare, non pur in quanto ai piaceri, ma in
quanto al mantenerci sani e al recuperar la perduta sanità. E se nel mondo è alcun paradiso terrestre, senza
dubbio dee esser non molto lontano da questi luoghi.»
Colombo:
«l'amenità e la frescura di questo fiume […] come la moltitudine delle palme di varie guise, e le più belle e
alte che io abbia ancora trovate, e gli altri alberi infiniti, grandi, e verdi, e gli uccelli, e la verdura del piano
mi consigliavano a deliberar per sempre di fermermici. Questo paese […] è in tanta meraviglia bello, e così
supera ogni altro d'amenità e di vaghezza come il giorno vince di luce la notte […] quel luogo è il paradiso
terrestre, dove nessuno può giungere se non per volontà divina.»
I navigatori che esplorarono il Nuova Mondo rimasero incantati dalla flora e dalla fauna esotiche:
v
v
v
v
v
Variopinti pappagalli
Iguane, di cui gli indigeni si nutrivano
Ostriche
Tartarughe
Varie specie di pesci
Su questo scenario favoloso si iscrivono le prime osservazioni etnografiche degli abitanti del Nuovo Mondo:
si trattava di tribù primitive di cui gli scopritori descrivono usi e costumi, utensili e abitazioni, insistendo
sull’aspetto fisico e sulla loro nudità.
Queste le prime osservazioni di Colombo:
“Vanno nudi come madre li ha fatti, anche le donne... Erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti
molto graziosi. I loro capelli sono grossi e quasi simili alla coda di un cavallo”
Gli indigeni compaiono come parte del paesaggio naturale, ed è significativa la descrizione di Vespucci:
“Vegniamo alli animali razionali. Trovamo tutta la terra essere abitata da gente iniuda, così li uomini come
le donne, di vergogna nessuna...Non tengono né legge né fede nessuna. Vivono secondo natura. Non
conoscono immortalità d’anima. Non tengono infra loro beni propri, perché tutto è comune. Non tengono
termini di regni o di provincia; non hanno re, né ubidiscono a nessuno: ognuno è signore di sè. Non
amministrano giustizia, la quale non è loro necessaria, perché non regna in loro codizia. Abitano in comune
in case fatte a uso di capanna molto grande......case mirabolose, perché ho visto case che sono lunghe 220
passa e larghe trenta, e artificiosamente fabricate”.
E’ il ritratto perfetto dello stato di natura , della condizione pre-civile di cui primo segno è la nudità dei
corpi.
Nel comportamento degli indigeni colpisce anche la grande generosità.
Così Vespucci:
“...E noi mossi dalla loro bontà e innocentissima natura.....dimorammo quindici e venti giorni, perciochè
essi sono molto cortesi in albergare i forestieri”
e Colombo:
“E’ impossibile credere che qualcuno abbia mai visto un
popolo con tanto cuore e timoroso come questo, che si priva di
ogni cosa per dare ai cristiani tutto ciò che possiede”
Ma la disponibilità degli indigeni a scambiare oro e perle con
specchi, sonagli o collanine di vetro, è spesso considerata
prova di stupidità: non sfiora l’idea di un altro ordine di valori
e convenzioni (presso gli indios l’oro aveva un valore
puramente ornamentale), la diversità appare segno di
inferiorità. Ugualmente la loro mitezza sconfina con la
codardìa o con l’attitudine alla sottomissione.
Scrive Colombo ai sovrani di Spagna: “Non appena vedevano i
miei avvicinarsi, subito fuggivano....Dieci uomini avrebbero
potuto mettere in fuga diecimila di quegli abitanti....Sono
anche disposti a farsi guidare e ad essere mandati a lavorare la terra e ad adottare i nostri costumi”
Colombo non esiterà a rapire alcuni indigeni per esibirli alla corte di Spagna: ridurre gli indigeni a oggetti e
trattarli come esemplari da esibire è preludio all’azione coloniale, di asservimento predatorio, che stava per
imporsi nel Nuovo Mondo.
Gli spagnoli che vennero in contatto con i grandi stati amerindiani ci hanno lasciato descrizioni più precise e
piene di ammirazione, anche perché queste civiltà erano molto più ricche di quelle scoperte da Colombo.
Cortès guarda con stupore la città di Tenochtitlàn, le sue costruzioni, l’ordine e l’organizzazione. Tuttavia c’è
sempre un atteggiamento di “non comprensione” dell’altro; le descrizioni riguardano essenzialmente gli
oggetti, non le persone; degli aztechi Cortès ammira le abilità artigianali e artistiche, ma non li considera di
fatto esseri umani uguali a lui, ma solo abili produttori che è conveniente sottomettere in nome dell’autorità
reale.
Un caso unico, tra gli spagnoli che sbarcarono in America, è quello di Gonzalo Guerrero che, dopo essere
naufragato sulle coste dello Yucatan, visse tra gli indios, ne adottò i costumi, la lingua e le tradizioni e morì
combattendo contro gli spagnoli
La scoperta dell’ “altro” : uomini o ‘bestie’?
La scoperta dell’America fu anche scoperta degli Americani. Ma l’incontro
coincise con la loro distruzione, fisica e culturale: molti studiosi vi hanno visto il
primo genocidio della storia moderna.
La ricerca di ricchezze, di terra, di potere è all’origine della conquista spagnola.
Ma a spiegare la violenza estrema con cui essa si realizzò è necessario chiamare
in causa i quadri mentali e le giustificazioni ideologiche che resero possibili le
azioni e i comportamenti dei conquistatori.
Nella rappresentazione degli indios che ci testimoniano i documenti dell’epoca,
cogliamo qualcosa di più della semplice idea dell’infedele da combattere: la
discussione antropologica si sposta sul terreno dell’inclusione o dell’esclusione
dai confini dell’umano, a partire da una percezione assai più radicale della
loro diversità; se talora gli indios poterono evocare l’immagine dell’innocenza
primigenia e la condizione del paradiso perduto o dell’età dell’oro, più spesso
furono visti come creature a mezza strada fra i sottouomini e gli animali bruti.
Nelle descrizioni di Vespucci, che abbiamo ricordato, la nudità, l’antropofagia,
la sfrenatezza sessuale, l’assenza di leggi e il possesso comune dei beni danno
corpo allo stereotipo dell’indio come ‘selvaggio’, espressione conturbante della libertà naturale. Tale
immagine veniva rafforzata dai racconti di Cortès sull’antropofagia e i sacrifici umani degli aztechi.
Così si esprimeva il frate domenicano Tommaso Ortiz, che chiedeva la riduzione in schiavitù delle
popolazioni messicane nel 1524:
“Tra di loro non esiste alcuna giustizia, vanno in giro nudi, non provano né amore né vergogna, son come
asini, stupidi, dementi, insensati......sono stregoni, indovini, negromanti; sono codardi come lepri, osceni
come porci; mangiano pidocchi, ragni, vermi crudi dovunque li trovino; non hanno arte né abilità da
uomini....quanto più crescono quanto più diventano cattivi...insomma, sostengo che mai Dio creò gente tanto
intrisa di vizi e bestialità,
senza mescolanza di bontà o urbanità..”
la classificazione degli indios come sottospecie umana trovò sostegno dottrinale anche negli ambienti colti ed
ebbe la sua massima formulazione nel pensiero del dotto umanista Juan Ginès de Sepùlveda,
traduttore in latino della Politica di Aristotele. Richiamandosi alla giustificazione della schiavitù del filosofo
greco, Sepùlveda definì gli indios non uomini veri ma
“homuncoli, schiavi per natura, così ignavi e timidi che a mala pena possono sopportare
la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette,
sbaragliati da un numero così esiguo di spagnoli che non arriva nemmeno al centinaio. Il
fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno, per via di certe opere di
costruzione, non è prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi
animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna umana abilità saprebbe
imitare.”
Come si conciliava la considerazione degli indios come esseri inferiori con l’universalismo
cristiano, che riconosce tutti gli uomini uguali di fronte a Dio? La cattolicissima regina
Isabella oscilla ambiguamente fra i due piani: rifiuta a Colombo il diritto di vendere gli
indios come schiavi, ma decreta nel 1503 la riduzione in schiavitù della popolazione
antillana dei Caraibi come punizione dei loro peccati di idolatria e antropofagia. Lo stesso
Colombo non esitò a imporre il proprio dominio sull’isola di Haiti con metodi violenti e
disumani, inaugurando tra l’altro l’atroce pratica della caccia ai ribelli con mute di cani
addestrate a sbranarli.
La pratica generalizzata della violenza, con l’avanzare della conquista, finiva per risultare
incompatibile con la stessa missione evangelizzatrice che la legittimava, per il contrasto
clamoroso tra la predicazione dell’amore cristiano e i comportamenti brutali esibiti da
coloro che se ne dichiaravano portatori.
La voce che si levò più alta fu quella del domenicano
Bartolomè de Las Casas, sbarcato nelle Antille nel 1502:
encomendero fino al 1514, rinunciò all’ encomienda a causa
delle atrocità contro gli indios di cui fu testimone e dedicò
tutta la sua vita alla difesa dei diritti degli indios, con lunghe
permanenze nella madrepatria per perorarne la causa presso
l’imperatore e le autorità ecclesiastiche.
Grazie al suo impegno, l’imperatore Carlo V emanò nel 1542
le Nuove Leggi che, seppure con gradualità, decretavano la
soppressione dell’ encomienda e della schiavitù e la
legittimazione degli indios come sudditi diretti, al pari degli
altri, della Corona di Spagna.
E anche il papa Paolo III, con la bolla Sublimis Deus del
1537, aveva condannatop la considerazione degli indios come “bestie mute”.
Non bastarono tuttavia tali prese di posizione, comunque tardive, a cancellare i soprusi nei
confronti degli indios e a sradicare i pregiudizi e le dottrine che ne negavano i diritti.
Ad esse Las Casas si contrappose sviluppando il suo umanitarismo cristiano fino a farsi
sostenitore di una teoria dell’uguaglianza come base di ogni ordinamento politico:
“Le leggi e le regole naturali e i diritti degli uomini sono comuni ad ogni nazione, sia essa
cristiana o gentile, qualunque sia la sua setta, legge, stato, colore e condizione, senza
differenza alcuna.....Tutti gli indiani che si trovano nelle colonie devono essere considerati
liberi: perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cui io stesso sono libero”
(Lettera al principe Filippo, 1544).
Nel 1544 Bartolomè de Las Casas viene nominato vescovo di Chiapas, in Messico, sede
che è costretto a lasciare tre anni dopo a causa della violenta ostilità dei coloni, ritirandosi
a scrivere la sua monumentale Storia delle Indie. La sua opera di maggior rilievo e peso
nel dibattito politico-culturale dell’epoca fu però la Brevissima relazione sulla distruzione
delle Indie, presentata all’imperatore Carlo V nel 1542, che è denuncia implacabile delle
nefandezze messe in atto contro gli indigeni e insieme un documento di straordinaria
autocoscienza della distanza irriducibile della violenza e dello sfruttamento della
colonizzazione spagnola dall’esempio di vita cristiana.
Principale avversari di Las Casas fu proprio Sepùlveda, sostenitore della “guerra giusta”
contro gli indiani barbari e idolatri in base al principio del “dominio della perfezione
sull’imperfezione, della forza sulla debolezza, della virtù eminente sul vizio”. Las Casas si
oppose alla pubblicazione degli scritti di Sepulveda, che reagì reclamando una discussione
pubblica delle sue tesi.
Il dibattito si tenne a Valladolid nel 1550 di fronte a un consesso di teologi e giuristi
convocati dal sovrano: nel tesissimo duello oratorio Las Casas parlò per cinque giorni; al
termine i giudici non riuscirono a pronunciarsi, ma Sepùlveda non ottenne l’autorizzazione
alla stampa del suo libro.
L’argomentazione di Sepùlveda è propria di tutte le teorie sulla ineguaglianza degli
uomini: gli “altri” sono diversi da “noi” e dunque inferiori. “Mancano di ogni conoscenza
delle lettere, ignorano l’uso del denaro, vanno in giro generalmente nudi, comprese le
donne, e portano come bestie pesanti fardelli sulle spalle....questi barbari sono inferiori
agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne agli uomini; fra loro e
gli spagnoli corre la stessa differenza che intercorre -oserei dire- fra le scimmie e gli
uomini”.
Contro queste tesi Las Casas pronunciò la sua Apologia in difesa della pari dignità umana
degli indios con una reale comprensione delle differenze culturali e religiose, anche le più
estreme come il sacrificio umano. Las Casas non era certamente tollerante verso i riti e le
credenze degli indios, anzi era convinto assertore dell’azione missionaria per portarli sulla
via della fede e della salvezza cristiana; tuttavia non si poteva combattere l’idolatria
sterminando gli idolatri: “Sarebbe un gran disordine e un peccato mortale gettare un
bambino in un pozzo per battezzarlo e salvargli l’anima”.
La scoperta dell’ “altro” : il mito del ‘buon selvaggio’
La scoperta dei “selvaggi” americani e delle loro società ‘ ‘naturali’ , senza stato e senza proprietà privata,
influenzò largamente la riflessione antropologica e politica in Europa. Di qui nacquero, nel ‘500 e ‘600, i
primi germi del pensiero utopistico (Tommaso Moro, Campanella, Bacone) che prospettavano modelli di
società perfette, fondate su natura e ragione, come specchio rovesciato cui guardare, da un immaginario
altrove, ai mali e alle storture dell’Europa. Tommaso Moro, ad esempio, immagina di aver sentito parlare
dell’isola di Utopia da un compagno di viaggio di Vespucci e la colloca fra le acque oceaniche, sotto
l’equatore.
Anche la filosofia politica e del diritto, nelle teorizzazioni intorno allo “stato di natura”, da Grozio a Hobbes,
attingeva notizie e riferimenti dalle relazioni di viaggio nelle Americhe, che fornivano esempi di modi e
condizioni di vita considerate pre-civili.
Già verso la fine del ‘500, il filosofo francese M. de Montaigne nella sua
opera Essais ( “Saggi”)
guarda con lucido relativismo alla pluralità delle culture, e a proposito del
cannibalismo afferma:
“Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale
modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando loro colpe, siamo
tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel lacerare
con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a
poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci(…) che nell’arrostirlo e
mangiarlo dopo che è morto.”
Confrontandosi con gli orrori delle guerre di religione, che divampavano nella civile Europa, Montaigne
poteva affermare che:
“Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di
riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.
Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa.”
Montaigne rifiuta di assumere il punto di vista europeo-cristiano a metro di giudizio delle altre culture e
civiltà e fornisce un contributo fondamentale al pensiero laico moderno e ribalta i pregiudizi sulle barbarie
dei selvaggi. Egli guardava agli antichi con la consapevolezza storica, propria del pensiero rinascimentale,
della loro distanza da noi, che li rendeva comparabili ai popoli del Nuovo Mondo: essi sono ora ciò che noi
siamo stati un tempo, un’umanità giovane e più vicina alla natura, che pure ha prodotto in epoche e luoghi
diversi, grandi esempi di civiltà.
La scoperta e la rivalutazione del
primitivismo e della diversità
degli antichi dai moderni portava
a ricondurre a una comune
matrice le varie forme di umanità
e a riconoscervi, al di là delle
differenze socio-culturali,
le
somiglianze che testimoniano
l’appartenenza
a
un’uguale
natura.
Ma è nel corso del Settecento,
con la cultura dell’Illuminismo,
che si configura una precisa
tendenza all’idealizzazione del
“selvaggio”, come strumento di
critica radicale della società e
delle istituzioni della civile Europa all’epoca dell’ Antico Regime.
Il maggior artefice del mito del “buon selvaggio” è Jean Jacques Rousseau, che nel suo Discorso
sull’origine dell’ineguaglianza (1755) contrappone alla felicità dell’uomo primitivo l’infelicità dell’uomo
civilizzato, definitivamente allontanatosi dalla condizione originaria di uguaglianza e benevolenza reciproca
che egli trova testimoniata presso gli indiani d’America.
In tutta la leteratura del Settecento il “selvaggio” diventa una figura letteraria ricorrente nella parte
dell’ingenuo, che tuttavia con la sua semplice saggezza è in grado di esprimere una critica corrosiva dei
costumi degli europei.
Anzi, Voltaire nel suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1765) mostra, con paradossale ironia,
quanto primitiva e selvaggia sia la condizione di vita che si perpetua fra molti abitanti dell’Europa:
“...Piuttosto bisogna convenire che i popoli del Canada e i Cafri, che abbiamo voluto chiamare selvaggi,
sono infinitamente superiori ai nostri. L’urone, l’algonchino, l’abitante dell’Illinois, il cafro, l’ottentoto,
posseggono l’arte di fabbricare da sè tutto ciò di cui hanno bisogno, e quest’arte manca ai nostri contadini. I
popoli dell’America e dell’Africa sono liberi, e i nostri selvaggi non hanno neppure l’idea della libertà”.
Il trauma della conquista
Le società amerinde avevano conosciuto invasioni, conquiste, dominazioni interne.
Gli Aztechi e gli Incas avevano costruito i loro imperi inglobando popoli diversi, di
cui avevano tuttavia accettato e assorbito in parte culture e tradizioni, in un sistema di
potere che lasciava persistere, nella vita comunitaria, gli antichi legami e la continuità
con il passato locale, in un rapporto dunque di acculturazione reciproca. La conquista
spagnola segnò invece una rottura violenta e catastrofica della loro storia.
Riportiamo alcuni versi dalla più importante opera letteraria scritta in idioma maya da
Chilam Balam di Chumayel:
"Allora tutto era buono
e allora gli dèi furono abbattuti.
In loro c'era sapienza.
Non c'era allora peccato…
Non c'era allora malattia,
non c'era dolore d'ossa,
non c'era febbre per loro,
non c'era vaiolo…
Dritto ed eretto andava il loro corpo allora.
Non fu così ciò che fecero gli dzule*
Quando giunsero qui.
Essi insegnarono la paura,
vennero a far sfiorire i fiori.
Perché il loro fiore vivesse
Sciuparono e succhiarono il nostro fiore…
Si spaccherà la faccia del sole,
cadrà a pezzi sopra gli dèi di adesso…
Ci hanno cristianizzato
Ma ci fanno passare di mano in mano
come animali.
E Dio è offeso dai "Succhiatori"…"
* Duzle = stranieri
LA SOCIETA' COLONIALE
a) Le istituzioni politiche
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Dopo i primi anni di "anarchia", in cui i conquistatori si sostituirono con la
violenza alle precedenti organizzazioni politiche lottando spesso tra loro per
l’egemonia, i sovrani di Spagna e Portogallo cercarono di mettere sotto
controllo le colonie.
Nell’impero coloniale spagnolo un primo strumento di controllo fu la
legislazione per le Indie.
Un secondo strumento furono le istituzioni e le magistrature di nomina regia,
direttamente dipendenti dal sovrano, al quale alla fine degli incarichi
dovevano rispondere del loro operato.
Il potere politico effettivo rimase sotto il controllo del re, che lo gestiva con
moderazione e intelligenza per non irritare l'aristocrazia coloniale, attraverso
diverse istituzioni attive sia in Spagna sia in America:
Consiglio delle Indie, formato da nobili e giuristi, consigliava il re, studiando
i problemi della colonia e proponendo i nomi dei candidati preposti alle
massime autorità.
La Casa delle Contrattazioni regolava e controllava tutto ciò che riguardava
il commercio con le colonie. Entrambe le istituzioni avevano sede in Spagna.
Gli organismi coloniali erano i seguenti:
I viceré costituivano la massima autorità in un determinato territorio e
sostituirono i governatori della prima fase della conquista: essi
rappresentavano la corona e rimanevano in carica inizialmente per 3 anni poi
prolungato a 5.
I capitani generali esercitavano funzione analoghe a quelle dei viceré in
territori meno importanti.
Le reali udienze, supremi tribunali di giustizia, potevano esercitare il potere
di consiglio del viceré.
I cabildos amministravano i municipi. Erano formati da proprietari, mercanti,
clero, professionisti, ….
I controllori avevano il compito di controllare gli eventuali abusi dell'autorità
e difendere i diritti degli indigeni
Gli intendenti con potere politici, amministrativi, giudiziari e militari, furono
istituiti per eliminare gli abusi dei controllori, limitare i poteri dei cabildos ed
evitare la concentrazione del potere nelle mani dei viceré
I controllori degli indios con funzioni di "polizia" tribunale ed esazione delle
imposte.
Un ulteriore strumento di controllo e di dominio della corona Spagnola in
America fu rappresentato dalla Chiesa, sottoposta interamente all'autorità
reale e non al Papa: era un privilegio accordato in età controriformistica alla
Spagna. Il re nominava le autorità ecclesiastiche, decideva sulla fondazione
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
di Chiesa e monasteri, sceglieva i missionari, raccoglieva le decime, usava i
contrasti tra gli ordini religiosi e i proprietari laici per mantenere il suo potere.
Il sistema politico coloniale Latinoamericano, durò tre secoli.
Più che della sua forza, tale permanenza derivò:
Dalla mancanza d'interesse degli altri stati Europei ad assumersi l'onore del
dominio coloniale quando già godevano dei profitti economici delle colonie
attraverso il commercio legale e il contrabbando.
Dalla mancanza di unità, visione politica e strumenti ideologici della
popolazione creola che avrebbe dovuto essere la più interessata alla fine del
governo coloniale.
b) La stratificazione sociale
Complessa era la stratificazione sociale della colonia.
l'aristocrazia era formata esclusivamente da bianchi , sia spagnoli (un
piccolo gruppo che si rinnovava di frequente) sia creoli (i discendenti dei
conquistatori, nati e residenti in America)
Questi ultimi erano i proprietari dei latifondi: ricchi, potenti, istruiti e
orgogliosi di essere latinoamericani, ma al tempo stesso ambivano a un titolo
nobiliare riconosciuto dal re.
il ceto medio, costituito da proprietari di miniere, commercianti, militari,
intellettuali, artigiani, era composto da bianchi, ma a volte anche da meticci.
Pur possedendo anche notevoli ricchezze, questo era un gruppo instabile,
totalmente dipendente dall’aristocrazia e senza capacità culturali autonome.
i lavoratori in genere erano non bianchi. In condizioni di libertà, semilibertà
o schiavismo, svolgevano tutto il lavoro produttivo, ottenendo in genere solo
il necessario per sopravvivere. Fra loro:
• gli indios, che avevano uno stato giuridico particolare, con una propria
aristocrazia e organizzazione, isolati dal mondo bianco che non doveva
"contaminare" con il suo cattivo esempio. Un numero sempre più elevato di
indios, però, usciva dalla comunità andando a formare un proletariato
miserevole, senza radici e identità
• i neri, in numero minore e in maggioranza liberi in area spagnola , molti e in
genere schiavi in area portoghese,
erano rifiutati sia dai bianchi sia dagli indios, ma riuscirono a mantenere
forme della loro cultura di origine e, se
svolgevano lavori domestici, anche a condurre una vita dignitosa.
• i gruppi misti (meticci, mulatti) anche se erano liberi, erano la parte della
popolazione più disprezzata perché
rifiutata sia dai bianchi sia dagli indios e dai neri. Alimentavano un
sottoproletariato violento e vizioso. Col
tempo, però, grazie alla mescolanza etnica, quello "misto", fu il gruppo
numericamente dominate in quasi tutti i
paesi dell'America Latina; di conseguenza, si persero gli aspetti negatici
che li connotavano.
Rispetto alla società europea , la società coloniale fu caratterizzata da una
vasta possibilità di mobilità sociale, almeno per bianchi e meticci. Dal
cinquecento al XX secolo, l'America ha continuato ad attirare molti individui
di diversi paesi per la possibilità a volte reale, più spesso immaginaria di
cambiare rapidamente status.
c) l'organizzazione economica
In età coloniale, la produzione è caratterizzata dal ciclo.
Un prodotto ha una rapida espansione produttiva sostenuta unicamente dalla
richiesta esterna; questo porta a uno sfruttamento intensivo e, sul piano
economico, al formarsi di rapide fortune. In un secondo momento si verifica
un arresto della domanda: il settore entra in crisi, viene abbandonata quella
produzione , inizia un processo di degrado ambientale e di spopolamento del
territorio, che si ritrova così più povero del momento di inizio di ciclo. In area
spagnola i cicli che si susseguono riguardano i metalli prima, poi il legname, i
prodotti di piantagione, i pascoli. In area brasiliana il “Pau brazil” (un tipo di
legname), poi, dal Seicento, la canna da zucchero, le miniere e i pascoli.
Nell' Otto - Novecento i cicli continuano con caucciù, caffè, cotone, banane,
dimostrando il persistere del carattere di dipendenza e sfruttamento
dell'economia dell'America Latina.
L'attività mineraria fu il più importante settore produttivo sviluppato in
America Latina. Nonostante la tecnologia molto primitiva (il lavoro era svolto
a mano dagli indios), essa richiedeva grossi investimenti e il profitto che dava
poteva esaurirsi rapidamente, come i filoni del metallo estratto. Aveva un
carattere di rapina, ma metteva in moto anche attività collaterali.
In area Spagnola, la forma agricola dell'epoca coloniale era il latifondo, da
quando i conquistatori si fecero concedere dal re una merced (un lotto di
terra) e una economienda (il diritto di far lavorare al proprio servizio un certo
numero di indios, che, in cambio, dovevano essere evangelizzati) in cambio
del riconoscimento della sua autorità sul territorio conquistato.
Quando l’imperatore Carlo V soppresse nel 1542 l’encomienda, i proprietari
terrieri cominciarono a utilizzare il lavoro salariato o quello di schiavi per
debiti, si impossessarono di sempre maggiori quantità di terre, dando vita alla
hacienda, il latifondo,, fonte di ricchezza e di prestigio per l’aristocrazia
creola.
In area Portoghese, l'agricoltura coloniale si concentrò nelle piantagioni di
prodotti destinati all'esportazione, lavorate da schiavi neri. Mentre la
monocoltura esauriva rapidamente il terreno, piccole aree marginali erano
lasciate alla produzione per l'autoconsumo.
Nelle colonie si sviluppò anche un'industria a carattere artigianale, specie
cantieristica ,tessile e dei prodotti di cuoio e d’oro, dove erano impiegati
soprattutto indios , ma anche neri e bianchi poveri. La produzione fu però
limitata dalla politica mercantilistica, che vietava la lavorazione di quei
prodotti che potevano entrare in concorrenza con quelli della madrepatria.
La politica che reggeva l'economia coloniale era basata su uno stretto
mercantilismo: per esempio , tutto il commercio spagnolo da e per le Indie
passava per Siviglia e arrivava in pochi porti latinoamericani. Contrabbando e
pirateria si affiancavano al regime di monopolio ed erano ‘attività’
tacitamente accettate. Il monopolio venne aboliti nel ‘600
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
Le caratteristiche dell'economia coloniale furono inoltre:
L'estrema limitatezza degli scambi interregionali, impediti dalla madre patria;
La difficoltà dei trasporti sia per terra sia per mare;
La dipendenza dalla domanda esterna;
L'alto grado di profitto garantito da uno sfruttamento estensivo della terra e
intensivo della mano d'opera e dall'anticipazione delle merci come forma di
pagamento;
L'uso di forza - lavoro legata a rapporti di produzione differenti;
La mancanza di un ceto contadino;
La compresenza di un'economia naturale con una più complessa.
L'economia coloniale e il perpetuarsi di molte sue caratteristiche nel corso
dell'ottocento e del novecento hanno posto le basi per il sottosviluppo attuale
dell'America Latina.
Ø
Ø
Ø
d) La vita materiale, culturale e religiosa
La vita coloniale si svolgeva nei centri abitati perché:
ciò corrispondeva alla tradizione iberica di vivere in centri urbani e non
dispersi;
la conformazione del territorio e la sua vastità favorivano l'aggregazione;
gli indios erano più controllabili se erano riuniti in villaggi.
In poco tempo si creò perciò una rete di città caratterizzate da diverse
funzioni: municipi delle zone agricole, centri minerari, città portuali, fortini
sui confini, villaggi indios.
Ogni municipio aveva poteri amministrativi, ecclesiastici, mercantili,
finanziari, militari ed era dotato di scuole, ospedali, centri di divertimento.
La vita coloniale era dominata dai gusti e dallo stile dell’aristocrazia creola,
che a sua volta si modellava su quella spagnola e portoghese. Ma esistevano
anche altri modelli: quello dei mercanti, quello degli indios, quello degli
schiavi neri. La diversità e la separazione tra questi mondi non impedirono
forme di contatto e di scambio, che crearono l’originalità della società
latinoamericana attuale.
Fondamentale fu il ruolo della chiesa a cui la corona affidò il compito di
evangelizzare, civilizzare e moralizzare il processo di conquista. Importante
fu anche la sua funzione nel difendere gli indios dagli abusi dei conquistatori,
nel recuperare lingua e aspetti della cultura india, nel proporre modelli di
colonizzazione più giusti e umani, nonostante la violenza con cui essa stessa
distrusse tutte le forme della cultura locale che contrastavano con la religione
cattolica.
Nonostante il suo legame con la monarchia spagnola, nel momento
dell'indipendenza la Chiesa si schierò con la rivoluzione creola: ciò le ha
permesso di mantenere inalterato, fino ai nostri giorni, il suo ruolo e la sua
funzione.
L'AMERICA LATINA E LA CONQUISTA
IL GENOCIDIO
L’impatto tra conquistatori e conquistati fu tremendo, una vera tragedia
che ancora oggi si continua a denunciare anche perché causa lontana dei
mali di cui soffre oggi l’America Latina.
In primo luogo le campagne
militari: cosa potevano gli
archi, le frecce, le fionde, i
lazos degli indigeni contro le
“bocche da fuoco” e i cavalli
“mostruosi” degli europei? Le
carneficine erano inevitabili.
Poi la destabilizzazione: questi
popoli erano abituati a
mangiare
a
sufficienza;
avevano le loro tradizioni, le
loro gerarchie sociali, i loro
costumi religiosi, insomma una
loro sicurezza. Tutto questo fu
cancellato d’un colpo con
violenza e sostituito con un regime di vita, con valori sociali e religiosi, con
abitudini alimentari e di lavoro per loro intollerabili.
Tradotta in cifre, la scoperta dell’America appare un gigantesco genocidio:
bastarono alcuni decenni per ridurre drasticamente la popolazione india, e non
solo per la crudeltà dei conquistatori, ma anche per l’incapacità di percepire il
“diverso”, non tanto il “diverso culturale” -traguardo ancora oggi difficile da
raggiungere- ,quanto il “diverso fisiologico”. Gli indigeni, infatti,
soccombevano in massa a malattie da cui gli europei erano da tempo
immunizzati o crollavano sotto i ritmi di lavoro nei campi e nelle miniere o
restavano decimati dal tipo di alimentazione loro riservata.
Di fronte a questa realtà qualcuno ha parlato di “distruzione di un continente”.
In effetti enormi interrogativi restano aperti: vantaggi materiali ce ne furono
per l’Europa e anche vantaggi culturali: si prese coscienza che i confini del
mondo non coincidevano con quelli della cristianità, che c’erano zone non
toccate dalla rivelazione cristiana, che il “diverso” esisteva. Ma a quale
prezzo? E quali furono le conseguenze? E’ lecito, ad esempio, parlare ancora
di America Latina quando la “latinità” di quel continente fu per secoli un
tragico manto di sfruttamento e di morte? O non esiste solo un’America
“indiana?
L’impatto dell’Europa con i nuovi mondi si presenta dunque come un evento
terribilmente ambiguo: affascinante per il coraggio e la forza che lo resero
possibile, spaventoso per le tragedie che comportò.
Popolazione india, bianca e nera in America Latina prima e dopo la conquista
ANNI
INDIOS
BIANCHI
NERI
1492
40 MILIONI
-
-
1570
8.107.150
118.000
230.000
Con la conquista la popolazione india subì un crollo demografico senza
precedenti dovuto:
- alle stragi e ai massacri avvenuti nel periodo della conquista
- alla mortalità provocata dai ritmi e dalle condizioni di lavoro, soprattutto
nelle miniere
- alla mortalità legata al peggioramento dell'alimentazione in seguito al calo
della produzione
- all’ autodistruzione (suicidi, blocco della fecondità, rifiuto di procreare),
nel momento in cui gli indios si resero conto che il loro mondo era crollato
- alle epidemie provocate da virus europei sconosciuti in America e contro i
quali gli indios non avevano ancora sviluppato gli anticorpi
Lungo il corso del Cinquecento le immigrazioni bianche e nere in America
Latina furono limitate e non incisero sul ripopolamento. Si verificarono però i
primi incroci interrazziali dovuti alla scarsa presenza di donne bianche e alle
numerose forme di violenza sessuale attuate dai conquistatori
I conquistatori giustificarono ideologicamente lo sterminio, ma si
preoccuparono per le conseguenze che esso provocava:
- sul piano economico (pochi tributi, poca produzione, pochi lavoratori,
territori abbandonati, degrado delle infrastrutture per la mancanza di
manutenzione)
- sul piano sociale (scomparsa di villaggi e comunità, degradazione del
tessuto familiare e comunitario con conseguente mancanza di controllo
sociale)
La popolazione cominciò a crescere di nuovo a partire dal 1650, quando gli
effetti più traumatici della conquista erano passati, ma fu caratterizzata dalla
compresenza di più gruppi etnici (indios, bianchi, neri, asiatici) e da una
sempre più forte componente interetnica (meticci, mulatti, ecc..)
Nell’organizzazione coloniale ogni gruppo etnico ebbe una collocazione
sociale piuttosto rigida. Anche tra i bianchi vi furono discriminazioni dovute
essenzialmente alla ricchezza e al fatto di essere nati in Europa piuttosto che
in America Latina.
LA DESTRUTTURAZIONE DELLA SOCIETA' AMERINDIA
La conquista europea dell’America Latina implicò una destrutturazione
complessiva delle società amerindie che coinvolse ogni aspetto della vita
materiale e mentale. Tale processo fu tanto più visibile e drammatico quanto
più la società precedente aveva avuto un’organizzazione accentrata (Messico
e Perù) e aveva strumenti per descriversi e analizzarsi
La destrutturazione economica
• L’ organizzazione produttiva tradizionale venne sconvolta: in Perù, ad
esempio, cessò lo scambio di prodotti tra le diverse fasce altimetriche -dalla
costiera alle zone andine- e i prodotti ora privilegiati erano quelli destinati
all’esportazione. Il centro del sistema non fu più Cuzco ma Lima.
• In tutta l’America spagnola, il crollo demografico e il fatto che gli indios
fossero strappati alle comunità per essere impiegati nelle miniere o nelle
guerre tra conquistatori provocarono l’abbandono delle terre coltivate e il
deteriorarsi dei sistemi d’irrigazione e terrazzamento e quindi la diminuzione
della produzione complessiva. Questi fattori e la diminuzione della
produzione alimentare per fare spazio ai prodotti di esportazione ridussero
alla fame le popolazioni indios.
— Il principale sistema di sfruttamento fu il TRIBUTO, che gli europei
chiedevano agli indios sotto forma di prestazioni lavorative dovute dalla
comunità al conquistatore; quanto più la popolazione calava, tanto più il
tributo diventava pesante e richiedeva fino a sette-otto mesi di lavoro.
Successivamente il tributo fu uniformato per legge e si pagò in denaro.
— Un altro sistema fu l’USURPAZIONE DELLA TERRA. In teoria gli
spagnoli avevano diritto al tributo, ma non alla terra, che rimaneva alla
comunità. Ma un po’ per il calo demografico che portò all’abbandono delle
terre, un po’ per gli abusi, porzioni sempre più estese di terra venivano
privatizzate dai conquistatori e coltivate dagli indios, sotto forma di tributo o
a pagamento.
Nell’Ottocento, dopo l’indipendenza, il processo di espropriazione degli
indios divenne generale,
con conseguente creazione del latifondo e di una massa di individui senza
terra
— Il MONOPOLIO DEL COMMERCIO INTERNO da parte degli spagnoli
fu un altro sistema di sfruttamento: i prezzi maggiorati mantennero gli indios
in una costante situazione di indebitamento e quindi di lavoro coatto.
L’introduzione del denaro non bastò a creare un’economia monetaria perché il
denaro rimase estraneo all’ideologia india
La destrutturazione sociale e psicologica
• La fine del sistema sociale precedente provocò nelle popolazioni indigene
un trauma violento: sembrava che il mondo fosse crollato, senz’ordine, che gli
dei fossero morti, il sole privo di vita . Molti furono i casi di suicidio, si
verificò un arresto della procreazione. Il senso di frattura e di trauma rimase
come vissuto fondamentale del mondo indio ed è riscontrabile fino ai nostri
giorni.
• Le organizzazioni comunitaria e familiare furono sconvolte dal crollo
demografico e dai costanti trasferimenti di persone imposti dal lavoro forzato
• Molti indios cominciarono a vivere fuori della comunità, trasformandosi in
servitori diretti degli spagnoli o in vagabondi, persero la loro identità
originaria, diventarono ladinos, iniziarono un rapporto individuale con il
bianco.
• I capi tradizionali delle comunità indie vennero impiegati come strumento
di controllo della popolazione e ripagati con privilegi o parziale assimilazione
al mondo dei vincitori.
• L’ordine gerarchico tradizionale (l’inca, l’aristocratico, la comunità) tese a
livellarsi portando alla scomparsa delle norme che regolavano la vita
comunitria.
L’acculturazione limitata
• La destrutturazione sociale non fu compensata dall’assunzione di un nuovo
tipo di cultura e d’organizzazione sociale. L’accettazione da parte degli indios
di frammenti disparati della cultura europea non significò una sua reale
assimilazione. Nessuna nuova ideologia fornì agli indios un senso alla
dominazione straniera
• Si realizzarono comunque forme di acculturazione limitata tra le classi
aristocratiche e nelle zone dove il crollo demografico era stato più alto.
L’acculturazione si realizzò su aspetti di vita materiale (cibi, armi, abiti,
mezzi trasporto…), ma molto meno nell’ambito religioso o linguistico.
• Nonostante l’imposizione culturale da parte dei conquistatori e la resistenza
più o meno passiva delle popolazioni sottomesse, con il trascorrere dei secoli,
in tutti gli aspetti culturali si fonderanno elementi di origine europea con altri
di origine india, costituendo la peculiarità e l’originalità della cultura latinoamericana.
Le trasformazioni dell’ ecosistema
Nel Nuovo Mondo gli animali e le piante introdotti volontariamente o
accidentalmente dagli europei produssero notevoli mutamenti sull’ambiente,
pari a quelli determinati dall’impatto della conquista e dall’invasione di
microrganismi patogeni portati dagli europei.
Ad esempio, gli animali che gli europei portarono con
sé (cavalli, buoi, maiali, pecore, capre, galline, gatti,
ecc..) trovarono in America condizioni molto favorevoli
e si riprodussero velocemente. Infatti gli animali di
grossa taglia e i grossi predatori del continente erano
pochi ed esistevano pertanto nicchie ecologiche vuote
che furono rapidamente riempite
La diffusione di animali di origine europea ebbe varie
conseguenze sul:
v Piano Ecologico : vaste zone furono deforestate per fare spazio al pascolo
conseguente impoverimento del suolo, perdita di specie arboree e animali,
modificazione del clima, diffusione di piante infestanti europee che
soppiantarono quelle autoctone
v Piano Economico-sociale : fiorente attività di allevamento, che diede vita ad
una civiltà di allevatori e creatrice di prodotti materiali
(vestiti, cuoio) e culturali (stili di vita, canzoni, storie)
v Piano dell'alimentazione : modificazione dei costumi alimentari degli indios
v Piano dei trasporti : come "mezzo" di locomozione e di trazione si diffusero il
cavallo e il bue; ciò richiese la costruzione di nuovi tipi di
strade: quelle indie erano adatte per camminare a piedi
v Piano militare : gli indios adottarono rapidamente il cavallo come "strumento"
bellico
Nelle zone conquistate venne introdotta dagli Europei la coltivazione di
piante originarie di Europa, Asia e Africa. Le piante non sempre riuscirono
ad adattarsi al clima e quindi l'economia coloniale inserì specie vegetali di
origine asiatica e africana (canna da zucchero, caffè e banane, ecc..) il cui
sistema di piantagione sconvolse l’equilibrio ecologico delle zone in cui
venne introdotto, perché la monocoltura distrusse le foreste, impoverì i suoli e
tolse spazio alle altre colture originarie.
Di incalcolabile portata fu l’importazione dall’Europa di virus e batteri di
malattie fino ad allora sconosciute in America (morbillo, vaiolo, varicella,
difterite, influenza) provocando un altissimo numero di vittime fra gli indios,
a causa della mancanza di anticorpi.
Le resistenze alla colonizzazione
a) la resistenza armata
La brutalità e il disprezzo dei
conquistatori e la politica di
sfruttamento
economico
provocarono molti episodi di
resistenza
armata
della
popolazione locale durante tutto il
periodo coloniale.
La storia di questa resistenza è
frammentaria e incompleta perché
le fonti dell’epoca ne parlano per
sottolineare l’eroismo dei bianchi
o per chiedere sostegni alla
madrepatria.
Molto scarse sono le fonti di parte
india, in cui gli episodi spesso si
trasformano in leggende o
rappresentazioni
a
carattere
mitologico.
L’ insuccesso della resistenza
degli indios è dovuto solo in parte a una inferiorità tecnologico- militare.
Molte singole battaglie, infatti, furono vinte dagli indios, che, in un secondo
momento, seppero assumere in modo originale alcune tecniche della guerra
dei bianchi come l’uso del cavallo e delle armi da fuoco.
Le ragioni della loro debolezza sono in parte analoghe a quelle che avevano
determinato la vittoria dei primi conquistatori :
1. Difficoltà di coesione interna tra le varie etnie;
2. Abilità e rapidità con cui i colonizzatori riuscirono a integrare parte della
classe dominante india e a proporre modelli di acculturazione;
3. Coscienza della fine di un proprio mondo precedente e difficoltà a
immaginarne uno alternativo che si opponga alla cultura bianca;
4. Continuo afflusso di uomini e mezzi in America dall’Europa per
consolidare una conquista che garantiva profitti e prestigio
Gli episodi più conosciuti di resistenza armata si ebbero:
§ CARAIBI: la popolazione si ribellò radicalmente ai compagni e ai
successori di Colombo e fu per questo sterminata
§ CENTRO AMERICA: la resistenza degli indios seppe sfruttare le
difficoltà di penetrazione degli europei, dovute al clima e al territorio, per
organizzare continue imboscate e azioni di guerriglia
§ AMAZZONIA: la resistenza india e le difficoltà legate al territorio
permisero di bloccare l'avanzata di qualunque spedizione alla ricerca del
mitico Eldorado
§ PERU': la lotta fu guidata dai successori di Atahualpa ed ebbe come
obiettivo la restaurazione dell'impero inca. Con la morte dell'ultimo inca,
Tupac Amaru (1572), ci fu un arresto della lotta armata che riprese solo nel
Settecento, con un diverso livello di coscienza anticolonialista
§ MESSICO: la guerra di Mixton (1541-42) contro la dominazione e la
cultura spagnola rese necessaria una ‘seconda conquista’
§ NORD del MESSICO e SUD del CILE: la resistenza india fu molto più
persistente sia per le caratteristiche della zona di frontiera (insediamenti
spagnoli di dimensione limitata) sia per le caratteristiche delle popolazioni
indie (tribù nomadi assai bellicose) senza un'autorità comune e con
un'economia basata su caccia e raccolta. La guerra fu molto lunga: i cicimechi
del Messico e gli araucani del Cile meridionale avevano assimilato elementi
della tecnica militare europea ed erano in grado di opporre una resistenza ben
organizzata. Gli araucani non accettarono, almeno fino alla fine
dell’Ottocento, una totale sottomissione.
Un caso particolare di resistenza al dominio bianco in America Latina è
rappresentato dai quilombos, luoghi dove si rifugiavano gli schiavi neri che
riuscivano a fuggire dalle piantagioni. Erano veri e propri controstati, in
territori lontani dalla costa e difficilmente raggiungibili dagli schiavisti, dove i
brasiliani neri coltivavano e allevavano per il proprio fabbisogno, riuscendo
anche a conservare alcuni aspetti delle culture africane d’origine.
b) la resistenza ‘culturale’
Accanto alla resistenza armata se ne realizzò un’altra, più mascherata e
sotterranea: la resistenza alla acculturazione e la persistenza di forme di
cultura e di mentalità indie.
Essa si manifestò nel disprezzo per i meticci, nella persistenza dell’uso del
proprio linguaggio, di proprie forme di alimentazione e di abbigliamento e,
soprattutto, nel rifiuto dell’evangelizzazione
Il problema del recupero delle
popolazioni americane e della
loro
conversione
al
cristianesimo fu avvertito
molto presto dalla Chiesa
cattolica.
All’inizio
i
missionari dovettero affrontare
innumerevoli difficoltà, dal
momento che per gli indigeni
la croce del missionario
apparve insieme alla spada del
conquistatore e la distinzione,
soprattutto in un primo
momento, non dovette essere
facile. La religione cattolica
era, inoltre, diversissima dai culti locali a carattere prevalentemente magicoanimistico, e non era facile tradurre la teologia cristiana nel lessico e negli
schemi concettuali degli indios, i quali accettarono in apparenza il
cristianesimo, ma conservarono clandestinamente i loro dèi e la loro
organizzazione religiosa.
I ‘rimedi’ furono drastici. Nel 1531 il vescovo Zumarraga si vantava di aver
distrutto cinquecento templi aztechi e ventimila idoli. Intanto lo stesso
imperatore Carlo V consigliava di utilizzare le pietre dei templi per edificare
nuove chiese. Migliaia di indios furono battezzati a viva forza sotto la
minaccia della prigione o della tortura; in molti casi si procedette a condanne
a morte.
Si comprende, dunque, come la cristianizzazione degli indios sia rimasta a
lungo superficiale; i vecchi culti sopravvissero identificandosi nei nuovi: le
divinità solari furono assimilate al Cristo, le dee-madri, come la divinità
peruviana della Terra, furono assimilate alla Vergine.
La Chiesa cattolica, alla fine, accettò e favorì forme di fusione o di
conciliazione (sincretismo)tra dottrine e pratiche religiose diverse (chiese nei
luoghi sacri degli indios, sovrapposizione di feste cristiane e indie,
identificazione di santi con dèi locali, ecc..).
Tale fenomeno di resistenza all’acculturazione è rilevabile ancora oggi in
molte popolazioni indie latinoamericane.
I numerosi episodi di ribellione degli indios e la loro resistenza sorda e
passiva al mondo coloniale impressero nella coscienza dei bianchi un costante
senso di pericolo. Gli indios destavano paura e diffidenza. Lo stesso processo
di emancipazione dalla Spagna ne fu influenzato: la madrepatria, infatti,
garantiva alle colonie appoggio militare e sicurezza contro il possibile nemico
interno.
Rovine della città Inca Machu Picchu
LA CONQUISTA NON TERMINA....
Il processo di conquista dell'America Latina non si è esaurito nell'arco del
Cinquecento, ma si è prolungato nei secoli seguenti fino ai giorni nostri. Da
una parte, infatti, l’occupazione del territorio e l’assoggettamento delle
popolazioni che ci vivevano si sono estesi fino a interessare l’intero
continente. Dall’altra, in quelle aree che per prime avevano conosciuto il
processo di colonizzazione, la conquista continuò ad essere riproposta
attraverso l’espropriazione delle risorse e la negazione dei diritti civili e di
autodeterminazione dei popoli
Intorno al 1550, quando la parte più produttiva e popolata del territorio latino
americano era passata sotto il dominio spagnolo o portoghese, si considerò
conclusa la fase della conquista e cominciò il consolidamento della colonia.
Ma in realtà essa continuò e ancora oggi non è terminata. I nuovi territori
conquistati erano quelli a nord e a sud dei possedimenti spagnoli e quelli
verso l'interno del continente, dove esistevano vasti territori inesplorati,
scarsamente popolati da tribù indie nomadi e prive di una organizzazione
sociopolitica complessa.
•
•
•
•
I moventi della conquista di questi nuovi territori furono molti:
consolidare il dominio e proteggersi dagli attacchi degli indios;
catturare gli indios ostili e renderli schiavi da usare come manodopera;
sfruttare le risorse di giacimenti minerari;
dissodare le terre per lo sviluppo di nuove piantagioni o per incrementare la
produzione agricola, soprattutto dopo il XVIII secolo
I protagonisti di questo processo furono, in genere, bande di avventurieri
fiduciosi di ripetere il rapido arricchimento, ma anche gruppi di coloni
appoggiati dall’esercito coloniale. La politica dei governi coloniali incentivò
queste immigrazioni e creò una classe di piccoli proprietari e in seguito di
latifondisti.
Le conseguenze di queste nuove conquiste furono analoghe a quelle del
Cinquecento:
1. destrutturazione socioculturale dell'indio e, in molti casi, la sua eliminazione
fisica;
2. sfruttamento della manodopera e trasformazione-distruzione dell'ambiente.
Nell'Ottocento l'occupazione dell'Isola di Pasqua fu un ulteriore esempio del
processo di conquista. Ai giorni nostri la progressiva deforestazione dell'
Amazzonia ripropone le caratteristiche del processo di conquista.
Le regioni colonizzate non riuscirono, nel corso dei secoli, a riscattarsi dalla
dipendenza e dallo sfruttamento economico, nemmeno quando proclamarono
la loro indipendenza dalle madripatrie coloniali nel corso dell’Ottocento.
Anzi, da quel momento Gran Bretagna prima, Stati Uniti poi cominciarono a
controllare le economie dei paesi latinoamericani, a dirigere le scelte politiche
e a intervenire militarmente quando i loro interessi venivano minacciati o a
favorire ed appoggiare “golpe” militari come in Cile contro il legittimo
governo del socialista Salvador Allende (1973) o in Argentina o in Bolivia ai
tempi di Ernesto ‘Che’ Guevara L’opposizione degli indios al processo di
sottomissione, di sfruttamento e di acculturazione forzata si è manifestata con
la resistenza passiva, la ribellione aperta, la partecipazione a movimenti
rivoluzionari o profondamente riformatori.
Una nuova forma di sfruttamento e controllo dell’America Latina si è andata
realizzando a partire dalla seconda metà degli anni settanta, grazie all’afflusso
di capitali provenienti dalle banche dei paesi ricchi e dagli stati produttori di
petrolio.
Il credito concesso in modo indiscriminato ai governi militari o legati agli
Stati Uniti venne utilizzato in armamenti o per la produzione di beni di
esportazione. A partire dagli anni ottanta, però, si verificò il crollo dei prezzi
dei prodotti di base esportati dai paesi del Sud del mondo ed è iniziata una
politica protezionistica da parte dei paesi industrializzati a difesa della propria
produzione. Tutto questo ha contribuito a creare il problema del debito estero
, che strangola i paesi dell’America Latina e del Terzo Mondo e ne impedisce
lo sviluppo.
Continua così il saccheggio dell’America Latina e di tutto il Terzo Mondo.
"L'America si sta risvegliando. In
questi mesi, come mai prima d'ora,
un'ondata di straordinaria energia
attraversa
l'intero
continente,
spingendo le popolazioni indigene ad
alzare la testa, a prendere coscienza
del nuovo ruolo che spetta loro nel
secolo che si è aperto."
25/03/2001 (Samuel Ruiz Garcia, Vescovo di San
Cristobal de Las Casas)
“IL COLORE DELLA TERRA....”
Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace nel 1992 , di
religione cattolica, è una contadina guatemalteca dell’etnia
quichè, gli ultimi eredi della cultura maya, e leader del suo
popolo.
Nata nel 1959, si è battuta con impegno e coraggio per la difesa
dei diritti del suo popolo, asservito al lavoro nelle grandi
piantagioni e discriminato da un regime politico che nei
confronti delle popolazioni autoctone perpetua i tratti del
colonialismo interno.
Con la sua biografia - Mi chiamo Rigoberta Menchù - raccontata
all’antropologa venezuelana Elisabeth Burgos, ha inteso
denunciare le condizioni di oppressione e di sfruttamento in cui
vivono le popolazioni indigene e dare voce alla loro volontà di
resistenza e di affermazione della propria dignità e autonomia
culturale.
Domenica 11 marzo 2001 circa trecentomila persone sono sullo Zocalo, la sterminata
piazza-simbolo di Città del Messico, per acclamare il subcomandante Marcos, che con 23
compagni zapatisti e una lunga carovana di indios, entrava in città dopo una marcia
pacifica di 15 giorni in difesa delle popolazioni del Chiapas e dei diritti i tutti gli indigeni.
Lo Stato del Chiapas è vasto 75.000 km2 ed è situato a sud-est del Messico. Ha quasi 4
milioni di
abitanti, di cui il 30% indios di origine maya. I cattolici rappresentano circa il 60% della
popolazione, il restante 40% segue sette protestanti.
Il Chiapas era il centro dell’impero maya; colonizzato dagli spagnoli, ha fatto parte del
territorio guatemalteco, per essere poi annesso al Messico nel 1824. E’ lo Stato più povero
della federazione, ma è uno dei più ricchi di risorse naturali. Produce il 60% dell’energia
consumata in Messico, ma ne utilizza solo il 3% e possiede importanti riserve di petrolio
ancora inutilizzate.
L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
(EZLN), che si richiama al rivoluzionario di inizio
secolo Emiliano Zapata, è un ‘esercito’ di indios che
ha mosso i primi passi nella Selva Lacandona, ai
confini col Guatemala, ed è apparso sulla scena
pubblica nel gennaio 1994, “occupando” e
amministrando paesi e villaggi del Chiapas.
Il sub comandante Marcos -all’anagrafe Rafael
Guillen Vicente, ex insegnante di filosofia di 44 anniè
il leader bianco di questo esercito di indios, fino ad
oggi asseragliato nel Chiapas; è il leader senza volto
che ha promosso la marcia dalla selva Lacandona alla
capitale - tremila kilometri- per il riconoscimento della
cultura e dei diritti degli indigeni.
Rivolto ai potenti dell’economia, Marcos ha esclamato: “Voi
siete il colore del
denaro, ma noi siamo il colore della terra e
senza di noi il denaro non esiste”.
Parte seconda
Classe 3°Am A.S. 2000/2001
L’ UOMO E LA TERRA
Ancora oggi in America Latina
vivono
popolazioni veramente
‘americane’:
sono
gli
ultimi
rappresentanti di quegli uomini che
qui sono nati, che per primi
popolarono
questo
continente,
conquistarono
foreste,
deserti,
pianure, montagne; che avevano una
precisa conoscenza dei territori sui
quali vivevano e dei loro climi, della
flora e della fauna.
Alcuni addomesticarono animali e
coltivarono
piante
sviluppando
economie agricole di allevamento;
altri, più isolati, mantennero per
lungo tempo le loro economie basate
sulla caccia e la raccolta.
L’invasione degli europei fu tanto
drammatica e i suoi effetti così tragici che in meno di un secolo il volto etnico di questo
continente è radicalmente mutato: oggi i veri americani, i nativi, sono minoranze
all’interno degli Stati americani. La maggioranza della società, generalmente meticcia, ha
adottato forme culturali occidentali e cristiane.
Le minoranze etniche spesso vivono in modo conflittuale all’interno delle maggioranze,
conoscono una generale decadenza, occupano terre di cattiva qualità e di scarso valore,
hanno problemi economici, sanitari e, ciò che è grave, sono stati loro imposti valori e modi
di vita estranei ai loro sistemi tradizionali.
La sopravvivenza di queste popolazioni nel mondo industriale è una vera sfida: occorre
offrire loro una parte e una posizione nei piani di sviluppo nazionale, valorizzare la loro
individualità culturale, conservare i loro valori e identità, rispettare la mirabile simbiosi che
hanno con l’ambiente culturale.
Gli spagnoli erano soliti dare agli indigeni il nome del luogo che abitavano; e così
chiamarono Araucanos le popolazioni che occupavano l’Arauco, uno dei principali “stati”
indigeni.
Fu così che i Mapuches o “Popolo della Terra” divennero, genericamente, gli “Araucani”,
come li chiama Don Alonso de Ercilia nel suo monumentale poema epico “La Araucana”
per designare tutti gli indigeni che abitavano il sud del Cile fino a Chiloè.
Oggi si usa il termine “Mapuche” per indicare quelle popolazioni che gli Spagnoli
trovarono occupando le attuali regioni della Araucania e Los Lagos, i cui discendenti
vivono tuttora in queste terre.
L’ UOMO E IL TERRITORIO
I primi cronisti che descrivono il territorio del Cile appena
conquistato segnalano che a sud del fiume Itata
la
popolazione nativa aumentava, poiché il bosco di roveri, che
domina quasi tutta la regione, era particolarmente favorevole
allo stanziamento dell'uomo: da un lato questa specie e altri
arbusti producono grandi quantità di bacche, di frutti e di
varie risorse alimentari selvatiche; dall’altro essendo
caducifoglie impediscono, nei periodi piovosi, la formazione
di terre umide e fangose favorendo quindi l'insediamento
dell'uomo.
A sud di Loncoche le condizioni cambiano: la piovosità
aumenta e la presenza di boschi sempreverdi rende la vita
umana molto difficile, tranne che in determinate nicchie
ecologiche.
Anche le condizioni del litorale sono sfavorevoli
all'insediamento a causa delle coste scoscese e della densa
vegetazione.
Il Golfo di Reloncavi costituisce il limite meridionale
dell’insediamento Mapuche, a sud del quale il continente si
smembra, fratturandosi in innumerevoli isole. L’Isola di
Chiloè costituisce l’ultimo luogo nel quale vivono ancora
popolazioni che parlano la ‘lingua della terra’ o Mapudungu.
Il Mapuche divide questi territori in cinque zone, che hanno un profondo significato
culturale:
1. PIRE MAPU o ‘Terra delle Nevi’ (Cordigliera delle Ande): si caratterizza per i
numerosi valichi andini con accesso molto facile, luoghi di contatto fra diverse etnie
Mapuches, Pehuenches e Puelcheas che abitavano le falde orientali e occidentali della
Cordigliera. e di comunicazione con le Pampas. Questo massiccio innevato, infatti, non ha
mai costituito una frontiera che separasse i popoli, ma luogo di incontro tra diverse etnie.
Queste relazioni determinarono un forte incrocio di razze, che portarono alla diffusione
della cultura mapuche verso le Pampas Argentine e ad uno scambio di prodotti
manifatturieri.
2. INAPIRE MAPU o ‘Terra contigua alle nevi’(versante occidentale della cordigliera
delle Ande). Qui il territorio era dominato da densi boschi nei quali dominava il Pewen
(Araucaria araucana)o ‘pino dell’Araucania’. Il pinolo di questa conifera erail principale
alimento del Pehuenche, etnia cacciatrice e raccoglitrice della regione, che scendeva alla
pianura durante l’estate con animali, pinoli, sale e prodotti in pelle che scambiava con
prodotti agricoli o tessili forniti dai Mapuches A volte queste incursioni sfociavano in
scorribande belliche dalle quali il Pehunche otteneva donne e bottino. Fu attraverso questa
etnìa che si “araucanizzò” la Pampa argentina e si diffuse la lingua mapuche a queste
latitudini.
Scomparsa gran parte dei boschi di questa regione, i versanti scoscesi delle Ande sono ora
utilizzati dai Mapuches come campi di pastorizia o per attività legate all’industria del
legno.
Il pinolo continua ad essere raccolto e conservato sotto terra come materia prima per
ottenere farina, bevande e altri prodotti alimentari.
3. LELFUN MAPU o ‘Terra delle pianure’. Gode di una grande potenzialità agricola
grazie all'innumerevole rete fluviale e al gradevole clima continentale prodotto dalla
chiusura di questa fascia tra le due cordigliere. La fitta flora che copriva le pianure fu
abbattuta dai Mapuches a partire da epoche pre- ispaniche per favorire il loro insediamento
su piccoli terreni fertili. L'estensione e la ricchezza di questi terreni determinarono una
notevole mobilità dei gruppi che si trasferivano da un luogo all'altro in cerca di nuovi
territori da occupare.
4. LAFKEN MAPU o ‘Terra marina’ . Separate dalla Cordigliera, le terre costiere hanno
una bassa produttività agricola, con relativi problemi di approvvigionamento.
L’alimentazione di questa zona è costituita dai prodotti della pesca, grazie ai quali questa
regione si popolò.
5. PUEL MAPU o ‘Terra dell'oriente’: ha un posto di grandissima importanza nella
concezione spaziale mapuche L'indigeno scopre questi territori grazie agli scambi, non
impediti dalle alte vette, e dagli incroci di etnie. Le relazioni del mapuche con le terre
orientali continuano anche oggi, anche grazie alle relazioni di parentela e di amicizia che
portano a frequenti visite degli abitanti di uno e dell’altro lato della cordigliera.
Alla fine dell’ottocento, pacificati i due territori, le relazioni fra i due lati della
cordigliera si
fecero più intense.
ORIGINE DEL POPOLO
Le questioni riguardanti le origini del popolo mapuche interessò vivamente i ricercatori
degli inizi di questo secolo facendo sorgere diverse opinioni:
• l'Auracano era il prodotto dell'incrocio fra la popolazione autoctona e la popolazione
delle Pampas;
• L'auracano ha una sua unità etnica e ha solo qualche parentela con le culture
settentrionali.
FONTI PER LO STUDIO DEI MAPUCHES
Lo studio del materiale etnografico (relativo ai costumi, agli usi…), ben sfruttato, dovrebbe
sostituire la mancanza di reperti archeologici, che si limitano a resti di cimiteri, dove sono
state trovate anfore e altri oggetti di ceramica e a opere di canalizzazione che fanno
pensare a un'intensa coltivazione dei territori adiacenti ai corsi d'acqua.
La fonte principale ora è il patrimonio culturale tradizionale conservato dai discendenti di
queste stirpi
ormai fuse insieme.
GLI ANTENATI
Così come furono i nostri nonni
e i nostri genitori
saremo nella nostra vita
(P.F. de Augusta, 1934)
Il problema delle origini del popolo mapuche interessò vivamente i ricercatori fin
dall’inizio del ‘900.
L’antropologo Latcham sosteneva che l’araucano era un prodotto dell’incrocio di razze: il
gruppo etnico “moluche” -guerrieri e cacciatori delle pampas argentine- avrebbero
conquistato i territori situati trai due fiumi Bìo-Bio e Tolten e si sarebbe mescolato alla
popolazione autoctona, di abitudini sedentarie e agricole. Questo incrocio avrebbe infranto
l’omogeneità razziale della regione, plasmando la divisione tra Picunches (a nord del BìoBio), Araucani (popolazione meticcia tra il Bìo-Bio e il Tolten) e Hulliches (a sud del
Tolten).
Altri studiosi hanno rifiutato l’ipotesi dell’incrocio delle razze,
sostenendo invece l’unità etnica del mapuche e la sua parentela con le
culture settentrionali e mostrando più interesse per la storia culturale
delle popolazioni del sud del Cile che per la loro origine.
Da millenni l’uomo abitava i ricchi ambienti del litorale, vivendo di
pesca, caccia, raccolta. Verso la metà del primo millennio della nostra
era arrivarono popolazioni che conoscevano già l’arte della ceramica,
coltivavano piccoli orti, seppellivano i morti con offerte; si stabilirono
sulle rive dei laghi preandini e fondarono villaggi, chiamati ‘Pitren’
dallo scienziato che li scoprì
Circa cinque secoli più tardi, a sud del Bìo-Bio, appaiono
insediamenti umani, di cui rimangono cimiteri con sepolture in grandi
urne di ceramica contenenti bambini e adulti, affiancati da offertori di
ceramica dipinta e da resti di ornamenti di rame.
Questi luoghi funerari sono concentrati nella zona di Angol, nella
località di El Vergel; queste popolazioni coltivavano mais, fagioli,
riso del Perù, peperoncino rosso e zucche, facendo incipienti opere di
canalizzazione per l’irrigazione. El Vergel aveva certamente contatti
con Pitren.
Documentata è anche la presenza in questa epoca di cacciatori e raccoglitori nella
cordigliera appartenenti ad un’altra tradizione culturale.
L’impatto della conquista spagnola con questi territori causò un forte e improvviso
turbamento nella vita delle popolazioni autoctone, che risposero ai conquistatori con una
forte coesione.
Si può ipotizzare che differenti popoli che abitavano questi territori si siano uniti,
incorporando elementi etnici e culturali montani tipici delle zone al di là della cordigliera e
ispani.
Questo processo di omogeneizzazione culturale è arrivato fino ai nostri giorni con il nome
di cultura mapuche. E’ per questo che oggi si avvertono nel popolo mapuche elementi
delle prime popolazioni andine che a Pitren addomesticarono gli animali e coltivarono le
piante; e la tradizione dell’orticultura e della ceramica decorata, nota oggi come ‘Valdivia’,
proveniente dai villaggi di El Vergel.
Infine, l’allevamento del bestiame e la tradizione equestre provengono senza dubbio da
elementi spagnoli, che si notano anche nell’incrocio delle razze equine.
Restano comunque ancora molte incognite sulle origini di questo popolo, e gli scavi degli
scienziati trovano ostacolo nelle condizioni climatiche della regione.
In compenso, tuttavia, lo studioso può contare sulla presenza viva della popolazione attuale
che, nonostante le influenze esterne ricevute, conserva gran parte del suo patrimonio
culturale tradizionale.
L’ ARAUCANIA E GLI ARAUCANI
La “Araucania” è una regione che si
estende a sud di Santiago e che comprende i
gruppi Picunche, Huilliche, Chiloè e
Mapuche;
questi
ultimi
vivevano
principalmente tra i fiumi Bìo-Bio e Tolten,
ma anche a nord del Bìo-Bio, costituendo
sul fiume Maule un ostacolo che gli
imperatori inca del Perù non riuscirono mai
a varcare nel corso delle loro spedizioni di
conquista.
Intorno all’ ‘800-‘700 a.C., una tribù
imparentata con i Guaranì del Brasile valicò
le Ande e si stanziò nella parte centrale del
Cile, estendendosi successivamente a nord
fino al deserto di Atacama e a sud fino
all’Isola di Chiloè.
Questa nuova popolazione si attribuì il nome di Mapuche , che significa popolo della
terra (mapu=terra, che=popolo). Da cacciatori e raccoglitori si trasformarono in
agricoltori, apprendendo -quelli più a nord- la pratica dell’irrigazione dagli
Atacamenos, tribù oggi estinta.
Nonostante fossero diventati agricoltori, mantennero uno spirito battagliero, anzi,
guerreggiare era una pratica quotidiana, tanto da costringere le altre popolazioni a non
avvicinarsi troppo ai loro territori: i mapuches, infatti, non possedevano il concetto di
‘prigioniero’ e loro pratica comune era decapitare i nemici e usarne il cranio come
trofeo e boccale.
Gli inca denominarono Auca questi Araucani, col significato di ‘ribelle’ o ‘feroce’;
ancora oggi nel linguaggio mapudungun “auca” significa ‘disobbediente’, ribelle’,
‘selvaggio’, ‘discolo’ e viene usato anche come sostantivo per indicare la cavalla
ribelle. Gli Inca denominarono così i Mapuche perchè non riuscirono mai a
sottometterli e questi applicarono il termine ai loro animali da soma: per questo oggi
‘auca’ designa la cavalla ribelle ed è consigliabile non dare dell’auca a un mapuche.
Nel XV secolo gli Araucani, costituitisi in una federazione di tribù autonome, erano
diventati economicamente tanto forti da riuscire a fermare l’invasione inca nel sud.
La loro indole ‘selvaggia’ ha contribuito al loro isolamento, ma anche alla loro
sopravvivenza, mentre altri popoli scomparvero quando i conquistadores europei
arrivarono sulle Ande. La loro debolezza consisteva, però, nella mancanza di una
organizzazione politica e militare: i Capi non ave vano un effettivo potere in quanto
assolvevano essenzialmente al compito di Consiglieri. Ogni villaggio faceva a sè
invece di legare con il resto della tribù.
Nel 1535 iniziò la conquista spagnola del Cile. I Mapuche opposero una fiera
resistenza e solo ne l 1773 accettarono la pace e l’insediamento spagnolo.
Nel 1569 gli spagnoli ribattezzarono i Mapuche col nome di Araucani; in quell’anno
appare ‘La Araucana’, il maggiore tra i poemi epici spagnoli sulle campagne militari
contro gli Amerindi, scritto dal conquistador Alonso de Ercilla y Zuniga. Da allora i
due appellativi -Mapuche e Araucani- si identificano, anche se i Mapuche rifiutano
decisamente il termine ‘araucano’, in quanto imposto dallo straniero invasore.
Lo studioso Esteban Erize, nel suo ‘Diccio nario comentado Mapuche- Espanol’ (1960)
puntualizza che ‘araucano’ è un vocabolo spagnolo usato per designare gli indigeni
cileni nella zona di Ragco (rag=argilla grigia, co=acqua: acqua argillosa)che prende il
nome da un ruscello che lì scorre. Ragco dive nta poi ‘Rauco’ e Pedro de Valdivia lo
designa come ‘Arauco’. Questo vocabolo venne poi applicato a tutte le popolazioni
che in Cile e in Argentina parlavano lo stesso idioma.
Secondo il censimento cileno del 1992 la popolazione mapuche oggi vive per il 44%
nelle città e nella regione di Santiago; solo il 15,49% vive nella IX Regione, la
Araucania
La IX Regione cilena si estende per 31.858 km2 ed ha per capoluogo Temuco con
176.712 abitanti, dei quali 38.410 sono Araucani. Temuco è la città con popolazione
mapuche numericamente più elevata (21,73 %), mentre nel comune di Saavedra la
percentuale sfiora il 64%.
A testimonianza della diffusione di questo popolo nei secoli passati, anche nelle altre
regioni è presente una popolazione mapuche, anche se in percentuale inferiore.
Mapuche indica non solo una popolazione, ma anche la lingua indigena più parlata in
Cile e denominata mapudungun (dungun = linguaggio). Parlano questo linguaggio
440.000 persone, di cui 40.000 in alcune province argentine.
In totale gli Araucani cileni sono 968.000 e rappresentano il 9,6% dell’intera
popolazione.
Dall’ Araucania prende il nome anche il pino Araucaria , importato in Europa nel
1795 e che costituisce per il Cile un’importante risorsa forestale utilizzata per
imballaggi, infissi e carta.
Caratteristico dell’Araucania è anche un pollo dal ciuffetto alle orecchie e dalle uova
blu. La specie più nota è il Gallus inauris.
Gli Indios sudamericani possedevano polli addomesticati dalle caratteristiche
asiatiche molto prima della comparsa dei Bianchi; pur essendo ormai accertata
l’esistenza di polli asiatici precolombiani, non esiste una spiegazione certa di come il
gene del guscio blu abbia fatto il suo ingresso tra i polli dell’Araucania. Lo stesso
Darwin non conobbe il tipo araucana, ma esistono descrizioni di uova blu antecedenti
al 1560.
Secondo il naturalista Castellò (1924) un gallo selvatico detto chachalaca (noto anche
come ‘fagiano americano’) veniva incrociato con galline indigene per migliorare i
ceppi di combattenti: le femmine nate da tale incrocio deponevano uova blu.
Secondo altri studiosi il gene del guscio blu è presente in alcune specie di fagiani e
non in altre; ibridi possono essere ottenuti dall’incrocio fagiano-pollo domestico, ma
sono sterili.
Un altro genetista, Finsterbusch, non crede alla
presenza del pollo in Sudamerica prima
dell’arrivo degli spagnoli, teorizzando che gli
Amerindi avevano incrociato i polli d’origine
spagnola con polli sbarcati in Cile da Bali
insieme ai pirati olandesi; il guscio blu sarebbe
dovuto alla perdita del pigmento rosso a causa
del ceppo importato da Bali. Una teoria
biochimica in seguito confutata.
Secondo Prado il colore blu delle piume,
abbastanza frequente, ha fornito il pigmento necessario per la colorazione del guscio;
per cause climatiche, ambientali o di altro tipo, qualche fattore sconosciuto ha
prodotto il movimento del blu dalle piume all’ovidutto, dove l’uovo viene rivestito dal
guscio. Ma lo studioso non spiega perché questo ‘fattore sconosciuto’ fosse
patrimonio dei soli polli araucani.
L'Epopea Araucana
Durante la seconda metà del XV secolo l'imperatore dell'antico
Perù annette al suo ampio impero i territori meridionali, che
passano a far parte del Regno del Sud (Kolla Suyu). Il controllo
effettivo del suo regno arriva solamente fino al fiume Maipo; più
a sud c’erano soltanto gruppi militari per difendere le frontiere da
gruppi indigeni che, approfittando dei fitti boschi favorevoli alla
difesa, impedivano l’avanzata verso il sud degli invasori.
A sud del Maule questi gruppi d’indigeni vengono chiamati
"Aukas" o "Purn Aukas" che significa nemico, ribelle o selvaggio.
In questo modo l'imperatore spianò la strada alla conquista
spagnola
La resistenza degli “Aukas”, che l’imperatore non era mai riuscito
a sottomettere, viene vinta dalle truppe spagnole guidate da don
Pedro de Valvidia, che arriva fino alla Isola del Grande di Chiloè,
senza però riuscire mai a sottomettere definitivamente queste
terre.
A sud del fiume Bio-Bio gli indigeni mantengono la loro
indipendenza, anche con una serie di lotte conosciute come la “guerra di Arauco”.
Non tutti gli indigeni che abitano in questi territori si comportano in modo simile. Mentre i
mapuches mantengono gelosamente la loro indipendenza e non ammettono nessuna
penetrazione straniera, gli indigeni a sud del Tolten ammettono l’installazione di “enclavi”
militari e missionarie e cooperano con gli spagnoli nella guerra contro i “ribelli”.
Le guerre contro gli indigeni durarono
fino al XIX sec. Nel 1535, Almagno
attaccò i mapuches e, nonostante la
stanchezza del suo esercito per aver
attraversato il deserto, li sconfisse
grazie alle tecniche di combattimento
degli spagnoli. Dopo questa confitta i
mapuche ripiegarono nelle foreste del
sud del Cile. Nel 1540 continuarono gli
attacchi da parte degli Spagnoli
comandati da Pedro de Valvidia. Gli
Spagnoli trucidarono e sgominarono i
mapuches.
Nonostante
la
sottomissione, i mapuches reagirono,
riuscirono ad imparare le tecniche di
combattimento spagnole grazie al loro
capo Lautero., che nel 1553 attaccò gli spagnoli, li sconfisse, prese Pedro de Valvidia
come prigioniero e lo uccise.
Gli spagnoli dopo questa sconfitta inviarono nuove truppe guidate da Garcia Hurtado de
Mendoza, ma anche questi furono sconfitti e Garcia Hurtado ucciso.
Gli spagnoli rinominarono gli indigeni Araucani, questo nome venne però inteso come
dispregiativo dai mapuches, perché era stato dato dallo straniero. I continui attacchi
indigeni portarono alla distruzione delle città spagnole e al ripiegamento delle forze
spagnole .Nel 1641 fu stipulato un trattato di pace, ma solo nel 1773 fu firmato da entrambi
le parti. Questo trattato sanciva l’ autonomia di quattro stati mapuches, governati da capi
ereditari, i Toquis.
La guerra di Arauco determina cambiamenti nel modo di vivere Il cavallo fu uno degli
apparati spagnoli che ebbe maggior impatto nella trasformazione dei mapuche.
Quest’elemento fu associato al loro modo di vivere con estrema facilità, convertendosi
come migliore arma per il mantenimento dello stato di guerra e conferendo a questo
popolo una grande mobilità.
Il mapuche fa della guerra un sistema di vita, e attraverso la guerra ottiene prestigio,
mantenimento e donne.
Sono frequenti le alleanze guerriere tra indigeni,
ad esempio con il ‘pehuencha’ o “abitante del
versante andino”. Questa coesione è rappresentata
dall’istituzione del capo guerriero o “Toki”, eletto
per le sue attitudini di leader e destrezza tattica
ogni volta che sorge un conflitto; questo
personaggio in guerra è a capo di tutti gli indigeni,
che gli obbediscono ciecamente. Il suo potere dura
solo durante la guerra.
La sanguinosa guerra araucana dura quasi tre
secoli, risultando inutili gli sforzi per sottomettere
i mapuches.
Sacerdoti, militari, e amministratori spagnoli
inviano periodiche relazioni in patria cercando di giustificare il mantenimento dell’esercito
di Arauco; scrivono interi libri nel tentativo di spiegare la tenace resistenza del mapuche
A partire dal 1850, con l’immigrazione massiccia di Europei, il governo violò le frontiere
dei territori indiani rimettendo in movimento l’apparato bellico. Nel 1861, un avventuriero
francese, l’avvocato Orelie Antonie, integratosi con gli indigeni, si fece nominare re di
Arancania col nome di Orelie Antoine I. Organizzò un esercito di 40000 uomini e attaccò
il Cile nel 1862. Fu sconfitto, rinchiuso in manicomio e rimandato in Europa su intervento
del Governo francese; ma tornò in Cile nel 1869 e fece riprendere la guerra, fu ancora
sconfitto e rimandato definitivamente in Francia.
Solo nel 1880-81 gli araucani vengono definitivamente sottomessi . Pur acquisendo alcuni
costumi cileni, i Mapuches hanno cercato di mantenere le proprie tradizioni e
organizzazioni. Sotto il governo del socialista Salvador Allende (1970-1973) fu loro
riconosciuta una certa autonomia.
I movimenti indigeni hanno ripreso energia in questi ultimi anni e frequenti sono le contese
con la giustizia cilena, con la polizia, con i connazionali. Gli stessi Mapuche si
autodefiniscono ribelli contro l’ingiustizia del “Cileno”
ORGANIZZAZIONE POLITICA
“Nella sua altezzosa testa, come il leone,
ha sempre forza.
Il suo viso è pulito e senza barba
e i suoi morbidi capelli sono neri.
Così è la figura di un grande capo,
ahi, mammina,mammina.”
(P.F. de Augusta, 1934)
L’uomo è il capo indiscusso della famiglia patriarcale e le sue opinioni e decisioni sono
accettate senza discussione. Egli è il rappresentate degli interessi della famiglia all’interno
della comunità mapuche.
In epoche preispanica all’interno dell’estesa famiglia che componeva il gruppo locale, il
capo (LONKO) era il membro maschile più ricco (ULMEN), che oltre alla ricchezza
doveva avere buon giudizio ed eloquenza. Per qualsiasi decisione che interessasse la
comunità doveva consultarsi con gli altri capi famiglia, senza atteggiamenti da despota.
Nella semina e raccolta dei suoi campi veniva aiutato da tutto il gruppo attraverso il
‘lavoro di comunità’ (LOF KUDAU); così riaffermava il suo prestigio all’interno del
gruppo
La coesione sociale non si fondava solo su questo capo, ma sugli stretti vincoli di parentela
che univano i membri del gruppo e sulle relazioni di solidarietà e cooperazione che
sorgevano.
Chi dissentiva dal capo poteva formare un altro gruppo o stabilirsi in altro luogo.
La conquista spagnola introduce delle modifiche nell’organizzazione sociale mapuche: la
corona spagnola nomina i ‘cacicchi’ governatori e funzionari amministrativi, dando loro il
comando in nome del re.
La guerra nell’Araucania obbliga l’indigeno a istituire un forte sistema di coesione per la
guerra e a nominare il capo guerriero (TOKI), che decade al termine della guerra.
Dopo la totale pacificazione dei territori indigeni, lo Stato cileno affida i villaggi
all’autorità del cacicco, che ha anche il compito di ripartire le terre tra i membri della
comunità.
Le decisioni che coinvolgono gli interessi della comunità continuano però ad essere prese
con la partecipazione di tutti i membri di maggior prestigio del gruppo.
Ma la recente politica di dividere le terre comuni tra le famiglie di ogni villaggio
contribuirà a una maggiore disintegrazione sociale e politica della società mapuche.
FAMIGLIA E ORGANIZZAZIONE SOCIALE
“Fai una culla, Pangui”
Venne a dirmi Amoiante
Come avremo altri bambini?
Con che cosa vivrà la nostra bambina?
Aggiusta un corno per suonare, Maril’uan
Per far sì che abbiamo figli
E’ uomo, dicono
E’ donna, dicono,
L’uomo che avremo;
E’ uomo, è donna
L’essere che avremo.
(P.F. de Augusta, 1934)
Il visitatore che si avvicina alla ruka (abitazione mapuche) viene invitato ad entrare; la
donna gli offre una sedia e bevande vicino al fuoco che arde incessantemente. D’estate,
intorno a un tavolo posto all’ombra di un melo, il visitatore potrà assaporare una fresca e
piccante bevanda alcolica, la chicha,
fatta con le mele.
L’ordine e la pulizia regnano nella casa, l’obbedienza dei piccoli è sorprendente, la vita
familiare trascorre in modo tranquillo.
La donna, oltre ad accudire i figli e a svolgere i lavori domestici, coltiva gli orti e alleva
animali. Nei suoi momenti di pausa si siede col suo fuso e fila la lana ottenuta dalla
tosatura delle pecore, per fare ‘ponci’ colorati, coperte, sciarpe ed altri tessuti.
Lavori femminili sono anche la ceramica e l’arte di costruire ceste; la padrona di casa è
aiutata dai figli minori e dalle donne nubili, che erediteranno gli insegnamenti per la vita
matrimoniale.
Il capo famiglia è l’uomo: lavora la terra, cura il bestiame, soprattutto cavalli, incide il
legno e lavora la pelle.
In estate la vita si svolge all’aria aperta; d’inverno, mentre la pioggia cade incessantemente
sul tetto di paglia, la famiglia si riunisce intorno al fuoco e, incurante del fumo che
annerisce le pareti, i membri più anziani si intrattengono in lunghe conversazioni e racconti
delle gesta dei loro antenati. In questo modo i bambini assimilano in silenzio la cultura del
loro popolo.
Per la famiglia mapuche i figli maschi rappresentano la continuità: si sposeranno, vivranno
nelle loro case poste nelle terre paterne, aiuteranno i genitori ed erediteranno, un giorno, le
loro terre .
Le donne, invece, vivranno con i loro genitori solo in caso di nubilato; con il matrimonio
abbandoneranno il luogo natale, si stabiliranno nella casa del marito e i loro figli
perderanno i vincoli con le terre materne.
La parentela si trasmette per linea maschile. Un giovane chiamerà “fratello” o “sorella” i
figli del fratello di suo padre, e gli sarà vietato il matrimonio con quest’ultima; il
matrimonio tra cugini, invece, (la figlia del fratello con il figlio della sorella) è il legame
preferito dal sistema familiare e in passato costituì un matrimoni obbligatorio.
I membri celibi di un gruppo di residenza, legati tra loro da vincoli di parentela col padre,
devono cercare l’altra metà fuori dalla comunità: è il matrimonio detto ‘esogamico’
Trovata la donna della propria vita e una volta trascorso il periodo di corteggiamento, che
consiste in visite periodiche al villaggio della fidanzata o feste sociali e rituali, il padre del
fidanza to, informato dei desideri di suo figlio e approvata la scelta, manderà un
messaggero -werken- a casa dei genitori della fidanzata, al fine di preparare l’accordo.
Accettato l’accordo dagli affini, i parenti e gli amici del fidanzato visitano la casa della
sposa portando denaro, animali, ornamenti e argenteria. Se i padroni di casa si sentono
soddisfatti dell’ammontare e della qualità dei dono, la coppia contrae matrimonio in una
solenne cerimonia con festa.
Immediatamente la sposa si trasferisce nella casa dei genitori del marito, portando con sé i
doni di suo padre, tra cui un cavallo. Trascorsi alcuni giorni, la nuova coppia riceverà la
visita dei genitori della sposa novella, i quali porteranno pane e farina.
Dopo qualche tempo, verrà costruita per la coppia una nuova casa, vicina alla ‘ruka’
paterna.
Il matrimonio tramite rapimento era una forma tradizionale, oggi in disuso. Il fidanzato, i
suoi parenti e gli amici rapivano dalla casa dei suoi genitori la donna scelta e, portato a
compimento il matrimonio, si facevano le offerte sacramentali.
La poligamia è stata ampiamente praticata, ancora oggi gli indigeni parlano con orgoglio
dei loro antenati che avevano molte spose: era un simbolo di potere e di ricchezza.
Generalmente un uomo si sposava con sorelle della prima moglie, a garanzia di una
miglior comprensione tra loro.
Rigorose regole di comportamento e di organizzazione impedivano gli attriti che potevano
nascere da questi tipi di matrimonio. Ogni moglie occupava un determinato spazio della
casa e aveva il proprio focolare, dove cucinava per sé e i figli; seminava un podere distinto
e allevava i propri animali.
La prima moglie godeva di uno status maggiore e le altre dovevano obbedire ai suoi ordini.
Molte volte era proprio la prima moglie che consigliava al marito una nuova moglie,
poiché si sentiva vecchia, stanca e bisognosa di aiuto per la conduzione della casa.
Queste usanze sono naturalmente decadute, grazie all’influenza
della cultura ‘occidentale’ e del cristianesimo.
Il raggruppamento di varie famiglie unite da vincoli di parentela
relativi al padre forma una comunità che vive su un territorio di
proprietà comune. Le occupazioni mapuches non formano
tuttavia villaggi attigui, ma disseminati. Ogni famiglia vive nella
sua ‘ruka’ attorniata da cortili rurali, il podere e le terre che
utilizza. E’ un tipo di sistemazione preispanica, già descritta dai
conquistadores.
Relazioni di parentela, vicinanza spaziale e vincoli di
cooperazione e lealtà mantengono unite le famiglie che formano
un gruppo locale, unito anche dalle credenze religiose e dal culto
degli avi.
Anche il matrimonio ‘esogamico’, cioè fuori dal gruppo locale, è
uno dei veicoli più importanti per integrare varie comunità
mapuches tra loro ed è di fondamentale importanza per
comprendere la società mapuche.
Le relazioni relative alla parentela materna danno origine a
vincoli di ordine economico, come i lavori agricoli, costruzione
di case, eventi di tipo ludico o sportivo come la chueca o pali
(specie di golf).
D’importanza vitale per la coesione sociale sono anche le istituzioni religiose, le norme e i
valori.
L’ ECONOMIA, LE ATTIVITA’ E LE ARTI
“Dopo sposati lavoravamo tutti e due,
io mettevo a maggese e seminavo di tutto
un po’.
Lei stava a casa,
preparava vari cibi
e lavorava anche tessuti.”
(W. de Moesbach, 1930)
Prima dell’arrivo dello spagnolo l’attività fondamentale di sussistenza mapuche era legata
alla raccolta di prodotti dell’ampia gamma di flora e di fauna della regione.
L’uomo, insieme ai parenti maschi, andava a caccia di guanachi (lama andini), piccoli
cervi o altri animali; le donne, accompagnate dai loro figli, raccoglieva nei boschi frutti
selvatici di arbusti con bacche per preparare dolci o bevande e felci per cucinare brodi
insaporiti da peperoncino rosso.
Nella zona precordigliera l’attività economica principale, oltre alla caccia, era la raccolta
del pinolo, fonte alimentare degli indigeni.
L’abitante della costa (LAFKENCHE), per cibarsi, estraeva ricci, cozze e molluschi o
caccia gamberi, mentre le donne raccoglievano erba marina commestibile
(COCHAYUYO)e le sue radici, il LUCHE (alga commestibile)
Tutta la comunità praticava la pesca con reti di fibre vegetali o con l’arpione nella pesca
individuale.
Il lama fu addomesticato dal mapuche e il suo possesso era simbolo di stirpe e di
ricchezza; la lana era l’unica fibra per l’elaborazione di tessuti. Non è chiaro se sia stato
utilizzato anche per il trasporto.
La coltivazione della terra si limitava a piccoli orti familiari di fagioli, fave, riso del Perù,
zucche, peperoncino rosso e patate; nei campi disboscati si coltivava il mais.
Questi lavori di sussistenza resero mobili i gruppi mapuche, che si trasferivano da un luogo
all’altro in cerca di terre migliori, stabilendo così anche relazioni di scambio con altri
gruppi.
Gli abitanti delle pianure (LELFUNCHE) erano soliti barattare i cereali con prodotti
marini degli abitanti della costa.
La colonizzazione europea introduce specie animali e vegetali sconosciute come: il grano,
l’orzo, la pecora, il cavallo, i bovini e il melo. Quest’ultimo si adatta perfettamente al clima
e al suolo dell’Araucania e in pochi anni crescono veri boschi naturali i cui frutti
(Manshana) diventano prodotti di raccolta selvatica.
Mentre la popolazione aborigena delle regioni pacificate, in un accelerato processo di
incrocio di razze, adotta un nuovo stile di vita determinato dai villaggi agricoli
(encomiendas), l’indigeno degli indomiti territori australi continua con la sua mobilità,
aggravata dalla Guerra dell’ Arauco e dall’introduzione del cavallo.
Dopo la pacificazione dell’Araucania si crea un vincolo più stretto tra mapuche e suolo e
diminuisce la raccolta di prodotti selvatici a favore delle attività agricole : solo ora si può
parlare di un’economia agricola fra i mapuches.
Si introducono nuove tecniche di coltivazione come la rotazione dei campi l’uso di
animali da traino, per chi gode di possibilità economiche legate al possesso di terre; ciò
vale anche per i fertilizzanti e le apparecchiature di coltivazione e di raccolto.
Gran parte del terreno concesso alle comunità mapuches è collinare e dovrebbe essere
terrazzato o lavorato in cerchio per seminarlo, ma il mapuche ignora queste tecniche
particolari e ciò causò l’erosione dei campi, soprattutto sulla costa.
Si mantengono ancora i lof kundau, i lavori di gruppo, per certi lavori agricoli come la
semina e il raccolto sulle terre di qualche personaggio importante della comunità, il quale
chiama al lavoro parenti e amici, ricompensandoli con festeggiamenti. Durante la
trebbiatura del grano -principale coltura mapuche del periodo post- ispanico- si danzava al
suono di tamburi sopra le spighe per sgranarle.
Ancora oggi l’epoca della raccolta è considerata periodo festivo, con visite di parenti e un
abbondante consumo di carne.
Il lavoro di gruppo si effettua anche per la pulitura dei canali, la costruzione e la
manutenzione di strade e ponti, la preparazione del terreno coltivato, con riti e preghiere
solenni per invocarne la fertilità.
Meno frequente è il “rukan” o collaborazione nella costruzione della casa di paglia, che
dava luogo a feste folkloristiche di lunga durata.
La ruka , di grandi dimensioni (120-240 metri
quadrati), ospitava un ampio gruppo familiare e
veniva costruita da tutti i vicini, che tagliavano
roveri, intrecciavano rami e paglia con campanule
per alzare i muri. Preparato il terreno, si scavavano i
buchi dei pali e si disegnava il contorno
dell’abitazione. Il rivestimento dei muri e dei tetti
con vegetali serviva come isolante di prima qualità
contro la temperatura estiva o invernale.
Nella ‘ruka’ si custodiscono le brocche di chicha
(bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di
vegetali) e mudai (chicha di mais e orzo), insieme a
sacchi di grano e fagioli o bauli con vestiti e utensili.
Nella parte centrale si trova il camino, di fianco il
letto e appesi al tetto trecce di peperoncino e mais.
Alle estremità del tetto esistono bocchette di
ventilazione da dove esce anche il fumo del focolare.
L’entrata è orientata verso est e qui la donna pone il suo telaio per tessere in inverno o
macinare l’argilla per modellare brocche, tazze, pentole, piatti. Per tessere coperte di lana o
tappeti usano il telaio verticale, con disegni e simboli; il telaio orizzontale, steso al suolo
come quello delle Ande Centrali, per le sciarpe e i tessuti più fini
Il filato dei velli di pecora è occupazione di ogni donna mapuche nelle ‘pause’ della
giornata. Girando intorno al loro fuso, essi
producono fili di diverso spessore, a seconda del
capo di vestiario che intendono preparare. Nel
processo di tintura useranno coloranti naturali per
le tonalità rosse, arbusti o fango per quelle nere e
così via..Le tinture artificiali vengono acquistate
nei mercati urbani.
Le attività maschili si svolgono invece fuori dalla
‘ruka’. L’uomo mapuche sa lavorare con grande
maestrìa il legno, costruendo statue, manufatti
vari, regole, piatti, recipienti o strumenti musicali
come lo zufolo, il tamburo, la trombetta. Le statue
in legno sono figure antropomorfe che
rappresentano le divinità e presiedono le preghiere solenni o sono statue funerarie o
emblemi per le cerimonie degli sciamani.
Pochi sono, invece, gli uomini specializzati nella metallurgia: fabbricano monili, ornamenti
per i capelli, fermagli e ornamenti per selle e attrezzature da cavallerizzo.
I mestieri artigianali sono comunque diminuiti, con l’accesso dei mapuches ai mercati
urbani; così, ad esempio, i mantelli maschili(CHAMAL)o i drappi femminili tessuti al
telaio(KEPAM) sono stati rapidamente sostituiti da prodotti di origine ind ustriale urbana.
Ciò vale anche per gli utensili di uso domestico.
Persiste, tuttavia, l’arte tessile mapuche, con tappeti tessuti a mano, coperte di lana, tessuti
di lana con frange: prodotti artigianali di qualità non superata dall’industria.
La difficile situazione economica ha costretto i mapuches a vendere a collezionisti i
gioielli d’argento del loro artigianato.
CREDENZE E RITI
LE FORZE DEL BENE E DEL MALE
Dal Nord, così dicono,
Arrivò il demonio
Da sotto il suolo passò
Attraverso l'aria passò
(P.F. de Augusta, 1934)
Nella necessità di spiegare il suo mondo, formulare giudizi, stabilire gerarchie di valori, la
cultura mapuche è ricca di credenze, così come di riti che permettono all’uomo di mettersi
in contatto con forze naturali e soprannaturali .
Nel sistema cosmologico dei mapuches il tramite tra questi due mondi è il MACHI
(Sciamano)
WENU MAPU è la regione celeste popolata da una schiera eletta di dei, che occupano
posti distinti in una gerarchia ben stabilita.
In un luogo indeterminato delle regioni superiori del cielo abita l’essere supremo che guidò
il popolo mapuche nei luoghi in cui oggi si trova e che veglia su di lui: è NGENECHEN
(Signore degli uomini) che possiede quattro attributi opposti -sesso maschile/sesso
femminile, gioventù/anzianità - che danno origine a quattro personaggi: l'Anziano,
l'Anziana, il Giovane e la Ragazza.
Anche alcuni corpi celesti, come la luna (KILLEN), l'alba (WUNELFE) e le stelle
(WANGLEN) vengono divinizzati e la loro influenza si farà sentire sullo sciamano, le cui
doti premonitrici e di taumaturgia dipendono da questi esseri astrali.
Nelle preghiere solenni per chiedere grazia si invoca l’intercessione di esseri già morti,
divenuti leggendari: i guerrieri, i cacicchi e gli sciamani antichi. Anche gli antenati e i
fondatori delle stirpi hanno un posto in cielo e si spera che continuino a vigilare per la
sicurezza e la prosperità dei loro discendenti come facevano in vita. Anche questi spiriti
possono avere, come l’essere supremo, le quattro caratteristiche opposte, così come altri
esseri mitici e gli avi.
Gli spiriti dei glorioso antenati di una stirpe si personificano nel diavolo (PILLAN) che
vive dietro le montagne, in Oriente, ed è lo spirito soprannaturale più vicino all’uomo. La
sua invocazione è il primo gradino dell'ascesa verso il mondo sacro.
Ci sono due punti cardinali in relazione con il bene:
- SUD: da cui spirano venti buoni che apporteranno prosperità, fortuna e abbondanza
- EST: dove abita il diavolo, che è il luogo più carico di sentimento religioso. Per questo
la casa mapuche (RUKA)
ha la sua entrata verso est e le figure di legno antropomorfe che presiedono la preghiera
solenne sono orientate anche esse verso la cordigliera; anche lo sciamano rivolge le sue
orazioni verso oriente. Le bandiere o gli stendardi dei ‘machi’, come le statue sacre,
mescolano i colori del cielo, bianco azzurro, carichi di valori positivi.
Durante le cerimonie anche i partecipanti al ballo si dipingono il viso e si vestono con capi
abbinati a questi colori. Per decorare i luoghi cerimoniali vengono usati: la magnolia
(albero sacro per eccellenza), il "maqui" (arbusto che produce bacche usate per fare le
torte), l'alloro e il melo.
Con l'influenza del cristianesimo si perse la concezione duale
(adorazione di due dei) e ci si avvicinò ad una concezione
monoteistica. Attualmente, infatti, si designa l’essere supremo
come il Padre Dio (CHAU DIOS), creatore e signore del cielo e
della terra.
Le tradizionali doppie opposizioni di attributi per le divinità si
trovano ancora, tuttavia, nei canti e nelle orazioni dei ‘machi’ e
vengono trasmesse di generazione in generazione.
Queste influenze esterne hanno creato confusione tra i
mapuches rispetto al diavolo (pillan), essendo esso considerato
divinità, ma anche demonio, come veniva descritto, nella
regione dei vulcani, dai missionari, perché veniva rappresentato
in eruzioni, fulmini, tuoni ed altri eventi catastrofici.
Il mondo del male, delle forze occulte e demoniache si trova
sotto terra (NAG MAPU’), dove vivono esseri e animali
mostruosi che si nutrono di carni umane. E’ il mondo associato
al colore nero e dove predominano disgrazia, malattie, morte e
miseria.
Il sito geografico che corrisponde a questo mondo è il NORD, da dove proviene il vento
portatore di maltempo che rovina i raccolti
L’ OVEST, dove si nasconde il sole e dimorano le anime dei morti, è anch’esso oggetto di
timore e sospetto.
Il mondo del male è popolato da entità mitiche che percorrono la terra mapuche seminando
disgrazia e morte.
Questo mondo malefico è popolato da una serie di entità mitiche che percorrono la terra
mapuche, seminando disgrazie, calamità e morte: sono i WEKUFU, dalle sembianze
antropo-zoomorfe. Tra questi:
il witranalwe, spirito di un uomo molto alto e scheletrico, che galoppa di notte per i campi
vestito di un lungo scialle nero, aggredisce gli uomini ed è presagio disgrazia. Chi si
associa a lui diventa facilmente ricco, ma si condanna a vivere e a mantenerlo con sé per
sempre. E’ oggetto di grande timore e la sua presenza è rivelata spesso nell’oscurità dei
campi;
• l’ anchimallen, spirito inquieto di una ragazza morta, dagli occhi di brace, che, se
risvegliato da una strega, esce dalla sua tomba e si converte nel suo alleato e complice;
• il nakin o bambino che attrae i viaggiatori delle paludi con il suo pianto;
• il chon-chon , testa di strega alata.
Altri animali mitologici che popolano questo mondo sono il
piwichen o serpente alato, il ngurru vilu, volpe con coda
di serpe, il wallipen o pecora deforme e altri: tutti
succhiano il sangue o il respiro degli esseri umani,
causando la loro morte per consunzione.
Vi è poi una specie di meteorite o luce fugace, il cherrufe,
che attraversa il cielo e annuncia calamità.
Ci sono persone, di sesso femminile e che vivono nei
boschi o in grotte, che si mettono in contatto con il luogo
sotterraneo dove dimorano le forze del male: sono le
streghe (KALKU), che invocano l’aiuto dei wekufu nelle
loro imprese demoniache. Queste persone sono evitate dai
mapuche, ma in casi estremi questi ultimi chiedono
segretamente la loro collaborazione.
Questi professionisti della magia nera hanno ereditato
queste arti dai loro antenati o le acquisiscono dopo un
lungo periodo di allenamento. Le donne anziane vedove o
nubili, che vivono in luoghi appartati ed hanno uno strano
comportamento, sono considerate streghe dai vicini e sono accusate di compiere riti
macabri in grotte oscure.
Il mapuche crede che la malattia o la morte non abbiano cause naturali, ma provengano
dall’azione di forze malefiche su una persona e si icolpa solitamente un wekufu o una
kalku. Nel primo caso il machi farà uscire il demonio dal corpo del paziente e nel secondo
caso dovrà scoprire lo stregone che causò il male e denunciarlo.
In epoche remote le persone accusate di atti di stregoneria erano condannate a morte
perché credute pericolose per la comunità. Oggi, invece, sono allontanate dai gruppi e
devono emigrare o vivere isolate.
Morta una strega, la sua anima non riposerà in pace nelle montagne o non andrà a
mangiare patate nere all’altro lato del mare, ma si unirà ai demoni reincarnandosi in uno
degli esseri mitici sopra descritti, soprattutto il chon-chon , per radicarsi alla fine nel corpo
di un altro kalku , che sarà il suo successore.
LO SCIAMANESIMO
Era tutta coperta di ripari e fiori
Quando vennero a cercarmi nel monte
Di sacri rami di magnolia ero coperta,
Quando vennero a cercarmi nel monte.
Ero coperta di rami d'alloro.
(P.F. de Augusta, 1934)
Il machi, lo sciamano, è l’intermediario tra il popolo mapuche e il wen mapu o terra degli
dei.
Attraverso la sua mediazione le divinità concedono
salute, benessere, tranquillità ed abbondanza.
Lo sciamano è incaricato principalmente della
rappresentazione divina nella lotta quotidiana tra bene
e male, il cui campo di battaglia è la terra. E’ dotato di
facoltà divinatorie, terapeutiche e rituali.
In tempi passati questa professione era esercitata solo
da uomini dotati della duplicità di attributi sessuali
che caratterizzavano le divinità. Attualmente invece,
attraverso l’influenza europea e cristiana, questa
funzione è esercitata principalmente da donne, nelle
quali non c’è la duplicità degli attributi.
Una serie di indizi fanno capire ad un mapuche che è
stato scelto per esercitare il compito di sciamano. Ha
visioni premonitrici e sogni che sono in relazione con
certi animali di colore bianco, dopo dei quali contrae
una malattia incurabile, che può attenuare solo con la sua consacrazione come "MACHI".
Deciso a farlo, l’aspirante pattuisce con uno sciamano di esperienza il suo allenamento e va
a vivere vicino a lui, diventando suo alunno e apprendista. Costruirà una ruka e vivrà solo,
iniziandosi ai segreti delle piante medicinali e alla scienza dei complicati riti e cerimonie di
invocazione: tutto sotto la stretta vigilanza del suo maestro.
Trascorsi alcuni anni di apprendistato, si preparerà per il grande giorno della sua
iniziazione, nel quale si celebrerà il machiluwun (cerimonia solenne) con l'assistenza di
famosi sciamani che lo aiuteranno nella difficile trance.
Il Machi fa costruire o costruisce egli stesso il rewe, la scala cerimoniale, e il kultrun , il
tamburo, con il quale canterà e ballerà per tutta la vita, invocando gli dei e gli avi a favore
del suo popolo. Seppellito a Oriente della sua casa il rewe, tutti i machi cantano allo
splendore dell’alba (WUNELFE) affinché intervengano in aiuto dell’iniziato i diavoli
d’Oriente, le Antiche Sacerdotesse, i Guerrieri, L’Anziano Re e l’Anziana Regina, il
Giovane e la Ragazza, gli antiche Cacicchi e, soprattutto, la Luna e le Stelle.
La scala viene dissepolta e decorata con rami degli alberi sacri e in ogni lato si
inchioderanno le bandiere o gli emblemi -di colore bianco e azzurro o celeste- che il machi
ha scelto.
Gli assistenti preparano anche il corpo
dell’iniziato con un rito che lo rende immune
contro le forze del male.
La cerimonia culmina con il ballo e il canto
dell’iniziato, che sale per la prima volta i
gradini sacri del ‘rewe’ suonando con la mano
destra il tamburo; il culmine arriva quando il
machi cade in trance e comincia a trasmettere
messaggi degli dei, che sono ripetuti dal
machidungun o interprete.
Il nuovo ‘machi’, grazie a questo potere di
comunicazione con le entità celestiali, scaccerà
gli spiriti cattivi e somministrerà medicine.
Con la preghiera solenne (NGILLATUN), egli
chiede alle divinità la fertilità dei campi, la riproduzione degli animali e il benessere della
comunità; alzerà poi lo sguardo verso Oriente e suonerà e canterà: "Preghiamo che piova
perché producano le semine, perché possiamo avere animali; “Che piova”, dica lei Uomo
Grande, testa d'oro e lei Donna Grande, preghiamo le due grandi e vecchie persone...".
Noi e “Loro”
Il contatto tra i coloni italiani e i mapuches, dagli inizi
del Novecento, acquistò caratteristiche singolari. Se nei
primi anni i rapporti furono molto sporadici a causa delle
diversità di lingua e di cultura, in seguito si limitarono alla
imitazione di alcuni aspetti delle attività agricole dei
coloni da parte degli indigeni.
La descrizione che nel 1905 il dott. Alfonso Lomonaco*
fa della popolazione mapuche può darci un’idea della
diffidenza, di pregiudizi e del tipo di atteggiamento
predominante che caratterizzarono i rapporti fra coloni e
indigeni. I Mapuches sarebbero di aspetto “poco
piacevole” e con l’avanzare degli anni “il loro volto
diviene deforme e ripugnante”, soprattutto quello delle
donne, che è “come incartapecorito”. “Indicibile” è poi,
secondo Lomonaco, “la profonda tristezza e
l’inebetimento della loro fisionomia”; semb rano “paria”
che “si sappiano reietti ed abbandonati e che sfuggano al consorzio umano” Lomonaco
continua chiedendosi “se essi debbano considerarsi come i genuini discendenti della forte e
bellicosa razza araucana…oppure se essi rappresentino una razza degenerata e avvilita.
Questa seconda supposizione mi sembra più conforme alla realtà delle cose..e credo
pertanto che questa razza non sia più al caso di sentire i benefizi della civiltà e di
assimilarsi e di fondersi più oltre col resto della popolazione civile, in mezzo a cui rimane
come elemento estraneo ed anormale, come un avanzo di epoche lontane…volendo intanto
spiegarmi per quale malefico influsso questa razza così fiera e indomita sia degenerata in
tal senso, io ne sospettai la cagione –pienamente confermata da altri- nell’abuso di bevande
alcooliche a cui essi si abbandonano con una frenesia bestiale e che ha finito
coll’abbrutirli.
Non parrà dunque esagerato l’affermare che questo avanzo di popolazione barbara e forte
sia destinato, almeno in certe zone, a sparire fatalmente” (dalla relazione di Alfonso
Lomonaco, “Il primo saggio di colonizzazione italiana in Cile, Ministero Affari Esteri,
Bollettino Emigrazione, 1905).
DESCRIZIONE FISICA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Bassi di statura
Tozzi e massicci
Pelle scuro-giallastra o bronzina
Faccia larga
Guance sporgenti
Naso grosso e narici larghe
Da giovani, sani, forti e robusti
Da anziani deformi e ripugnanti
Occhi spenti e opachi
ABITAZIONI
Capanne di rami intrecciati
Interno squallido
CARATTERE
1. Umili
2. Dimessi
3. Diffidenti
4. Abbandonati
5. Timorosi e ostili
6. Razza degenerata e avvilita
7. Fanno abuso di alcool
8. Barbari e forti
9.Fieri e indomiti in passa
Vivono nel fondo di vallate,
pochi i contatti con i ‘civili’
Puren,
Araucania (Chile)