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“DISCORSO DEL REDENTORE”
DEL CARDINALE ANGELO SCOLA
PATRIARCA DI VENEZIA
DOMENICA 18 LUGLIO 2010
1. L’immagine biblica del bell’amore
La liturgia della Festa del Santissimo Redentore ci riempie della più grande consolazione, quando
afferma: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è
stato dato» (Rm 5, 5). Dio Padre, mediante le sue “due mani” – come Ireneo di Lione chiamava il
Figlio e lo Spirito Santo – si prende cura di noi e ci sostiene con la speranza che non delude (Rm 5,
5). Lieti nel Signore possiamo affrontare l’esistenza, nel suo intreccio di affetti lavoro e riposo,
come figli e figlie nell’Unigenito Figlio di Dio.
L’esperienza comune ad ogni uomo traccia la via maestra per imparare questa tenera figliolanza. È
la via del desiderio in senso pieno, cioè in grado di attingere la realtà, non ridotto a pura mossa
interiore al soggetto. Il desiderio, in mille forme diverse, dice ad ogni uomo la necessità di essere
amato definitivamente, perfino oltre la morte, e lo urge ad amare definitivamente, a sua volta. Qual
è allora il criterio che verifica l’apertura totale del desiderio, consentendo questo definitivo
reciproco amore?
Una suggestiva risposta ci viene dalla Bibbia: «Io sono la madre del bell’amore» (Sir 24, 18). Qui
all’amore viene accostata la bellezza.
Cosa vuol dire bell’amore? Quando l’amore è bello? Tommaso parla della bellezza come dello
“splendore della verità”. Per Bonaventura la persona che “vede Dio nella contemplazione”, cioè che
lo ama, è resa tutta bella (pulchrificatur) .
La tradizione cristiana, con le parole del Salmo, definisce Gesù Cristo come «il più bello tra i figli
dell’uomo» (Sal 45,3). Il bell’amore pertanto non è un’Idea astratta, ma la persona di Gesù, bellezza
visibile del Dio invisibile, che per amore si è fatto come uno di noi. Il bell’amore imprime la sua
forma in chi lo accoglie aprendolo a relazioni nuove e partecipate. Questo ci permette di dire che
l’amore è bello quando è vero, cioè oggettivo ed effettivo. San Paolo, nel capitolo 5 della Lettera
agli Efesini, lo rinviene nell’amore tra Cristo e la Chiesa intrecciato a quello tra il marito e la
moglie (cfr Ef 5, 32-33).
2. Una nuova grammatica dell’amore?
Con la dottrina del bell’amore il cristianesimo ha dunque la pretesa di intercettare una delle
dinamiche fondamentali della vita dell’uomo. Questo dato, tuttavia, non può ignorare le pesanti
prove cui oggi sono sottoposte le relazioni, anche le più intime, come quelle tra uomo e donna, tra
marito e moglie, tra genitori e figli. L’amore non è mai stato una realtà a buon mercato, tantomeno
lo è oggi. Proprio nelle relazioni amorose si avvertono gli effetti della difficile stagione che stiamo
vivendo. È mutata la grammatica degli affetti, anzitutto nel suo elemento determinante che è la
differenza sessuale. E dalla sfera privata tale processo sempre più va dilagando nella stessa vita
civile.
Tra quanto viene quotidianamente immesso dai codici culturali dominanti e il messaggio cristiano
del bell’amore sembra essersi scavato un fossato invalicabile.
Nell’attuale e magmatico contesto culturale si può ancora ragionevolmente credere nella proposta
cristiana del bell’amore? Tanto più che molti uomini, pure segnati da secoli di evangelizzazione
cristiana – e tra di loro non pochi praticanti -, non comprendono e rigettano gli insegnamenti della
Chiesa in materia di amore e sessualità.
Come tacere inoltre, di questi tempi, la bufera che ha investito la Chiesa cattolica per il tragico
scandalo della pedofilia perpetrata da chierici e talora coperta per negligenza o ingenuità dal
silenzio di autorità ecclesiastiche? Lo scandalo pedofilia, con l’effetto di un detonatore, sembra a
molti aver ridotto in frantumi la proposta degli stili di vita sessuale e la visione dell’uomo ad essi
sottesa che da secoli la Chiesa persegue. Riguardo al problema specifico della pedofilia mi ha
colpito l’osservazione: «La parola spesa in questi mesi da chi opera nel settore, sia esso medico,
psichiatra, ricercatore, psicologo, giurista, occupa uno spazio del tutto irrilevante rispetto al fiume
di parole emerse in questi mesi da giornali, radio, televisioni, dibattiti… Perché questo silenzio?…
È auspicabile che alla denuncia degli scandali, giusta e doverosa, segua anche una riflessione ed
un approfondimento della questione, per poterla affrontare in maniera efficace» .
Come pastore non ho una competenza specifica per tentare una qualche risposta circa la natura e le
conseguenze di simili inaccettabili abusi. Mi sembra tuttavia che le parole-chiave – “misericordia”,
“giustizia in leale collaborazione con le autorità civili”, ed “espiazione” – indicate con addolorata
forza da Benedetto XVI nella Lettera ai cristiani di Irlanda, consentano di affrontare ogni singolo
caso, dal momento che, come bene è stato detto, anche uno solo è di troppo. Il Papa non si sottrae
alla corresponsabilità che ne viene ad ogni membro dell’unico corpo ecclesiale e, in particolare, del
collegio episcopale. È uno scandalo che tocca l’intera Chiesa, chiamata ad una profonda penitenza,
ad andare alle radici della misericordia, cioè all’incontro personale con il Tu di Cristo. Si tratta di
una riforma che non potrà non riguardare tutti i livelli della sua missione.
Anche per queste ragioni sento la necessità di affrontare di petto la domanda circa la credibilità e la
convenienza della proposta cristiana in tema di sessualità e di bell’amore.
Come questa radice costitutiva del desiderio dell’uomo può essere da lui concretamente vissuta?
Una sofisticata risposta ci viene dalle neuroscienze. In particolare le neuroscienze dell’etica si sono
poste il problema dell’amore nel quadro del loro tentativo di spiegare in termini puramente
neuronali il decisivo interrogativo antropologico: cosa significa realmente esistere come esseri
pensanti (coscienti)? . Helen Fisher, antropologa americana, considerata tra le esperte del settore,
pubblica ormai da diversi anni libri e articoli scientifici, sia specialistici che divulgativi, sul tema
dell’amore.
La studiosa, con il suo team di ricerca, ha attribuito un’importanza considerevole al cosiddetto
stadio dell’amore romantico (romantic love) . Esso – con l’attrazione sessuale (libido o lust) e con
l’attaccamento (attachment) – si ridurrebbe, a detta dell’autrice, ad una delle tre reti primordiali del
cervello attraverso le quali si snoda l’intera parabola affettivo-relazionale tra uomo e donna .
Non mi pare azzardato ravvisare in simili posizioni il tentativo di considerare l’uomo come puro
esperimento di se stesso, secondo la forte ma emblematica espressione del filosofo della scienza
Jongen.
3. Il dato incontrovertibile: l’io-in-relazione
L’alternativa all’uomo come esperimento di se stesso nasce dall’ascolto dell’esperienza umana
comune. Essa rivela che l’altro/gli altri non sono una mera aggiunta all’io, ma un dato a lui
originario. La personalità di ciascuno è immersa in una trama di relazioni: il dato relazionale è
incoercibile.
Fin dal grembo di sua madre ogni uomo, come figlio o come figlia, è situato in una relazione
costitutiva. La sua stessa nascita, per quanto potrà essere manipolata in laboratorio, custodisce il
mistero dell’alterità: nessun uomo potrà mai auto-generarsi.
La prospettiva antropologica dell’io-in-relazione, accolta in tutta la sua ampiezza, ci porta a
considerare in modo adeguato la differenza sessuale . Essa si rivela anzi come il luogo originario
che ci introduce al rapporto con la realtà. È la prima ed insostituibile scuola per imparare l’alterità .
Per l’autore del Libro dei Proverbi «La via dell’uomo in una giovane donna» è considerata tra le
«cose troppo ardue a comprendersi» (cfr Prov 30, 18-19). A questo proposito un grande biblista
commenta: «L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita; è
ciò che fa passare l’uomo attraverso la figura di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da sé
quando nasce. Questo fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di
nuovo» . In altri termini, quando l’uomo e la donna si incontrano fanno l’esperienza da una parte di
ricominciare qualcosa che in forza della loro nascita già conoscono, dall’altra di dar vita ad una
novità. Questa è possibile quindi perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la
domanda circa la propria origine. Potremmo esprimerla così: chi sono io che incontrando te
incontro me stesso? In quanto situato nella differenza sessuale l’altro da me mi “sposta” (differenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Essere situati nella
differenza sessuale si rivela pertanto come un grande dono che, bene inteso, diventa diffusivo di
amore e di bellezza. Qui sta l’inestirpabile radice della fecondità. L’amore non è mai un rapporto a
due. Infatti la differenza uomo-donna, con questo suo valore originario, trova il suo fondamento
nella differenza delle Tre Persone nell’unico Dio. Il bisogno/desiderio dell’altro che a partire dalla
differenza sessuale ogni persona, come uomo e come donna, sperimenta non è pertanto il marchio
di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive
in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine.
Cristo Gesù, forma piena del bell’amore trinitario nella storia, spalanca ad ogni uomo e ad ogni
donna la possibilità di partecipare a questa esperienza.
4. Assicurare gli affetti
Con la sua morte e resurrezione Gesù Cristo ci ha liberati dalla paura della morte (cfr Eb 2,14-16).
Ciò è decisivo per vivere in pienezza gli affetti che si inscrivono primariamente all’interno
dell’uomo-donna (differenza sessuale). La paura della morte, infatti, appare spesso la segreta
padrona delle relazioni tra l’uomo e la donna, tra i genitori e i figli. Essa è all’origine della smania
del “tutto e subito” nei rapporti amorosi che, con la stessa rapidità, si bruciano e si moltiplicano.
Ritroviamo questa dinamica nel rapporto tra le generazioni: la decisione di generare o di non
generare figli, sovente è determinata dalla paura del carattere contingente dell’esistenza.
L’antidoto contro il veleno di morte che penetra ogni umana relazione è tuttavia già presente nella
storia. Sta nella manifestazione della verità dell’amore offertaci dalla morte-resurrezione pro nobis
di Cristo. La vittoria dell’Amore sulla morte fa brillare il senso pieno della differenza sessuale: il
suo essere destinata al bell’amore che va oltre la morte.
5. La castità: una pratica conveniente
La proposta cristiana circa la sessualità e il bell’amore indica un percorso di vita che conduce a
quella soddisfazione e a quella gioia cui il desiderio rettamente inteso spalanca l’uomo. Come
educarci concretamente a vivere gli affetti secondo questa integralità ed autenticità? Emerge in
proposito una grande parola oggi purtroppo caduta in disuso: castità. Se correttamente intesa, essa
si rivela inscritta nella struttura stessa del desiderio come la virtù che regola la vita sessuale
rendendola capace di bell’amore.
Casto è l’uomo che sa tenere in ordine il proprio io. Lo libera da un erotismo apertamente
rivendicato e vissuto, fin dall’adolescenza, in forme sempre più contrattuali e senza pudore. Certo,
l’amore è uno in tutte le sue forme, compreso l’amore ridotto a venere, per usare un’espressione
cara a Clive Staples Lewis, il quale definisce così il mero esercizio della sessualità e lo distingue
dalla capacità di amare, che implica eros ed agape (Deus caritas est). Ma anche quando si riduce ad
un comportamento quasi animalesco, l’amore esprime, in modo del tutto distorto, una domanda di
verità.
Nessuno uomo può essere casto se non stabilendo liberamente una gerarchia di valori: «La castità
esprime la raggiunta integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l’unità interiore
dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale» (CCC 2337). Se noi disaggreghiamo venere, eros ed
agape ci condanniamo alla rottura tra la dimensione emotiva e quella del pensiero, di cui la morte
del pudore è il sintomo più grave.
A queste condizioni l’esperienza del bell’amore diviene impossibile e il rapporto amoroso è ridotto
a una meccanica abilità sessuale, veicolata da una sottocultura delle relazioni umane che si fonda su
un grave equivoco: sull’idea, del tutto priva di fondamento, che nell’uomo esista un istinto sessuale.
Invece è vero il contrario, come dimostra certa psicanalisi : anche nel nostro inconscio più profondo
tutto l’io è in gioco. La castità mette in campo un’esperienza comune a tutti. In ogni ambito della
sua esistenza l’uomo sa bene di non poter trovare soddisfazione senza sacrificio. Il sacrificio è una
strana necessità, ma è la strada che assicura il godimento. Nella sfera sessuale e nei rapporti amorosi
questo è particolarmente evidente. Perché abbiamo definito “strano” il sacrificio? Perché tutti noi
avvertiamo una resistenza sana di fronte ad esso. Se siamo fatti per la soddisfazione, perché il
sacrificio? Non è forse contrario alla natura della soddisfazione? Il valore ultimo del sacrificio non
può quindi risiedere in se stesso, né nel fatto che mi sia imposto dall’esterno, da una qualsiasi
autorità. Devo giungere a scoprirne la convenienza, cioè la sua intrinseca ragionevolezza per la
piena riuscita della mia umanità. Esso è condizione e non fine.
La croce e la resurrezione di Cristo hanno la forza di mostrare che l’inevitabile sacrificio presente in
ogni umana azione ha come scopo positivo il raggiungimento del proprio destino. Il sacrificio
spaventa quando non se ne sa il perché. La virtù della castità è una grande scuola al valore
misteriosamente positivo del sacrificio. Essa chiede la rinuncia in vista di un possesso più grande.
Posso rinunciare se sono certo che questa rinuncia mi fa possedere in pienezza il bene che voglio,
come soddisfazione del mio desiderio. Il sacrificio non annulla il possesso, è la condizione che lo
potenzia. Il puro piacere non è autentico godimento, tant’è vero che finisce subito. E se resta chiuso
in se stesso lentamente annulla il possesso, lo intristisce, lo deprime. A ben vedere l’uomo cerca
quel piacere che dura sempre, cioè il gaudium (godimento). Lo aveva ben capito Sant’Ignazio di
Loyola. Mi colpisce sempre il fatto che, quando dico queste cose ai giovani, incontro più sorpresa
ed interesse che obiezione. Intuiscono che un cammino di castità fin da adolescenti, attraverso la
strada di un progressivo dominio di sé che rinuncia a comportamenti immaturi e presuntuosi, apre a
una prospettiva di realizzazione nella quale si chiarisce il disegno amoroso di Dio su ciascuno di
loro. Sessualità ed amore su queste basi si realizzano compiutamente come possesso nel distacco .
In questa luce emergono in tutta la loro pienezza la vocazione alla verginità e al celibato così come
quella al matrimonio indissolubile, fedele e fecondo tra l’uomo e la donna.
a) Verginità
La verginità come forma di vita riguarda solo alcuni chiamati alla imitazione letterale della umanità
di Cristo, il quale ha vissuto in obbedienza povertà e nella perfetta continenza, e per questo
rinunciano alla modalità comune dell’esercizio della sessualità, alla famiglia e alla generazione
nella carne. Nella prospettiva del Regno di Dio la verginità anticipa il compimento finale che
riguarda tutti gli uomini. Una simile forma di vita non prescinde affatto dal proprio essere situati
nella differenza sessuale.
b) Celibato ecclesiastico
Per meglio comprendere questa affermazione conviene guardare in faccia a un’altra delle questioni
oggi discusse, quella del celibato. La dedizione a Cristo che il ministero ordinato implica, sul
modello del servo sofferente e del buon pastore pronto a spendersi per l’unica pecora perduta,
consente ai sacerdoti di vivere il bell’amore.
Chi è chiamato alla verginità e al celibato non è uno che si sottopone a mutilazioni psicologiche e
spirituali, ma un uomo che, praticando la castità perfetta, deve pazientemente arrivare all’unità
spirituale e corporale del proprio io. La sessualità intesa come differenza non è riducibile alla
dimensione genitale, a cui in nome del celibato si rinuncia. Tuttavia nella Chiesa di oggi è
necessario uno sforzo educativo in grado di illuminare la scelta del celibato fin nelle sue
motivazioni antropologiche. Occorre approfondire un dato lasciato un po’ in ombra. Mi riferisco
alla natura nuziale della scelta verginale e celibataria. L’amore, fin dentro la Trinità, possiede
sempre una dimensione nuziale, fatta di differenza, di dono di sé e di fecondità. Il celibato quindi
non può essere adeguatamente compreso in termini meramente funzionali. Nel celibato il sacerdote
non rinuncia al matrimonio e alla famiglia principalmente o solo per aver più tempo da dedicare al
proprio lavoro ecclesiastico.
Dal significato profondamente cristologico, escatologico, ecclesiologico ed antropologico del
celibato si capisce la ragione della sua profonda convenienza e pertanto della disciplina della Chiesa
latina in proposito. Il celibato sacerdotale affonda le sue radici nella stessa chiamata apostolica che
chiede letteralmente di “lasciare tutto”. A conferma di questo suo valore originario sta anche tutta la
tradizione orientale che per l’episcopato, pienezza del sacramento dell’ordine, ha sempre esigito la
scelta del celibato.
c) Indissolubilità del matrimonio
La virtù della castità getta piena luce anche sul carattere indissolubile della relazione coniugale tra
l’uomo e la donna nel sacramento del matrimonio. In effetti l’amore per sua natura chiede il “per
sempre”, nonostante l’umana fragilità. È nell’indissolubilità del matrimonio che la relazione tra
l’uomo e la donna raggiunge la sua vera dignità. L’idea di una revocabilità del dono ferirebbe
mortalmente il mistero nuziale e renderebbe inautentica la relazione stessa. Al contrario,
l’indissolubilità garantisce la profonda aspirazione dell’uomo e della donna ad un sì irrevocabile. Il
“sì” che si esprime nella scelta della verginità e nel celibato si pone così obiettivamente in relazione
al “sì” che i coniugi si promettono per sempre nel matrimonio. La fedeltà non è una proprietà
accessoria dell’amore. Semplicemente là dove non c’è fedeltà non c’è mai stato propriamente
parlando amore. Pertanto i coniugi sono chiamati a vivere nel loro amore fedele, indissolubile e
fecondo quanto viene espresso anche nella scelta della verginità e del celibato. Così come i vergini e
i celibi incontrano nel matrimonio indissolubile una testimonianza convincente della dimensione
nuziale della loro chiamata.
6. Bell’amore e amore casto
Tornando, in conclusione, al tema del bell’amore, siamo ora in grado di identificarlo con l’amore
casto, quell’amore che entra in rapporto con le cose e le persone non per la loro immediata
apparenza, in sé transitoria, né per il tornaconto che ne può ottenere: infatti «passa la scena di
questo mondo» (1Cor 7). Il distacco chiesto nell’amore casto in realtà è un entrare più in profondità
nel rapporto con Dio, con gli altri e con se stessi. Neppure l’umana fragilità sessuale rappresenta
ultimamente un’obiezione fondata alla castità. Infatti la caduta non viene ad annullare la natura
profonda dell’umano desiderio che continua a domandare riconoscimento della differenza sessuale
e ad urgere il possesso vero, quello che mai si dà senza distacco. La figura morale compiuta
dell’umano non è l’impeccabilità ma la “ripresa”. Essa registra, sempre più col passare degli anni, il
dolore per ogni singolo peccato mentre per la grazia del perdono di Dio approfondisce l’amore.
Agostino descrive con potenza questa umana condizione: «David ha confessato: “riconosco la mia
colpa” (Sal 50, 5). Se io riconosco, tu dunque perdona. Non presumiamo affatto di essere perfetti e
che la nostra vita sia senza peccato. Sia data alla nostra condotta quella lode che non dimentichi la
necessità del perdono» .
dal sito: angeloscola.it