Le forme del decidere: norme cattoliche per l`ostetricia

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Le forme del decidere: norme cattoliche per l`ostetricia
Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva
Le forme del decidere: norme cattoliche per l'ostetricia
abortiva*
EMMANUEL
BETTA
Sul finire del XIX secolo la chiesa cattolica per la prima volta nella propria storia prese una posizione
formalmente definita in relazione alle possibilità terapeutiche dell'ostetricia abortiva. Tra il 1884 ed il 1902
la congregazione del Sant'Uffizio emanò una serie di sentenze a carattere normativo per il clero e la
comunità dei fedeli con le quali fissava dei limiti alla terapeutica ostetrica e delimitava nel dettaglio le
possibilità di intervento terapeutico in riferimento ad alcune operazioni chirurgico-ostetriche - embriotomia,
craniotomia, parto prematuro artificiale, operazione cesarea, aborto terapeutico - previste dalla medicina
ottocentesca per la cura delle gravidanze a rischio. Obbiettivo di fondo di questa serie di sentenze fu il
tentativo di disciplinare quelle situazioni nelle quali la vita della donna e del `concepito' erano in pericolo e
sembrava imporsi una scelta dirimente tra la vita e la salute dell'una e dell'altro. Secondo un'immagine
spesso usata dai teologi, si trattava di decidere se «far pendere la bilancia» e nel caso a favore di chi e
per quale motivo. La normazione inquisitoriale stabilì che principio ordinante dell'azione terapeutica
dovesse essere la vita del `concepito' e che qualsiasi intervento terapeutico che non fosse capace di
garantirne a priori l'incolumità doveva ritenersi illecito per qualsiasi fedele cattolico, a prescindere dal
momento della gravidanza in cui veniva impiegato ed a prescindere dalle patologie per far fronte alle quali
era previsto1.
In questa sede analizzerò brevemente i caratteri ed il contesto di queste sentenze, che trovano nella
loro originalità storica il principale motivo di interesse. Esse rappresentarono il primo intervento esplicito
della chiesa cattolica in relazione a questa situazione della gravidanza ed a queste operazioni chirurgicoostetriche. Se è scontato ribadire che l'opposizione della chiesa all'aborto non data certamente
all'Ottocento inoltrato, visto che papi, concilii, vescovi, interventi pastorali e magisteriali nel corso del
tempo avevano fatto dell'aborto un peccato mortale per la dottrina cattolica, è necessario sottolineare che
proprio dal punto di vista storico la normazione inquisitoriale di fine Ottocento non ha pari né in qualità, né
in quantità2. Questo è un dato che diviene tanto più significativo in considerazione del fatto che le
operazioni chirurgico-ostetriche alle quali le sentenze inquisitoriali facevano riferimento erano presenti da
tempo sulla scena del parto e sulla loro liceità teolo-
* Una versione più estesa di quest'articolo è stata pubblicata in Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico
all'età contemporanea, Viella, Roma 2002, pp. 213-225.
A.
Menzione (a cura di), Specchio della popolazione. La percezione dei fatti e problemi demografici nel passato, Forum, Udine 2003, pp. 105-119.
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gica si erano interrogate a lungo generazioni di moralisti cattolici. Da Tertulliano Cajetano, da Sanchez
a De Lugo, passando per i lavori di Roncaglia e Liguori, senza contare la fondamentale Embriologia
sacra dell'abate palermitano FrancescoEmanuele Cangiamila pubblicata nel 1745, í teologi avevano
cercato di definire i limiti morali dell'azione terapeutica su una donna incinta, tentando al tempo stesso
di mettere a fuoco lo statuto morale del `concepito' nel suo rapporto con la donna e l'ordine naturale.
Discussioni che si erano approfondite ed ampliate con il Settecento, che aveva visto l'inizio della
medicalizzazione del parto, primo canale - attraverso il quale si esplicava quell'investimento biopolitico
sulla nascita che avrebbe inciso profondamente sulle dinamiche e gli equilibri interni alla scena del
parto, costituendo un dispositivo di governo e gestione della nascita nel quale la medicina ed i medici
avrebbero poi assunto un ruolo centrale, a spese di levatrici e preti3. Limiti e scopi della terapeutica in
ostetricia in relazione alla donna, al feto ed al rapporto tra gravidanza e religione furono ampiamente
discussi sia dalla medicina che dalla teologia cattolica, ma fino alle sentenze di fine Ottocento è
possibile affermare che, per quanto riguarda il punto di vista teologico e della disciplina cattolica,
l'autorità di questi ed altri teologi, insieme ad alcuni tradizionali argomenti esegetici, sia stata ritenuta
punto di riferimento sufficiente per sostenere la disciplina cattolica della pratica ostetrica e del parto:
ad essa avevano attinto i sacerdoti ed i medici cattolici per comprendere, governare e decidere delle
gravidanze a rischio4.
La stessa storia ottocentesca dell'Inquisizione presenta elementi che dimostrai la presenza storica di
queste operazioni e dei dubbi morali che esse suscitavano nel clero5. Prima della risposta del 1884,
infatti, erano giunte in Sant'Uffizio molte richieste di delucidazioni sullo statuto morale di queste operazioni
chirurgico-ostetriche, e più in generale, domande e dubbi sul comportamento da tenere di fronte ad una
gravidanza a rischio. Nel 1852, ad esempio, un professore di morale, Lovanio aveva chiesto agli
inquisitori se l'operazione cesarea era da ritenersi lecita ed in quali situazioni, ma soprattutto aveva
richiesto all'Inquisizione di valutare la liceità morale di un'interruzione volontaria di gravidanza per motivi
terapeutici nel caso di determinate patologie come la distocia pelvica. In quell'occasione la congregazione
del Sant'Uffizio aveva attivato l'iter amministrativo per il giudizio. Il domenicano Giacinto de Ferrari,
consultore cui era stato affidato il compito di analizzare la questione dal punto di vista morale e di redigere
un parere, si era espresso favorevolmente, ma aveva comunque concluso che nihil esse
respondendum, soprattutto in ragione del fatto che non conosceva come la medicina pensava e giudicava tale problema. Incaricato nuovamente dalla congregazione di accertare lo statuto della questione
nell'ostetricia ottocentesca, il consultore aveva riconfermato il proprio giudizio e la sua opinione era stata
fatta propria dall'Inquisizione, che aveva rimandato il professore lovaniense all'autorità dei teologi morali
più noti. Le posizioni all'interno del Sant'Uffizio erano molto articolate, ma mancava una base solida su cui
poggiarle e fu quindi ritenuta più opportuna la strada della dilazione della risposta, fino al momento in cui il
discorso della medicina non avesse presentato elementi più certi6. Questo caso, al di là del risultato,
testimonia come già attorno alla metà del secolo l'Inquisizione avesse presenti sostanzialmente tutti gli
elementi e le linee di fondo che avrebbero poi originato la normazione di fine seco-
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lo: formare, nel doppio senso identificato da Bourdieu, la scena del parto, definire gli spazi di decisione che
competevano al medico, identificare l'esistenza e la gerarchia di priorità nella scelta, quando questa appariva
ineludibile.
Come detto, nella storia della chiesa cattolica e dello stesso Sant'Uffizio non compaiono interventi
normativi comparabili alle sentenze di fine Ottocento, né in qualità, né in quantità. Questa particolarità era
già stata sottolineata nel 1935 dal Dictionnaire de droit canonique, dove Delmaille nel lemma avortement
scriveva che "les quinze dernières années du XIX siècle ont vu, à elles seules, plus des décisions de Rome
que les quinze siècles précédents`7. La normazione inquisitoriale degli ultimi due decenni dell'Ottocento può
essere considerata originale da due punti di vista, contenutistico e formale. Per quanto attiene ai contenuti,
infatti, essa produsse e definì una disciplina della pratica ostetrica incardinata su parametri e limiti che erano
molto diversi, se non addirittura opposti, a quelli che negli stessi decenni erano prospettati e suggeriti dalla
maggior parte dei medici e dei teologi che, numerosi, intervennero e scrissero di questi argomenti. Anche
questa divergenza fu rimarcata da Delmaille, che sottolineò come "les théologiens (horresco referens), au
XIX siècle, étendent índéfiniment le domaine de l'avortement in direct8. Dal punto di vista formale, invece, le
sentenze del Sant'Uffizio presentavano una particolarità significativa rispetto alla prassi inquisitoriale. Un
intervento normativo dell'Inquisizione - già di per sé qualcosa che costituiva dottrina - ripetuto a breve
distanza di tempo su un medesimo tema non era frequente nell'attività dell'Inquisizione romana. Infatti,
quando giungevano alla congregazione dei quesiti su problemi che erano già stati affrontati, dalla stessa o
da altre istituzioni ecclesiastiche, generalmente la prassi inquisitoriale prevedeva che i mittenti delle richieste
fossero rinviati ai decreti relativi, oppure ai vertici delle congregazioni cui appartenevano per farsi indicare la
dottrina già esistente. Nel caso della serie di sentenze, li fine Ottocento, invece, il Sant'Uffizio tornò più volte
ad affrontare quesiti e problemi già sostanzialmente definiti nelle prime due risposte, del 1884 e del 1889,
senza contare, peraltro, che le ultime due sentenze affrontarono ambedue lo stesso tema della gravidanza
extrauterina.
Nel fatto che l'Inquisizione sia ritornata più volte di seguito sugli stessi temi, con articolazioni e
precisazioni ulteriori, avocando a sé la spiegazione ultima e definitiva dei punti in esame, è possibile leggere
un implicito riconoscimento che le questioni in gioco presentavano caratteri di urgenza e necessità e segnala
quanto la stessa Inquisizione ritenesse fondamentale che la base sacerdotale avesse chiare le priorità nel
governo della nascita e i criteri di valore con i quali gestirla e deciderne. Questo comportamento diventa
interessante se si considera che fino al 1884 la stessa congregazione non aveva ritenuto opportuno
rispondere alle numerose richieste che le erano arrivate, mentre dopo la prima sentenza essa intervenne più
volte sugli stessi temi per precisarli nel dettaglio e riconfermarli. Peraltro, come vedremo più avanti, questo
atteggiamento sembra esser stato motivato anche dal fatto che i diversi quesiti che continuarono ad arrivare
anche dopo il 1884 segnalavano una certa difficoltà, per non dire resistenza, da parte della base sacerdotale
e degli ambienti medici cattolici ad accettare e comprendere i motivi ed i caratteri della normazione
inquisitoriale, in alcuni casi di un'insoddisfazione per il tipo di strumentazione
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interpretativa e di prescrizioni che esse mettevano a disposizione del clero per affrontare la scena del parto.
In questo senso occorre considerare che gli stessi mit-tenti delle richieste avevano esplicitamente
manifestato agli inquisitori la loro incapacità ad orientarsi nelle prescrizioni disponibili nella manualistica per
sacerdoti e confessori, che a proposito del governo della gravidanza a rischio e delle azioni terapeutiche
previste per essa presentavano indicazioni differenti e prescrizioni che variavano da testo a testo.
Di questa difficoltà ad orientarsi nei meandri del discorso teologico e disciplinare sono testimonianza le
stesse numerose domande che medici cattolici e sacerdoti da varie parti d'Italia e dall'estero rivolsero agli
inquisitori prima del 1884, con le quali chiedevano precisamente indicazioni chiare e fruibili su come
comportarsi di fronte all'ipotesi di dover `far pendere la bilancia' e più in generale prescrizioni su quale
atteggiamento tenere di fronte alla medicina ed alle diverse possibilità di intervento terapeutico che essa
ipotizzava e metteva in campo, dalla embriotomia all'aborto provocato, dall'operazione cesarea
all'anticipazione artificiale del parto. Dubbi e perplessità che ruotavano attorno al problema del rapporto tra il
sapere scientifico con la sua contingente efficacia di azione sul corpo ed í principi e valori universali della
religione, o, detto in altri termini, tra l'azione arbitraria sulla natura ostile e l'accettazione passiva di un
destino iscritto nell'ordine naturale da Dio. Come detto tutte queste domande fino al 1884 non avevano
indotto il Sant'Uffizio a rispondere, gli inquisitori erano rimasti nel solco del silenzio storico della chiesa,
ritenendo che esso fosse solida ed adeguata dimostrazione che la dottrina esistente era sufficiente per
comprendere e normare la gravidanza a rischio e le decisioni terapeutiche su di essa.
Il silenzio storico della Chiesa è punto nevralgico per comprendere la normazione inquisitoriale di fine
Ottocento. Come detto esso non significa tanto che la chiesa non abbia storicamente espresso una sua
chiara opposizione all'aborto come peccato mortale, quanto che essa prima del 1884 non è intervenuta in
modo tanto chiaro ed esplicito sui caratteri morali delle operazioni chirurgico-ostetriche e più in generale
della terapeutica della gravidanza. Gli stessi inquisitori ed i numerosi autori cattolici tematizzavano il silenzio
storico della chiesa, che faceva problema per qualsiasi argomentazione, in quanto la sua interpretazione
costituiva lo snodo di senso imprescindibile per legittimare ed articolare una posizione in merito alla liceità
morale delle operazioni chirurgico-ostetriche sulla gravidanza. Capire perché la chiesa non aveva ritenuto
opportuno definire e normare questi interventi era il passaggio dirimente per definirne la moralità. Ambedue
le interpretazioni di questo silenzio poggiavano sull'idea che la chiesa fosse per definizione istituzione
universale ed assoluta, ed in quanto tale che avesse tutte le informazioni sui comportamenti e le pratiche,
anche grazie alla propria organizzazione capillare cd articolata. L'ipotesi, dunque, che essa non conoscesse
l'esistenza ed i caratteri tecnici delle operazioni chirurgico-ostetriche era esclusa a priori nella spiegazione
del silenzio storico: questo doveva avere altre motivazioni e significati.
Molti autori, sia sacerdoti che medici, lo spiegavano con la discontinuità storica: le operazioni in questione
erano una novità ottocentesca, sia dal punto di vista tecnico-operatorio, sia dal punto dí vista contestuale
degli equilibri di potere-sape
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re sulla scena del parto - prima tra tutti una nuova e più incisiva efficacia terapeutica della scienza sul
corpo della donna incinta e del `concepito' - come tali, dunque, non erano compresi e disciplinati dai
tradizionali strumenti interpretativi ed analitici della dottrina esistente. Da questo punto di vista, tali autori
sostenevano come necessaria una parola autorevole della chiesa, che affrontasse anche queste
operazioni, aggiornando le proprie categorie ed i criteri del giudizio sul governo della nascita e della
gravidanza a rischio, principalmente alla luce del nuovo dispositivo di potere sapere che aveva investito il
corpo gravido della donna. Al contrario, altri autori spiegavano il silenzio storico della chiesa negando che
le operazioni in questione fossero nuove. In una prospettiva di continuità, esse erano pensabili e
giudicabili con gli strumenti e le categorie della dottrina esistente, senza alcuna necessità di
aggiornamenti o cambiamenti di sorta e da questo punto di vista essi affermavano come inopportuno
anche l'intervento del Sant'Uffizio. A quest'argomentazione di carattere storico-teologico, gli autori contrari
aggiungevano un motivo di ordine strategico legato al contesto ottocentesco. Essi, infatti, percepivano il
contesto culturale del XIX secolo come spazio ostile alla chiesa cattolica in quanto dominato da
materialisti e positivisti che attraverso i propri giornali erano pronti ed in grado di sfruttare ogni presa di
posizione ecclesiastica per attaccare la chiesa cattolica. A questo motivo si aggiungeva il fatto che la
materia in oggetto - le operazioni chirurgico-ostetriche, ma anche lo statuto scientifico della donna, del
`concepito' e della gravidanza - era in continuo cambiamento e ridefinizione sia dal punto di vista della
ricerca medica, sia da quello della pratica terapeutica9. Infine, a questi motivi che rendevano inopportuna
la `rottura del silenzio' si aggiungevano anche dubbi sull'interpretazione teologica dell'intero problema
della gravidanza a rischio. Infatti, anche all'interno dell'ampio dibattito cattolico su questi temi, le posizioni
erano differenti e talvolta molto divergenti. Alcuni dei termini filosofico-teologici del problema rimanevano
sostanzialmente aperti e discussi, primo tra tutti il tempo dell'animazione del feto, sui quali teologi moralisti
e sacerdoti ottocenteschi continuavano a confrontarsi ed interrogarsi, anche se in linea di massima
cominciò a prevalere nella comunità cattolica l'ipotesi che il `concepito' fosse animato fin dal primo istante
del suo concepimento.
Queste diverse posizioni testimoniano come le questioni sottese ai quesiti posti al Sant'Uffizio - dallo
statuto morale e scientifico della donna e del `concepito' alla relazione di potere tra la scienza e la
religione, all'idea sull'ordine della natura nel suo rapporto con la conoscenza e l'attività dell'uomo - fossero
discusse e mobili anche all'interno del discorso cattolico e come buona parte della comunità teologicosacerdotale ritenesse difficile ordinarle in un quadro chiaro e definito di principi e valori con i quali gestire
le situazioni di gravidanza a rischio. E, soprattutto, esse testimoniano come la tensione tra le mobili
potenzialità dell'agire scientifico ed i valori religiosi assoluti ed universali fosse uno tra i problemi centrali
del cattolicesimo ottocentesco.
La prima risposta del Sant'Uffizio nel 1884 reca un'evidente traccia di queste perplessità anche
all'interno dell'Inquisizione. Infatti, tra le diverse formule disponibili ne fu scelta una - tuto doceri non
posse, non si può insegnare con sicurezza - che pur affermando una posizione precisa, non era
categorica, e sfumava la nettez109
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za del giudizio assumendo la possibilità remota di una spiegazione alternativa. In questo primo caso si
trattava dell'embriotomia. L'arcivescovo di Lione Caverot aveva chiesto agli inquisitori se poteva esser
insegnato nelle università cattoliche che l'embriotomia era un'operazione moralmente conforme ai valori
cattolici quando fosse adottata per particolari patologie femminili. Qui, come anche in seguito, il quesito
proveniva dagli ambienti universitari francofoni, in quanto Caverot faceva esplicito riferimento ad accese
discussioni che si erano verificate nell'ambiente universitario cattolico lionese attorno alla liceità morale
dell'interruzione terapeutica della gravidanza. Lovanio, Lione, Lilla, quest'ultima l'unica sede universitaria
che avesse già attivato una facoltà di medicina, a più riprese sottoposero agli inquisitori domande e dubbi
che vertevano sul rapporto tra le potenzialità crescenti dell'agire scientifico ed il rispetto di limiti morali
definiti dalla chiesa che si volevano assoluti ed universali. Questo dato rimanda al contesto specifico della
Francia della Terza Repubblica, dove sul finire degli anni '70 furono fondate le prime università cattoliche,
con le quali la chiesa cattolica cercò di rafforzare la propria presenza ed incisività nel panorama scientifico
e formativo. I quesiti arrivati in Sant'Uffizio recavano traccia dei problemi contingenti con i quali queste
istituzioni si confrontavano, primo tra tutti la definizione della loro specifica identità rispetto alle corrispettive università di stato, che si ricollegava da una parte alle limitazioni fiscali imposte dalla legge Ferry, e
dall'altra investiva i criteri della selezione e reclutamento del personale docente, che per la maggior parte
si era formato in quelle facoltà ed in quei laboratori della scienza positivista e materialista ai quali la chiesa
di quel periodo attribuiva nefasti effetti e che identificava come il principale avversario del cattolicesimo".
In quest'ottica costruire la scienza della natura cattolica, nei suoi vari rami della fisica, della chimica, della
fisiologia, della medicina, costituiva uno dei fini principali dell'intera azione ecclesiastica di questo periodo,
che poi ricevette un decisivo impulso dal movimento neotomista sviluppatosi con il papato di Leone XIII11.
Quanto il rapporto tra le assunzioni di principio e di valore della morale cattolica e le possibilità crescenti
dell'agire scientifico fosse percepito come il problema di fondo da parte dei mittenti dei diversi quesiti è
possibile percepirlo dalla richiesta che fu spedita al Sant'Uffizio nel 1886. I clinici dell'università di Lilla,
infatti, inviarono agli inquisitori una lista di 12 casi, nei quali la gravidanza era distinta in tipologie,
differenziate secondo due parametri: lo stato di gravità della donna e la vitalità o meno del feto, vale a dire
la sua capacità di sopravvivere se estratto dal ventre materno. La vitalità costituiva il criterio decisivo per
la distinzione teorica tra aborto e parto prematuro artificiale, era una categoria mobile, in quanto cambiava
a seconda dei miglioramenti della tecnica operatoria e della terapeutica. Aveva un diretto valore di senso
morale, poiché il parto prematuro artificiale e l'aborto terapeutico, operazioni tecnicamente analoghe,
'
erano distinte in base al tatto che l uscita del feto fosse provocata prima o dopo il momento in cui esso
avesse raggiunto uno sviluppo capace di farlo sopravvivere, un limite che nella seconda metà
dell'Ottocento era generalmente fissato attorno al sesto mese della gravidanza. I clinici di Lilla chiesero
agli inquisitori di declinare l'assunzione di principio della sentenza del 1884 nella specifica casistica
clinica, spiegando come essa potesse essere applicata ad ognuno dei singoli casi clinici che avevano
inviato. Nella risposta il
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Sant'Uffizio abbandonò quelle sfumature intrinseche alla formula del tuto doceri non posse e fece uso di
risposte categoriche: negative, positive , ribadendo nel dettaglio della casistica la chiusura a tutti gli
interventi incapaci di garantire l'incolumità e la vita del feto.
Dalla pubblicistica sacerdotale e teologica la seconda sentenza inquisitoriale del 1889 fu interpretata come
la traduzione pratica della prima sentenza del 1884 ed in base a questo motivo gli stessi inquisitori
giustificarono il ritorno del Sant'Uffizio su un medesimo tema già definito in precedenza. Già qui emerge
quella particolarità relativa alla prassi amministrativa dell'Inquisizione cui si è fatto cenno in precedenza,
ma che sarebbe stata ancora più chiara nelle successive sentenze inquisitoriali. Infatti i 12 casi presentati
da Lilla coprivano in maniera sostanzialmente completa la casistica delle gravidanze e delle possibilità
terapeutiche. Erano già presenti anche quelle operazioni che sarebbero poi state oggetto delle ultime tre
sentenze: aborto provocato, parto prematuro, laparotomia ed aborto provocato in gravidanza extrauterina.
Questo dato si presta ad alcune osservazioni.
L'ignoranza di decreti precedenti era certamente alla base del ritorno di medesime domande, poiché i
decreti del Sant'Uffizio circolavano principalmente attraverso le pubblicazioni periodiche ed i manuali per
confessori e sacerdoti che li recepivano. Il confronto con la pubblicistica del periodo, periodica e non,
permette di affermare che la circolazione dei decreti ecclesiastici non era tempestiva e non raggiungeva
direttamente ed in maniera sistematica tutta la base sacerdotale. Tuttavia, il fatto che l'ambiente medicoteologico specialmente quello universitario francese abbia insistito più volte nel chiedere ragguagli ed
ulteriori precisazioni sulle questioni dell'ostetricia abortiva può essere interpretato come un segnale di una
certa resistenza da parte di quegli stessi attori nell'accettare le proposizioni inquisitoriali e la chiusura nei
confronti dell'agire scientifico che in parte esse veicolavano. E questa perplessità sembra non esser stata
limitata al solo ambiente medico -universítario, ma appare aver investito anche la stessa teologia morale
ottocentesca. L'ultima sentenza, quella del 1902, in questo senso è esemplificativa. La pubblicistica cattolica, periodica e non, la interpretò come un'implicita presa di posizione contro due teologi gesuiti di rilievo
del panorama cattolico ottocentesco, Antonio Ballerini ed Augustín Lehmkuhl. Entrambi avevano
sostenuto nei loro compendi di teologia morale, ed in articoli sulla stampa cattolica, che l'interruzione di
gravidanza poteva ritenersi moralmente lecita di fronte a determinate patologie gravi della donna, che
impedivano con certezza un esito positivo della gravidanza. Dopo le prime sentenze inquisitoriali, sia
Ballerini che Lehmkuhl avevano continuato ad affermare questa posizione, circoscrivendo l'uso dell'aborto
terapeutico ai soli casi di gravidanza extrauterina. La sentenza del 1902 affrontò appunto questa patologia,
sostenendo che nemmeno in questa situazione era lecito intervenire per interrompere la gravidanza, e le
carte inquisitoriali che prepararono la risposta testimoniano come quest'intervento fosse diretto
precisamente verso Ballerini e Lehmkuhl, accusati di non volersi piegare alle decisioni della chiesa. In
questo senso l'ultima sentenza adottò una conclusione perentoria: per la chiesa il feto aveva un diritto
all'esistenza inalienabile in qualsiasi situazione ed in qualsiasi momento della gravidanza.
Con le fonti del Sant'Uffizio è possibile percepire le argomentazioni usate dagli
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inquisitori e la dinamica che portò alle sentenze. Da questo punto di vista emerge che anche all'interno
dell'Inquisizione romana le posizioni erano divergenti, sia in merito allo statuto morale del problema, sia ín
relazione all'opportunità di una presa di posizione esplicita.
La prima sentenza, considerata l'intervento che segna la rottura del silenzio, ebbe un iter molto lungo e
complesso. Tra l'invio del quesito da parte dell'arcivescovo Caverot e la risposta definitiva dell'Inquisizione
passarono due anni, ufficialmente furono tre i consultori incaricati di redigere un esame scritto della
questione, a cui si accompagnarono interventi di vario tipo ed una discussione molto articolata tra gli
inquisitori. Che si trattasse di un problema difficile da sciogliere per gli inquisitori stessi è testimoniato anche
da una breve nota comparsa nel novembre del 1883 sulle pagine dell'autorevole rivista ecclesiastica romana
Acta Sanctae Sedis nella quale era menzionato il quesito inviato l'anno prima da Caverot ed i lettori in attesa
di una risposta erano invitati esplicitamente a pazientare, con la spiegazione che gli inquisitori stavano
ancora discutendo su un problema che era complesso e difficile da dirimere. È interessante notare che dei
tre consultori ufficialmente incaricati di esaminare il quesito di Caverot due - Agostino Sepiacci e Giuseppe
D'Annibale, quest'ultimo tra i più importanti teologi morali ottocenteschi - espressero parere favorevole alla
liceità dell'insegnamento dell'embriotomia come operazione moralmente conforme ai valori cattolici, mentre il
solo gesuita Ugo Molza manifestò parere contrario. Come abbiamo visto, la sua posizione fu poi fatta propria
dall'Inquisizione che nel 1884 rispose negativamente all'arcivescovo di Lione.
Dal punto di vista delle argomentazioni usate, le valutazioni ruotavano attorno a tre ipotesi interpretative
tradizionali. La prima era la tesi del feto quale aggressore, che faceva della gravidanza a rischio una
situazione in cui la donna era considerata come persona aggredita, ed in quanto tale le era riconosciuto il
diritto alla legittima difesa. I sostenitori dí quest'interpretazione, assumevano che la difesa e tutela di tale
diritto potesse essere agita anche da un soggetto terzo, aprendo così alla possibilità morale che il medico
compisse l'interruzione terapeutica della gravidanza per salvare la vita della donna.
Il secondo argomento era costituito dalla tesi della collisione dei diritti, secondo la quale la gravidanza a
rischio era interpretabile come situazione nella quale due diritti alla vita, legittimi ed a priori equiparati in linea
di principio, si scontravano. La decisione si configurava come una scelta ponderata su quale di questi due
diritti dovesse essere tutelato per primo. La ponderazione comparata era misurata sull'utilità della donna e
del `concepito' in relazione alla società, al nucleo familiare ed alle relazioni con gli altri. Nella maggior parte
dei casi l'adozione di questo argomento portava a considerare il diritto della donna più importante in quanto
relativo ad un soggetto già relazionato socialmente ed affettivamente, dunque portatore di un'utilità maggiore
per gli interessi collettivi di quella di cui era capace il `concepito'. Questo, infatti, in quanto non ancora visibile
e, dunque, non ancora relazionato socialmente, era assunto come un soggetto di cui per lungo tempo la
società avrebbe dovuto farsi carico, e, con i tassi di mortalità infantile, era definito soggetto problematico ed
incapace per lungo tempo di contribuire all'utile sociale.
La terza argomentazione usata era lo schema etico del male minore, per il quale
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nella data situazione della gravidanza a rischio le scelte dovevano essere compiute per ridurre i mali al
minimo, posto che si trattava per definizione di una condizione non ottimale. In questo caso aveva un
ruolo importante la categoria teologica dell'animazione, legata strettamente al battesimo e che riguardava
il momento in cui l'anima razionale era infusa da Dio nell'embrione, attribuendogli lo specifico ontologico
dell'essere umano, la capacità dell'intelligere, che concludeva il percorso ontogenico embrionale12. Nel
corso dell'Ottocento vi era stato un cambiamento significativo nelle interpretazioni teologiche sul momento
ontologico dell'essere umano, l'animazione appunto, che aveva visto prevalere l'ipotesi che l'anima fosse
infusa al momento stesso del concepimento. Si era trattato di un cambiamento rilevante, poiché l'ipotesi
dell'animazione immediata aveva sostanzialmente soppiantato l'interpretazione che l'anima fosse infusa
soltanto in una fase avanzata della gravidanza, attorno al terzo mese circa, quando il `concepito' aveva
raggiunto una forma umana capace di raccogliere ed esprimere tutte le potenzialità ontologiche
intrinseche all'anima razionale. La tesi dell'animazione ritardata era stata l'ipotesi prevalente lungo il corso
della storia della teologia cattolica, sostenuta tra gli altri da Tommaso d'Aquino, ed aveva cominciato ad
entrare in crisi con le prime ricerche embriologiche del Seicento di Spallanzani, Malpighi13.
Il concetto di animazione e l'interpretazione sui suoi tempi avevano un rapporto diretto con la questione
morale dell'aborto terapeutico, poiché se il `concepito' era essere umano completo fin dal concepimento
ogni intervento terapeutico su una donna incinta si configurava come aborto. E soprattutto, essendo
essere umano completo esso aveva diritto alla salvezza eterna e la donna, in base alla legge di carità,
avrebbe dovuto sacrificare il bene minore della propria vita terrena, per garantire al `concepito' il bene
superiore della salvezza eterna attraverso il battesimo14. Tuttavia, anche se egemonica, l'ipotesi
dell'animazione immediata non era totalmente accettata dalla comunità teologica, al di là di quanto
affermava la pubblicistica coeva ed anche parte della storiografia che si è occupata della nascita, il
concetto di animazione ritardata era ancora diffuso e sostenuto da molti sacerdoti e teologi, che lo
ribadivano e soprattutto lo usavano per respingere le conseguenze di senso che derivavano dall'adozione
dell'ipotesi immediatista sia per lo statuto morale e naturale della donna che per quello del `concepito'15.
Inoltre, pur ammettendo l'idea che il `concepito' fosse animato fin dal primo istante del concepimento,
molti autori contrapponevano all'ipotesi che la donna dovesse sacrificarsi per garantirgli la salvezza eterna
la possibilità tecnica del battesimo in utero - i manuali di ostetricia ottocenteschi prescrivevano la siringa
per il battesimo tra gli strumenti indispensabili agli ostetrici - ed ormai accettato anche dal punto di vista
teologico. In questo modo la situazione tra la donna ed il `concepito' si riequilibrava in termini paritari:
salvata la vita eterna del `concepito' si trattava di scegliere tra due vite terrene ed in questo caso
rientravano in gioco le analisi ponderate sulla reciproca capacità di restituire al sociale un interesse ed un
utile.
Dal punto di vista teologico le operazioni abortive erano inquadrate nelle azioni relative al quinto
comandamento non occides, in quanto si assumeva implicassero un'uccisione. Molte analisi espressero il
tentativo di sottrarre le operazioni ostetriche abortive alla sfera del quinto comandamento cercando di
definire e circo113
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scrivere il grado di occisività delle singole operazioni. Con questa prospettiva gli interventi chirurgico-ostetrici
erano distinti in due gruppi, basati su una scomposizione dettagliata delle diverse fasi che componevano
l'azione operatoria in questione. Da una parte erano poste le operazioni cosiddette occisive, quelle che
agivano attraverso una prima azione diretta sul corpo del feto, provocandone la morte e la successiva
espulsione; dall'altra le operazioni non occisive, nelle quali la morte del feto si configurava come
conseguenza indiretta di azione intrapresa per altro scopo, la salute della donna. Classificare nell'una o
nell'altra categoria i singoli interventi terapeutici significava determinarne in maniera diretta la moralità e
conformità ai valori cattolici. Si trattava d'uno schema interpretativo analogo a quello che sostanziava le
analisi teologiche della contraccezione16. Tuttavia tale distinzione poggiava su elementi estremamente mobili
e fu oggetto di forti discussioni, che ruotavano attorno alla correlazione più o meno diretta tra fine ed effetti
determinati. Da questo punto di vista le argomentazioni erano complesse e lunghe, e presentavano pochi
punti di convergenza, poiché la definizione del rapporto tra obiettivo primario dell'azione e conseguenze
dirette e indirette era un nodo complesso ed ambiguo che era sempre sottoposto a critiche e in pochi casi
dava luogo a definizioni condivise. In linea di massima, tuttavia, tra le operazioni occisive erano
generalmente annoverate l'embriotomia e la craniotomia, mentre l'aborto provocato ed il parto prematuro
erano considerati interventi non occisivi, in quanto la morte del feto era conseguenza indiretta di un'azione
intrapresa per salvare la salute della donna e presente in un secondo momento. E importante sottolineare
che alcuni testi inquisitoriali e molte pubblicazioni cattoliche che affrontarono tali questioni inserivano
l'operazione cesarea tra gli interventi occisivi. Il suo grado di occisività era letto attraverso i dati statistici - per
molta parte dell'Ottocento da intendersi come raccolte asistematiche di casi - che dimostravano quanto
questa operazione, quantomeno fino a Semmelweiss e soprattutto Pasteur, fosse quasi sempre mortale per
la donna e molto spesso anche per il feto. È un punto molto significativo, poiché la morale cattolica, da
Cangiamila in poi, aveva fatto dell'operazione cesarea l'unico intervento ostetrico possibile per un fedele
nelle situazioni di gravidanza a rischio, in quanto si configurava a livello teorico come un'operazione che non
sceglieva tra la donna ed il `concepito', ma agiva per salvare l'una e 1'altro. La pratica, al contrario, ne
faceva un'operazione mortale per la donna, ed almeno fino alla fine dell'Ottocento essa fu impiegata dalla
medicina con la precisa consapevolezza che i tassi di successo per entrambe le individualità della
gravidanza era estremamente bassa. Ed, infatti, veniva interpretata come un'operazione favorevole al
`concepito', nonostante i tassi di mortalità dei feti in queste situazioni fossero altrettanto elevati. In questo
quadro l'aborto provocato era configurato come un intervento tecnicamente in tutto simile al parto prematuro,
distinto da quest'ultimo soltanto perché veniva operato prima del sesto mese, cioè prima che il feto fosse in
grado di sopravvivere. In questo senso, gli veniva attribuito un effetto occisivo indiretto.
Dal quadro complessivo delle fonti inquisitoriali emerge chiaramente come l'Inquisizione assumesse come
interlocutore sostanziale ed ultimo la medicina. La voce della donna era completamente assente dalla
prospettiva argomentativa degli inquisitori e sostanzialmente non aveva motivo di esistere. Infatti, nella pro114
Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva
spettiva inquisitoriale la donna, in quanto madre, con la lettera maiuscola, non esisteva come soggetto di
volontà: essa era semplicemente la sua funzione procreatrice, e, come tale, non poteva che opporsi a
qualsiasi intervento abortivo ed accettare qualsiasi intervento medico, per quanto pericoloso per la sua
salute, pur di adempiere al compito che la natura le aveva attribuito, sacrificandosi per la vita del feto.
Il confronto era appunto con la medicina, con le sue strutture interpretative, eziologiche, con le cause, i
principi ed i fini in base ai quali essa operava. In questo senso l'intervento normativo dell'Inquisizione si
configura come un tentativo di definire gli spazi d'azione e di decisione, circoscrivendo quello del medico a
semplice applicazione pratica di valori e principi forniti dalla Chiesa. La contestazione di fondo che veniva
mossa ai medici, ostetrici in questo caso, era quella di aver assunto un potere di vita e di morte, che era
esclusiva divina. Assumendosi tale potere i medici avevano violato una gerarchia intrinseca all'ordine delle
cose, e, soprattutto, avevano fortemente limitato il potere di intervento e di controllo della Chiesa cattolica
sulla scena e la dinamica del parto. Un controllo che, come ha mostrato la storiografia della nascita, dai
classici lavori di Gélis, a quelli di Pancino, Filippini ed altri, era stato messo in forte discussione a partire dal
processo di medicalizzazione del parto, originato dagli interessi biopolítici dei nascenti stati nazionali
europei. Nel XIX secolo l'importanza ed il ruolo strategico della medicina e della produzione della salute per
gli obiettivi nazionali avevano reso il medico soggetto centrale di tale dispositivo. Cosa che aveva limitato
ancor più il potere di intervento e di parola del prete e della Chiesa cattolica su tali ambiti, in particolare sulla
scena del parto. Il nuovo tipo di ostetricia, con un impianto epistemologico fortemente determinato dalla
statistica, aveva cambiato radicalmente il rapporto tra medico e paziente. Ed al tempo stesso la centralità del
medico all'interno del dispositivo biopolitico ne faceva un attore sempre più condizionante della scena del
parto. Se, seguendo l'ipotesi di Jacques Gélis, il parto complicato fu il punto attraverso il quale la medicina
del '700 iniziò a prendere il controllo della scena del parto, con il XIX secolo è possibile dire che questo
percorso di presa in carico del governo della nascita e del parto sia arrivato ad una conclusione,
quantomeno dal punto di vista discorsivo, con l'assunzione di un potere di decidere interventi abortivi per
motivi terapeutici, dando espressione in questa scelta ad una rivendicazione da parte della medicina di un
potere totale di vita e di morte sulla scena del parto, rivendicazione che fu argomentata ed affermata
esplicitamente in numerose pubblicazioni ostetriche ottocentesche.
La medicina ottocentesca, infatti, aveva assunto l'interruzione della gravidanza per motivi terapeutici come
una possibilità tecnica di successo, ma soprattutto come un dovere etico e professionale. Le Accademie di
medicina europee, di Poznam, Marsiglia, Nantes e, soprattutto di Parigi, nei due decenni a cavallo della
metà del secolo avevano formalmente riconosciuto l'aborto provocato e le operazioni embriotomiche come
interventi legittimi dal punto di vista professionale e deontologico. Esempio emblematico e più autorevole fu
la discussione all'Accademia di Medicina di Parigi, cui appartenevano quelli che George Weisz definiva i
mandarini della medicina". Qui nel 1851 ebbe luogo una vivace discussione su una memoria che presentava
un caso di aborto procurato. In questione
115
EMMANUEL BETTA
c'era non tanto il fatto che tale pratica fosse ormai comune ed ampiamente diffusa, quanto se essa
dovesse avere un riconoscimento formale ed autorevole da parte dell'Accademia, la stessa che era parte
integrante di quel forte investimento biopolitico sull'infanzia che caratterizzò la Francia di quel periodo,
come hanno chiaramente mostrato gli studi di Catherine Rollet-Echalierl18.
L'Accademía di medicina approvò l'aborto procurato per fini terapeutici e questa discussione sarebbe
divenuta poi l'esempio più celebre e citato nella pubblicistica medica ed in quella teologica di affermazione
autorevole ex professo della liceità degli interventi abortivi a scopo terapeutico. D'altra parte, i progressi
della chirurgia ed i perfezionamenti tecnici degli strumenti avevano ormai reso l'embriotomia e l'aborto
procurato operazioni sicure, mentre l'operazione cesarea continuava ad avere tassi di mortalità
estremamente elevata. Da questo punto di vista le riviste di medicina discutevano casi di aborto provocato
nell'unica prospettiva della correttezza scientifica di diagnosi e terapia, non più della legittimità etica.
Queste discussioni accademiche, in particolare quella parigina, e numerosi articoli e saggi medici
comparivano anche negli esami degli inquisitori, portati ad esempio del mutato clima e della mutata prospettiva nella quale veniva governata la gravidanza, ma soprattutto furono citati per spingere la chiesa a
far fronte a questi cambiamenti, che investivano ambiti strategici per la dottrina cattolica, basti pensare
appunto alle università cattoliche francesi, dove appariva una difficoltà a definire la cattolicità delle
pratiche ostetriche.
Per concludere questo breve rapido sguardo alle sentenze inquisitoriali, mi sembra si possa affermare che
una prima risposta al quesito principale, vale a dire perché la chiesa cattolica abbia deciso di intervenire in
una materia che era discussa da molto tempo e che soprattutto nel '700 aveva visto i suoi momenti
fondanti, può essere cercata al livello discorsivo. Il confronto come abbiamo visto fu tra due tipi di discorsi,
due modi di pensare, impostare e giudicare il parto, la gravidanza ed il rapporto tra la donna ed il feto. Il
XIX secolo da questo punto di vista presentava un forte cambiamento, che se non era completamente
realizzato dal punto di vista delle pratiche, lo era sicuramente dal punto di vista dei discorsi. I modi in cui
la nascita ed il parto venivano pensati e gestiti riflettevano fortemente l'impianto eziologico e concettuale
della medicina, ed anche se la maggior parte dei parti ottocenteschi continuavano ad esser gestiti a casa,
dalle levatrici, il peso della parola o della presenza del medico era crescente e sempre più incisivo. Da
questo punto di vista, quindi, le sentenze inquisitoriali appaiono come un tentativo cattolico di recuperare
un potere di parola e di influenza su quella scena del parto nella quale il ruolo del cattolicesimo appariva
limitato, non tanto dal punto di vista delle credenze, quanto dal punto di vista della struttura e dinamica
delle decisioni che in essa venivano prese. Questo tentativo di recupero di una parola pesante fu cercato
attraverso la difesa del feto, che venne assunto come un valore prioritario ed assoluto sul quale impostare
la dinamica decisionale della scena del parto. Cosa che, come appare dal dibattito ottocentesco, avvenne
al di là di una base condivisa di valori e principi che potessero sostenere tale scelta. In tal modo
assumendo la difesa del feto e facendosi rappresentante in qualche misura del suo diritto alla vita, la
chiesa cattolica ha recuperato un ruolo forte e spesso condizionante in ogni dinamica, discorsiva e non,
che riguardasse la nascita, il parto, la gravidanza19.
116
Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva
1 In relazione alla codificazione mi sembra molto utile l'interpretazione che Pierre Bourdieu ha definito per la ricerca
etnografica. Bourdieu riteneva legge generale che quanto più una pratica era pericolosa, tanto maggiore ne era la
codificazione. Ma soprattutto leggeva nella codificazione un doppio obiettivo, mettere in forma e dare delle forme
(<<mettre en forme et mettre des formes»), secondo il principio della scolastica principium importans ordinem in
actu. Nel caso delle sentenze inquisitoriali, mi sembra che compaia una doppia funzione analoga. Cfr. P Bourdieu, La
codifica-zion, in Id., Choses dites, Editions du Minuit, Paris 1990, p. 33.
2 Per la storia del dibattito teologico sui temi dell'aborto vedi A. Beugnet, Avortement, in A. Vacant, A. Magenot (dir.),
Dictionnaire de théo-logie Catholique, vol. I, Letouzey et Ané, Paris 1919, coll. 2644-2652; J. Delmaille,
Avortement, in R. Naz (dir.), Drctiónnaire de droit canonique, Letouzey et Arie, Paris 1935, coll. 1536-1561; P Sardi,
L'aborto ieri ed oggi, Paideia, Brescia 1970; J.T. Noonan, The morality of abortion. Legal and histnrical
perspectives, Harvard University Press, Cambridge (Ms) 1977; J. Connery, Abortion: De Development of the
Roman Catholic Perspective, Loyola University Press 1977.
3
I caratteri della medicalizzazione della nascita e del parto ín epoca moderna sono stati indagati da un'ampia
storiografia. Tra i molti lavori hanno dedicato particolare attenzione al rapporto tra religione e nascita alcuni testi, che
hanno ricostruito il peso ed il ruolo che la chiesa cattolica e la teologia giocarono in questo percorso. Vedi J. Gélis,
L'arbre et le fruit. La naissance dans l'Occident moderne, XVI-XIX siècle, Fayard, Paris 1984 e La sage femme
ou le mèdicin. Une nouvelle conception de la vie, Fayard, Paris 1988, e per quanto riguarda l'Italia C. Pancino, Tl
bambino e l'acqua sporca. Storia dell'assistenza al parto dalle mammane alle ostetricbe, (secoli XVI-XX),
Angeli, Milano 1984; N.M. Filippini, La nascita straordinaria. Tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo
(sec. XVIlI-XIX), Angeli, Milano 1995.
4 Il tema del silenzio storico della chiesa va precisato. Con questo termine le fonti archivistiche ed a stampa che
riguardano questi temi, identificano il fatto che la chiesa cattolica non abbia prodotto ex cathedra una normazione
precisa e definita dei temi dell'ostetricia abortiva. Cosa che non implica che la chiesa attraverso l'Inquisizione o altra
congregazione, non avesse affrontato o sfiorato temi attinenti quest'area di problemi. Significa che questi temi non
ricevettero, prima del 1884, una normazione esplicita e ad hoc. Peraltro, infatti, lo stesso Sant'Uffizio aveva incrociato
alcune volte questi problemi, ed in alcune occasioni aveva pure risposto alle questioni. Come ad esempio il decreto
inquisitoriale del 2 marzo 1679, con il quale Innocenzo XI, dopo aver istituito due commissioni, di teologi e cardinali,
condannò un centinaio di proposizioni presunte lassiste da un gruppo di teologi di Louvain. Tra queste proposizioni due
riguardavano l'aborto, la n. 34 affermava fosse lecito procurare l'aborto prima dell'animazione, la n. 35 che affermava
fosse probabile che il feto avesse l'anima solo dopo la nascita, e non nell'utero, per cui l'aborto non poteva esser considerato omicidio. Cfr. P. Sardi, L'aborto ieri e oggi... cit., pp. 191-1)2. Per una sintetica storia delle posizioni
ecclesiastiche sull'aborto, con i testi delle principali decisioni, cfr. J. Delmaille, Avortement... cit.
5 Il primo studio su fonti inedite dell'Archivio del Sant'Uffizio in relazione a questi temi è di Adriano Prosperi, che ha
analizzato un caso settecentesco sottoposto all'Inquisizione in cui erano coinvolti battesimo ed animazione cfr. A.
Prosperi, Scienza e immaginazione teologica nel seicento: il battesimo t, le origini dell'individuo, «Quaderni
Storici», 100, 1999, pp. 173-198.
6 Probabilmente è questo il caso menzionato dalla Revue théologique nel 1857, cui fa cenno Connery. Cfr. J.
Connery, Abortion... cit., p. 215.
7 J. Delmaille, Avortement... cit., col. 1544.
8 Ibidem. La categoria di aborto indiretto, infatti, giocava un ruolo fondamentale in tutte le analisi teologiche della liceità
dell'aborto. Se l'aborto diretto, inteso come intervento intenzionale, consapevole e finalizzate esplicitamente alla morte
del feto, era stato sempre condannato dalla morale cattolica in quanto omicidio, le posizioni riguardo l'aborto indiretto
erano sempre state molto più articolate e differenziate. L'esistenza di un diverso rapporto mezzifini differenziava dal
punto di vista teologico e morale questo tipo di aborto dal precedente. In questo caso, infatti, si trattava d'un intervento
intrapreso per un altro motivo, sostanzialmente la salute della donna, che aveva come effetto secondario la morte del
feto, che non era da considerare quindi il diretto effetto dell'azione, ma una conseguenza dilazionata nel tempo. In
questo modo molti teologi affermavano che questo tipo di intervento abortivo era lecito e persino doveroso di fronte a
deter117
EMMANUEL BETTA
minate patologie, ad esempio il cancro all'utero o la gravidanza extrauterina. Per motivi di spazio non è
possibile dar conto qui dei numerosi testi cattolici che nel secondo ottocento sostennero posizioni
filoabortiste e filoembriotomiste. Per un quadro dettagliato del dibattito cattolico rimando al lavoro di J.
Connery, Abortion... cit., ín particolare gli ultimi quattro capitoli, (XI-XIV), dove sono esaminate nel dettaglio
molte tra queste pubblicazioni.
9 Per la storia dell'ostetricia e della chirurgia cfr. A. Corradi, Dell'ostetricia in Italia dalla metà dello scorso
secolo fino al presente, Gamberiní e Parmeggiani, Bologna 1874-75; T.M. Caffaratto, L'ostetricia, la
ginecologia e la chirurgia in Piemonte dalle origini ai giorni nostri, Vitalita, Saluzzo 1973 e gli
interventi in M. D. Grmek (ed.), Storia del pensiero medico occidentale. 3. Dall'età romantica alla
medicina moderna, Laterza, Roma-Bari 1998.
10 Sulle università cattoliche in Francia cfr. R. Fox, G. Weisz The organization of science and
technology in France 1808-1914, Cambridge University Press-Editions de la Maison des Sciences de
l'Homme, Cambridge-Paris 1980; G. Weisz, The emergence of modern universities in France, 1863791d, Princeton University Press, Princeton 1983; H.W.Paul, From knowledge to power. The rise of the
science empire in France 1860-1939, Cambridge University Press, Cambridge 1985, in particolare pp.
221250, dove esamina le discussioni sull'identità dell'insegnamento universitario cattolico negli ambienti
cattolici francesi del periodo.
11 Per il rapporto tra neotomismo e medicina in questo periodo rimando al mio Per una medicina
neotomista: «La Scienza italiana» (1876-1889), in A. Romano (a cura di), Roma e la scienza (Secoli
XVI-XX), numero monografico di «Roma moderna e contemporanea», 1999, VII, 3463-498. Sul
neotomismo in relazione al rapporto con le scienze della natura vedi anche G. Saítta, Le origini del
neotomisino nel secolo XIX, Laterza, Bari 1912; R. Aubert, Aspects divers du néo-thomisme sous le
pontificat de Léon XIII, in Aspetti della cultura cattolica nell'età di Leone XIII, Atti del convegno
tenuto a Bologna il 27-28-29 Dicembre 1960, a cura di G. Rossini, Edizione Cinque Lune, Roma 1961, pp.
133-227; L. Malusa, Neotomismo e intransigentismo cattolico. Il contributo di Giovanni Maria
Cornoldi per la rinascita del tomismo, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1986.
12 Un lavoro specificamente dedicato alla storia del concetto di animazione è A. Lanza, La que
stione del momento in cui l'anima razionale è infusa ne/ corpo, Pontificio Ateneo Lateranense, Roma
1939. Vedi anche A. Chollet, Animation, ín A. Vacant, A. Mangenot (dir.), Dictionnaire de théologie
catholique, tomo T, Letouze et Ané, Paris 1903, pp. 13051320.
13 Vedi J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée francaise au XVIIIe siècle. La génération
des animaux de Descartes à l'Encyclopédie, Albin Michel, Paris 1993 (ed. orig. 1963); W. Bernardi, Le
metafisiche dell'embrione. .Scienze della vita e filosofia da Malpighi a Spallanzani (1672-1793),
Olschki, Firenze 1986.
14 Sul tema del battesimo, cfr. J. Bossy, Sangue e battesimo, parentela, comunità e cristianesimo in
Europa occidentale dal XIV al XVII secolo, in Id., Dalla comunità all'individuo. Per una storia
sociale dei sacramenti nell'Europa moderna, Einaudi, Torino 1998: pp. 37-58j. Gélis, De la mort à la
vie. Les Sanctuaires à répit, «Ethnologie francaise», 1981, XI, 3, pp. 221224; S. Cavazza, I a doppia
morte. resurrezione t, battesimo in un rito del Seicento, «Quaderni Storici», 1982, 50, 2, pp. 551-582;
P. Stella, G. De Molin, Offensiva rigorista e comportamento demografico in Italia (1660-1860),
«Salesianum», 1978, 40, pp. 3-55.
'5 Molti testi furono pubblicati nel secondo ottocento a sostegno dell'idea di animazione ritardata, di cui
Tommaso d'Aquino era il principale teorico. In particolare dopo l'assunzione del tomismo come teologia
ufficiale della chiesa cattolica. Anche all'interno dello stesso Sant'Uffizio in un caso precedente a quelli qui in
esame, fu sostenuta l'idea dell'animazione ritardata, o, quantomeno l'idea dell'animazione immediata non fu
ritenuta egemone e indiscussa. Per un esame dettagliato di questo caso rimando al mio, Anime salve e feti
abortivi. L'Irlanda ottocentesca terreno di missione, «Quaderni Storici», 2000, 3, 105, pp. 767-801. Il
consenso sull'animazione immediata non pare esser stato così definito e compatto come appare dalle
ricerche di Jacques Gélis e Nadia Filippini, ed anche se indubbiamente con il '700 l'ipotesi dell'animazione
immediata può esser considerata quella prevalente all'interno del mondo cattolico, continuarono ad esistere
numerosi e significativi sostenitori dell'animazione ritardata sia nell'Ottocento, come nel Novecento. Ad
esempio Arthur Veermersch, oppure l'ambiente gesuita americano. II lavoro specificamente dedicato alla
storia del concetto di animazione di Antonio Lanza, La questione del momento in cui l'anima razionale
è infu118
Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva
sa nel corpo fu infatti scritto a sostegno dell'ipotesi dell'animazione ritardata.
16 In questo senso cfr. J.T. Noonan, Contraception et mariage. Evolution ou contradiction dans le pensée
chrètienne, Cerf, Paris 1969.
17 Cfr. G. Weisz, The medical mandarins: the french academy of medicine medicine in nineteenth and early
twentieth centuries, Oxford University Press, New York 1995.
18 In particolare C. Rollet-Echalier, La politique à l'égard de la petite enfance sous la IIIe République, lnstitut
National d'Études Démographiques. Presse Universitaire de France, Paris 1990.
19 Ho analizzato un esempio recente di questo rapporto tra parola della chiesa e discorso sulla nascita nel mio
Bioetica: legiferare senza conoscere, «il Mulino», 2003, 1, pp. 43-53.
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