Noi, sopravvissuti della stiva

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Noi, sopravvissuti della stiva
Noi, sopravvissuti della stiva
di Giovanni Bianconi – Corriere della Sera, sabato 16 maggio 2015
CATANIA Il peschereccio in ferro e legno «di colore blu-azzurro», lungo 22 metri, largo 8 e alto altri 8, è diventato una
grande bara a 375 metri di profondità, con centinaia di salme. Una sorta di fossa comune nel Mediterraneo, che inquirenti e
investigatori hanno potuto vedere attraverso i filmati della Marina militare; la Procura di Catania non chiederà il recupero
del relitto, per le indagini non è necessario. Molti cadaveri sono chiusi nella stiva dov’era stipata parte dei circa 800 migranti
partiti dalla Libia la notte del 17 aprile. Uomini, donne e bambini ammassati lì sotto sono morti tutti, tranne due: superstiti
per caso, grazie alla «fortuna» di essersi sentiti male durante la traversata. Due dei 28 salvati in mezzo all’ecatombe dei
sommersi nel naufragio più grave della storia dell’immigrazione, consumatosi un mese fa. Le loro testimonianze, rese prima
ai poliziotti della Squadra mobile e del Servizio centrale operativo, poi ai magistrati, sono agli atti del procedimento a carico
del «capitano» Ali Malek Mhammed, tunisino di 27 anni, e del suo presunto aiutante, Bikhit Mahmud di 25, arrestati dopo
l’approdo in Italia, per i quali la Procura si appresta a chiedere il giudizio immediato.
Uno dei due sopravvissuti si chiama Zemen, ha vent’anni, è un eritreo che viveva con la famiglia in Etiopia e a febbraio è
partito per il Sudan con dieci amici. Da lì si sono spostati in Libia, pagando ciascuno 1.300 dollari. Dovevano imbarcarsi
subito verso l’Europa, dopo il pagamento della nuova tratta effettuato dai familiari in Etiopia tramite un money transfer « ma
a causa del mare mosso abbiamo aspettato una settimana». Dal capannone in cui erano rinchiusi, «un pasto al giorno e
sorvegliati da uomini armati», la sera del 17 aprile Zemen e i suoi amici sono stati portati sulla spiaggia a bordo di furgoni,
trenta persone su ognuno. Lì sono cominciate le operazioni di carico sul peschereccio, attraverso gommoni dove i migranti
sono saliti a gruppi di cento: «Io ho fatto parte del secondo gruppo, insieme ad altre persone, tra cui donne e bambini.
C’erano uomini che colpivano con tubi di gomma coloro che non ubbidivano agli ordini».
Tutti sono stati sistemati nella stiva; riempita quella, s’è cominciato a riempire il secondo livello — metà al chiuso e metà
all’aperto, con un bagno —, e altri ancora sul ponte, dove c’era un secchio per i bisogni fisiologici. Finché sulla barca non
c’era più posto; sulla spiaggia sono rimasti circa trecento migranti, destinati al carico successivo.
Zemen s’è ritrovato coi suoi amici al buio, stretto fra decine di corpi, accanto al motore, in un caldo insopportabile, senza
potersi muovere. La barca è partita all’alba di sabato 18, e dopo un giorno di viaggio lui non ce l’ha fatta più: «Durante la
traversata sono stato colto da un violento malore, e i miei amici mi hanno aiutato a uscire dalla stiva issandomi sulle loro
spalle». Così ha raggiunto l’aria aperta, e poco dopo si è consumata la tragedia. Erano circa le 23: «Ho visto il comandante
(poi riconosciuto in Mohammed, ndr ), che non era in grado di condurre la barca perché non conosceva la rotta, né sapeva
leggere la bussola». Quando c’è stato l’urto con il mercantile greco avvicinatosi per prestare soccorso, il peschereccio s’è
inabissato «in pochi istanti», ricorda Zemen. Accanto a lui c’era un uomo che gonfiava un salvagente, «poi lui è finito in
mare, io ho raccolto il salvagente, l’ho indossato, mi sono ritrovato in acqua, e mi sono salvato grazie ai soccorsi».
Budubi ha 22 anni, e viene dal Mali, Paese che ha lasciato nel marzo 2014, «per sottrarmi alla guerra in corso». E’ arrivato
in Libia attraversando Burkina Faso e Niger. Sulla spiaggia ha trovato suo fratello, 25 anni, approdato lì per altre vie. Al
momento dell’imbarco li hanno separati di nuovo: «Mi è stato imposto di collocarmi sul livello inferiore, nell’area motori...
Durante la navigazione l’uomo che ci controllava ogni tanto percuoteva con una scarpa alcuni migranti per non farli alzare o
muovere».
Come Zemen, pure Budubi s’è sentito male ed è riuscito a salire al piano intermedio. Da lì ha visto l’impatto tra il
peschereccio e il mercantile; un urto, poi un altro, la barca che si rovescia sul lato destro: «Sono caduto in acqua e mi sono
arrampicato sulla chiglia rimanendo aggrappato fino a quando l’intero peschereccio s’è inabissato completamente. A questo
punto ho iniziato a nuotare e galleggiare». Budubi è rimasto in acqua «fino a quando dalla grande nave mi è stata lanciata
una corda e mi hanno tratto in salvo». Sulla «grande nave», ha scrutato i volti dei pochi salvati per cercare il fratello appena
ritrovato, ma non c’era: «Presumo sia deceduto nel naufragio».
Stremato dal viaggio Mbalo, ventenne del Gambia sistematosi sul ponte del peschereccio, s’era addormentato: «Mi sono
svegliato di soprassalto a causa di un forte boato», poi altri due urti e la caduta in mare, da dove l’hanno tirato su: «Ho visto
il barcone affondare e diverse persone nuotare e chiedere aiuto tentando di salvarsi». Ma i più sono rimasti sommersi. Tra
loro, anche qualche complice nell’organizzazione del viaggio, come riferisce un altro maliano: «Della sistemazione delle
persone si occupava un uomo di cui non so precisare la nazionalità, ma posso dire che ha perso la vita nel naufragio» .
Tra i superstiti, tutti tranne uno hanno riconosciuto Mohammed come «il capitano» della barca. Lui nega, finora invano; agli
atti c’è pure la deposizione di chi sostiene di averlo visto abbandonare il timone, dopo il primo urto, e andarsi a mescolare
tra gli altri profughi, per restare vivo ed evitare di essere individuato. La prima cosa gli è riuscita, la seconda no.