CLEAN, CLEVER, COMPETITIVE, Istruzioni per l`uso
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CLEAN, CLEVER, COMPETITIVE. ISTRUZIONI PER L’USO. [email protected] Università di Roma “Tor Vergata “, Facoltà di Economia, Dipartimento di Studi Economico Finanziari e Metodi Quantitativi, via Columbia 2, 00133 Roma Verso una politica ambientale globale: prospettive ed ambiti di intervento Titolo in inglese (a scelta): Suggestions for an Active Global Environmental Policy Towards a Global Environmental Policy: Prospects and Promises JEL, H000, O400, Q550, Q200, Q300 (I primi tre o tutti e 5) Key words: technology, environmental policy, renewable resources, exhaustible resources , environmental Kuznets curve, tradable permits Abstract - italiano Conciliare la crescita con l’ ambiente è possibile ma non è un risultato al quale si giunge automaticamente e senza costi. Occorre che il settore pubblico svolga il proprio compito nell’interesse della collettività e cioè, innanzitutto, stabilisca con chiarezza e credibilità gli obiettivi e poi scelga gli strumenti di intervento in base all’efficienza rispetto al costo e ai comportamenti di lungo periodo che ad essi possono seguire. Occorre però che si raggiungano accordi internazionali/ globali perché i problemi da affrontare hanno tale natura e perciò tutti gli stati devono cooperare per il raggiungimento degli obiettivi e la condivisione dei costi. Lo strumento su cui puntare è il sistema di diritti negoziabili perché è efficiente rispetto al costo e sembra “gradito” al mercato in entrambi i lati dell’Atlantico. Abstract – english Economic growth and environmental protection can be experienced at the same time but they do not come automatically and without costs. The government has to play its own important role in the interest of society as a whole, that is, it has to set credible environmental targets first and then choose the appropriate instruments of intervention. In doing this cost efficiency and long run incentives are the criteria to be followed. International/ global agreements are necessary both to secure the targets, which are global and to share the costs. The most reliable instrument appears to be a system of tradable permits; it is cost efficient and apparently accepted by markets on both sides of the Atlantic. 1 Verso una politica ambientale globale: prospettive ed ambiti di intervento Laura Castellucci 1. La cornice di riferimento. Il modello di produzione e consumo che dalla rivoluzione industriale ha portato ai nostri giorni, a giudicare dai fatti, ha “funzionato” molto bene: il PIL (prodotto interno lordo) pro-capite globale è sempre cresciuto nonostante la crescita esponenziale della popolazione (Maddison, World Bank.1). L’aspirazione allo sviluppo2 è stata ed è la driving force di tutti i paesi ma mai come in questo periodo l’obiettivo di crescita del PIL è stato così totalizzante e comune a tutti i paesi, indipendentemente dal loro stadio di sviluppo, tanto da segnare l’ascesa o il declino della classe politica e da rendere secondario qualsiasi altro obiettivo. Le economie di Eurolandia vanno bene quando il tasso di crescita del PIL è superiore, anche di poco, alle previsioni mentre il disastro incombe quando queste previsioni, per esempio del Fondo Monetario Internazionale, sono riviste al ribasso. Di fatto il PIL “sarebbe” una misura del Benessere. In questa competizione per il più alto tasso di crescita, ogni paese, non solo non sembra interessato a riflettere sul significato dell’indicatore PIL, ma scarica di fatto su ciascuno altro i costi “esterni” derivanti dal proprio modello di produzione e consumo (peraltro globale), senza considerare che, insieme a tutti gli altri, ne subirà le conseguenze. Mentre è facile constatare che il PIL è una misura aggregata del flusso di produzione di beni e servizi, e basta riandare ai lavori dei padri fondatori3 per rendersi conto che questo era il loro scopo4 e non quello di misurare il “benessere”, il difficile è sostituirlo con una misura di benessere più convincente e allo stesso tempo altrettanto sintetica e disponibile per tutti i paesi5. 1 Le circostanze economiche che portarono Maddison (1982); World Bank, (1991). Senza entrare nella questione crescita/ sviluppo, utilizziamo i due termini come sinonimi, sebbene non lo siano. Ai fini del nostro discorso ciò non è infatti rilevante. 3 Richard Stone e altri studiosi produssero le basi e l’impianto della contabilità nazionale le cui regole , internazionalmente seguite, portarono a calcolare un PIL per ciascun paese confrontabile a quello di ciascun altro. Tale confrontabilità non è una questione meramente estetica o di competizione tra paesi ma consente, per esempio, di finanziarie le istituzioni internazionali tramite contribuzioni proporzionali al proprio PIL. Incidentalmente il periodo che vide il delinearsi e l’affermarsi di regole di contabilità nazionale, note come SNA (System of National Accounts), coincise anche con l’affermarsi e ampliarsi delle rilevazioni statistiche in economia e furono entrambi frutto/conseguenza della volontà di applicare le prescrizioni di politica economica keynesiana alla recessione economica post bellica. R. Stone, White Paper, che accompagnò il Bilancio inglese del 1941. 4 Erano i primi “esercizi” di intervento pubblico nell’economia a fini di stabilizzazione ed era perciò strumentale conoscere quanto l’economia producesse ovvero fosse lontana dal prodotto potenziale. 5 La questione è “Welfare vs Production” e non ha niente a che fare con “Happiness”. Difficile infatti ritenere che quest’ultima entry rappresenti un tema centrale per gli studi economici e tanto meno che lo stato debba occuparsi della felicità dei cittadini mentre siamo convinti che debba preoccuparsi eccome di produzione, occupazione e benessere. Senza entrare nello specifico discorso di come si possa misurare il benessere, questione alquanto spinosa anche da un punto di vista teorico, ricordiamo che non mancano tentativi, sono anzi in crescita e seguono sostanzialmente due vie. L’una è quella della elaborazione di indici ad hoc, come per esempio l’HDI (Human Development Index) delle Nazioni Unite, e l’altra è quella degli “aggiustamenti” del PIL. Nell’indice composito HDI, accanto al PIL pro-capite si considerano anche il tasso di alfebetizzazione e la speranza di vita alla nascita, ma se con ciò il benessere è certamente 2 2 all’elaborazione e calcolo del PIL sono ormai lontane nel tempo e se già mezzo secolo fa, quando fu inizialmente elaborato, non lo si pensava come indicatore di benessere, come si è detto, oggi considerarlo tale è ancora meno corretto proprio perché i cambiamenti avvenuti nell’economia globale fanno divergere sempre di più le due nozioni, produzione di beni e servizi e benessere. Ciononostante siamo certi che per molti anni a venire il PIL resterà l’indicatore improprio di benessere: la sua notorietà/ diffusione e capacità di “comunicazione”, sono così elevate da renderne difficile l’abbandono. Prendiamo dunque atto che qualsiasi discorso di politica ambientale vada oggi condotto entro lo spazio che la cornice del PIL delinea. Ora, se il problema fosse soltanto questo dell’uso di un indicatore improprio di benessere ciò avrebbe conseguenze limitate e, soprattutto, non riguarderebbe la politica ambientale, né il suo design e né l’individuazione degli strumenti più efficienti. La questione riguarda invece in pieno la politica ambientale proprio perché le regole vigenti di contabilità nazionale (SNA) non sono affatto neutre nei confronti dell’ambiente e spesso sono dei veri e propri incentivi al peggioramento ambientale. Consideriamo per esempio l’inquinamento di un fiume verso la sua foce; come si sa l’inquinamento finale non è altro che il risultato, la somma, delle sostanze riversate in esso durante il suo percorso e come tali derivano da fonti diffuse (incidentalmente non solo dall’industria, dalle fabbriche con ciminiere fumanti simbolo dell’inquinamento, ma anche dall’agricoltura e dai consumatori). Supponiamo poi che il Comune (o la Regione o lo Stato) decida di installare un depuratore e seguiamone schematicamente il percorso contabile. L’acquisto del depuratore da parte del Comune è spesa pubblica e come tale contribuisce ad aumentare la domanda effettiva globale; la produzione del depuratore ha richiesto investimenti e ha impiegato lavoratori e perciò ha contribuito positivamente alla formazione del prodotto nazionale; in sintesi, l’ installazione del depuratore fa aumentare il PIL. Una prima ovvia considerazione è che tutto ciò non ha certamente aumentato il benessere della collettività perché semmai ha ricostituito il benessere precedente all’inquinamento (ma ciò non è che un esempio concreto di come un indicatore di produzione mal si addica a misurare il benessere); una seconda considerazione, ben più importante, riguarda gli effetti di lungo periodo che questo aumento del PIL mette in moto. L’effetto dell’installazione del depuratore produce, nell’immediato, il disinquinamento del fiume ma crea anche l’interesse economico al ripetersi dell’attività di inquinamento perché soltanto così continuerà ad esistere una domanda di depuratori e di meglio approssimato si perde l’alto potenziale comunicativo del PIL, qualità che nel XXI secolo va per la maggiore e non può facilmente essere accantonata. L’altra via, quella degli aggiustamenti delle regole di contabilità per il calcolo del PIL, sembra molto più promettente e forse naturale, però richiede l’accordo dei paesi su concetti e definizioni. Com’è noto sono allo studio modifiche di queste regole per migliorare e adeguare le convenzioni contabili adottate dai paesi facenti parte delle Nazioni Unite, non solo ai mutamenti avvenuti nei sistemi economici ma anche nella interpretazione degli stessi. 3 conseguenza investimenti e occupazione necessari alla loro produzione. Il risultato nel lungo periodo perciò non è quello di eliminare l’inquinamento alla fonte (cosa indubbiamente non facile e comunque complicata dalla diffusione delle fonti), come l’uso ottimo della risorsa naturale fiume richiederebbe, ma quello del ripetersi delle pratiche inquinanti che fanno aumentare domanda effettiva globale, occupazione e investimenti. L’incentivo a continuare nella pratica inquinamentodisinquinamento è la diretta conseguenza delle regole di contabilità seguite per il calcolo del PIL che, come si sa, quando cresce è il miglior segnale di successo di un’economia. Pertanto le ragioni per la revisione/ aggiustamento nelle regole contabili in direzione ambientale (ma non solo) diventano sempre più robuste e con il diffondersi della conoscenza degli effetti di lungo periodo, si allarga la base del loro sostegno6. Nonostante si sia fortemente (e fondatamente) convinti della necessità di revisioni contabili così come della problematicità derivante dall’uso dell’indiscusso prodotto nazionale come obiettivo e misura ultima di performance virtuosa dell’economia, accantoniamo questi aspetti e, nello sviluppare il nostro discorso su tre temi, prendiamo atto che l’obiettivo di ciascun paese è la crescita del PIL secondo la misurazione alla quale conducono le regole vigenti di contabilità nazionale. In altri termini, le questioni che solleviamo sono valide per se stesse e esulano da quanto sin qui puntualizzato se non altro per prospettare la complessità della “questione ambientale” della quale approfondiamo soltanto qualche aspetto. Il primo tema che ci interessa riguarda il problema del legame tra la crescita e la disponibilità delle risorse naturali; il secondo riguarda il legame tra la crescita e il progresso tecnico e il terzo affronta la questione delle cosiddette curve di Kuznets ambientali. Da questa analisi emergerà come inevitabile la necessità di perseguire una politica ambientale “attiva” la quale dovrà dotarsi di strumenti efficaci ed efficienti per il raggiungimento degli obiettivi di protezione ambientale sui quali si siano presi impegni nazionali e internazionali. Emergerà anche, e nello specifico grazie ai contributi di D’Amato e Coromaldi-Zoli in questo stesso numero della rivista, come l’imprese possano (volontariamente) contribuire a risolvere (o almeno mitigare) alcuni seri problemi ambientali e come ciò determini una quanto mai desiderabile positiva interazione tra le scelte del mercato e quelle del settore pubblico. Non emergeranno invece credibili automatismi di mercato tali da garantire la crescita futura: per questa è necessaria una vera “riconversione industriale” che prenda atto dei vincoli odierni. Tali riconversione avverrà al minimo costo per la società solo se entrambi i settori potranno funzionare al loro meglio, come si vedrà. 6 La questione non è di poco conto e l’esempio fatto non è un caso isolato, riguardante la produzione, ma esistono altre rilevanti spese generate da deterioramento ambientale che nella cornice contabile attuale sembrano “desiderabili”, in quanto fanno appunto crescere il PIL. Si pensi alle così dette spese “difensive” che le famiglie affrontano quando installano doppi vetri nella propria abitazione per ridurre il rumore. A ben guardare sembrerebbe più logico “sottrarre” questo tipo di spese piuttosto che aggiungerle. 4 Come si è detto, bisogna riconoscere che il modello di produzione e consumo, che tanto successo ha dimostrato in passato, incontra oggi serie difficoltà sia perché la popolazione è enormemente cresciuta e sia perché, nell’economia globale, i problemi di esternalità e beni pubblici si sono accresciuti, diventando anch’essi globali e richiedendo pertanto soluzioni cooperative tra gli stati. Oggi il “vincolo” che diventa sempre più stringente, è la qualità e la quantità delle risorse naturali disponibili e perciò la crescita del PIL potrà persistere in futuro solo se il modello di produzione e consumo si adeguerà a tale vincolo. Come la crisi degli anni ’30 fu superata grazie alla rivoluzione nel pensiero economico (Keynes) e alla volontà di intervento pubblico consequenziale e cooperativo tra gli stati (USA & Europa), così oggi è necessaria una vera e propria “riconversione industriale” in ciascun paese e nel loro complesso e una politica ambientale internazionale concordata, concepita con grande attenzione ai fini di scoraggiare il free riding tra paesi, in un’ottica di lungo periodo e portata avanti con determinazione. Questa riconversione industriale può avvenire ma richiede che gli stati, non solo cooperino a livello globale per sostenerne i costi (non esistono pranzi gratuiti7), ma ispirino la propria politica economica “attiva” al rispetto dei vincoli naturali e che tutti i settori produttivi (non solo l’industria ma l’agricoltura, la pesca, le miniere, i trasporti, i servizi) siano incentivati a tenere comportamenti compatibili. In questa ottica le eco-industries (Coromaldi-Zoli) hanno un ruolo importante da svolgere sia per accelerare spontaneamente la riconversione (a volte il mercato è più pronto del settore pubblico) che per contribuire a delineare una politica di regolamentazione compatibile con la produzione di ricchezza derivante dal mercato entro il vincolo ambientale. Analogamente lo sviluppo dei mercati del riciclo (D’Amato) può contribuire a ridurre i costi della riconversione industriale. 2. Crescita e disponibilità di risorse naturali. Porre la questione del legame tra la crescita economica e la disponibilità di risorse naturali (petrolio, minerali, foreste, pesci, gas, risorse idriche, suoli, aria,…) può significare porre due domande ben diverse. Possiamo chiederci se la disponibilità delle risorse naturali spieghi la crescita ovvero sia una sua fonte oppure se la scarsità di queste e/o la loro indisponibilità impedisca, freni e/o arresti la crescita. Nella prima versione la domanda ha una risposta relativamente diretta e semplice perché, come molti studi hanno ormai piuttosto concordemente posto in evidenza 8, tra le fonti della crescita dei singoli paesi non troviamo la disponibilità delle risorse naturali e valga per tutti l’esempio del nostro Paese. Il 7 La nota espressione usata da Friedman (1975): there is not such a thing as a free lunch, ha avuto il grande merito di portare all’attenzione dell’opinione pubblica, e non solo degli specialisti, che la fornitura di un bene o servizio è inevitabilmente costoso anche se non sempre il beneficiario è colui che ne sopporta il costo. In questi casi il pasto è gratis per il singolo ma non per la società. 8 Per esempio Bela Balassa 5 miracolo economico non fu certo spinto dalla disponibilità di risorse naturali: non le avevamo negli anni ’50 e non ne avevamo negli anni ’60 eppure la crescita iniziò e andò avanti sostenuta. La seconda domanda ha risposte più controverse anche perché implica chiarire se la domanda viene riferita ad un singolo paese o invece alla globalità dei paesi e, inoltre, assumere una prospettiva di lungo periodo (…..anche se il lungo periodo si sta velocemente accorciando), prospettiva che gli economisti non sembra sappiano assumere tanto facilmente e che i politici sembrano non conoscere più. E’ evidente però che in una prospettiva globale e di lungo periodo, la risposta non possa che essere affermativa e che anzi se non vogliamo che il vincolo diventi stringente nel futuro immediato dobbiamo prendere contromisure globali, tempestive ed efficaci. Il punto centrale della questione è proprio questo. In uno scenario nel quale tutti gli stati perseguano ciascuno il cogente obiettivo della crescita del PIL , possiamo prevedere che l’insieme delle loro scelte condurrà all’arresto della crescita globale. Siccome infatti le risorse naturali presenti nel “global village” sono date, sono una grandezza finita, non potranno indefinitamente sostenere crescita della popolazione, del consumo pro-capite, dei rifiuti pro-capite, del PIL, ecc., per una inconfutabile legge matematica e perciò ad un certo tempo la crescita si arresterà9. E questo lo sapevano bene gli economisti classici e non solo Ricardo, ma anche Jevons il quale si chiedeva cosa sarebbe accaduto all’industrializzazione inglese quando il carbone si fosse esaurito, per non parlare delle molto conosciute dinamiche demografiche di Malthus10. Il noto stato stazionario al quale l’economia tendeva secondo Ricardo, sarebbe stato raggiunto quando, continuando ad aggiungere lavoratori al capitale naturale rappresentato dalle terre di sempre minore qualità (meno fertili) e più distanti dal mercato di scambio dei prodotti, i profitti si sarebbero annullati e tutto il prodotto (PIL) sarebbe stato diviso tra Rendite e Monte salari (con tasso di salario di sussistenza). La crescita si sarebbe dunque arrestata quando il vincolo di “quantità e qualità” della risorsa naturale terra (non rinnovabile) fosse diventato stringente. Questo elegante, sintetico, potente, modello di crescita, molto studiato e che ha dato avvio a un autonomo filone di letteratura economica, ha evidentemente il grande limite di non includere il progresso tecnico. Analogo limite incontra il ragionamento di Jevons che non tiene conto, come poi la storia ha invece mostrato, che l’esaurimento del carbone non avrebbe implicato arresto della industrializzazione inglese perché, grazie al progresso tecnico, sarebbe stato rimpiazzato da altre fonti di energia (petrolio, gas, nucleare, sole, vento, ecc.). Evocare gli economisti classici significa dunque da un lato sottolineare come certi problemi attuali siano molto meno nuovi di quello che si pensi ma dall’altro significa anche dimenticare, per 9 Si veda per esempio in Medows D. –Medows D. – Randers J., 2006, il capitolo 2 su : La crescita esponenziale come forza motrice. 10 Ricardo D. 1815, W. S. Jevons, 1866. Malthus T., 1798. 6 così dire, il progresso tecnico. Questo è viceversa un ingrediente fondamentale della crescita11, esso è anzi la principale fonte della crescita economica e come tale deve essere posto al centro della nostra indagine per cercare di intuirne dinamica e conseguenze. Nell’affrontare il tema del progresso tecnico occorre sin dall’inizio evitare un facile e diffuso errore di impostazione: quello di presumere a priori che la sua traiettoria evolutiva sia positiva. L’evoluzione del progresso tecnico risponde ai prezzi di mercato e quando questi non sono corretti, come nei noti, numerosi e crescenti casi di esternalità (di produzione e di consumo), o non esistono, come nei casi dei beni liberi (tragedy of the commons), anch’essa non lo sarà. Di ciò non tengono conto gli “ottimisti” ovvero i sostenitori della continuità della crescita futura, altrimenti noti come i teorici della cornucopia, che mostrano come alla base della loro posizione vi sia una visione “aprioristica” dell’ evoluzione del progresso tecnico in senso positivo. Ad una riflessione più attenta emerge come questa conclusione non sia frutto di analisi ma coincida con il convincimento alquanto diffuso, e appunto aprioristico, secondo il quale il progresso tecnico risolverà i problemi dell’uomo, come avrebbe sempre fatto in passato. Purtroppo anche un’affrettata indagine scientifica sull’evoluzione del progresso tecnico porta invece ad evidenziare come i sentieri possano essere sia benefici e che dannosi: non solo non si hanno basi scientifiche per aspettarci una evoluzione futura positiva ma neanche quella passata è sempre stata positiva. Per questo riteniamo adesso necessario prendere in considerazione il progresso tecnico e la sua evoluzione spontanea sulla base di quanto emerge dalla ricerca scientifica e non delle convinzioni aprioristiche. In estrema sintesi, se è vero che la disponibilità di risorse naturali non spiega la crescita è altrettanto vero che una loro crescente scarsità porta, ad un tempo sconosciuto ma prevedibile, all’arresto della crescita medesima a meno che il progresso tecnico non spezzi/ allenti questo vincolo di scarsità ma non è detto che ciò avvenga “automaticamente”. 3. Progresso tecnico e crescita. L’uomo ha una grande fiducia nel progresso tecnico tanto da essere implicitamente sicuro che esso possa risolvere i suoi problemi presenti e futuri. E’ questa indiscussa e non provata fiducia che porta automaticamente a ritenere che il suo impatto/ effetti siano sempre positivi. In un certo senso ciò è vero perché il progresso tecnico “fa” aumentare le capacità produttive umane e dunque la produzione complessiva (ancora il PIL). Gli aumenti di produzione possono però essere qualitativamente ben diversi perché il progresso tecnico si evolve secondo le spinte del mercato, 11 Il residuo di Solow “spiegherebbe” circa i ¾ della crescita. Questi risultati inizialmente ottenuti dallo stesso autore, sono stati poi sostanzialmente confermati da studi successivi come quelli di Denison (Solow 1957; Denison 1985). Per l’integrazione nel primo modello di crescita di Solow delle risorse naturali o Capitale Naturale distinto dal Capitale Prodotto dall’uomo si può vedere lo stesso Solow (1999) e Hartwick (1977). Per i modelli di crescita endogena Smulders (1995) fornisce un utile prospetto riassuntivo. 7 sostanzialmente risponde ai prezzi di mercato correnti (e non è in grado di considerare il tempo). Come è ormai assolutamente noto e provato da incontrovertibili dimostrazioni analitiche (primo e secondo teorema dell’economia del benessere12) il mercato è il meccanismo che conduce all’ottimo sociale nell’allocazione delle risorse, nella produzione e nello scambio dei beni, pur fondandosi su scelte “atomistiche” operate da milioni di individui razionali che perseguono i propri interessi economici. A questo risultato individualmente e socialmente ottimo si giunge grazie ai “segnali” dei prezzi. Quando però questi segnali siano praticamente assenti (come nei casi di beni totalmente liberi per i quali il prezzo è nullo) oppure siano errati (come nei casi di beni privati con esternalità e/o di beni pubblici), sappiamo che il meccanismo di mercato non può assicurare l’ottimo sociale. Applicando questa strumentazione al progresso tecnico dobbiamo dunque chiederci che tipo di bene sia ciò che definiamo progresso tecnico, come lo definiamo e, per quello che ci riguarda direttamente, come si ponga nei confronti della disponibilità, in quantità e qualità, delle risorse naturali. Il progresso tecnico è un bene a molte componenti: è un bene privato nella misura in cui brevetti e altre forme di protezione delle opere dell’ingegno, rendono appropriabile il frutto dell’innovazione (dell’idea), ma è anche un bene pubblico nella misura in cui alla scadenza dei brevetti diventa utilizzabile da tutti. E già da questa prima semplice constatazione dobbiamo accettare che, in qualche modo, il settore pubblico intervenga nel mercato13, a monte, per incentivare l’innovazione e a valle, per correggere la “sottoproduzione” che di esso si avrebbe se il mercato fosse lasciato totalmente libero di operare. Guardiamo adesso come si pone nei confronti delle risorse naturali e chiediamoci se le tecnologie economicamente più produttive siano anche le migliori per l’ambiente e non invece quelle più “rischiose” e/o “dannose”. Per affrontare correttamente questa questione è opportuno considerare la distinzione tra risorse naturali rinnovabili (o riproducibili) e risorse naturali non rinnovabili sia perché il corpo oggi consolidato della teoria dell’ottimo uso delle risorse naturali ha condotto ad individuare regole specifiche per le une e le altre e sia perché, come vedremo, gli effetti del progresso tecnico sulle une e le altre sono di segno opposto. Le risorse rinnovabili sono quelle che hanno una loro capacità di riproduzione e rigenerazione e tali sono per esempio i pesci e le foreste, mentre quelle non rinnovabili non hanno tale capacità e sono per esempio il petrolio e i minerali in genere.14 Nel caso delle risorse rinnovabili deve essere considerato il legame esistente tra lo stock della risorsa e il suo flusso o tasso di riproduzione. Non sorprende che la regola ottima per l’uso di tali risorse richieda 12 Si veda per esempio Varian (1987), Barr, (2004). E’ forse il caso di evidenziare che il settore pubblico già interviene “a monte” quando produce le forme giuridiche opportune per la protezione delle opere dell’ingegno alle quali è in ultima analisi affidato il compito dello sviluppo del progresso tecnico. 14 Il petrolio è dal punto di vista biologico riproducibile ma i tempi di tale riproduzione sono così lunghi rispetto all’orizzonte temporale dell’uomo da renderlo non riproducibile. 13 8 che l’uomo si appropri di una quantità di risorsa naturale minore o al massimo uguale al suo tasso di riproduzione: il rispetto di questa regola consentirebbe di lasciare invariato lo stock. Se tale regola potesse essere fatta rispettare nel caso della pesca nelle acque libere cioè oltre i limiti delle acque territoriali, non avremmo l’ormai evidente e crescente fenomeno di overfishing misurabile in termini di riduzione dello stock delle specie ittiche. L’inserimento del progresso tecnico in questa logica (sommariamente richiamata) è piuttosto semplice in quanto basta ipotizzare che aumenti l’efficienza del capitale prodotto dall’uomo, pescherecci e mezzi/ strumentazione per la pesca o, se si preferisce, che riduca i costi di produzione. Questa maggiore efficienza si traduce in incremento delle quantità pescate per unità di tempo o per unità di fattore lavoro e perciò spinge nella direzione avversa alla regola di ottimalità nel loro uso. In altre parole il progresso tecnico accelera il depauperamento dello stock , aumenta il rischio di estinzione e dunque invece di aiutare a risolvere i vincoli di disponibilità delle risorse rinnovabili li aggrava. (Le reti a strascico fanno aumentare la produttività dei pescatori ma all’alto costo sociale della distruzione dei fondali). Per quanto riguarda le risorse non rinnovabili, e possiamo pensare al petrolio come risorsa “tipica” di questo gruppo ed emblema della nostra economia, che non a caso è stata definita civiltà del petrolio, il modo di operare del progresso tecnico è invece nel senso positivo atteso, almeno nel breve periodo. Anche qui richiamiamo la regola per l’uso ottimo di tale risorsa ovvero come determinare la quantità di barili di petrolio da estrarre in ogni periodo (flusso di produzione) e la corrispondente quantità di barili da lasciare “investiti”, non estratti, nel loro giacimento. Tale regola, che fa ormai parte della conoscenza comune, risale ad Hotelling (1931) , e coincide con un sentiero di prezzo crescente al tasso di interesse. Anche qui ci chiediamo in che senso agisca il progresso tecnico. La questione trova una risposta nel contributo di Nordhaus e cioè nell’individuazione di un limite alla crescita del prezzo generato proprio dal progresso tecnico. Quando infatti il prezzo, muovendosi lungo il suo sentiero di crescita, raggiunge un dato livello, il progresso tecnico consente di espandere l’offerta tramite l’utilizzazione di prodotti di minore qualità, o localizzati a maggiori profondità nel sottosuolo o in mare , che presentano perciò costi di produzione più elevati. Tale meccanismo è conosciuto come tecnologia di backstop. Nel caso delle risorse non rinnovabili è perciò rilevabile un ruolo positivo del progresso tecnico in quanto frena la crescita del prezzo perché, rendendo possibile l’utilizzazione di risorse diverse , ne amplia l’offerta. Evidentemente la crescita del prezzo secondo la regola di Hotelling, incoraggia proprio lo sviluppo del progresso tecnico perché stimola la ricerca sulle alternative alla risorsa non rinnovabile che diventa via via più scarsa in seguito al suo uso15 . 15 Hotelling 1931; Nordhaus 1973. 9 In sintesi, l’effetto positivo che implicitamente si attribuisce al progresso tecnico non è affatto provato e comunque non è univoco: va a favore delle risorse non rinnovabili ma danneggia quelle rinnovabili. La fiducia che il progresso tecnico possa, come avrebbe fatto in passato, assicurare la crescita futura o che addirittura, nella forma di conoscenza umana , , “possa conciliare lo sviluppo economico con la conservazione ambientale”16, secondo quanto ipotizzato dalla teoria della crescita endogena, sembra al momento poco fondata . Infine e senza addentrarci troppo in queste questioni, richiamiamo gli “equivoci” che riteniamo più importanti e che dovrebbero essere sfatati. Primo, in tutti i casi nei quali si trovi che la società “sovrautilizza” le risorse naturali, la dottrina economica prevalente ne attribuisce la responsabilità al fatto che i mercati dei servizi ambientali sono “imperfetti”, mentre sarebbe sufficiente conoscere il “vero valore” di tali servizi per poterli usare efficientemente. In verità la questione è assai più complessa e l’efficienza nell’uso dell’ambiente non coincide con la sostenibilità (continuità futura) della crescita che è principalmente una questione di equità intergenerazionale. Ovviamente l’uso efficiente migliora le prospettive per la sostenibilità ma non la garantisce. Secondo, la supposta conciliazione tra crescita e protezione ambientale che la teoria della crescita endogena indicherebbe come possibile grazie appunto al progresso tecnico come conoscenza, non esce certo rafforzata dagli studi empirici, per esempio di Denison, sulla riduzione del tasso di crescita della produttività negli Stati Uniti manifestatosi negli anni ’70. Questi studi troverebbero che tra le cause del rallentamento della produttività vi sarebbe l’introduzione e l’applicazione di stringenti regolamentazioni ambientali. Senza attribuire una particolare importanza a questi studi ci sembra che debbano almeno contribuire a non far ritenere automatica la conciliazione via progresso tecnico: può anche darsi che non siano conciliabili. Rafforzano l’argomentazione gli studi sull’esportazione delle sostanze tossiche verso paesi a regolamentazione ambientali meno stringenti17 . Il terzo aspetto riprende la teoria dei prezzi delle risorse naturali non rinnovabili o materie prime, tuttora esprimibile nella regola di Hotelling che delinea il sentiero di crescita al tasso di interesse, integrata dal limite superiore costituito dalla tecnologia di backstop di Nordhaus. Nonostante l’estrema semplificazione del quadro teorico esso sembra in grado di spiegare la dinamica dei prezzi delle materie prime nella realtà (ad eccezione del legno vivo). Essi sono infatti cresciuti significativamente in dati periodi, si sono ridotti in altri, hanno ripreso a crescere e così via, ma hanno mostrato un trend decrescente in termini relativi18 . In questi casi il progresso tecnico sembra svolgere un ruolo positivo in quanto arresta la crescita dei prezzi ma se si approfondisce l’indagine a considerare l’impatto sulle risorse naturali, l’effetto non è più 16 Smulders 1995 World Bank 1991. 18 Il riferimento è al salario e gli studi ai quali si pensa sono quelli di Nordhaus. 17 10 registrabile come tale. Se consideriamo infatti l’aumento del prezzo (relativo) di una risorsa come un indice di scarsità, il fatto che il progresso tecnico ne freni la crescita nell’immediato, impedisce semplicemente il diffondersi del segnale della scarsità di tale risorsa e con ciò riduce le informazioni utili per giudicare la sostenibilità della crescita piuttosto che allentarne i vincoli. Ovviamente la questione dei prezzi delle materie prime è molto complessa ma ciò su cui ci sembra necessario riflettere è il tipo di progresso tecnico sul quale contiamo. Per essere positivo nei confronti delle risorse non rinnovabili deve consentirne la sostituzione e non semplicemente arrestarne l’aumento dei prezzi nel breve periodo. Va detto che spesso il progresso tecnico consentirebbe proprio questa sostituzione ma essa non avviene in pratica perché, si dice, i costi sono più alti di quelli tradizionali, ma lo sono proprio perché questo è un tipico caso di imperfezione dei mercati ambientali. Le vere riconversioni/rivoluzioni sono difficili e non gratuiti ma il non intraprenderle aggrava la dimensione dei problemi. 4. Curve di Kuznets ambientali: alibi per l’inazione? Abbiamo appena visto che secondo le evidenze empiriche e teoriche (i.e. scientifiche), l’evoluzione spontanea del progresso tecnico avviene ai danni delle risorse naturali rinnovabili e, a favore di quelle non rinnovabili soltanto nel breve periodo (ne rallenta l’utilizzo) mentre nel lungo potrà favorirle soltanto se prenderà la direzione di renderle sostituibili. Eppure, dato che la convinzione di impatto positivo resta diffusa, alimentata forse anche da una latente ostilità verso l’intervento pubblico, potrebbe esserci un’ultima linea di difesa scientifica fin qui trascurata. Tale ultima linea di difesa è in effetti costituita dalle curve di Kuznets ambientali19. Kuznets, che può essere considerato il padre fondatore degli studi quantitativi sulla crescita, era interessato a individuare gli elementi caratterizzanti la crescita economica, attraverso appunto l’analisi empirica, ma non alle questioni ambientali. Trovò che le origini della moderna crescita economica potevano essere rinvenute nella Rivoluzione Industriale di tre paesi: l’Inghilterra tra il 1780 e il 1820, gli Stati Uniti tra il 1810 e 1860 e la Germania tra il 1820 e il 187020. Nelle prime fasi della crescita in tutti e tre i paesi si registrava una accelerazione nel tasso di crescita del reddito totale e un più alto tasso di crescita della popolazione insieme a miglioramenti tecnologici molto significativi. Questi “fenomeni appaiono, dal punto di vista statistico, movimenti piuttosto placidi di linee costantemente 19 E’ appena il caso di accennare al fatto che Kuznets non si è mai occupato di questioni ambientali. Piuttosto furono Grossman G.M.-Krueger A.B. ad applicare per primi (1991, 1994, 1995) la metodologia applicata di K. alle questioni ambientali. Oggi esiste una letteratura piuttosto ampia sull’argomento . Si veda Perman R.-Stern D. (2003). R. RanjanJ. Shortle, (2007). Prieur F. (2007). 20 Kuznets S., (1968) e precedenti studi pubblicati nella rivista, Economic Development and Cultural Change, tra l’ottobre 1956 e il gennaio 1967. 11 crescenti. Ma sotto la superficie si hanno grandi cambiamenti tra i gruppi sociali, che generano grandi tensioni sulla preesistente cornice societaria, impostata su un ben più basso di crescita”.21 Effettivamente anche studi successivi, e per esempio i già citati di Maddison e World Bank, hanno trovato che la crescita segue una tipologia comune nei diversi paesi, non sorprende perciò che quando i problemi ambientali (scarsità di risorse naturali o deterioramento qualitativo) si sono cominciati a sentire, si sia cercato se esistano relazioni, e di che tipo siano, tra appunto la crescita e lo stato dell’ambiente. Sono apparse le cosiddette curve di Kuznets ambientali con il noto andamento a campana che indicano come nelle prime fasi dello sviluppo di un paese, quando cioè il reddito pro-capite è basso e scarse o nulle risorse sono destinate alla protezione ambientale, la crescita avviene ai danni dell’ambiente mentre oltre un certo livello di reddito-pro capite la relazione si inverte e crescita del reddito e protezione ambientale si muovono nella stessa direzione. L’inversione della relazione è il frutto di vari effetti tra i quali prevale quello noto come effetto composizione del PIL che provoca la sostituzione di prodotti altamente inquinanti, o assorbenti grandi quantità di risorse naturali, con prodotti via via meno inquinanti o a maggior efficienza ambientale (cioè utilizzanti minori quantità di risorse naturali), la cui produzione è resa possibile dal maggior reddito pro-capite che consente di destinare risorse crescenti alla protezione ambientale anche intesa nel senso di investimenti in ricerca di tecnologie più pulite. Del resto anche la domanda di protezione ambientale cresce con il crescere del reddito pro-capite, implicitamente relegando i beni ambientali tra quelli di lusso. Dunque se quando il reddito pro capite raggiunge un certo livello, la crescita si accompagna a miglioramenti ambientali, le aspettative in riferimento ai paesi sviluppati dovrebbero essere “ottimistiche”, mentre nel caso dei paesi meno sviluppati, nei quali le situazioni ambientali sono notoriamente molto deteriorate per una molteplicità di ragioni che non affrontiamo, si tratterebbe di riuscire ad innescare il processo di crescita con il che la protezione ambientale seguirebbe spontaneamente. La crescita sanerebbe i problemi ambientali così come generalmente si ritiene che possa ridurre la povertà, la criminalità, far nascere e prosperare le democrazie ecc. e ciò sarebbe riflesso nella relazione a campana. In verità mentre per alcuni inquinanti la relazione a campana è stata riscontrata, per altri non sembra sussistere. Le curve di Kuznets sono per esempio inesistenti per certi indici di deterioramento, incidentalmente i più gravi, come la CO2 pro-capite e i rifiuti pro-capite, ma anche per diversi altri e per quelli per i quali esisterebbero, sarebbero più il frutto delle politiche ambientali “attive” che dell’automatismo di mercato22. Infine, e senza banalizzare i risultati di questi studi empirici sull’esistenza o meno di relazioni a campana, va considerato che anche quando tali relazioni vengano riscontrate in riferimento ad un certo indice di deterioramento, esse sono 21 22 Kuznets S., 1968 citato, p. 21. World Bank, 1992 12 contingenti al paese e al periodo di tempo di rilevazione e niente assicura che continuino ad esistere in futuro. Ciò indebolisce ancora di più le giustificazioni per l’inazione che alcuni traggono dalle curve a campana. In effetti alcune curve a campana, che indicano appunto come crescita e qualità ambientale vadano nella stessa direzione oltre un certo livello di reddito pro-capite, si “trasformano” in curve ad “N” ovvero la relazione si inverte di nuovo e torna a segnalare che la crescita avviene di nuovo ai danni dell’ambiente23. Oltre un certo livello di reddito pro-capite l’effetto scala, al quale sarebbe dovuto il tratto crescente della relazione a campana (nelle fasi iniziali la crescita danneggia l’ambiente), tornerebbe a prevalere sugli effetti composizione e tecnologici ai quali spetterebbe il merito di generare, contemporaneamente, incrementi di reddito e miglioramenti ambientali (tratto discendente della campana). Le aspettative che con la crescita del reddito pro capite i problemi di deterioramento ambientale si risolvano automaticamente, ci sembrano destinate a non essere soddisfatte quando il loro maggior fondamento sia rappresentato dalle curve di Kuznets ambientali. 5. Necessità dell’intervento pubblico. L’obiettivo principale del nostro discorso è stato quello di richiamare l’attenzione sul fatto che molte convinzioni, per quanto diffuse, poggiano su preconcetti. Di tali preconcetti, se oggettivamente individuati, l’indagine scientifica deve sbarazzarsi. Attenendoci a questa impostazione riteniamo di aver messo in evidenza come, quando si affronti seriamente la questione ambientale in termini di disponibilità in quantità e qualità di risorse naturali, assai poco di favorevole possiamo aspettarci dagli “automatismi” di mercato . I più tipici argomenti che potrebbero giustificare queste aspettative, che sono l’evoluzione sempre favorevole del progresso tecnico e le curve di Kuznets ambientali, appaiono assolutamente deboli quando non provate. Il progresso tecnico risponde ai segnali di mercato e dunque sarà positivo o negativo per la crescita futura nella misura in cui tali segnali siano corretti e le curve di Kuznets ambientali diventano sempre più evanescenti . E’ ora che il settore pubblico, lo stato o meglio gli stati, facciano quello che devono fare in pratica, che non è dichiarare e firmare protocolli dove si enunciano incontrovertibili principi di cooperazione internazionale per il bene delle generazioni presenti e future, ma stabilire con chiarezza i targets ambientali da raggiungere. Ed è ora che il mercato sia lasciato libero di fare ciò che sa fare e cioè, una volta conosciuti gli obiettivi e le regole, allochi efficientemente le risorse. A questo fine è assolutamente necessario ribadire che solo se gli stati saranno credibili nei loro obiettivi, il mercato potrà muoversi con efficienza (e lo stesso potrà 23 Borghesi-Vercelli 2005; Shafik 1994; Grossman 1995. 13 avvenire in termini di progresso tecnico) e, soprattutto, potrà muoversi in coerenza con gli obiettivi di lungo periodo della collettività che esso non può darsi perchè risponde agli stimoli correnti e, al massimo, alle aspettative che riesce a formarsi sugli andamenti futuri. Sarebbe pertanto errato postulare grande lungimiranza nelle scelte delle imprese perché esse sono orientate ai risultati di bilancio di breve periodo e lo sono tanto più oggi che in passato per motivi di adattamento ai mutamenti dell’economia. Tra i mutamenti più caratterizzanti l’economia contemporanea vi è senza dubbio il processo di “finanziarizzazione”, che molti hanno evidenziato24, delle imprese e dell’economia. Insieme all’importanza crescente dei mercati finanziari e delle Borse25 è andata infatti anche crescendo, all’interno delle imprese, l’importanza dei bilanci finanziari e ciò ha portato a privilegiare le decisioni di breve periodo. Ma quanto più si accorcia l’ottica delle decisioni tanto meno favorevoli all’ambiente potranno essere. Tutto ciò per evidenziare, ancora una volta, che l’evoluzione spontanea dell’economia non va nella direzione di proteggere l’ambiente e tale protezione può essere perseguita solo grazie a decisioni volontarie prese allo scopo. Così anche nell’ambito dei mercati e delle imprese esistono, e sono in aumento, casi di imprese sostenibili o eco-industrie o imprese verdi, e sono quelle imprese che ottengono risultati di bilancio positivi nel lungo periodo. Nonostante la finanziarizzazione dell’economia e l’accento sempre più marcato nel breve periodo fa ben sperare la recente introduzione del Dow Jones Sustainability Index: dopo tutto per le imprese socialmente responsabili, in senso ambientale, esiste un riconoscimento del mercato in termini di migliore performance. Conciliare crescita e ambiente forse si può ma si tratta di affrontare problemi di gestione globale e di lungo termine, e perciò una fruttuosa interazione, settore pubblico-settore privato, è più che auspicabile. Ma per far sì che la collettività possa beneficiare dei vantaggi derivanti dalla migliore combinazione possibile dei due settori, bisognerebbe imboccare una via contraria a quella attuale: lo stato non decide gli obiettivi, né cura le esternalità e il mercato senza la bussola complessiva più che creare ricchezza, sovrautilizza le risorse libere o quasi libere e va a caccia di rendita. Dobbiamo, senza pregiudizi, prendere atto che il progresso tecnico non è, per definizione, sempre positivo ma può esserlo se incentivato a seguire sentieri evolutivi favorevoli al benessere delle generazioni presenti e future; che le curve di Kuznets non esistono che raramente e quando esistano sono contingenti alle rilevazioni effettuate. Esse rappresentano una relazione empirica le cui giustificazioni teoriche non autorizzano certo ad assumere che con la crescita i problemi ambientali scompariranno e, d’altra parte, nulla dicono circa i “tempi” necessari per raggiungere il 24 Vercelli-Borghesi, 2005; Nardozzi 2002 Il rapporto tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale, Financial Intensity Ratio, è raddoppiato in USA, UK, Francia tra l’80 e metà anni ’90 e si è accresciuto del 50 % in Germania e Italia, Nardozzi 2002. 25 14 livello di reddito pro-capite al quale la relazione si invertirebbe e il “livelli” di danno ambientale corrispondenti e che potrebbero essere molto gravi se non addirittura “irreversibili”. Giunti dunque alla conclusione che, in fatto di uso ottimo delle risorse naturali e di protezione ambientale gli automatismi di mercato producono, in generale, risultati non desiderabili, non resta che fare affidamento sul settore pubblico per decidere il tipo di “riconversione” industriale necessaria e minimizzarne i costi grazie all’opera congiunta, e non contrapposta, del mercato e dello stato. A complicare lo scenario va riconosciuto che la direzione del cambiamento deve emergere dalla decisione congiunta di tutti i paesi perché, nel mondo globalizzato, non siano vanificati gli sforzi di uno stato da quelli di un altro. La riconversione industriale che si auspica deve quindi coinvolgere, in misura diversa, tutti i paesi e siccome non può avvenire senza costi (che devono essere minimizzati) andrà incontro a resistenze e ostacoli: sotto la “tranquilla superficie” delle statistiche, come faceva notare Kuznets, si muovono settori e attori che subiscono effetti diversi e consistenti quando cambia il sentiero di crescita. 6. Strumenti di intervento. Riconosciuta la necessità di una politica ambientale attiva o, più precisamente, la necessità di una politica industriale attiva che assuma come vincolo prioritario e cogente quello ambientale (disponibilità di risorse naturali in quantità e qualità), si devono individuare gli strumenti cui ricorrere. Come si sa nella letteratura specializzata esiste una importante distinzione tra gli strumenti di tipo Command&Control e strumenti di mercato. La distinzione è utile proprio perché pone in evidenza come, anche nell’individuare il migliore strumento, la scelta dell’ottica temporale sulla quale fondare le decisioni, non sia irrilevante. Il giudizio sull’efficacia (ed efficienza) dei singoli strumenti non può derivare dall’analisi dell’impatto di breve periodo, immediato, degli stessi (si ricordi l’esempio del depuratore menzionato sopra per sottolineare le problematiche antiambiente implicite nelle regole di contabilità nazionale) ma deve estendersi al medio e lungo periodo perché i problemi da affrontare sono di lungo periodo. Guardando in questa ottica, è facile scoprire che alcuni strumenti, una volta avviati, fanno imboccare sentieri “virtuosi” sia in termini di tipologia di crescita (sinteticamente sostenibile) sia, e ciò è molto importante, in termini di necessità di continui interventi pubblici o invece di minimizzazione degli stessi. Sotto questo punto di vista il ranking tra gli strumenti mette al primo posto quelli di mercato e al secondo quelli di tipo command&control, come gli standards, nonostante si debba constatare che, in pratica, sono quest’ultimi quelli più usati nei primi stadi di ricorso a politiche ambientali attive (per varie ragioni tra le quali la relativa facilità di accordo internazionale). La classificazione aiuta inoltre ad 15 evidenziare la diversità dei costi economici associati a ciascun strumento che per ipotesi sia ugualmente efficace nel raggiungere un dato obiettivo. Anche qui la scelta dovrà cadere su quelli economicamente meno costosi (efficienza rispetto al costo) per la collettività ma il confronto dovrà essere fatto tra quegli strumenti che siano in grado di curare l’origine del problema e non affrontino semplicemente i suoi effetti. Quando parliamo di riconversione industriale intendiamo proprio sottolineare come l’evidenza empirica mostri che solo quando la regolamentazione ambientale è stata orientata a risolvere i problemi alla fonte (ha cercato di individuare le cause e di rimuoverle) e non si è invece orientata verso la cura degli effetti, si sono avuti risultati duraturi. Solo quando il DDT è stato bandito dall’agricoltura, il mercurio dalla produzione di candeggina, i CFC dalla produzione dei frigoriferi,o il piombo dalle benzine ecc., vi è stata innovazione tecnologica tale da consentire l’efficienza agricola senza i danni ambientali provocati dal DDT, l’uso delle auto senza i danni del piombo ecc., : tutti esempi di riconversione industriale. Il progresso tecnico “può” salvarci ma va “indirizzato”: non sa, né può sapere , se e quanto il DDT, il piombo,….siano dannosi. Con questo in mente, pensando cioè alla riconversione industriale necessaria perché la crescita del PIL sia compatibile con l’ambiente naturale, siamo convinti della necessità di andare verso la “virtuosa” interazione tra il mercato e il settore pubblico e dunque riteniamo che anche la scelta degli strumenti debba andare nella direzione di favorire questa interazione. Riteniamo perciò che debbano essere valorizzate tutte quelle iniziative che incentivino le imprese a prendere decisioni compatibili con le scelte di protezione ambientale. Una prima condizione affinché ciò sia possibile richiede che la legislazione in proposito venga molto semplificata proprio perché le imprese, anche quelle di piccole/ medie dimensioni come la maggioranza di quelle che compongono il nostro tessuto industriale, non siano addirittura scoraggiate dalla poca chiarezza e copiosità delle regole ovvero che dovendo affrontare alti costi di informazione preferiscano non interessarsi alle questioni ambientali. Snellita la legislazione ci si dovrebbe concentrare sul potenziamento delle diverse forme di incentivo capaci di rendere le decisioni di produzione più favorevoli all’ambiente e a promuovere la conoscenza presso i consumatori degli effetti ambientali dei loro comportamenti allo scopo di renderli più environment friendly , tanto da arrivare ad un modello di consumo sostenibile. Non sorprende che tra questi attrezzi compaia tutto ciò che incoraggia l’ecolabeling e l’ecodesign che, come argomentano Coromaldi-Zoli in questo numero, sembrano davvero le grandi promesse in termini di protezione ambientale alla fonte, cioè non rimedi a posteriori quando i danni sono avvenuti, ma loro prevenzione . Analogamente, e sempre per restare nel lato della produzione, anche la certificazione è un’arma da utilizzare tanto più che va ampliandosi la trasformazione in valore della cosiddetta reputazione. 16 Ma accanto a questi importanti e promettenti strumenti “volontari” senz’altro da valorizzare, quello che vorremmo vedere essere utilizzato come strumento principale per un’attiva politica ambientale globale, è il sistema diritti negoziabili. E’ uno strumento efficiente, nel senso tecnico del termine e cioè rende minimo il costo per la società del raggiungimento di un dato obiettivo ambientale e, inoltre, è uno strumento che sembra piacere al mercato. L’idea iniziale per un sistema di “permessi di inquinamento” risale a Dales J.H. e al suo contributo del 196826, ma il vero padre fondatore è considerato Tom Tietenberg che nell’198527 aprì definitivamente la via alla sistematizzazione teorica di questo strumento di politica ambientale e alla sua successiva implementazione pratica. A quest’opera ne seguirono altre tanto che Tietenberg è oggi “l’autorità” indiscussa in materia sebbene negli anni non siano mancati importanti contributi di altri economisti che, analogamente, hanno richiamato l’attenzione sulla necessità dell’intervento pubblico nelle questioni/problematiche ambientali, dove esternalità, beni pubblici e beni liberi sono le caratteristiche prevalenti. Non si possono infatti dimenticare i lavori di Baumol e di Oates perché questi autori, individualmente ed insieme, hanno tanto contribuito alla formazione di quel corpus autonomo della politica economica che è la Politica Ambientale come oggi la conosciamo 28. Nelle sue opere Tietenberg riflette la realtà statunitense; sullo sfondo del suo pensiero si trovano le istituzioni, le problematiche concrete e le esperienze pratiche di questo paese. Tutto ciò ha portato comunemente a ritenere che i permessi negoziabili siano il tipico strumento di protezione ambientale per un paese, appunto gli USA, con una decisa avversione per l’intervento pubblico nel mercato. In altri termini, anche nei casi di riconosciuto mal funzionamento del mercato, come in presenza di inquinamento (esternalità), le necessità di aggiustamento portano comunque a preferire meccanismi di mercato che necessitano di una limitata azione di governo, come appunto i permessi negoziabili, piuttosto che gli strumenti tipici di governo, considerati troppo ingerenti, come le tasse. Così nel 1989 il governo federale vara, un programma di permessi negoziabili relativo ai clorofluorocarburi (in risposta all’ormai noto Protocollo di Montreal siglato allo scopo di evitare l’assottigliamento dello strato di ozono e che ha effettivamente raggiunto l’obiettivo postosi) e l’anno successivo, l’Environmental Protection Agency interviene sul banking and trading dei crediti per l’ossido di azoto. Nel 1990 poi viene varata la più vasta applicazione ad oggi dei permessi negoziabili per ridurre le emissioni di biossido di zolfo, di 10 milioni di tonnellate al disotto delle emissioni del 1980. Questo sistema dette luogo ad un mercato robusto ed efficace 26 Dales J.H. (1968) Tietenberg T. (1985). 28 Il fondamentale testo di Baumol W. J.- Oates W. E.,(1975 e successive edizioni ), non solo è il primo testo del genere in assoluto, ma ha preceduto il lavoro di Tietenberg ed è ormai un “classico” per gli economisti dell’ambiente. Inutile aggiungere che contiene una trattazione dei marketable permits. Per chi desiderasse maggiori informazioni può consultare anche i precedenti Tietenberg (1980) e Baumol (1972). 27 17 tanto che subito dopo ben 12 stati introdussero sistemi simili (di tipo cap-and-trade) per l’ossido di azoto e altri ne seguirono successivamente e fino ai nostri giorni. Mentre dunque negli USA si creano con successo sistemi del genere, l’Europa sembra seguire la sua più congeniale via per gli aggiustamenti, quella cioè dell’intervento pubblico più tipico della tassazione e dell’imposizione di standard. Nel 1992 per esempio, dopo molti vivaci e approfonditi dibattiti e proposte, i tempi sembravano maturi per l’introduzione di una tassa europea di tipo ambientale: la carbon tax , come inizialmente proposto o la successiva variante carbon/energy tax. Sebbene la proposta non riuscì a trasformarsi nell’attesa imposta europea, singoli paesi europei fecero propria l’iniziativa ed introdussero nei loro sistemi fiscali , carbon-tax e/o tasse analoghe (tipicamente i paesi scandinavi), tanto che oggi la percentuale di gettito ottenuto da tassazione ambientale si aggira in media (ma con grande variabilità tra i paesi) nei paesi OECD intorno al 7 % e, sempre in media per i soliti paesi, rappresenta circa il 2,5% del Prodotto Interno Lordo29 . Può dunque sorprendere che nel 2005 proprio in Europa sia decollato un sistema di Emissions Trading “all’americana” e che anzi esso superi le esperienze americane quanto a dimensione: esso è il primo sistema operativo di tipo internazionale (o sopranazionale), è cioè “comune” ad un numero, anche piuttosto elevato, di stati nazionali sovrani, quelli della Comunità Europea e non opera in un solo stato (anche se federale). Questa recente esperienza, da poco superata la fase sperimentale ed entrata nella seconda fase, sembra finalmente aver aperto una strada molto promettente per la protezione ambientale internazionale. Se gli insegnamenti deducibili dalla sperimentazione iniziale saranno effettivamente seguiti, si dovrebbe riuscire a ben puntualizzare il sistema, a migliorarlo dove necessario ed ad ottenere perciò la massima possibile efficacia in termini di obiettivi ambientali. Così i diritti, o permessi, negoziabili sembrano oggi godere del favore della maggioranza dei paesi su entrambe le sponde dell’Atlantico, soprattutto di quelli determinati a porre rimedio ai cambiamenti climatici dovuti al surriscaldamento terrestre per la parte provocata dall’uomo con la combustione di fossili. In ultima analisi l’economia mondiale, a partire dalla rivoluzione industriale iniziata alla fine del ‘700 e affermatasi nell’’800, si è basata ed evoluta proprio sul processo di combustione dei fossili (carbone prima e poi petrolio e gas naturale), sprigionando ampi e crescenti quantitativi di gas ad effetto serra (sono ormai di dominio comune, e circolano su molti siti, i grafici che riportano la dinamica delle immissioni in atmosfera dei gas ad effetto serra. E’ impressionante notare come questa dinamica sia praticamente identica alla dinamica della popolazione e a quella 29 OECD, 2006. 18 del processo di industrializzazione). Anche nel recentissimo Rapporto Stern30 sui problemi del cambiamento climatico, è dedicato ampio spazio ai diritti negoziabili. Il rapporto sottolinea come il cambiamento climatico sia un problema “internazionale e intergenerazionale” le cui esternalità negative sono estremamente più gravi di quelle derivanti dall’inquinamento o dalla congestione e ciononostante i diritti negoziabili (e ovviamente anche le tasse ) sarebbero in grado di mitigarne gli effetti e di farlo ad un basso costo per la collettività globale. In effetti si hanno segnali incoraggianti verso la diffusione di questo strumento, in fondo un titolo cartaceo che può servire ad attestare, non solo quote di appropriazione dell’aria (inquinamento) per la cui disponibilità si deve pagare, ma anche comportamenti “virtuosi” per la società come i titoli di efficienza energetica (i cosiddetti certificati bianchi) e i titoli di produzione di energia da fonti rinnovabili (i cosiddetti certificati verdi). L’allargamento dell’uso di questo strumento, potenzialmente molto promettente, (e si pensa anche ai “crediti” di assorbimento di CO2 derivanti da certi tipi di foreste), può davvero condurre al controllo efficiente , cioè corrispondente al minimo costo per la società, delle emissioni dannose. Per tutto ciò è necessario che si creino, come appunto sta avvenendo, “mercati per l’ambiente” dove sia possibile commerciare, definite regole e istituzioni di certificazione e scambio, titoli ambientali attestanti comportamenti individuali dannosi e virtuosi per la società. Per questo, e per quanto possa sembrare strano, ci piace notare che se i termini permessi negoziabili, mercati per l’ambiente, e “borsa dei fumi”, cominciano a diffondersi, c’è speranza che qualcosa di concreto si stia davvero facendo per proteggere l’ambiente. La ricetta potrebbe essere molto semplice. Basterebbe che tutti gli stati accettassero di ricorrere all’uso di strumenti efficaci e poco costosi, quali appunto i diritti negoziabili ed incentivassero ogni forma di riduzione, recupero e riciclo dei materiali utilizzati per la produzione e consumo. 7. Conclusioni. Esistono concrete possibilità di essere clean and competitive, ovvero di coniugare l’ambiente con la crescita, ma dipendono dalle nostre capacità di far funzionare al meglio il mercato e il settore pubblico. A questo fine è cruciale prendere atto dell’effettivo vincolo oggi rappresentato dalla quantità e qualità delle risorse naturali che, nell’era della globalizzazione sono 30 Commissionato dal Tesoro inglese (Ministero dell’economia e delle finanze) e dato alle stampe nel marzo 2007, come Stern Review on the Economics of Climate Ch’ange. 19 soggette a rischi di free riding e di tragedy of the commons enormemente accresciuti rispetto al passato e tuttora crescenti. Gli strumenti ci sarebbero ma l’accordo credibile per l’uso globalizzato di essi non sembra avere mordente mentre l’uso a livello di singolo paese, lasciato alla volontarietà delle decisioni nazionali, risulta insufficiente. Ciò che fa ben sperare è che, con l’aggravarsi dei problemi di insostenibilità economica mondiale degli attuali modelli di produzione e consumo (i famosi scenari del tipo business as usual) , i “giuochi” tra i paesi diventano “ripetuti” e le “punizioni” si diffondono. Chissà che davvero la teoria dei giuochi a cui l’ambiente ha fornito tanti “esempi” non ci abbia proprio indicata la strada da seguire, quella degli accordi internazionali con incontri ripetuti. Sul fatto poi che prima o dopo tutti i paesi subiscano la punizione non c’è che da aspettare che i processi naturali facciano il loro corso. L’attesa o l’inazione è certamente pericolosa ma può avere anche i suoi effetti positivi: i problemi non si risolvono da soli, grazie alla capacità di resistenza e adattamento della natura alle nostre attività di produzione e consumo, ma arrivati a certe soglie “puniscono” tutti. Quanto ci vorrà per prendere atto che in assenza di accordo tutti i paesi ci perdono non si sa, ma è su ciò che si basa la certezza che questa riconversione industriale e di modello di consumo avverrà. Speriamo non avvenga molto tardi anche perché più tardi avverrà più alto sarà il costo che tutti gli stati dovranno affrontare. I costi dell’inazione sono positivi e crescenti. 20 Riferimenti bibliografici Barr N., The economics of the Welfare State, Oxford University Press, 2004 Denison E., Trends in American Growth 1929-82, The Brookings Institution, 1985 Friedman M., Open Court Publishing Co., 1975 Grossman G.M, Pollution and Growth: what do we know? In Goldin I.-Winters L.A. 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Mariangela Zoli e Manuela Coromaldi Abstract L’eco-progettazione rappresenta uno degli strumenti più promettenti per ridurre l’impatto ambientale derivante dalla produzione e dal consumo dei beni. Poiché le rigidità e le problematiche connesse allo smaltimento o al riciclaggio dei prodotti si determinano principalmente nelle fasi iniziali di progettazione e sviluppo, l’inclusione delle valutazioni di impatto ambientale direttamente in queste fasi costituisce una opportunità rilevante per la realizzazione di uno sviluppo maggiormente eco-sostenibile. Le modalità con cui si diffondono le pratiche di eco-progettazione si differenziano nei diversi contesti nazionali: in alcuni casi l’eco-progettazione è incentivata dagli schemi di regolamentazione dei governi, in altri è il risultato delle scelte volontarie di imprese desiderose di competere in un contesto internazionale sempre più attento alle problematiche ambientali. Questo contributo si propone di prendere in esame le complesse interdipendenze tra gli incentivi all’eco-progettazione, le iniziative volontarie delle imprese e le regolamentazioni dei governi. Partendo dall’analisi di alcuni casi di studio esaminati in letteratura, il lavoro distingue tra un approccio “europeo”, in cui gli stimoli al DFE sono forniti dalle politiche di regolamentazione delle autorità pubbliche, e un approccio “statunitense”, in cui l’eco-progettazione è il risultato delle azioni volontarie delle imprese. L’efficacia dei due approcci in termini di stimoli all’ecoprogettazione è valutata attraverso una rassegna critica della letteratura, empirica e teorica, sull’argomento. L’analisi effettuata suggerisce l’importanza dell’intervento pubblico nella fornitura degli incentivi più appropriati e nel controllo del rispetto di comportamenti eco-sostenibili da parte delle imprese. Design for Environment and Environmental Quality: Regulatory Policy or Voluntary Programs? Abstract Design for Environment (DfE) is one of the more promising tools for reducing the environmental impact throughout the product life-cycle. Since most of the waste management and recycling problems are “locked” into the product at the design stage, DfE provides a relevant opportunity to make critical interventions early in the product development process in order to eliminate, avoid or reduce downstream environmental impacts. DfE activities are stimulated in different ways in different countries. In this paper we analyze the relationship between DfE incentives, public policies and voluntary programs, by considering the theoretical and empirical literature. We distinguish between an “European approach”, where DfE is spurred by public regulations, and a “US approach”, where producers pursue more voluntary efforts in reducing the environmental impacts of their products. By providing an overview of the theoretical and empirical literature, we conclude that public policies tend to be more effective in spurring DfE. Codici di classificazione JEL: H23, Q53, Q58 Keywords: design for environment, responsabilità estesa del produttore, regolamentazione ambientale Indirizzo e-mail per corrispondenza: [email protected] Recapito postale: Università degli Studi di Roma "Tor Vergata", Facoltà di Economia, Dipartimento SEFEMEQ, Via Columbia, 2 - 00133 Roma, Italia Eco-progettazione e qualità ambientale: regolamentazione o strumenti volontari? Mariangela Zoli e Manuela Coromaldi* 1. Introduzione Le recenti tendenze a livello internazionale evidenziano l’importanza crescente attribuita dai governi e dalle imprese ai concetti di eco-progettazione (Design for Environment – DFE), valutazione del ciclo di vita del prodotti e responsabilità estesa del produttore (Extended Producer Responsibility – EPR). Come suggerito da una letteratura sempre più nutrita, gli approcci di eco-progettazione possiedono un enorme potenziale in termini di riduzione dell’impatto ambientale causato dalla produzione e dal consumo di beni e servizi. Il DFE rappresenta uno strumento particolarmente valido per realizzare interventi specifici a monte dei processi produttivi, nelle fasi di progettazione e sviluppo dei beni, influenzando il modo in cui un determinato prodotto o servizio interagirà con l’ambiente circostante e con i suoi utilizzatori e permettendo di eliminarne o, almeno, ridurne sensibilmente, l’impatto ambientale a valle. In questo senso, il DFE si basa sul concetto secondo cui “la prevenzione è migliore della cura”. La rilevanza riconosciuta al DFE è testimoniata, oltre che dalle numerose imprese che investono considerevoli risorse finanziarie nello sviluppo di prodotti eco-sostenibili e che adottano strategie maggiormente rispettose dell’ambiente1, dalla molteplicità di università e istituti di ricerca che hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale per lo sviluppo di strumenti e metodi di DFE2. L’evidenza empirica suggerisce che gli schemi attraverso cui vengono realizzate le strategie di eco-progettazione si differenziano a seconda dei contesti socio-economici di riferimento. In alcuni casi, il DFE è incoraggiato dall’intervento pubblico, mentre, in altri, è la conseguenza delle scelte autonome delle imprese. Questo contributo si propone di prendere in esame le complesse interdipendenze tra gli incentivi all’eco-progettazione, le iniziative volontarie delle imprese e le regolamentazioni dei governi. Partendo dall’analisi di alcuni casi di studio esaminati in letteratura, il lavoro distingue tra un approccio “europeo”, in cui gli stimoli al DFE sono forniti dalle politiche di regolamentazione delle autorità pubbliche, e un approccio “statunitense”, in cui l’eco-progettazione è il risultato delle * Manuela Coromaldi ha curato il paragrafo 6. Il DFE è divenuto una parola d’ordine per molte grandi corporations, come Philips Electronics, Hewlett-Packard, Herman Miller, Miele, Electrolux, Xerox, BMW e Daimler-Benz, per citarne solo alcune. 2 In Europa, le Università Tecniche di Delft, nei Paesi Bassi, Copenhagen e Berlino sono all’avanguardia per quanto riguarda il design dei prodotti orientato alle problematiche ambientali. In Inghilterra, numerose università stanno sviluppando nuove tecniche di DFE per rispondere alle esigenze di settori industriali chiave, come quelli dell’elettronica, degli elettrodomestici, degli imballaggi e dei mobili commerciali (Lewis et al., 2001). 1 1 azioni volontarie di imprese preoccupate della propria immagine presso i consumatori e desiderose di competere in un contesto internazionale sempre più attento alle problematiche ambientali. Mentre negli Stati Uniti la maggior parte delle iniziative di DFE hanno origine direttamente all’interno dei settori industriali3, in Europa, negli ultimi anni, le preoccupazioni per i costi e per gli effetti ambientali delle principali opzioni di smaltimento hanno portato molti governi a introdurre politiche volte a ridurre il volume dei rifiuti industriali e domestici e la proporzione di rifiuti non riciclabili. Tra gli strumenti di politica ambientale proposti e utilizzati, uno dei più rilevanti e innovativi è rappresentato dalla responsabilità estesa del produttore (EPR – Extended Producer Responsibility), un approccio che estende la responsabilità dei beni, una volta consumati, ai produttori, al fine di indurli a tenere conto del costo sociale del loro smaltimento. L’obiettivo dichiarato è di fornire incentivi alla riduzione della produzione di rifiuti “alla fonte” e di promuovere l’eco-progettazione. L’esistenza, o la prossima implementazione, delle regolamentazioni ambientali ha avuto, e continua ad avere, una considerevole influenza sulle scelte di progettazione di numerose imprese operanti in Europa, ma anche delle imprese statunitensi che desiderano esportare e competere con le concorrenti europee. Molte aziende tendono ad “anticipare” l’azione pubblica, investendo nell’adozione di nuove tecnologie e processi produttivi che consentano di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale dei loro prodotti. Al fine di valutare l’efficacia dei due approcci in termini di stimoli allo sviluppo dell’ecoprogettazione, questo contributo presenta una rassegna critica della letteratura, empirica e teorica, sull’argomento. L’esame delle esperienze considerate suggerisce di trattare con cautela i casi di “successo” che sembrano emergere in ciascuno dei due approcci. In generale, si può concludere che l’iniziativa volontaria, da sola, non è sufficiente a garantire il rispetto di target ambientali soddisfacenti nel medio-lungo periodo. Di conseguenza, le istituzioni pubbliche devono svolgere un ruolo rilevante nella fissazione degli standard, nella fornitura degli incentivi più appropriati e nel controllo del rispetto di comportamenti eco-sostenibili da parte delle imprese. Come evidenziato dalla sintesi della letteratura economica, i diversi strumenti di policy a disposizione dei governi hanno una differente capacità di stimolo al DFE, ed anche l’efficacia dei meccanismi più promettenti può essere limitata dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Più precisamente, gli incentivi all’eco-progettazione dipendono strettamente dall’esistenza e dal funzionamento dei mercati per i prodotti riciclati. Nello specifico, il lavoro è organizzato nel modo seguente. 3 Nel campo delle apparecchiature elettroniche per ufficio, ad esempio, grandi aziende, come Xerox, Hewlett-Packard, AT&T e IBM stanno mostrando una grande attenzione per il DFE, il riutilizzo e la gestione dei propri prodotti. Anche i produttori di mobili per ufficio di alto profilo, come Herman Miller, Steelcase e Knoll, da tempo hanno avviato una intensa attività di ricerca, disegno, produzione e riutilizzo di sedie ergonomiche, divisori e postazioni di lavoro (Lewis et al., 2001). 2 Dopo aver introdotto il DFE ed evidenziato la sua rilevanza nel perseguimento dell’obiettivo di riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti e dei processi produttivi (paragrafo 2), vengono presentate le principali politiche di responsabilità estesa del produttore e valutate le loro potenzialità di stimolo all’eco-progettazione (paragrafo 3). Il paragrafo successivo propone una sintesi dei contributi teorici della letteratura economica ritenuti più significativi per illustrare gli effetti delle politiche di EPR sugli incentivi al DFE, mentre il quinto paragrafo illustra le relazioni tra gli incentivi al DFE, gli interventi governativi e le iniziative volontarie delle imprese attraverso la presentazione di alcuni casi di studio. Infine, l’ultimo paragrafo analizza le potenzialità economiche delle eco-industries, volte allo sviluppo di tecnologie pulite e alla produzione di beni e servizi per misurare e minimizzare i danni ambientali causati dai processi produttivi tradizionali. 2. Eco-progettazione: le potenzialità di riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti Gli approcci tradizionali di riduzione dell’inquinamento e dell’impatto ambientale dei rifiuti si basano sull’adozione di strategie relative al loro trattamento “end-of-pipe”, attraverso lo smaltimento in discarica o l’incenerimento, oppure attraverso gli incentivi alla raccolta differenziata e lo sviluppo delle attività di riciclaggio. Solo recentemente, a questo approccio di tipo “correttivo” si è affiancato un approccio “preventivo”, che sposta l’attenzione dalla fase di gestione dei rifiuti alle fasi di creazione e progettazione dei prodotti e dei processi produttivi. In altri termini, anziché fronteggiare l’emergenza di dover gestire volumi crescenti di rifiuti si ritiene preferibile ridurre a monte la quantità di materiali utilizzati dalle imprese, per i prodotti e gli imballaggi, oppure aumentare il loro grado di riciclabilità e la loro facilità di disassemblaggio. In questa ottica, un ruolo fondamentale è svolto dalle strategie di eco-progettazione nelle fasi iniziali del ciclo di vita dei prodotti. Il DFE ha luogo quando le imprese incorporano esplicitamente le valutazioni dell’impatto ambientale nelle decisioni relative alla progettazione e produzione dei loro beni (Fiksel, 1996). Per ridurre i rifiuti associati al consumo, ad esempio, le imprese possono “alleggerire” i propri prodotti, riducendo sensibilmente la quantità di imballaggi utilizzati, oppure possono renderli più facili e meno costosi da riciclare. Questi obiettivi possono essere soddisfatti cambiando il tipo di materiali usati, evitando l’impiego congiunto di materiali diversi in un solo prodotto, specificando il tipo di materie prime e le modalità di riciclo, progettando i prodotti in modo da renderne più agevole il disassemblaggio. I vari tipi di beni esercitano i propri effetti negativi sull’ambiente in fasi diverse del loro ciclo di vita, dall’estrazione delle materie prime necessarie alla produzione, all’utilizzo dell’energia elettrica per il loro funzionamento, allo smaltimento una volta esaurita la loro vita utile. Tuttavia, indipendentemente dalla fase specifica in cui si manifesta, l’impatto ambientale di un prodotto è inevitabilmente determinato al momento della sua progettazione, quando vengono scelti i materiali 3 di cui sarà composto e se ne stabilisce il rendimento potenziale. Una volta che la fase di progettazione generale è stata completata, le tecnologie produttive e le materie prime sono state identificate, restano solo possibilità marginali per il miglioramento dell’efficienza e la riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti. La scelta dei materiali utilizzati e delle modalità di assemblaggio vincola le opportunità di riutilizzo dei prodotti, rendendo poco efficaci anche le più sofisticate tecnologie di riciclaggio. Schematicamente, l’effetto “lock-in” ambientale lungo il ciclo di vita di un prodotto può essere rappresentato come in Figura 1. I riquadri ombreggiati rappresentano le strategie che possono essere messe in opera per ridurre l’impatto ambientale in corrispondenza delle diverse fasi del ciclo di vita. L’effetto “lock-in” tende a crescere molto rapidamente nello stadio iniziale di disegno e progettazione dei beni, e più lentamente nelle fasi successive; in altri termini, l’accumulazione dell’effetto “lock-in” può essere descritta da una funzione concava nei diversi stadi del ciclo di vita. Poiché le potenzialità di riduzione dei rifiuti, di minimizzazione delle risorse utilizzate, di conservazione dell’acqua e di efficienza energetica dipendono strettamente da scelte, caratterizzate da un grado elevato di irreversibilità, effettuate nel momento in cui i prodotti vengono progettati, il DFE rappresenta uno strumento molto potente per la realizzazione di beni, servizi ed edifici ecocompatibili. Solo un approccio di progettazione che prenda in esame, a monte, tutto il ciclo di vita del prodotto può essere in grado di incorporare le valutazioni di impatto ambientale nella fase di ideazione e creazione dei beni. In questo senso, le strategie di DFE influenzano il disegno dei prodotti, ad esempio moltiplicandone le funzioni, allungandone il periodo di vita utile, facilitandone la riparazione e la sostituzione dei componenti, ma hanno effetti anche sui processi produttivi, riducendo il numero delle fasi di produzione, e quindi il consumo di energia e materie prime, incentivando la reintegrazione dei rifiuti di produzione nella catena di fabbricazione, selezionando modalità produttive che facilitino il disassemblaggio e il reimpiego dei materiali. Analogamente, anche le fasi di distribuzione e commercializzazione dei beni possono essere rese maggiormente ecocompatibili, attraverso l’eliminazione degli imballaggi superflui, l’utilizzo di materiali riciclabili o biodegradabili, la massimizzazione della quantità di prodotto, per unità di volume, durante il trasporto. (qui: inserire Figura 1) 3. Il concetto di responsabilità estesa del produttore e i principali strumenti di policy Nonostante gli sforzi compiuti per ridurre l’inquinamento e la produzione di rifiuti, la pressione esercitata sull’ambiente dalle attività umane di produzione e consumo continua ad aumentare e a costituire una seria minaccia alla sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. In particolare, i volumi di rifiuti hanno continuato a crescere, negli ultimi due decenni, ad un tasso vicino a quello della crescita economica. I rifiuti urbani, ad esempio, sono aumentati di oltre il 59% tra il 1980 e il 2002, e ci si attende un loro ulteriore incremento fino al 2020, sebbene ad un tasso leggermente più 4 basso (OECD, 2004). Nello stesso tempo, si sono aggravati i problemi relativi alla ricerca di nuovi siti di stoccaggio e sono state rese più stringenti le regole per l’interramento e l’incenerimento dei rifiuti, accrescendone i costi di gestione. La preoccupazione per i costi e per gli effetti ambientali delle principali opzioni di smaltimento ha portato molti paesi a sviluppare politiche volte a ridurre la proporzione di rifiuti non riciclabili e ad incentivare il riutilizzo/riciclo dei prodotti. Una possibile soluzione di lungo periodo al problema dei rifiuti è stata individuata nelle modifiche alle strategie di progettazione dei beni e del loro imballaggio. In questa ottica si inserisce la proposta di introduzione della responsabilità estesa del produttore (EPR), un approccio di politica ambientale che cerca di ridurre i costi economici e ambientali della gestione dei rifiuti attraverso l’estensione della responsabilità dei produttori per i loro beni alla fase successiva al consumo, al fine di indurli a tenere conto del costo sociale del loro smaltimento. A partire dal 1995, in occasione del “Waste Minimisation Workshop” organizzato dall’OECD a Washington, l’EPR è stata identificata come un principio strategico per la minimizzazione dei rifiuti. Formalmente, l’EPR ha la finalità di rendere i produttori responsabili (in termini finanziari e, in alcuni casi, anche fisici; in tutto o in parte) del trattamento e dello smaltimento dei loro prodotti, una volta esaurita la loro funzione di soddisfacimento dei bisogni dei consumatori (OECD, 2001). In questo modo, le responsabilità e i costi della gestione di alcuni rifiuti vengono trasferiti dalle autorità di governo locale, tipicamente responsabili delle operazioni di raccolta e smaltimento, ai produttori dei beni stessi. Come conseguenza indiretta dell’applicazione del principio, i produttori dovrebbero essere stimolati a tenere conto dell’impatto ambientale dei propri prodotti, riducendo la produzione di rifiuti “alla fonte” e promuovendo la progettazione e la realizzazione di prodotti maggiormente eco-compatibili. Il principio di EPR, quindi, se applicato in modo appropriato, può correggere le inefficienze costringendo i responsabili dei danni ambientali a farsi carico dei relativi costi. Il fatto di internalizzare i costi esterni legati allo smaltimento dei rifiuti fa sì che le decisioni dei produttori mirate alla massimizzazione del profitto siano compatibili con l’efficienza sociale. La proposta del principio di EPR si inserisce nell’ambito dell’approccio più generale del Polluter-Pays Principle (PPP), a cui si sono ispirate le regolamentazioni ambientali dei paesi OECD, a partire dall’inizio degli anni Settanta, al fine di promuovere un’allocazione efficiente delle risorse per la protezione ambientale. In base a questo principio, dovrebbero essere i soggetti che inquinano a sostenere le spese dell’impatto ambientale che generano, e non l’intera collettività. Di conseguenza, la politica ambientale dovrebbe intervenire nella fase del ciclo di vita di un prodotto più vicina possibile al punto in cui si genera l’esternalità. Nel caso delle esternalità create dai processi di smaltimento dei rifiuti, l’applicazione del PPP ha comportato, in genere, l’attribuzione dei costi ambientali ai consumatori finali dei prodotti. In tal modo, l’esternalità negativa verrebbe internalizzata costringendo i consumatori a sostenerne il costo sociale. Il meccanismo attraverso cui gli strumenti PPP possono influenzare le scelte di ecoprogettazione si basa sui tradizionali segnali di prezzo generati dalla competizione tra le imprese sul 5 mercato dei prodotti. Poiché i consumatori sono tenuti a sostenere un costo per l’acquisto dei beni che include, oltre al prezzo di vendita, anche il contributo di smaltimento commisurato al volume di rifiuti generati, tenderanno a sostituire i prodotti con un maggiore impatto ambientale con quelli che creano minori quantità di rifiuti, inducendo le imprese a competere sull’offerta di prodotti più ecocompatibili. Tuttavia, al di fuori di mercati perfettamente concorrenziali, i segnali di prezzo associati all’applicazione del PPP non vengono trasmessi efficacemente lungo la catena produttiva, con la conseguenza che, spesso, le politiche ambientali applicate al livello dell’esternalità non sono in grado di raggiungere i loro obiettivi ambientali. Le politiche di EPR, al contrario, forniscono incentivi espliciti ai produttori perché incorporino l’obiettivo di riduzione dell’impatto ambientale nella progettazione dei loro beni. L’estensione della responsabilità dei produttori alla fase successiva al consumo dei loro beni può contribuire a stimolare e indirizzare modifiche e innovazioni nella selezione dei materiali e nel design del prodotto. In altre parole, l’esternalità negativa creata dallo smaltimento dei rifiuti sarebbe internalizzata facendone sostenere direttamente il costo sociale ai produttori, che in questo modo sarebbero indotti a scegliere un livello ottimale di eco-progettazione dei loro beni. Rispetto agli altri strumenti di politica ambientale, l’aspetto più rilevante delle politiche EPR è proprio l’incentivo potenziale all’eco-progettazione che esse possono creare. L’adozione del principio di EPR da parte dei governi è giustificata da molteplici motivazioni (OECD, 2005). La principale argomentazione fa riferimento all’obiettivo di riduzione dei costi complessivi di gestione dei rifiuti, dove per costi non si intendono solo le risorse finanziarie necessarie per l’organizzazione delle operazioni di smaltimento, ma soprattutto i costi, monetari e non, derivanti dall’impatto ambientale dei rifiuti. I costi di eliminazione dei rifiuti nei termovalorizzatori, ad esempio, non includono solo l’ammontare monetario necessario per costruire e rendere operativo l’impianto, ma anche i costi non monetari derivanti dagli effetti sulla salute umana provocati dalle emissioni della combustione. Analogamente, lo stoccaggio nelle discariche può dare origine a problemi di contaminazione delle falde acquifere, producendo un grave danno per la salute dei residenti ed elevati costi di purificazione e bonifica del territorio. Quando non sono chiamati a sostenere i costi dello smaltimento dei rifiuti, i produttori possono ignorare gli effetti delle proprie scelte produttive sull’inquinamento ambientale e i conseguenti problemi sanitari. Al contrario, si ritiene che l’attribuzione della responsabilità dei propri rifiuti ai produttori possa incoraggiarli ad adottare azioni e comportamenti più virtuosi, per esempio eliminando gli imballaggi in eccesso e scegliendo materiali più facilmente riciclabili. In molti casi, i governi hanno intrapreso i programmi EPR in modo da migliorare la gestione di rifiuti pericolosi che possono provocare gravi rischi sanitari. A questo fine, l’EPR è stata utilizzata per disporre di un canale separato e più controllato per la gestione di prodotti tossici e pericolosi (come batterie, pneumatici e prodotti contenenti mercurio), oppure per contrastare i problemi legati agli smaltimenti impropri o illegali, per esempio di frigoriferi contenenti CFC. Gli alti costi associati allo smaltimento di questo tipo di rifiuti 6 potrebbe incentivare i produttori a ridurre l’utilizzo di materiali e sostanze tossiche, laddove possibile. Una ulteriore motivazione all’introduzione di politiche EPR riguarda la riduzione degli oneri finanziari a carico delle municipalità e delle altre autorità locali impegnate nella raccolta dei rifiuti. I volumi crescenti di rifiuti, le difficoltà connesse all’apertura di nuove discariche a fronte dell’esaurimento delle possibilità di stoccaggio nelle vecchie, le regolamentazioni più stringenti derivanti dal rispetto degli standard ambientali sono fattori che hanno accresciuto enormemente i costi dell’organizzazione dei rifiuti, rendendo attraenti per le autorità locali opzioni di condivisione degli oneri complessivi. Infine, un altro argomento a favore del principio EPR riguarda gli incentivi che fornisce alla riduzione nell’utilizzo delle risorse. Nel caso delle risorse naturali, i prezzi di mercato non riflettono i reali costi sociali del loro utilizzo, sia perché in molti paesi l’estrazione e la trasformazione delle risorse sono attività sussidiate, sia perché le esternalità negative associate a tali attività non si riflettono nei prezzi delle materie prime (Tietenberg, 2006). Se le risorse fossero pagate ad un prezzo che ne riflette l’intero costo sociale, inclusi quindi gli effetti esterni dei processi di estrazione e trattamento, nonché il valore di scarsità delle risorse esauribili, i produttori sarebbero incoraggiati ad adottare strategie e tecnologie che riducono l’utilizzo delle materie prime vergini e fanno maggiormente ricorso a materiali riciclati. I programmi di EPR potrebbero indurre le imprese ad adottare tali comportamenti più rispettosi dell’ambiente. 3.1 I programmi di EPR e gli incentivi al DFE I programmi che si ispirano al principio di EPR introdotti negli ultimi anni nei vari contesti nazionali hanno attribuito un peso diverso alle motivazioni precedenti, così come diversi sono stati gli strumenti concretamente adottati per metterli in pratica. Sebbene il principio del “take-back” sia quello più comunemente associato alle politiche di EPR, la responsabilità dei produttori è un concetto molto più ampio, che include una vasta gamma di specifici strumenti di policy. A parte gli obblighi per i produttori relativi al ritiro degli imballaggi o dei prodotti, una volta consumati, alcuni programmi prevedono l’attribuzione ai produttori della responsabilità dei costi di uno smaltimento appropriato dei prodotti e materiali raccolti, così come la fissazione di obiettivi e regole per la gestione dei rifiuti, per esempio, specificando tassi minimi di riutilizzo e di riciclaggio. Nello specifico, gli obblighi di ritiro dei prodotti (product take-back mandate), una volta esaurita la loro vita utile, sono in genere associati alla specificazione di target di riciclaggio, che vincolano i produttori a riciclare una certa percentuale dei materiali di cui sono composti i loro prodotti. Gli obiettivi possono essere specificati sia a livello di singolo produttore (responsabilità individuale) sia a livello dell’intero settore o industria (responsabilità collettiva). In questo secondo caso, per soddisfare i requisiti, spesso le imprese formano delle organizzazioni per la responsabilità dei produttori (Producer Responsibility Organization - PRO), in modo da agevolare la gestione 7 della raccolta e del riciclaggio dei rifiuti e di assicurare il raggiungimento degli obiettivi4. In alcuni casi, le regole di partecipazione all’organizzazione5 prevedono che tutte le operazioni di raccolta e smaltimento dei rifiuti siano realizzate attraverso l’organizzazione stessa, mentre, in altri casi, le imprese possono avere l’opportunità di uscire dalla PRO e di soddisfare i loro obblighi di recupero e riciclaggio individualmente. In alcuni contesti, sono sorte numerose PRO, in competizione tra loro. Solitamente, una PRO richiede alle imprese partecipanti il pagamento di contributi per coprire i costi di raccolta e di trattamento dei rifiuti. Le modalità con cui sono stabiliti tali contributi influenzano gli incentivi all’eco-progettazione da parte delle imprese. Nei casi in cui i costi sono ripartiti in proporzione alle quote di mercato delle imprese, il singolo produttore può non avere un forte incentivo ad introdurre modifiche nel disegno del proprio prodotto in modo da ridurne i costi di gestione. Mentre i costi dell’eco-progettazione sono sopportati dall’impresa che la realizza, i benefici derivanti dal risparmio sui costi di smaltimento ricadono su tutte le imprese della PRO e, quindi, tendono ad avvantaggiare maggiormente le imprese che non introducono innovazioni, rispetto a quelle che le realizzano. L’eco-progettazione diventa una sorta di bene pubblico per le imprese che aderiscono alla PRO, ciascuna delle quali avrà incentivi ad assumere comportamenti da free-rider. Come conseguenza, il DFE tenderà ad essere realizzato in misura minore rispetto alla quantità efficiente. Uno stimolo più efficace al DFE, invece, è fornito da meccanismi di ripartizione dei costi della PRO in base alle unità di prodotto vendute, così da collegare direttamente il contributo che le imprese devono versare ai costi di smaltimento del loro specifico prodotto. In questo modo, i cambiamenti di design che riducono i costi di gestione dei rifiuti vanno effettivamente a beneficio dell’impresa che li ha introdotti, e il programma di EPR è in grado di incentivare l’utilizzo di materiali più facilmente riciclabili o la riduzione della quantità di materiale impiegato nei processi produttivi. La possibilità di far pagare alle imprese contributi differenziati in base ai costi di smaltimento, tuttavia, comporta costi molto elevati di organizzazione del programma collettivo, come testimonia l’esperienza di ICT-Milieu. Per far fronte agli obblighi di take-back dei prodotti elettrici ed elettronici previsti dalla legislazione olandese (The Management of White and Brown Goods Decree) introdotta nel 1998, sono sorte due diverse organizzazioni di produttori e importatori, ICT-Milieu e NVMP, il primo responsabile per il recupero delle apparecchiature (informatiche e di telecomunicazione) da ufficio a fine vita, il secondo della gestione dei beni esausti appartenenti alla filiera del bianco e del bruno (elettrodomestici grandi e piccoli, apparecchiature elettroniche per uso domestico). Inizialmente, il finanziamento delle attività di ICTMilieu era realizzato attraverso il pagamento di contributi differenziati per le diverse marche, in base ai costi di riciclaggio e al peso dei prodotti. Tuttavia, questa modalità si è rivelata eccessivamente onerosa, cosicché, a partire dal 2003, le quote di compartecipazione ai costi di 4 In Italia, per esempio, il Consorzio ecoR’it, è un sistema collettivo integrato per la raccolta e il trattamento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, professionali e domestiche. Attualmente è composto da oltre 580 soci (http://www.ecorit.it). 5 Le organizzazioni possono essere anche società distinte dalle aziende che le compongono. In questi casi, i produttori individuali sono azionisti delle PRO. 8 raccolta e trattamento dei rifiuti sono determinate in base alle quote di mercato delle imprese partecipanti6. In alternativa al meccanismo delle PRO, nei casi in cui i target di riciclaggio si applicano ad un intero settore industriale, le imprese possono avere la possibilità di scambiare tra loro i cosiddetti “crediti negoziabili di riciclaggio” (tradable recycling credits)7. In un sistema di questo tipo, ad ogni imprenditore è richiesto di soddisfare un target predefinito, in termini, ad esempio, di una certa percentuale del peso del prodotto che deve essere riciclato. Il soddisfacimento del target può essere realizzato direttamente dalle imprese, individualmente o attraverso il pagamento a società di riciclaggio, oppure attraverso l’acquisto di crediti da altre imprese, che hanno realizzato quote di riciclaggio superiori a quanto richiesto. Le imprese più virtuose, che sostengono costi più bassi per riciclare i propri prodotti, infatti, possono avere convenienza a superare le quote prefissate, vendendo le quote eccedenti, sotto forma di crediti, alle imprese che hanno invece maggiori difficoltà (e maggiori costi) a soddisfare i target richiesti. Con questo sistema, gli obiettivi di riciclaggio per l’intera industria vengono soddisfatti, al costo minore per le imprese. Il pregio principale di un meccanismo di crediti negoziabili risiede proprio nella sua maggiore flessibilità, rispetto ad un approccio di tipo comando e controllo, che preveda l’imposizione di specifici standard di riciclaggio uguali per tutte le imprese (si veda il contributo di Castellucci in questo volume). In un sistema di crediti negoziabili, le imprese che realizzano prodotti particolarmente difficili da riciclare, ovvero che hanno costi più alti di riciclaggio, possono scegliere di acquistare crediti, mentre le imprese che riciclano più facilmente possono venderli, dietro il pagamento di un prezzo. Limitandosi a definire le quote di riciclaggio e lasciando agire il mercato, le autorità pubbliche possono conseguire un’allocazione efficace rispetto al costo, anche in assenza di informazioni circa i costi di riciclaggio delle imprese. Graficamente, l’allocazione efficace rispetto al costo è rappresentata dal punto E nella Fig. 28, in corrispondenza del quale i costi marginali di riciclaggio sono uguali per le imprese e il costo necessario per soddisfare il target di riciclaggio è minimizzato. A qualsiasi altra allocazione è associato un costo complessivo di raggiungimento del target più elevato. Qui: Figura 2 6 Più precisamente, questa è la modalità adottata per le apparecchiature di peso non superiore ai 35 chilogrammi. Per le apparecchiature più pesanti, le imprese possono scegliere di ritirare e processare autonomamente i propri prodotti presso società qualificate (informazioni disponibili sul sito http://www.fenit.nl/index.shtml?ch=MIL&id=2827, ultimo accesso 22 giugno 2008). 7 Si tratta di un meccanismo analogo a quello dei permessi di inquinamento negoziabili, in base al quale tutti i soggetti inquinanti devono disporre di appositi permessi per poter rilasciare emissioni nocive nell’ambiente. Il numero massimo di permessi in circolazione dipende dalla quantità massima di inquinamento che le autorità decidono di poter tollerare. Una volta che i permessi sono stati assegnati, possono essere scambiati liberamente tra le imprese sul mercato. In questo modo, un’impresa virtuosa, che riesce a dimezzare le sue emissioni può vendere parte dei suoi permessi ad un’altra impresa che decide di espandere la sua attività produttiva e, di conseguenza, le sue emissioni. In equilibrio, ciascuna impresa ridurrà l’inquinamento fino al livello in corrispondenza del quale il costo marginale di riduzione dell’inquinamento è uguale al prezzo di mercato dei permessi (Tietenberg, 2006). 8 Si sta assumendo che il costo marginale di riciclaggio di ciascuna delle due imprese sia crescente all’aumentare della quota di riciclaggio richiesta. 9 E’ evidente che un sistema di crediti negoziabili di riciclaggio fornisce incentivi molto forti all’eco-progettazione: poiché i costi di riciclaggio dei prodotti sono sopportati direttamente da coloro che li producono, questi ultimi saranno incentivati ad apportare modifiche ai beni che consentano di ridurne i costi di smaltimento. Un esempio di funzionamento dei crediti negoziabili è costituito dal sistema inglese di gestione degli imballaggi, in cui le imprese che si occupano del trattamento degli scarti emettono delle “quote di recupero dei rifiuti da imballaggio” (packaging waste recovery notes – PRNs) che le imprese e le PRO possono scambiare reciprocamente per soddisfare i propri vincoli di riciclaggio9. Un altro strumento che rientra nell’ambito delle misure adottate per realizzare la EPR è costituito dalle “tasse anticipate per il riciclaggio” (Advance Recycling Fees – ARF), imposte sulle vendite utilizzate per finanziare i costi di riciclaggio, applicate per quantità/peso o per unità di prodotto10. Le imposte possono essere in aggiunta al prezzo di vendita e quindi chiaramente distinguibili dal consumatore, oppure possono essere applicate a monte, sui produttori, e incorporate successivamente nel prezzo al dettaglio. Talvolta, il gettito di queste imposte viene usato per finanziare sussidi al riciclaggio (per unità o per quantità di prodotto riciclato). Gli effetti di incentivo al DFE sono strettamente legati al modo in cui viene utilizzato il gettito dell’imposta. Lo stimolo all’eco-progettazione è praticamente inesistente nei casi in cui i proventi del prelievo sono utilizzati per finanziare, in modo generalizzato, i costi di gestione dei rifiuti o delle relative infrastrutture, mentre diventa rilevante se il gettito è impiegato per finanziare sussidi al riciclaggio (si veda il paragrafo successivo). Tutti i precedenti strumenti di policy rendono il produttore finanziariamente o fisicamente responsabile per l’impatto ambientale dei beni giunti al termine del loro ciclo di vita e rientrano, quindi, nella logica dei programmi EPR. Ovviamente, però, ogni strumento presenta costi diversi, un diverso effetto incentivante sui produttori ed un diverso impatto ambientale. L’analisi empirica del funzionamento e degli effetti di incentivo al DFE dei vari strumenti è ancora in una fase iniziale di sviluppo e, a parte alcuni casi di studio, sulla base della nostra conoscenza, non è ancora stata effettuata una valutazione completa e coerente dell’impatto dei molteplici meccanismi di EPR. Una prima, interessante analisi è quella realizzata in Walls (2006), in cui si definisce l’efficienza di uno strumento EPR, ovvero la sua efficacia rispetto al costo, sulla base della sua capacità di sfruttare tutte le diverse opportunità di riduzione dei rifiuti. La riduzione dell’utilizzo di materiali nei processi produttivi, la progettazione di beni più facilmente riciclabili, la diminuzione dei consumi e l’incentivo alle abitudini di riciclaggio dei consumatori sono tutti elementi che concorrono alla minimizzazione dei rifiuti. L’adozione di programmi che influenzano solo una delle precedenti opzioni comporta la perdita di significative opportunità nel perseguimento dell’obiettivo di riduzione dei rifiuti. In questa ottica, è possibile valutare i diversi strumenti di 9 Per una descrizione più dettagliata si rimanda a Portney (2006). Uno strumento analogo è costituito dalle “tasse anticipate per lo smaltimento” (Advance Disposal Fees – ADF), per cui i produttori pagano un certo ammontare per ogni unità o peso di prodotto venduto, al fine di coprire, in anticipo, i futuri costi di smaltimento dei beni stessi. 10 10 policy. Quanto più elevato è il numero di risposte positive nelle caselle della Tabella 1, tanto più lo strumento analizzato risulta efficace rispetto al costo11. In molti casi, la combinazione di due strumenti, come l’imposta anticipata (ARF) e il sussidio al riciclaggio, che incoraggiano congiuntamente la riduzione dell’uso delle risorse e il riciclaggio, risulta più efficace rispetto sia alla applicazione della sola imposta, che incentiva la diminuzione dell’uso delle materie prime, sia all’applicazione del solo sussidio, che stimola il riciclaggio, ma non la parsimonia nell’uso degli input (se non indirettamente). Un fattore rilevante che influenza l’efficienza degli strumenti di policy riguarda le modalità con cui sono determinati i valori di imposte e sussidi. Un sussidio al riciclaggio, per esempio, risulta più efficace se applicato “al margine”, per unità o peso di prodotto, rispetto alla fornitura lump-sum: nel primo caso, le aziende di riciclaggio ricevono compensi più elevati in proporzione alla quantità di materiale che riciclano, mentre nel secondo non sono stimolati ad accrescere le quote di riciclaggio. Anche nell’ipotesi di applicazioni “al margine”, inoltre, sembrano essere relativamente più efficaci gli strumenti commisurati al peso dei prodotti, rispetto a quelli applicati per unità di prodotto. Nel caso dell’imposta anticipata di riciclaggio, ad esempio, gli stimoli all’eco-progettazione, in termini di sostituzione di materiali, riduzione e alleggerimento dei beni, sono più forti se l’aliquota è determinata in base al peso del prodotto. La valutazione dell’efficacia degli obblighi di recupero dei prodotti (take-back mandates) è particolarmente difficile da realizzare a causa della diversità tra le regolamentazioni e l’effettiva implementazione dei programmi. Come già notato, nei casi in cui la raccolta e il riciclaggio dei materiali non sono effettuati direttamente dalle singole imprese, ma dalle organizzazioni formate dai produttori del settore (PRO), gli effetti incentivanti dei programmi dipendono dai modi di finanziamento e dall’effettivo funzionamento delle organizzazioni. Se i contributi alle PRO sono commisurati alle vendite dei prodotti (in base al loro peso) tendono ad agire come una imposta anticipata per il riciclaggio (ARF) e ad avere gli stessi effetti. Inoltre, richiedendo che una certa percentuale del materiale venga riciclato, gli obblighi di recupero agiscono da stimolo alle attività di riciclaggio. Tuttavia, imponendo degli standard, i produttori non hanno incentivi a superare le soglie prefissate, a differenza di quanto accade con i sussidi al riciclo, che hanno un impatto continuo sui volumi riciclati. E’ probabile, quindi, che i programmi di take-back siano meno efficaci, rispetto ad altri tipi di strumenti, nell’incentivare l’eco-progettazione e l’utilizzo di materiali facilmente riciclabili. Infine, variabili come i costi amministrativi di implementazione delle misure, i costi di smistamento dei beni dopo il consumo, la struttura dei mercati dei prodotti riciclati svolgono un ruolo importante nel determinare la maggiore o minore efficienza ed efficacia delle politiche EPR12. 11 La tabella qui riportata rappresenta una sintesi dei risultati di Walls (2006), in cui è presente una analisi molto più approfondita dell’impatto di meccanismi EPR e non EPR. 12 Un approfondimento sui costi di transazione nei mercati per i prodotti riciclati è effettuato nel contributo di D’Amato in questo volume. 11 Qui: Tabella 1 4. Le politiche EPR e il Design for Environment nella letteratura economica Come abbiamo notato, le possibilità che una politica EPR sia in grado effettivamente di incentivare i produttori a modificare il design dei propri beni al fine di ridurne i costi di trattamento e smaltimento sono strettamente legate al modo in cui la politica stessa è progettata. In particolare, l’efficacia degli incentivi è legata alla possibilità che i produttori, singolarmente, siano chiamati a sopportare un onere finanziario commisurato a quelle caratteristiche dei prodotti che ne influenzano i costi di gestione, in termini di tossicità o di difficoltà di riciclaggio, per esempio (Walls, 2006). In pratica, l’efficacia delle politiche può essere notevolmente ridotta da una serie di fattori (OECD, 2005). In primo luogo, il segnale fornito ai produttori potrebbe essere annullato dalla capacità di trasferimento dell’onere finanziario sul prezzo al consumo. Nel caso di beni a domanda particolarmente rigida, il trasferimento quasi completo ai consumatori dei costi di gestione dei rifiuti determinerebbe la completa inefficacia degli incentivi al ridisegno dei prodotti. In secondo luogo, per alcuni tipi di beni, le opportunità di ridisegno per renderli maggiormente eco-compatibili possono essere alquanto limitate. Nel caso dell’olio utilizzato nei motori dei veicoli, ad esempio, le possibilità di riduzione degli scarti sono più legate alle modifiche alla struttura e al funzionamento dei veicoli che non a cambiamenti nella composizione dell’olio stesso. In questi casi, i programmi di EPR hanno la funzione di assicurare una gestione appropriata dell’olio esausto, piuttosto che di incentivare una progettazione più attenta alle conseguenze ambientali. In generale, poi, i produttori tenderanno a confrontare i risparmi di costo nella gestione dei rifiuti, ottenibili attraverso l’eco-progettazione, con la possibile insoddisfazione dei consumatori dei beni per le modifiche introdotte. I cambiamenti di design saranno realizzati nella misura in cui sono in grado di produrre risparmi di costo senza ridurre in modo significativo il valore dei beni per i consumatori. Nel dibattito teorico sull’introduzione dei principi di EPR una delle questioni centrali è relativa ai diversi effetti di stimolo all’eco-progettazione esercitati da opzioni di policy alternative. In pratica, si tratta di valutare se il DFE sia maggiormente incentivato dall’uso di strumenti che incidono direttamente a monte, sul comportamento dei produttori, oppure da strumenti che colpiscono, a valle, i consumatori e influenzano le fasi di progettazione dei beni solo indirettamente. Un esempio rilevante di questo secondo tipo di strumenti è rappresentato dalle tariffe sui rifiuti (disposal fee), in base alle quali le famiglie sono chiamate a pagare un certo ammontare monetario per ogni determinata quantità di rifiuti. Alcuni autori ritengono, che, sotto certe ipotesi, l’applicazione di questo tipo di tariffe sia in grado di inviare segnali di prezzo corretti ai produttori, i quali sarebbero incentivati a modificare il disegno dei propri prodotti in una direzione maggiormente eco-compatibile. In questa direzione si muove, ad esempio, il lavoro di Fullerton e Wu (1998), che costituisce uno dei primi contributi all’analisi teorica degli incentivi al DFE. Nel loro modello di equilibrio generale, in cui sono considerate tutte le fasi del ciclo di vita di un 12 prodotto (dalla progettazione alla produzione, imballaggio, vendita, utilizzo e smaltimento) si assume l’assenza di incertezza, una ipotesi alquanto restrittiva che rende possibile l’applicazione di imposte e sussidi commisurati al costo marginale sociale connesso all’esternalità negativa derivante dallo smaltimento dei rifiuti. Nell’economia è presente un solo bene di consumo, q, caratterizzato da un certo grado di riciclabilità (ρ) e da un certo tasso di imballaggio (θ ). ρ può essere interpretato come la frazione di peso del prodotto che può essere riciclata al termine della sua vita utile, e θ come il peso dell’imballaggio che accompagna ogni unità di prodotto. Si assume che l’imballaggio non possa essere riciclato. Le imprese, che producono il loro output utilizzando risorse primarie (lavoro e capitale - kq) e materiali riciclati (r), scelgono anche la quantità di imballaggi e il grado di riciclabilità del loro prodotto. Le famiglie forniscono le risorse primarie e generano un ammontare di rifiuti e di riciclaggio che dipende dalle scelte di packaging e di riciclabilità delle imprese. I rifiuti solidi prodotti possono essere smaltiti sotto forma di raccolta indifferenziata di immondizia (g) oppure sotto forma di riciclaggio (r). La produzione di g dipende dalla tecnologia delle famiglia, secondo la funzione: (1) g = g ( q, ρ ,θ ) per cui i volumi di rifiuti dipendono positivamente dalla quantità di prodotto consumato e dalla quantità di imballaggi, e negativamente dal grado di riciclabilità del bene. Il riciclaggio, invece, cresce con la quantità di prodotto e con il grado di riciclabilità: (2) r = r ( q, ρ ) L’utilità della famiglia dipende dalla quantità del bene q acquistato sul mercato e dalla quantità di un altro bene, h, auto-prodotto, ma è influenzata anche dall’esistenza di una esternalità negativa generata dall’ammontare complessivo di rifiuti non riciclati generati nell’economia: (3) u = u ( q, h, G ) dove G = ng rappresenta i rifiuti totali prodotti dalle n famiglie. Questa formulazione implica che l’utilità delle famiglie non sia influenzata direttamente dal riciclaggio e dalla quantità di imballaggi, ma indirettamente, attraverso i fattori che modificano la produzione di g. Affinché tutti i mercati siano in equilibrio, l’ammontare di beni riciclati dalle famiglie deve essere uguale alla quantità di materiali riciclati riutilizzati dalle imprese, mentre la quantità di rifiuti non riciclati deve essere uguale all’offerta di servizi di smaltimento delle imprese che si occupano della raccolta. Sulla base di queste ipotesi, gli autori individuano una serie di possibili fallimenti del mercato, a fronte dei quali vengono proposti diversi strumenti correttivi. In un primo caso, si assume che le imprese incaricate della raccolta possano imporre un prezzo, per unità di rifiuti, che riflette il costo privato dello smaltimento, ma non l’esternalità negativa (in termini di problemi sanitari, odori sgradevoli e rumore associati al deposito in discariche o all’incenerimento dei rifiuti). 13 In un secondo caso, si ipotizza che l’applicazione di un prezzo (imposta) per unità di spazzatura non sia possibile, a causa di difficoltà amministrative e costi di adeguamento, o dell’emergere di comportamenti scorretti, come il diffondersi delle discariche abusive. In tale situazione, la raccolta gratuita dei rifiuti permette di evitare i costi amministrativi e gli smaltimenti illegali, ma non fornisce incentivi alle famiglie per ridurre la quantità di scarti; indirettamente, le imprese non sono stimolate a produrre beni più facilmente riciclabili e con meno imballaggi. In sintesi, quindi, nei casi in cui i fallimenti del mercato possono essere corretti da tariffe appropriate che permettono di internalizzare l’intero costo sociale dell’esternalità, il comportamento dei consumatori può indurre le imprese ad adottare pratiche di eco-progettazione, riducendo il volume degli imballaggi e disegnando prodotti più facilmente riciclabili. Se, al contrario, l’emergere di pratiche illegali per evitare il pagamento delle tariffe o il funzionamento non efficiente dei mercati per il riciclaggio non consentono l’applicazione di meccanismi che colpiscano a valle lo smaltimento dei rifiuti, il benessere sociale può essere accresciuto realizzando politiche direttamente rivolte alle imprese. Tra queste, una politica di take-back può fornire i giusti incentivi all’impresa perché progetti prodotti più facilmente riciclabili, ma solo se opportunamente integrata con un sistema di tariffazione a carico dei consumatori. La necessità di stimolare l’adozione di un approccio “integrato” di policy, che preveda l’utilizzo congiunto di diversi strumenti, è sottolineata anche da altri contributi. Walls e Palmer (2001), ad esempio, evidenziano come l’applicazione di un solo strumento non sia in grado di determinare un’allocazione socialmente efficiente nei casi in cui le esternalità negative dei processi produttivi non riguardino solo lo smaltimento dei prodotti nella fase successiva al consumo, ma anche la produzione di scarti della lavorazione e l’inquinamento di aria e acqua. In questo contesto, l’equilibrio di first-best può essere raggiunto sia attraverso l’applicazione congiunta di imposte pigouviane sulle emissioni, imposte sull’output e sussidi al riciclaggio, sia, nei casi in cui la logica à la Pigou non sia applicabile, attraverso l’uso di meccanismi alternativi, compresa la combinazione di standard regolamentativi e imposte anticipate di smaltimento (ADF). Altri lavori evidenziano come la capacità delle tariffe sui rifiuti di stimolare un livello efficiente di DFE dipenda strettamente dalle ipotesi relative al funzionamento dei mercati di riciclaggio (Calcott e Walls, 2000). In altri termini, gli incentivi al DFE si realizzerebbero solamente nei casi in cui tali mercati siano perfettamente funzionanti, ovvero quando le imprese che si occupano del riciclaggio pagano alle famiglie un prezzo per i rifiuti commisurato al grado di riciclabilità dei beni stessi. Sotto questa ipotesi, sia un meccanismo downstream di tariffazione dei rifiuti sia un meccanismo di tipo EPR, costituito dall’applicazione di un’imposta/sussidio sui produttori (UCTS)13 possono portare ad un equilibrio efficiente di smaltimento dei rifiuti, riciclaggio e DFE. L’ipotesi di perfetto funzionamento dei mercati del riciclaggio è, tuttavia, alquanto irrealistica. L’esistenza di informazione incompleta e di elevati costi di transazione nei processi di raccolta dei rifiuti riciclabili e di pagamento in base alle opportunità di riciclo dei beni riduce notevolmente 13 Si tratta di un meccanismo analogo ai depositi rifondibili, ma in questo caso l’imposta (deposito) si applica sui produttori di beni intermedi (come lingotti di alluminio o rotoli di carta) mentre il sussidio è garantito alle imprese che raccolgono i beni usati (lattine, vecchi giornali…) e li rivendono alle imprese di riciclaggio (Palmer et al., 1997). 14 l’efficienza dei meccanismi di tariffazione a valle, rendendo impossibile il raggiungimento dell’ottimo sociale (si veda, a questo proposito, il contributo di D’Amato in questo stesso volume). In un contesto più realistico, in cui le famiglie non sono pagate per i rifiuti che riciclano e quindi attribuiscono lo stesso valore a tutti i rifiuti, indipendentemente dalla loro facilità di riciclo, l’imposta sui rifiuti non è in grado di fornire segnali corretti ai produttori perché siano stimolati a produrre beni più facilmente riciclabili. In questo caso, l’ottimo sociale di first-best non è più raggiungibile, a causa dell’esistenza dei costi di transazione, mentre è possibile pervenire ad un ottimo vincolato, di second-best, attraverso l’applicazione di un programma UCTS e di una tariffa di smaltimento, di importo minore rispetto al costo marginale sociale di smaltimento dei rifiuti (corrispondente all’aliquota dell’imposta pigouviana). In Calcott e Walls (2005) viene esplicitata l’ipotesi di un imperfetto funzionamento dei mercati del riciclaggio a causa dell’esistenza di costi di transazione. Sotto questa ipotesi, lo scambio sul mercato dei prodotti riciclabili è un’operazione costosa, poiché richiede alle imprese che si occupano del riciclaggio di determinare il valore dei beni riciclabili e di pagare un prezzo commisurato a tale valore. Rispetto ai modelli precedenti, quindi, per la prima volta, vengono prese in considerazione anche le scelte strategiche delle imprese di riciclaggio nella determinazione delle condizioni di equilibrio e degli incentivi al DFE. In estrema sintesi, nel framework di Calcott e Walls (2005) sono rappresentate tre categorie di attori: i produttori, i consumatori e le imprese di riciclaggio. I produttori possono rendere i propri beni più riciclabili, sostenendo un certo costo. Tanto più i prodotti sono riciclabili, tanto meno costosa è l’operazione di riciclaggio. Le imprese di riciclaggio sono quindi disposte a pagare ai consumatori un prezzo più alto per i prodotti maggiormente riciclabili. I consumatori, d’altra parte, possono decidere di gettare tutti i propri rifiuti (riciclabili e non) nei contenitori per l’immondizia indifferenziata, oppure possono portare i materiali riciclabili nei centri di riciclaggio, ottenendo in cambio un pagamento, proporzionale al grado di riciclabilità del prodotto stesso. Il trasporto dei rifiuti fino ai centri, tuttavia, comporta dei costi di transazione e i consumatori confrontano questi costi addizionali con la possibilità, a costo zero, di smaltire i rifiuti in discarica. In questo quadro, l’eco-progettazione può entrare nella fase iniziale del processo produttivo, manifestando i suoi effetti lungo tutto il ciclo di vita dei prodotti. Nel modello di Calcott e Walls (2005) l’equilibrio dell’economia è il risultato di tre problemi di massimizzazione. In primo luogo, i consumatori massimizzano la loro utilità soggetta al rispetto del vincolo di bilancio. Le preferenze dei consumatori non sono influenzate dalle caratteristiche dei beni di consumo, che si differenziano tra loro sulla base del loro grado di riciclabilità. In pratica, quindi, i consumatori non hanno una preferenza per i beni maggiormente riciclabili. Tuttavia, il loro vincolo di bilancio è influenzato dal pagamento che può derivare dalle imprese di riciclaggio, in funzione del grado di riciclabilità dei rifiuti consegnati. Al contrario, il volume aggregato dei rifiuti influenza negativamente l’utilità dei consumatori, ossia i rifiuti generano una esternalità negativa. 15 In secondo luogo, i produttori, eterogenei, massimizzano i propri profitti, scegliendo quanto output produrre e il relativo grado di riciclabilità. Per accrescere la facilità di riciclo dei prodotti, le imprese produttrici devono sostenere dei costi aggiuntivi, da confrontare con i ricavi addizionali che possono ottenere vendendo i prodotti più riciclabili ad un prezzo maggiore. Infatti, poiché sono meno costosi da riciclare, questi prodotti consumati, una volta consegnati ai centri deputati, riceveranno un compenso più alto, il quale, a sua volta, renderà i consumatori più disponibili a pagare un prezzo più alto al momento dell’acquisto. Infine, le imprese di riciclaggio raccolgono i prodotti alla fine dell’attività di consumo, li sottopongono a nuovi processi di lavorazione e li rivendono ai produttori, che li impiegano come input di produzione. Una parte dei rifiuti riciclabili è ottenuta tramite la raccolta diretta, mentre un’altra parte è il risultato della consegna da parte dei consumatori, che ricevono in cambio il pagamento commisurato al grado di riciclabilità. Esisterà un livello di facilità di riciclo, al di sopra del quale le imprese sceglieranno di non accettare i prodotti, perché troppo costosi da processare. Poiché il grado di riciclabilità dei prodotti non può essere osservato perfettamente, non è possibile per le autorità di governo stabilire aliquote di imposta e sussidi esattamente commisurati a tale livello; l’ottimo sociale a cui si perviene sarà pertanto un ottimo di second best. Calcott e Walls (2005) dimostrano che la combinazione di un sistema di depositi rifondibili (UCTS)14 e di una modesta imposta sullo smaltimento (inferiore al livello socialmente efficiente) consente di raggiungere un risultato di ottimo vincolato15. Ai fini del nostro ragionamento, tuttavia, è importante rilevare come, in un contesto più realistico, caratterizzato dalla presenza di imperfezioni nel funzionamento del mercato dei prodotti riciclati, l’utilizzo di politiche che spostano sui produttori gli oneri finanziari della gestione dei rifiuti può stimolare l’introduzione di modifiche alla progettazione dei prodotti, per renderli maggiormente e più facilmente riciclabili. L’impatto delle politiche di EPR sul DFE, però, dipende strettamente dall’esistenza dei mercati per i prodotti riciclati, seppure funzionanti in modo imperfetto. Sono i prezzi pagati su questi mercati, infatti, a stimolare l’aumento del grado di riciclabilità dei prodotti, attraverso il meccanismo virtuoso che si innesca nelle interazioni tra tutti i soggetti coinvolti. 5. L’eco-progettazione tra regolamentazione e iniziative volontarie Come si è già rilevato, le modalità di incentivazione allo sviluppo dell’eco-progettazione nei processi produttivi delle imprese sono profondamente diverse a seconda dei contesti nazionali considerati. Sulla base della letteratura empirica disponibile, è possibile distinguere tra un approccio basato sul concetto di responsabilità estesa del produttore, in cui sono le iniziative di policy dei governi a stimolare l’introduzione di innovazioni nel disegno e nella realizzazione dei prodotti, e un approccio maggiormente basato sulle iniziative volontarie di imprese, che adottano individualmente 14 Ovvero, l’uso combinato di un’imposta sui produttori e di un sussidio al riciclaggio. Per il ruolo svolto dal funzionamento del mercato per i prodotti riciclati nel raggiungimento delle condizioni di ottimo si veda anche il contributo di D’Amato in questo volume. 15 16 il DFE per accrescere la propria competitività, migliorando la propria immagine presso i consumatori e penetrando in mercati caratterizzati da regolamentazioni ambientali stringenti. Con un certo grado di approssimazione, possiamo ritenere che il primo approccio caratterizzi l’impostazione europea ed il secondo l’impostazione statunitense al DFE. In Europa, i principi di EPR hanno ispirato numerose iniziative rilevanti negli ultimi due decenni, a partire dal programma tedesco “Duales System Deutschland (DSD)”, realizzato dall’industria degli imballaggi in risposta all’Ordinanza sul packaging del 1991 (German Packaging Ordinance). Questa ordinanza richiede ai produttori e ai distributori di ritirare gli imballaggi associati ai prodotti realizzati/venduti. Le “parti” incaricate degli obblighi di take-back sono numerose, dai produttori di imballaggi, ai produttori di materiali utilizzati negli imballaggi, alle imprese di assemblaggio di questi materiali, alle imprese che producono i beni che usufruiscono degli imballaggi, e così via, fino ai distributori dei beni. Per fare fronte a questi obblighi, il settore industriale coinvolto ha dato vita al sistema “Green Dot”, un logo che viene concesso da una impresa non profit, la Duales System Deutschland (DSD), alle imprese partecipanti. La DSD si occupa di tutte le operazioni di raccolta, trasporto e riciclaggio degli imballaggi contrassegnati dal logo. I contributi di partecipazione alla società, solitamente finanziati dalle imprese che producono i beni contenuti negli imballaggi, variano in funzione dei materiali utilizzati e delle vendite realizzate. La maggior parte delle valutazioni effettuate dagli esperti è concorde nel rilevare una riduzione molto significativa della quantità di imballaggi (e di rifiuti da imballaggio) registrata dopo l’approvazione della legge. Ancora più significativo per la nostra analisi è l’impatto positivo, evidenziato da numerosi studi, sullo sviluppo dell’eco-progettazione: il pagamento di contributi commisurati al tipo di materiale, ad esempio, ha indotto processi di sostituzione dei materiali più difficilmente riciclabili (come le plastiche), a favore di materiali meno costosi da riutilizzare, come il vetro (Palmer e Walls, 2002). A partire da questa e da altre iniziative pionieristiche, la responsabilità estesa è stata applicata ad un’ampia gamma di rifiuti solidi urbani, rifiuti speciali e pericolosi, come vernici, batterie, prodotti elettronici, cellulari, pneumatici, oli esausti delle auto, elettrodomestici e autoveicoli. L’attenzione per la progettazione ambientale dei prodotti è divenuta una priorità anche a livello di Unione Europea, e gli incentivi all’eco-progettazione sono al centro di alcune direttive della Commissione Europea per gli Stati Membri. Tra queste, la direttiva 2002/96/CE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche16 (WEEE - Waste Electric and Electronic Equipment) contiene misure volte a prevenire la produzione di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e a favorire il loro riutilizzo e riciclaggio. La direttiva, che applica il principio della EPR, introduce innovazioni che possono avere una rilevante funzione di stimolo al DFE, come la raccolta separata delle apparecchiature e il finanziamento della gestione dei rifiuti a carico dei produttori, il loro trattamento obbligatorio presso appositi centri specializzati, e l’aumento nel 16 La Direttiva sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche e la Direttiva sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Direttiva RoHS) sono state recepite in Italia con il decreto legislativo n. 151/2005. 17 tempo dei tassi di take-back dei prodotti. Per la prima volta, inoltre, la Commissione Europea suggerisce agli Stati Membri di incoraggiare la progettazione e la produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche che tengano in considerazione le loro possibilità di riutilizzo e di riciclo. In questa direzione va anche un’altra direttiva comunitaria, 2005/32/CE (EUP - Energy Using Products), una direttiva quadro che lascia a direttive specifiche della Commissione il compito di stabilire criteri per la progettazione eco-compatibile di singole categorie di prodotti che consumano energia. Anche questa iniziativa evidenzia l’importanza attribuita dalle istituzioni comunitarie alla necessità di favorire l’integrazione degli aspetti e delle problematiche ambientali nelle fasi di progettazione dei prodotti17. Se in Europa gli incentivi all’eco-progettazione sono forniti principalmente dalle autorità di governo, attraverso gli appositi programmi di policy e le relative sanzioni per gli inadempienti, negli Stati Uniti sono le imprese a decidere volontariamente di realizzare innovazioni al disegno dei loro prodotti per renderli maggiormente eco-compatibili. Numerose imprese, agendo individualmente o collettivamente, hanno intrapreso una serie di iniziative per favorire il riciclaggio dei prodotti e il DFE. Queste iniziative sono fondamentalmente di tre tipi: programmi realizzati a livello della singola impresa, programmi gestiti a livello di settore industriale, programmi che prevedono la partecipazione di molteplici attori, accanto alle imprese, come le autorità di governo e i gruppi ambientalisti. Un esempio di iniziativa che rientra nella prima categoria è rappresentato dal programma di riciclaggio delle scarpe sportive avviato dalla Nike nel 1993 (Nike’s Reuse-a-Shoe Program), all’interno del quale l’azienda propone di ritirare le scarpe sportive usate o non vendute per difetti di fabbricazione. Le scarpe subiscono un nuovo processo di lavorazione, che consente di ottenere un materiale, noto come Nike Grind, utilizzato per produrre superfici sportive per i campi da tennis e da basket, piste da corsa, campi di calcio, pavimentazioni per palestre e parchi giochi. La società fornisce il materiale ai produttori di superfici, che pagano una licenza per poter utilizzare il logo Nike sui loro prodotti. Dal momento del lancio dell’iniziativa, più di ventuno milioni di scarpe da ginnastica sono state riciclate, contribuendo a realizzare più di 265 superfici sportive18. E’ difficile valutare l’efficacia del programma in termini di incentivi al DFE. La Nike sostiene che l’iniziativa ha stimolato l’introduzione di modifiche al disegno dei prodotti, per renderli maggiormente riciclabili, ma soprattutto per ridurre l’impiego di sostanze tossiche, a partire dall’eliminazione dei cloruri di polivinile (PVC) (Palmer e Walls, 2002). Anche la compagnia di arredi per uffici Herman Miller ha introdotto autonomamente modifiche rilevanti al disegno dei propri prodotti per migliorarne l’impatto ambientale. In particolare, la sedia denominata “Mirra” è stata il primo prodotto realizzato tenendo conto degli aspetti ambientali fin 17 La Direttiva WEEE e la Direttiva sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche sono state recepite in Italia con il Decreto Legislativo n. 151/2005, mentre la Direttiva 2005/32/CE è stata recepita dal Decreto Legislativo n. 201/2007. 18 I dati sono tratti dalla pagina web della Nike: http://www.nikebiz.com/responsibility/community_programs/reuse_a_shoe.html (ultimo accesso 8 giugno 2008). 18 dalla fase di ideazione. Come notano Rossi et al. (2006), nel corso dello sviluppo della sedia, le attività di eco-progettazione hanno dato luogo a molteplici cambiamenti nella struttura del prodotto, prevedendo l’utilizzo di materiali innovativi, accrescendo il grado di riciclabilità e la facilità di disassemblaggio dei componenti e eliminando la presenza materiali nocivi per la salute umana (come il PVC). Grazie alle sue caratteristiche di maggiore eco-compatibilità ambientale, la sedia ha ottenuto un grande successo di mercato e numerosi riconoscimenti internazionali19. In altri casi, le imprese, anziché agire individualmente, si accordano per avviare programmi volontari collettivi, come nel caso della Rechargeable Battery Recycling Corporation (RBRC), istituita nel 1994, che riunisce i produttori di batterie ricaricabili e i produttori i cui beni utilizzano tali batterie. La mancanza di dati sulla quantità di riciclaggio realizzato rende difficile effettuare valutazioni sul successo o meno del programma, sebbene sia diffusa la convinzione che l’iniziativa abbia in parte disatteso le aspettative. Ancora più difficile è valutare gli incentivi al DFE, in questo caso soprattutto per la difficoltà di introdurre innovazioni per questo tipo di prodotto. Infine, alcuni programmi prevedono la partecipazione di numerosi attori, anche istituzionali, accanto alle imprese del settore. Un esempio di questo tipo di iniziative è rappresentato dal Minnesota Electronics Recycling Iniziative, che riuniva società come la Sony e la Panasonic, il Waste Management’s Asset Recovery Group e l’American Plastics Council. L’obiettivo del programma era di organizzare occasioni di raccolta di tutti i tipi di prodotti elettrici ed elettronici non più utilizzati. Tuttavia, gli alti costi del programma e i bassi tassi di partecipazione ne hanno scoraggiato la continuazione. Il grado di efficienza con cui queste iniziative volontarie riescono effettivamente ad internalizzare le esternalità ambientali connesse allo smaltimento dei prodotti e ad incentivare il DFE dipende, ovviamente, anche dalla natura dei programmi. Nel caso delle iniziative condotte al livello della singola impresa, appare difficile che il grado ottimale di DFE possa essere raggiunto, dal momento che l’impresa sopporta l’intero costo dell’eco-progettazione, ma non riesce a godere di tutti i benefici. In particolare, l’impatto positivo sull’ambiente non viene in alcun modo remunerato all’impresa. Anche i programmi realizzati a livello di industria devono fronteggiare problemi simili. In particolare, sia le imprese che partecipano agli accordi volontari, sia quelle che non vi partecipano possono avere incentivi ad assumere comportamenti da free-rider, beneficiando dei risultati del programma senza sostenerne i costi. Anche in questo caso, il livello di eco-progettazione raggiunto risulterebbe subottimale. Gli accordi che prevedono la partecipazione di molti attori, inclusi i rappresentanti dei governi, invece, possono avere maggiori potenzialità di raggiungimento di livelli ottimali di ecoprogettazione, dovendo tenere conto dei costi sociali dello smaltimento dei prodotti. Tuttavia, anche 19 Le caratteristiche environment friendly dei prodotti Herman Miller sono evidenziati anche sul sito internet dell’azienda: http://www.hermanmiller.com. 19 in questi casi, non essendo legalmente vincolanti, i partecipanti possono avere incentivi ad adottare strategie che consentono il raggiungimento di situazioni di ottimo individuale, ma che producono un allontanamento dall’ottimo sociale. 6. Le eco-industrie In base alla definizione suggerita dall’OECD e da Eurostat, le eco-industrie sono attività economiche che producono beni e servizi per misurare, impedire, limitare, minimizzare o correggere danni ambientali all’acqua, all’aria e al suolo, così come problemi legati ai rifiuti, all’inquinamento acustico e agli ecosistemi. Ciò include tecnologie, prodotti e servizi che riducono il rischio ambientale e minimizzano l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse (OECD, 1999). I settori possono essere distinti sostanzialmente in due categorie: management dell’inquinamento e management delle risorse. La prima categoria comprende nove settori di ecoindustrie che trattano flussi di materiali che partono da processi gestiti da uomini (le tecnosfere) fino a tornare in natura, generalmente utilizzando tecnologie “end of pipe”. Inoltre comprendono tecnologie e prodotti di pulitura, che vengono denominati “equipment”. Alcuni esempi includono: gestione e riciclaggio dei rifiuti solidi; trattamento delle acque di scarico; controllo dell’inquinamento dell’aria; pubbliche amministrazioni; società private per la gestione dell’ambiente; recupero e pulitura del suolo e delle acque; controllo delle vibrazioni e dei rumori; ricerca e sviluppo per l’ambiente; strumentazione e controllo ambientale. Nella categoria management delle risorse sono compresi cinque settori di eco-industrie che presentano un approccio più di prevenzione nella gestione dei flussi di materiali dalla natura alle tecnosfere. Essi includono: fornitura di acqua; materiali riciclati; produzione di energie rinnovabili; protezione della natura; eco-costruzione. Le eco-industrie nascono principalmente con i mercati tradizionali, relativi alla domanda di beni essenziali quali l’acqua piuttosto che la raccolta di rifiuti. Vi sono inoltre mercati basati su esigenze ed opportunità specifiche nazionali come ad esempio l’inceneritore per il trattamento dei gas in Germania. Recentemente, le eco-industrie si sono sviluppate anche in seguito alla necessità di adattarsi alle nuove leggi ambientali. Per tali imprese, la crescita è stata determinata principalmente da requisiti legali, seguendo cicli di sviluppo che dipendono dal tempo richiesto per adeguarsi ai nuovi standard 20 e target. Questo include l’adeguamento agli obiettivi comunitari ed altri requisiti legali nazionali come target relativi alla qualità dell’acqua e quelli relativi allo sfruttamento di fonti di energia rinnovabili. Generalmente, le industrie eco-sostenibili presentano varie forme e dimensioni. Esse possono presentarsi sottoforma di gruppi multi-utilities internazionali, imprese industriali statali, pubbliche amministrazioni, gruppi di R&S, piccole e medie imprese, aziende di nicchia specializzate in un segmento del mercato e perfino consulenti privati. La domanda di prodotti e servizi provenienti dalle eco-industrie deriva sia dal settore privato che da quello pubblico. Le compagnie che operano nel mercato delle eco-industrie hanno spesso origine da compagnie operanti nel settore manifatturiero. In mercati maturi, tali imprese tendono ad essere sussidiate da grandi corporation, soprattutto nei settori relativi alla gestione dei rifiuti, all’offerta di acqua, al trattamento delle acque di scarico ed al controllo dell’inquinamento dell’acqua. Le attività quali eco-costruzione o il controllo dei rumori e delle vibrazioni tendono a svilupparsi in piccole imprese, alcune delle quali vengono poi integrate in aziende più grandi. Diventa dunque difficile stimare il turnover generato specificatamente da tali attività. Molte di queste imprese espandono la loro attività anche al di fuori dei loro confini, operando sia a livello europeo che globale e diventando leader mondiali, ad esempio, nella gestione dei rifiuti, nella fornitura di acqua, nel trattamento delle acque di scarico e nella produzione di turbine per lo sfruttamento del vento. Di piccole e medie dimensioni sono invece le imprese specializzate che operano nei mercati il cui sviluppo è legato principalmente ad incentivi legali, come, ad esempio, il monitoraggio ambientale. L’entrata in Europa dei nuovi stati membri e la loro negoziazione delle acquis communautaire, ha favorito la crescita e lo sviluppo per le eco-industrie. Nei mercati maturi dei paesi EU-15 vi è poca possibilità di crescita e di nuove opportunità, al contrario nei nuovi stati membri l’implementazione di nuove capacità, spesso finanziate con fondi comunitari, consente lo sviluppo delle seguenti aree: trattamento dei fumi degli inceneritori, strutture per il trattamento dei rifiuti, sviluppo e rinnovamento della fornitura di acqua, implementazione delle direttive sulla qualità dell’aria, eco-costruzione e sostituzione di strutture non eco-efficienti ed energia rinnovabile. In alcuni settori c’è un trend verso la crescita dell’offerta di servizi, dovuto alla forte competizione nelle attività manifatturiere e alla maggiore profittabilità nel settore dei servizi. L’incremento della domanda di servizi può essere spiegato anche dal crescente bisogno di soluzioni integrate e dal sempre più diffuso ricorso a gestione e controllo ambientale in outsourcing. In Europa le eco-industrie si sono sviluppate maggiormente nel periodo 1994-1999, soprattutto in Grecia, Portogallo e Spagna, in risposta all’implementazione delle politiche comunitarie. Se si considerano i singoli settori, si evidenzia un forte legame tra la dimensione delle eco-industrie e la percentuale di investimenti sostenuti in seguito alle politiche comunitarie intraprese negli anni precedenti. Da ciò si deduce che la politica comunitaria sia un fattore cruciale per la crescita e lo sviluppo delle eco-industrie. 21 7. Considerazioni conclusive L’eco-progettazione rappresenta una opportunità importante a disposizione delle imprese per ridurre l’impatto ambientale causato dai loro beni. Nonostante i potenziali benefici ambientali, l’accoglimento delle strategie di eco-progettazione nei processi produttivi delle imprese è ancora in una fase molto preliminare. Le possibilità di diffusione sono strettamente legate alle modalità di intervento che i governi decideranno di adottare: si tratta di scegliere tra un approccio basato sulle regolamentazioni e uno basato sulle iniziative volontarie delle imprese. L’efficacia degli stimoli forniti dalle due impostazioni allo sviluppo del DFE dipende da una molteplicità di elementi, identificati da una letteratura recente e sintetizzati in questo lavoro. L’approccio volontario è ovviamente sollecitato dalle imprese, che in alcuni contesti, come quello statunitense, hanno opposto una forte resistenza all’introduzione di regolamentazioni basate sui principi di EPR, ritenendole un vincolo eccessivamente pressante e poco efficace. Proprio l’esperienza statunitense evidenzia, tuttavia, come l’iniziativa volontaria sia insufficiente a stimolare il diffondersi del DFE, se non accompagnata da adeguati provvedimenti di regolamentazione. L’eco-progettazione è una attività costosa per l’impresa, poiché richiede l’attuazione di investimenti addizionali, rispetto a quelli previsti per il normale ciclo produttivo; di conseguenza, sarà realizzata solamente se l’impresa si attende in cambio dei guadagni addizionali. I vantaggi derivanti dall’adozione di una progettazione maggiormente eco-compatibile possono essere di vari tipi. La produzione di beni a minor impatto ambientale può accrescere, ad esempio, le quote di mercato dell’impresa, che può attrarre gli acquisti dei consumatori più sensibili alle problematiche ambientali, o, in alternativa, può applicare prezzi più alti sfruttando la maggiore disponibilità a pagare per i prodotti ecologici. Un’altra fonte di potenziali guadagni è rappresentata dalla riduzione dei costi delle materie prime, nei casi in cui il DFE consenta all’impresa di realizzare risparmi nelle quantità di materiali e energia impiegati. Le attività volontarie di eco-progettazione possono poi consentire alle imprese di “anticipare” l’azione dei governi, potendo così godere di una maggiore flessibilità nell’adeguamento agli standard prefissati, ed inoltre possono facilitare l’ingresso in mercati di altri paesi già sottoposti a regolamentazioni ambientali stringenti. L’opportunità di sfruttare questi ed altri vantaggi può spingere le imprese ad introdurre il DFE. Tuttavia, occorre tenere presente che una quota rilevante dei benefici dell’eco-progettazione non può essere goduta dall’impresa che la realizza. In particolare, non sono remunerate all’impresa le esternalità positive derivanti dal DFE in termini di riduzione dei volumi di rifiuti destinati allo smaltimento in discarica o all’incenerimento, di minor sfruttamento delle risorse naturali e di diminuzione dell’uso di sostanze tossiche e inquinanti. Come suggerisce la teoria economica in tema di esternalità, poiché non sono adeguatamente compensate per i benefici esterni prodotti, le imprese avranno pochi incentivi ad effettuare investimenti in eco-progettazione, con la conseguenza che il livello di investimento risulterà inferiore a quello efficiente dal punto di vista sociale. 22 Inoltre, proprio perché per l’impresa il DFE è un’attività costosa e dagli esiti incerti, la sua realizzazione sarà sensibile agli andamenti finanziari dell’impresa stessa, oltre che alle mode e ai cambiamenti di preferenze dei consumatori. Per tutti questi motivi, è auspicabile che le scelte di introduzione dell’eco-progettazione non siano affidate solo alla iniziativa imprenditoriale, ma siano incentivate e sostenute da adeguati interventi governativi. In questo caso, appare sconsigliabile l’opzione di stimolare l’eco-progettazione attraverso l’applicazione di strumenti basati sulla regolamentazione diretta (del tipo command and control). La specificazione di standard uniformi per tutte le imprese costituisce, infatti, una modalità poco efficiente di perseguimento degli obiettivi ambientali, per quanto possa essere efficace nel vincolare le imprese ad incrementare il grado di riciclabilità dei prodotti o a evitare l’impiego di materiali tossici. Come accade per gli standard di inquinamento, anche per l’eco-progettazione e la riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti si può presumere che imprese diverse debbano sostenere costi diversi per raggiungere i target prefissati. A parità di obiettivo, il costo economico totale della regolamentazione risulta, quindi, più alto, rispetto all’applicazione di strumenti commisurati ai costi marginali delle imprese. Inoltre, le politiche del tipo command and control, una volta raggiunto lo standard stabilito, non forniscono alle imprese incentivi a migliorare ulteriormente il disegno e la realizzazione dei prodotti, anche quando i costi necessari per farlo sarebbero minimi. E’ invece preferibile l’adozione di meccanismi basati sul mercato (incentive-based), che influenzano gli incentivi delle imprese a prendere decisioni compatibili con le scelte di protezione ambientale. In altri termini, anche quando il mercato da solo non è in grado di realizzare un’allocazione efficiente delle risorse, per la presenza, ad esempio, di effetti esterni, l’utilizzo di strumenti simili al mercato può indurre le imprese ad adottare comportamenti efficienti. Strumenti come le imposte, i depositi rifondibili, i sussidi al riciclaggio e i crediti negoziabili di riciclaggio rientrano in questa categoria di intervento pubblico. Anche scegliendo questa seconda impostazione di policy, non è possibile, e nemmeno raccomandabile, individuare un unico strumento valido in assoluto e per tutti i contesti. Al contrario, ci sembra di poter affermare che l’efficacia di stimolo al DFE dei vari meccanismi di intervento pubblico dipenda anche dalle tipologie dei prodotti e dalle caratteristiche dei processi produttivi. Per alcuni settori produttivi, infatti, può essere relativamente poco costoso introdurre modifiche al disegno dei beni e sostituzioni nei materiali impiegati per rendere i prodotti finali maggiormente eco-compatibili. In tali situazioni, l’applicazione di imposte o di schemi di depositi rifondibili può essere sufficiente a svolgere una efficace funzione di stimolo all’eco-progettazione. Per altre tipologie di prodotti, invece, la realizzazione di cambiamenti nella struttura produttiva, nell’uso delle materie prime o nelle caratteristiche dei beni stessi possono comportare investimenti e costi molto elevati. In questi casi è opportuno che l’intervento dello Stato preveda l’impiego di strumenti più complessi, in grado di lasciare alle imprese maggiore flessibilità e autonomia nella scelta delle modalità di adeguamento alla normativa. 23 In questo senso, una particolare attenzione dovrebbe essere prestata ai cosiddetti crediti negoziabili di riciclaggio, che permettono di soddisfare gli obiettivi di riciclaggio al costo più basso per le imprese. Tale sistema ha, infatti, il vantaggio di consentire alle imprese una elevata flessibilità, potendo scegliere se soddisfare i requisiti individualmente, attraverso la partecipazione a organizzazioni collettive di riciclaggio, oppure acquistando la possibilità di riciclare meno di quanto prescritto, sfruttando i crediti generati da altre imprese più virtuose. Poiché la vendita dei crediti fornisce un ricavo alle imprese, alcune di esse saranno stimolate a rendere i propri prodotti più facilmente riciclabili, ridefinendone le caratteristiche nelle fasi iniziali di progettazione. In questo caso, l’eco-progettazione è il frutto delle decisioni di massimizzazione del profitto delle imprese e non dell’applicazione rigida di standard regolativi uguali per tutte. Al contrario, le imprese che presentano vincoli maggiori all’introduzione di soluzioni eco-compatibili, e che quindi dovrebbero sopportare costi più elevati per perseguire i target di riciclabilità, possono essere disposte ad acquistare crediti dalle imprese più virtuose. Il sistema consente dunque di soddisfare gli obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale e di stimolo al DFE al costo più basso per le imprese. La flessibilità offerta da questo meccanismo è particolarmente rilevante in un contesto come quello italiano, caratterizzato dalla forte presenza di imprese di piccole e medie dimensioni, spesso impossibilitate a sostenere costi elevati di ricerca e progettazione. Essendo basato sul meccanismo dei prezzi, il sistema dei crediti negoziabili può essere visto come una sorta di strumento “intermedio” tra i due estremi rappresentati dal mercato e dall’intervento pubblico. In questo senso, ci si può aspettare che esso risulti gradito sia nei contesti in cui l’iniziativa imprenditoriale tradizionalmente è caratterizzata da una maggiore indipendenza, sia nei paesi in cui è più forte l’attività di indirizzo delle autorità pubbliche. Tuttavia, affinché il meccanismo dei crediti risulti veramente efficace, nello stimolo all’ecoprogettazione e nella riduzione dell’impatto ambientale dei rifiuti, occorre che ne siano definite accuratamente le modalità di attuazione, così come è essenziale la creazione di “mercati” per lo scambio dei titoli di credito. Come suggerisce l’esperienza dei permessi negoziabili di inquinamento, ad esempio, la fissazione di adeguati target di riciclaggio è cruciale per l’avvio di un meccanismo virtuoso di incentivazione dei comportamenti individuali. Se gli obiettivi sono stabiliti a livelli troppo bassi e facilmente raggiungibili da parte delle imprese, il sistema non si rivela efficace, poiché i prezzi dei crediti risultano troppo bassi per remunerare le iniziative di ecoprogettazione. Anche in questo caso, le opportunità di sfruttare appieno i vantaggi derivanti dall’aumento della riciclabilità dei prodotti dipendono dall’esistenza di strutture, imprese e meccanismi che consentano di “chiudere il cerchio”, permettendo alle imprese a monte di acquistare e riutilizzare i materiali riciclati nei loro processi produttivi. Infine, non bisogna dimenticare che un ruolo fondamentale per la realizzazione del circolo virtuoso sopra delineato è svolto dai consumatori finali dei beni prodotti dalle imprese. Il successo ambientale delle strategie di eco-progettazione dipende anche dai comportamenti di smaltimento 24 differenziato dei rifiuti da parte di individui e famiglie, che devono essere sempre più coinvolti e responsabilizzati nell’ambito degli interventi pubblici di gestione del problema dei rifiuti. 25 Riferimenti: Calcott P. e M. Walls, (2000), “Can Downstream Waste Disposal Policies Encourage Upstream “Design for Environment”?”, The American Economic Review, 90, 2, Papers and Proceedings of the One Hundred Twelfth Annual Meeting of the American Economic Association; 233-237 Calcott P. e M. Walls, (2005), “Waste, recycling, and “Design for Environment”: Roles for markets and policy instruments?”, Resource and Energy Economics, 27; 287-305 European Commission DG Enviroment, Eco-industry, its size, employment, perspectives and barriers to growth in an enlarged EU, Final Report, September 2006 Fiksel J., (1996), “Design for Environment: Creating Eco-Efficient Products and Processes”, McGraw-Hill, New York Fullerton, D. e W. Wu, (1998), “Policies for Green Design”, Journal of Environmental Economics and Management, 36; 131-148 Lewis, H., Gertsakis, J., Grant, T., Morelli, N., Sweatman, A. (2001), “Design + Environment. 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(ed) The RFF Reader in Environmental and Resource Policy, seconda edizione, cap.9 Rossi, M., Charon, S., Wing, G. e J. Ewell, (2006), “Design for the Next Generation. Incorporating Cradle-to-Cradle Design into Herman Miller Products”, Journal of Industrial Ecology, 10, 4; 193-210 Schischke, K., Hagelüken, M., e G. Steffenhagen (2005), “Una introduzione alle strategie dell’Ecodesign: Perché, cosa e come”, www.EcodesignARC.info 1 Tietenberg, T.H. (1985) “Emissions Trading: An Exercise in Reforming Pollution Policy”. Resources for the Future, Washington, DC Tietenberg, T. (2006), “Economia dell’Ambiente”, McGraw-Hill Italia Walls, M. (2006), “Extended Producer Responsibility and Product Design. Economic Theory and Selected Case Studies”, RFF Discussion Paper Walls, M. e K. Palmer, (2001), “Upstream Pollution, Downstream Waste Disposal, and the Design of Comprehensive Environmental Policies”, Journal of Environmental Economics and Management, 41; 94-108 2 Tabella 1 – Effetti di incentivo degli strumenti EPR Lock-in cumulato dell’impatto ambientale Ricerca e sviluppo Lock-in ambientale causato dalle decisioni adottate lungo il ciclo di vita del prodotto Design for Environment Progettazione Cleaner production Manifattura Educazione dei consumatori Utilizzo Gestione dei rifiuti e riciclo Smaltimento o recupero Ciclo di sviluppo del prodotto Figura 1 – Rappresentazione del lock-in ambientale durante il ciclo di vita del prodotto Fonte: adattamento da Lewis e altri (eds), 2001 Rifiuti, mercati del riciclo ed efficienza economica Waste Management, Recycling Markets and Efficiency Alessio D’Amato Dipartimento SEFEMEQ, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Indirizzo email: [email protected] Keywords: Recycling, Optimal Waste Management, Environmental Policy, Market Based Instruments, Recycling Markets JEL: L50, L98, Q53 Abstract (italiano) L’ottenimento di un livello efficiente di riciclaggio dei rifiuti passa attraverso due stadi: 1. L’internalizzazione dei costi esterni legati ad una incorretta gestione dei rifiuti. 2. La rimozione di potenziali fallimenti nei mercati di beni e materiali riciclati. Questo lavoro si concentra principalmente sul secondo punto. In particolare, focalizziamo la nostra attenzione sugli effetti della presenza di asimmetrie informative e dell’esistenza di diverse forme di potere di mercato. L’analisi svolta conferma che non esistono soluzioni universali che garantiscano sempre un funzionamento efficiente del mercato: la struttura ottimale del settore del riciclo e le politiche appropriate di intervento devono essere valutate caso per caso, dipendendo in modo cruciale dal tipo di materiale riciclabile e dal sistema economico oggetto di analisi. Abstract (english) The achievement of an efficient recycling level requires two steps to be undertaken: 1. The internalization of external costs generated by incorrect waste management practices. 2. The removal of market failures in secondary material markets. This paper focuses mainly on the second issue. We provide, in particular, an overview of market failures related to the presence of informational asymmetries and various kinds of market power. The main conclusion of our investigation is that no one-sizefits-all solution exists: the optimal recycling markets structure, as well as the policies to achieve efficiency, strongly depend on the involved secondary material, as well as on the features of the economy under scrutiny. 1. Introduzione I dati contenuti nel Rapporto Rifiuti 2007 dell’APAT mostrano in modo inequivocabile come la situazione dei rifiuti in Italia non sia affatto rosea. La produzione dei rifiuti urbani, nel 2006, ha fatto registrare, un aumento, raggiungendo 32,5 milioni di tonnellate, con un incremento, rispetto al 2005, superiore al 2,7% (quasi 860 mila tonnellate) ed un livello pro capite di circa 550 kg/abitante per anno (11 kg/abitante per anno in più rispetto al 2005). A questo si aggiunga il fatto che l’incremento medio sperimentato nel triennio 2004 – 2006 (2,7%) è stato superiore al corrispondente incremento (1,3%) relativo al triennio precedente (2001 – 2003). Seguendo Tietenberg (2006) la via d’uscita da questo tipo di problemi si basa sulla cosiddetta “strategia delle tre R”: Riduzione, Riutilizzo e Riciclaggio. Indubbiamente, sotto il profilo del riciclaggio e del recupero si stanno facendo passi avanti. Una risposta positiva può essere riscontrata, ad esempio, nell’incremento della raccolta differenziata che, nel 2006, è stata pari al 25,8% della produzione totale dei rifiuti urbani. Si tratta tuttavia di un valore inferiore rispetto agli obiettivi del 40%, introdotti dalla Legge 27 dicembre 2006, n. 296. Le notizie migliorano se facciamo riferimento a specifici settori. E’ possibile infatti identificare tipologie di rifiuti per le quali il recupero e il riciclaggio stanno conoscendo veri e propri boom. Nel caso degli imballaggi, ad esempio, sia a livello di UE che in Italia tutti gli obiettivi di legge sono stati superati: seguendo il CONAI1, la percentuale di recupero complessivo nel 2007 ha rappresentato quasi il 70% degli imballaggi immessi al consumo, raggiungendo (e superando) gli obiettivi previsti dalla normativa nazionale ed europea per il 2008. A ciò si è accompagnato, sempre nello stesso anno, un andamento crescente delle percentuali di riciclo, con risultati particolarmente significativi per carta (+7,8%), alluminio (+7,7%) e plastica (+ 6,3%). La stessa cosa vale per l’UE più in generale: già nel 2004 molti paesi erano vicini al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla Direttiva 2004/12/CE. Inoltre, nonostante il trend nella produzione di rifiuti da imballaggio sia crescente, si osserva, per le quattro più importanti frazioni di tale tipo di rifiuti (vetro, metalli, carta e cartone, plastica) un tasso di crescita nella produzione inferiore al tasso di crescita del GDP. Ciò supporta la conclusione che un certo decoupling stia effettivamente avendo luogo2. 1 2 www.conai.org/hpmdoc.asp?IdDoc=1032 http://www.eea.europa.eu/themes/waste/indicators Il boom che si osserva in alcuni settori del riciclaggio suggerisce che vi siano possibilità importanti di espansione per i mercati dei materiali e dei prodotti riciclati. I dati EEA (2005) sembrano confermare questa evidenza: le imprese operanti nell’industria dei materiali riciclati contribuiscono a circa il 10% del turnover totale delle eco-industries, settore che sta conoscendo una rapida espansione3. D’altra parte, molta strada è ancora necessaria per arrivare ad una gestione dei rifiuti e a livelli di riciclo e di recupero efficienti. L’ottenimento di un livello efficiente di riciclaggio dei rifiuti passa attraverso due stadi: 3. La soluzione “a monte”, nella fase in cui i rifiuti sono prodotti, dei problemi di inefficienza connessi alle scelte individuali. 4. La predisposizione “a valle” di mercati il cui funzionamento possa garantire, sia per chi produce materiali di scarto sia per chi consuma prodotti derivanti da tali materiali, incentivi adeguati al raggiungimento (o, quanto meno, alla migliore approssimazione possibile) dell’ottimo sociale. Nel prossimo paragrafo approfondiremo il primo punto, delineando le principali fonti di inefficienza connesse alla produzione ed alla gestione dei rifiuti; presenteremo inoltre alcuni strumenti di intervento che la teoria economica propone per il ripristino dell’efficienza, oltre ad alcuni esempi della loro applicazione pratica. La parte restante del lavoro, che ne costituisce il fulcro, è finalizzata ad una valutazione dei principali ostacoli che sembrano impedire il formarsi di mercati del riciclo efficienti. La rimozione di tali ostacoli è di cruciale importanza poiché, come risulterà chiaro più avanti, l’intervento pubblico per la correzione delle distorsioni connesse alle scelte individuali nella produzione dei rifiuti, può non sortire effetti (o addirittura portare al peggioramento delle situazioni di inefficienza) proprio in assenza di mercati adeguatamente funzionanti per le materie prime ed i prodotti riciclati. 2. Riciclo socialmente efficiente: inefficienze di natura ambientale ed intervento pubblico Il grado di efficienza di un sistema economico nelle scelte riguardanti il tasso di riciclo e la gestione dei rifiuti è determinato dalle scelte di produttori e consumatori. I primi, attraverso un adeguato disegno dei prodotti, possono favorire sia un più facile recupero dei materiali utilizzati che un minore spreco di risorse. D’altra parte, la deresponsabilizzazione (parziale o, a volte, addirittura totale) dei produttori in merito al destino dei propri prodotti al termine del loro ciclo di vita fa si che i produttori stessi non debbano farsi carico interamente dei costi di una gestione errata dei rifiuti generati da tali prodotti. Si tratta quindi di costi esterni. Un esempio importante sotto questo profilo è quello associato allo smaltimento in discarica; in questo caso i costi esterni possono manifestarsi attraverso un peggioramento della qualità ambientale nelle zone in cui lo smaltimento avviene, a cui seguono effetti negativi sulla salute di coloro che vivono nelle vicinanze delle discariche4. 3 Si veda European Commission – DG ENV (2006) ed EEA (2005). Si vedano, da questo punto di vista, Bianchi ed altri (2004) ed il più recente Rapporto a cura di Matuzzi et al. (2008), commissionato dal Dipartimento della Protezione Civile. 4 La presenza di questo tipo di costi esterni genera, d’altra parte, inefficienze anche dal lato del consumo. Se i consumatori dovessero farsi interamente carico dei costi associati ad una incorretta gestione dei rifiuti, sarebbero motivati a restituire i prodotti riciclabili, una volta utilizzati, agli appositi centri di raccolta o, comunque, a tenere un comportamento maggiormente compatibile con il recupero dei materiali, ad esempio attraverso la differenziazione dei propri rifiuti. Da questo punto di vista, la distorsione degli incentivi individuali nasce dalla mancata inclusione dei costi sociali generati da un’errata gestione dei rifiuti nel corrispettivo che i cittadini devono pagare a fronte del servizio di raccolta dei rifiuti. Inoltre, l’ammontare pagato dai singoli cittadini non è commisurato, se non sulla carta, né alla quantità di rifiuti prodotta né alla porzione di rifiuti avviata alla raccolta differenziata. Il cosiddetto Decreto “Ronchi” (D. Lgs. 22/1997) prevedeva il passaggio ad un regime tariffario tale da garantire un corrispettivo per la gestione dei rifiuti commisurato alla quantità di residui generati ed al reale costo sociale delle diverse opzioni di gestione (smaltimento, riciclo ecc.). Purtroppo, la “tariffa per la gestione dei rifiuti urbani”, la cui graduale introduzione rappresenta l’applicazione pratica (lenta ed irta di ostacoli) di quanto visto, ancora riguarda una minoranza dei Comuni e della popolazione italiana (APAT (2008)); inoltre, la sua efficacia è danneggiata dal fatto che essa è in molti comuni calcolata sulla base di metodi “presuntivi”, basati su parametri quali la dimensione delle abitazioni o il numero di persone residenti; di conseguenza, in molti casi, la tariffa non è effettivamente commisurata alla quantità di residui generata. Sia dal lato della produzione che dal lato del consumo, quindi, esistono rilevanti costi esterni che non sono debitamente “internalizzati” nel momento in cui i singoli individui scelgono se privilegiare o meno un comportamento compatibile con il riciclaggio dei rifiuti. Le conseguenze dell’esistenza di costi esterni possono essere chiarite sinteticamente attraverso la figura 1. (inserire figura 1) Nella figura, la distanza verticale tra costi marginali privati e costi marginali sociali rappresenta quei costi esterni che imprese e consumatori non considerano nelle scelte che influenzano la possibilità di riciclare o meno i propri scarti. Ciò significa che le decisioni prese dai privati saranno distorte rispetto a quelle che sarebbero socialmente ottime, portando al punto Qp anziché al punto Qs. Le conseguenze saranno una percentuale di riciclaggio insufficiente a raggiungere l’ottimo ed una eccessiva scelta di metodi di smaltimento ad alto impatto ambientale. 3. Come correggere gli incentivi di scelta individuali? Intervento pubblico e mercati del riciclo. 3.1. L’intervento pubblico L’assenza di incentivi adeguati al raggiungimento dell’efficienza rende necessario l’intervento pubblico. Il problema diviene quindi la scelta del migliore possibile strumento per riportare le scelte di individui o imprese verso l’ottimo sociale. L’imposizione di una tariffa sui rifiuti disegnata secondo una logica a la Pigou, al fine di internalizzare i costi sociali connessi ad una errata gestione dei rifiuti, si scontra con almeno due ordini di problemi, il primo legato alle difficoltà di un’ effettiva misurazione della produzione di rifiuti, il secondo alla difficoltà di fissare un “prezzo al chilo” effettivamente pari all’intero costo sociale legato allo smaltimento e/o al riciclo. Approcci alternativi possono essere basati sui cosiddetti depositi rifondibili, già diffusi in molti paesi per i contenitori in vetro ed in alluminio. Seguendo Tietenberg (2006), il meccanismo dei depositi rifondibili svolge due funzioni: gli agenti economici sono chiamati a pagare un’imposta iniziale il più possibile vicina al costo sociale connesso allo smaltimento del prodotto acquistato; agli stessi agenti viene poi garantito il rimborso di quanto pagato a titolo di deposito nel caso in cui restituiscano il prodotto al produttore o al venditore. Ciò al fine di incentivarne il riciclaggio, favorendo in questo modo la conservazione delle materie prime vergini. Sistemi di questo tipo sono stati e sono tuttora applicati in molti paesi. Ad esempio, in Svezia ed in Norvegia si è utilizzato il deposito rifondibile per contrastare il problema dell'abbandono delle automobili fuori uso; uno schema di questo tipo è oggi in vigore in Danimarca. In molti paesi dell’Unione Europea “a 25” sono correntemente in vigore sistemi di depositi rifondibili applicati sia a lattine in alluminio che a contenitori in vetro. Lo stesso approccio è stato adottato negli USA (ma anche in Danimarca) per garantire un incremento del riciclaggio delle batterie per auto e degli pneumatici. Stessa logica è applicata in molti paesi in via di sviluppo per garantire, ad esempio, la restituzione dei contenitori di pesticidi una volta utilizzati5. Le attività di riciclaggio possono, in linea di principio, essere favorite anche attraverso politiche più ampie di natura tributaria, basate sia sulla tassazione dell’utilizzo di materiali vergini sia sulle sovvenzioni all’acquisto di attrezzature per il riciclaggio. Queste strategie si traducono generalmente in esenzioni dalle imposte sulle vendite, in crediti di imposta sugli investimenti oppure in prestiti o contributi alle comunità locali, e hanno la finalità di promuovere lo start up delle attività e dei settori del riciclaggio. Per avere un’idea di come la politica tributaria possa influenzare gli incentivi ad una gestione corretta dei rifiuti, è istruttivo analizzare il sistema che lo Stato dell'Oregon ha utilizzato a partire dai primi anni ’80: al fine di ridurre il consumo 5 Gli esempi riportati sono tratti da Tietenberg (1996) e dall’OECD/EEA database on instruments used for environmental policy and natural resources management (ultimo accesso: 15 maggio 2008). di energia e promuovere le attività di riciclaggio, l'Oregon Department of Energy accordò crediti d'imposta a 163 progetti. Le aziende che ponevano in essere tali progetti avevano diritto, per un periodo di cinque anni, a detrarre dalle imposte un importo pari al 35% del costo sostenuto per l'acquisto di qualsiasi attrezzatura utilizzata esclusivamente per attività di riciclaggio. Questa politica di intervento, congiuntamente alle politiche esistenti in termini di crediti di imposta sull’acquisto di macchinari ed altri beni immobili, ha portato a rilevanti risultati in alcuni settori del riciclo. Ad esempio, le cartiere se ne sono avvalse generando la capacità necessaria per fabbricare carta a partire da carta da giornale e cartone riciclati e portando ad un incremento del tasso di riciclaggio dei giornali in Oregon doppio rispetto alla media nazionale negli USA tra il 1981 ed il 1987. Si tratta chiaramente di politiche di intervento che, da sole, non sono sufficienti a garantire l’efficienza nel lungo periodo. Come sottolineano Coromaldi e Zoli, in questo stesso volume, il problema dei rifiuti può essere risolto solo influendo sull’intero “disegno” del ciclo di vita del prodotto, dalla progettazione alle scelte in termini di imballaggio, fino alle modalità di ritiro dei prodotti che abbiano terminato la propria vita utile. In altre parole, solo l’applicazione del principio della responsabilità estesa del produttore è compatibile con il raggiungimento di un livello efficiente di riciclaggio nel lungo periodo. Questa logica sembra compatibile, ad esempio, con quanto previsto dai legislatori UE (si pensi alla Direttiva 2002/96/CE, che applica il principio della responsabilità estesa al caso dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche). E’ doveroso sottolineare, a questo punto, come anche l’intervento pubblico possa “fallire”. Esistono esempi di situazioni in cui l’intervento dello Stato ha generato (e genera) inefficienza piuttosto che correggere gli incentivi di scelta individuali. La presenza ancora rilevante di sussidi dannosi per l’ambiente che, dal nostro punto di vista, potrebbero assumere la forma di sussidi all’utilizzo di materie prime vergini, è una rappresentazione lampante di questo tipo di problemi. La rimozione di tali sussidi è una condizione necessaria per il ripristino dell’efficienza nella gestione delle risorse naturali6. Un’ultima importante fonte di inefficienza che influenza il tasso di riciclaggio e recupero dei materiali è legata alla presenza di rilevanti esternalità di natura tecnologica (OECD (2006)). La presenza di tali esternalità implica che le scelte produttive “a monte” possano generare importanti costi esterni a danno dei produttori di materie prime riciclate. Ad esempio: • l’utilizzo di plastiche multistrato può rendere impossibile il riciclaggio degli imballaggi alimentari; • l’utilizzo di una grande varietà di colori per le bottiglie di plastica può rendere necessaria una laboriosa fase di separazione prima della fase di recupero; • l’utilizzo di particolari inchiostri per la stampa può complicare il riciclo della carta. 6 Si veda, per una analisi approfondita del problema, OECD (2005). La necessità di evitare l’insorgere di questo tipo di esternalità rappresenta un’ulteriore, importante, giustificazione alla base dell’introduzione del principio di responsabilità estesa del produttore. 3.2. L’importanza dei mercati per i materiali e i prodotti riciclati Il disegno delle politiche di intervento nella gestione dei rifiuti ha un ruolo fondamentale nella correzione delle connesse inefficienze. D’altra parte, gli strumenti finalizzati all’internalizzazione dei costi esterni legati ad una incorretta gestione dei rifiuti sono destinati all’insuccesso se non sono accompagnati da mercati efficienti per i materiali riciclati (Stromberg (2004), OECD (2006)). Da ciò nasce la necessità di disegnare le politiche di intervento in modo tale da considerare sia i fallimenti del mercato “a monte” (quelli legati ai già citati costi esterni di natura ambientale) sia quelli “a valle”, legati al funzionamento dei mercati per le materie prime ed i prodotti riciclati. Le conclusioni su quale sia lo strumento migliore per affrontare questi problemi possono differire in modo notevole dalle predizioni della teoria economica della politica ambientale strettamente intesa. Ad esempio, l’introduzione di sistemi di raccolta differenziata particolarmente efficaci può non servire allo scopo di incrementare il riciclo se non si provvede, allo stesso tempo, a rimuovere eventuali barriere “a valle” che rendano difficoltoso o estremamente costoso investire in impianti di trattamento e separazione dei rifiuti. Per capire meglio come la politica ambientale possa non esplicare appieno i suoi effetti in mancanza di mercati a valle per i materiali riciclati possiamo introdurre un caso “di scuola”, riguardante la gestione dei rifiuti da imballaggio in Germania. In tale paese i produttori (nonché i dettaglianti, in quanto intermediari) sono per legge obbligati a riprendere indietro tutti gli imballaggi dei prodotti. Per incoraggiare i consumatori a restituire gli imballaggi sono stati previsti centri di raccolta comodamente accessibili e sistemi di depositi rifondibili per alcuni tipi di confezioni. I produttori di imballaggi hanno risposto agli obblighi di legge attraverso l’istituzione di una società senza fini di lucro, la Duales System Deutschland (DSD), con la finalità di raccogliere i materiali di imballaggio e di riciclarli. Il funzionamento di questa organizzazione è vicino a quello dell’equivalente consorzio Italiano (il CONAI); in particolare, essa è finanziata attraverso contributi versati dai produttori e calcolati in base ai chilogrammi di imballaggi utilizzati. L’effetto aggregato della politica ambientale e della istituzione del sistema DSD ha, a quanto sembra, portato importanti benefici in termini di efficienza nella gestione e nel riciclo dei rifiuti. In particolare, come sottolinea il Tietenberg (2006), si è osservata una importante riduzione sia nel volume degli imballaggi prodotti che nella quantità degli stessi destinata agli inceneritori e alle discariche. D’altra parte, un importante difetto del sistema DSD è stato l'incapacità di individuare mercati per i materiali riciclati raccolti, generando così un eccesso di offerta di tali materiali. Situazioni simili a quella tedesca sono molto diffuse (Boerner e Chilton (1994)) e possono costituire un serio ostacolo all’efficacia delle politiche di intervento nel campo del riciclaggio. 4. I mercati dei materiali riciclati: fallimenti e possibili politiche di intervento. L’importanza dei mercati per il raggiungimento di livelli efficienti di riciclaggio si scontra con i rilevanti fallimenti che contraddistinguono i settori del riciclaggio e del recupero dei materiali. Il resto del lavoro si pone l’obiettivo di chiarire i motivi che portano il mercato dei materiali riciclati lontano dall’efficienza e le possibili direzioni da intraprendere per apportare le necessarie correzioni. Seguendo l’OECD (2007), tra le cause di fallimento dei mercati del riciclo è possibile identificare: la presenza di rilevanti costi di transazione, l’esistenza di asimmetrie informative tra gli agenti economici coinvolti, una distorta percezione della qualità da parte degli utilizzatori e la presenza di potere di mercato. Alcune di queste cause di inefficienza sono proprie di mercati relativamente “nuovi”; dovrebbero quindi divenire sempre meno importanti man mano che il mercato “matura”; questo è il caso dei costi di transazione e dell’errata percezione della qualità dei prodotti da parte dei consumatori (OECD (2007)). Focalizzeremo, di conseguenza, la nostra analisi sui problemi ai quali il mercato non può fornire “endogenamente” una soluzione, in particolare la presenza di asimmetrie di informazione e di potere di mercato. 4.1 Asimmetrie Informative La qualità dei materiali da avviare al riciclo (o riciclati e destinati alla produzione o al consumo) può essere la causa centrale di un importante fallimento del mercato, generato dalla presenza di asimmetrie informative. Un esempio di questo tipo di difficoltà è quello legato agli scarti di oli lubrificanti: è impossibile o comunque estremamente costoso verificare se gli scarti ricevuti dalle imprese di riciclo siano privi di contaminanti (come metalli pesanti, bifenili o addirittura acqua) che renderebbero impossibile l’operazione di recupero. Altro esempio sono le materie plastiche: la presenza di contaminanti, anche in quantità minime, renderebbe del tutto inutilizzabili gli scarti ai fini della produzione di plastiche riciclate (OECD (2006)). La rilevanza delle asimmetrie informative nei mercati di prodotti e materiali riciclati dipende da diversi aspetti legati alle difficoltà di monitoraggio da parte degli acquirenti ed alla facilità con cui i venditori possono nascondere la reale qualità della propria offerta. Ovviamente, i problemi saranno tanto più complessi da risolvere quanto maggiore sarà il costo di monitoraggio della qualità e quanto minori saranno i costi attesi connessi alla possibilità di non rivelare le caratteristiche qualitative dei materiali riciclati o da destinare al riciclaggio. Sin dal cosiddetto “mercato dei bidoni” di Akerlof (1970), è chiaro che la presenza di asimmetrie informative riguardanti le caratteristiche dell’offerta comporta fallimenti del mercato ed impedisce che transazioni altrimenti convenienti sotto il profilo del benessere sociale avvengano effettivamente. Si tratta di un esempio tipico di ciò che viene chiamato problema di informazione nascosta o selezione avversa7 (Guiso e Terlizzese (1994), Laffont e Martimort (2002)). Per illustrare il problema, consideriamo il seguente semplice esempio, tratto da Levin (2001). Supponiamo vi siano rifiuti plastici caratterizzati da tre possibili livelli di qualità, pessimo (P), medio (M) ed alto (A). Supponiamo, per ciascuna unità di materie plastiche di scarto, che la disponibilità marginale a pagare degli acquirenti (a) e il prezzo unitario praticato dai venditori (v) siano dati, rispettivamente, da: 14 se qualità P 0 se qualità P a = 28 se qualità M v = 20 se qualità M 42 se qualità A 40 se qualità A Come risulta evidente, in una situazione di informazione simmetrica tutti i tipi di materiali sarebbero scambiati sul mercato: per ciascun tipo di materiale, infatti, la disponibilità marginale a pagare da parte dei potenziali acquirenti è maggiore del prezzo al quale i venditori sono disposti ad offrire le materie plastiche sul mercato. Ciò porterebbe ad una allocazione efficiente. Cosa accadrebbe se i venditori fossero pienamente informati, ma gli acquirenti non fossero in grado di riconoscere la qualità dell’offerta? Supponiamo che ciascun acquirente assegni uguale probabilità ai tre tipi di qualità. In questo caso, il valore atteso della sua disponibilità a pagare sarebbe E(a) = 28. A questo prezzo però i fornitori delle qualità migliori uscirebbero dal mercato. La conclusione che possiamo trarre da quest’esempio è che la presenza di asimmetrie di informazione a favore dei venditori condurrebbe a fenomeni di selezione avversa ed alla conseguente impossibilità di raggiungere l’efficienza. Una possibile soluzione a questo tipo di problemi può passare attraverso meccanismi di monitoraggio della qualità. Trattandosi di attività costose, il raggiungimento dell’ottimo sociale di first best sarebbe comunque impossibile. D’altra parte, se i costi di monitoraggio fossero inferiori alle perdite di benessere legate al malfunzionamento del mercato, allora il controllo della qualità potrebbe essere socialmente desiderabile. In alcuni casi il monitoraggio non è una soluzione percorribile da parte delle imprese. L’OECD (2006) sottolinea come per alcuni tipi di materiali di scarto sia finanziariamente troppo gravoso procedere ad un controllo accurato della qualità. La conseguente incertezza potrebbe in questi casi portare le imprese ad utilizzare solo scarti generati dalla propria attività di produzione, o a fenomeni di integrazione verticale, ad esempio tra imprese fornitrici di materiali da destinare al riciclo e imprese di lavorazione. In questo modo, come sottolinea, ad esempio, Arrow (1975), l’integrazione verticale porterebbe ad un miglioramento nella qualità dell’informazione disponibile. 7 Esiste, inoltre, una vasta letteratura sui problemi cui va incontro la regolamentazione ambientale in presenza di asimmetrie informative. Si veda Lewis (1996). Una soluzione alternativa a disposizione delle imprese che vendono materiali riciclabili (o riciclati) di alta qualità potrebbe consistere nella segnalazione di tale qualità. Questo al fine di non perdere l’opportunità di scambi vantaggiosi. Per capire come questo sia possibile, ricorriamo ad una versione modificata di un esempio fornito da Varian (2002). Supponiamo vi siano due tipi di imprese, uno dei quali offre materiali di alta qualità, mentre l’altro offre materiali di bassa qualità. Supponiamo che ciascun acquirente valuti aB ogni unità di materiale di bassa qualità, e valuti aA i materiali di qualità elevata. Il venditore che offre alta qualità è disposto ad offrire il materiale di alta qualità a v, mentre quello che offre materiali di scarsa qualità è disposto a disfarsene anche gratuitamente. Supponiamo, infine, che aA > v > aB >0, cosicché tutti gli scambi siano vantaggiosi (la disponibilità marginale a pagare dell’acquirente è maggiore del valore di vendita per ogni tipo di materiali). Secondo queste ipotesi, tutte le unità di materiali di buona qualità dovrebbero essere scambiate ad un prezzo compreso tra aA e v, mentre quelle di scarsa qualità dovrebbero essere scambiate ad un prezzo minore o uguale ad aB . In presenza di asimmetria informativa d’altra parte, è evidente che i venditori di materiali di scarsa qualità avrebbero incentivo a presentare il materiale riciclato offerto come materiale di buona qualità. In una situazione di questo genere prenderebbe piede un fenomeno di selezione avversa come quello illustrato in precedenza: i fornitori di materiali di buona qualità uscirebbero dal mercato e vi sarebbero scambi efficienti non effettuati. Per evitare questo, i fornitori di materiali di buona qualità possono avere incentivo a segnalare tale qualità agli acquirenti, ad esempio attraverso la predisposizione di studi “a campione”, presso società di certificazione, che mostrino la qualità media elevata della propria offerta. Si tratta di una politica costosa; supponiamo che il costo sia pari ad s. Se tale costo fosse inferiore a quanto il venditore può ottenere dallo scambio, la segnalazione sarebbe conveniente. In altre parole, se aA - v > s, per il venditore di materiali di buona qualità sarebbe potenzialmente conveniente segnalarsi8. Il costo della segnalazione, ancora una volta, dipende da quanto sia complesso misurare la qualità dei materiali riciclati. Dipende quindi sia dal tipo di materiale di riferimento che dalla tecnologia di verifica e di monitoraggio disponibile. Questo suggerisce un altro possibile motivo per cui politiche pubbliche o investimenti privati finalizzati al miglioramento delle tecnologie di monitoring possano portare i mercati dei materiali riciclabili e dei prodotti riciclati verso l’efficienza. Il settore pubblico può avere un ruolo importante nel determinare l’incentivo dei venditori a nascondere la qualità della propria offerta anche attraverso penalizzazioni ex post. Consideriamo ancora una volta l’esempio tratto da Levin (2001) e supponiamo che il venditore sia neutrale nei confronti del rischio ed abbia la possibilità di proporre all’acquirente una unità di materiale plastico riciclato di pessima qualità fingendo sia di alta qualità. La convenienza ad agire in questo senso dipende dalla percezione che il venditore ha della probabilità di essere scoperto e dell’entità della “punizione”. In questo caso, se la perdita attesa per il venditore dall’essere colto “in flagrante” fosse maggiore di 42 € egli non sarebbe incentivato a mentire sulla qualità della sua offerta. La perdita attesa percepita dal venditore è determinata da due elementi: 8 La segnalazione non sarebbe invece conveniente per i venditori di materie riciclate di scarsa qualità, a meno di non consentire agli stessi di corrompere gli addetti alla misurazione. Ipotizziamo ciò non possa avvenire. • l’entità della punizione cui il venditore andrebbe incontro proponendo un prodotto di qualità inferiore a quanto annunciato. • la probabilità percepita dal venditore stesso riguardo alla possibilità di essere effettivamente scoperto. Una punizione attesa sufficientemente elevata, garantita da un sistema di multe ed una rete di controlli efficace, potrebbe quindi porre rimedio al vantaggio informativo a favore del venditore. Le politiche di supporto alla ricerca di tecnologie di monitoraggio sempre più affidabili e sempre meno costose possono quindi essere fruttuose anche sotto questo profilo. Un altro importante meccanismo di punizione, particolarmente rilevante in un mercato, come quello delle materie prime riciclate, in cui le transazioni tendono a ripetersi nel tempo9, è costituito dalla perdita di reputazione. In presenza di relazioni ripetute tra acquirenti e venditori, infatti, è possibile per i primi porre in essere strategie di punizione basate, ad esempio, sul successivo abbandono del venditore. Da questo punto di vista, un filone importante della letteratura economica modellizza le interazioni tra acquirenti e venditori come giochi ripetuti, concludendo che una sequenza di comportamenti “corretti” nel tempo da parte del venditore può essere una strategia di equilibrio. Ciò è possibile, ad esempio, se il sistema di fissazione dei prezzi è disegnato in modo da penalizzare chi ha venduto beni di qualità bassa in passato e da premiare chi ha fornito materiali di qualità elevata (si veda Levin (2003)). La punizione potrebbe essere inclusa in un contratto a lungo termine, in cui il prezzo percepito dal venditore in ogni periodo dipende dalla corrispondenza tra qualità assicurata e qualità effettiva nei periodi precedenti. 4.2. Presenza di Potere di Mercato Johnstone and de Tilly (2006) identificano tre possible fonti di potere di mercato nei mercati del riciclo: 1. Potere di monopsonio legato al carattere locale dei mercati dei prodotti riciclati. 2. Utilizzo di integrazione verticale, come nel caso dei rottami metallici, con conseguente creazione di barriere all’entrata 3. Discriminazione di prezzo e segmentazione del mercato, come nel caso degli pneumatici ricondizionati o dei materiali plastici riciclati. Il potere di monopsonio è in generale legato alla natura locale di alcuni tipi di mercati per i prodotti riciclati. Questo può essere il caso, ad esempio, del vetro e dei rifiuti derivanti da attività di costruzione o demolizione. In tali mercati è possibile che l’impresa che trasforma i materiali di scarto in prodotti riciclati pronti per il riutilizzo sia l’unico acquirente. Una possibile causa può essere riscontrata in elevati costi di trasporto verso altri potenziali utilizzatori dei materiali di scarto. Il potere di monopsonio può però nascere anche da una logica non competitiva nella assegnazione del “diritto” ad accedere ai materiali di scarto, ad esempio attraverso la concessione di licenze da parte delle autorità locali. 9 Ringraziamo un referee anonimo per aver suggerito questa particolare riflessione. La teoria economica standard ci mostra come in presenza di potere di monopsonio il mercato non produrrà un risultato efficiente10. In particolare, un’impresa che sia anche acquirente unico sul mercato degli input fisserà l’ammontare acquistato sulla base della condizione (1) CMM = RMM dove CMM rappresenta il costo marginale di una unità aggiuntiva di materie di scarto, mentre RMM rappresenta il ricavo marginale generato dall’utilizzo di tale unità nella produzione di materiali riciclati. In presenza di monopsonio, d’altra parte, (2) CMM > CMeM , dove CMeM rappresenta il costo medio delle materie di scarto. Il monopsonista sa infatti che un incremento nella domanda di fattori produttivi comporterebbe un incremento nel prezzo praticato dall’impresa a monte. Le caratteristiche del mercato delle materie prime riciclate possono comportare, quindi, una riduzione dei prezzi delle materie di scarto da re-immettere nella catena produttiva. Questo può comportare un incentivo insufficiente al raggiungimento di obiettivi di riciclaggio socialmente ottimi. In questo caso, una possibile soluzione risiederebbe, dove possibile, nella promozione della competizione “per il mercato”, garantendo l’accesso ai materiali di scarto, che costituiscono l’input principale nel mercato del riciclo, attraverso procedure d’asta trasparenti ed il più possibile competitive. Si veda da questo punto di vista, la letteratura che ha preso il via a partire del contributo fondamentale di Demsetz (1968). L’autore focalizza la propria attenzione sul caso di imprese che competono per la fornitura di un bene o servizio sulla base di una semplice asta in cui il vincitore è colui che propone il prezzo più basso, ma questo tipo di schema potrebbe essere adattato per garantire l’accesso al mercato a monte alle imprese di produzione di materiali riciclati che garantiscano il maggiore prezzo di acquisto dei materiali potenzialmente riciclabili. Sotto determinate condizioni, questo tipo di asta competitiva può contribuire a miglioramenti in termini di efficienza rispetto a condizioni di potere di mercato come quella sopra esposta11. Un ulteriore rilevante problema che può essere legato alla natura “locale” dei mercati per i prodotti riciclati ed alla conseguente presenza di potere di mercato è quello, cosiddetto, della doppia marginalizzazione (Spengler (1950)). Questo fenomeno può essere schematizzato utilizzando un semplice modello (Rickard (2006)). Si consideri un mercato dei prodotti per il riciclo caratterizzato da due imprese: • una a monte che si occupa della raccolta delle materie di scarto da avviare al riciclo. 10 Si veda, ad esempio, Rickard (2006). Ovviamente, lo strumento della concorrenza per il mercato costituisce solo uno degli elementi del “portafoglio” di strumenti che la regolazione dei mercati del riciclo ha a disposizione. Altri strumenti dovranno poi essere utilizzati, ad esempio al fine di regolare il comportamento delle imprese una volta che abbiano avuto accesso al mercato. Per una rassegna delle diverse problematiche connesse si veda, ad esempio, Small (1999). 11 • una a valle che elabora queste ultime e vende i materiali o i prodotto così ottenuti agli utilizzatori finali (imprese o consumatori). Supponiamo che la curva di domanda per le materie prime riciclate (la cui quantità è contrassegnata dalla lettera q) sia lineare: (3) p q = α − βq Supponiamo, inoltre, che per ciascuna unità di bene riciclato prodotta sia necessaria una unità di materiale di scarto (denotiamo la corrispondente quantità con la lettera x), per cui x = q. La massimizzazione dei profitti da parte dell’impresa a valle implica che il ricavo marginale sia uguale al costo marginale, dato dal prezzo unitario dei materiali di scarto forniti dall’impresa a monte (px): (4) α − 2βq = p x , per cui la quantità prodotta dall’impresa a valle sarà: (5) q= α − px = x. 2β Data l’ipotesi di relazione 1 ad 1 tra materiali di scarto e materie riciclate, la (5) mostra contemporaneamente l’offerta di materie riciclate e la domanda di materiali di scarto da parte dell’impresa a monte. La stessa impresa a monte fisserà il proprio output sulla base della condizione Ricavo Marginale = Costo Marginale. Supponiamo che il costo totale sia lineare nella quantità di materiali di scarto raccolta e fornita. In particolare, supponiamo che CT x = c x x , per cui cx > 0 rappresenta il costo marginale e medio di x. La quantità prodotta sarà quindi: (6) x= α − cx 4β Dalla seconda uguaglianza presente nella (5) possiamo ricavare il prezzo praticato dal monopolista a monte, che sarà12: (7) 12 px = 1 (α + c x ) > c x 2 La disuguaglianza nella (7) discende dal fatto che la produzione del monopolista a monte è positiva solamente se α > c x . Sostituendo nella (4), e tenendo conto che abbiamo assunto x = q, otteniamo il prezzo dei materiali riciclati prodotti e venduti dall’impresa a valle: (8) pq = 1 (3α + c x ) > p x 4 La (7) e la (8) mostrano analiticamente gli effetti della doppia marginalizzazione: il produttore a monte fissa un prezzo maggiore del costo marginale, mentre il venditore delle materie riciclate a valle fissa un ulteriore mark up sul costo marginale del proprio input , determinato dall’impresa a monte. Tutto ciò porta ad una perdita di benessere sociale rispetto ad una allocazione efficiente. La figura 2 mostra l’entità di tale perdita13. (Inserire figura 2) Nella figura 2, il livello competitivo di output (quello in corrispondenza del quale le imprese a monte e a valle si comportano da price taker) è q1. L’impresa a monte sa che l’impresa a valle fisserà la quantità prodotta sulla base del confronto tra i propri ricavi marginali (RMq) e i costi marginali (CMq). Questi ultimi coincideranno con il prezzo praticato dall’impresa a monte sul proprio output. La curva di domanda per l’impresa a monte (Dx) corrisponderà, sotto l’ipotesi di relazione 1 a 1 tra quantità di materiali da riciclare e materiali riciclati prodotti, con la curva di ricavo marginale dell’impresa a valle (si veda anche la condizione (4)). I corrispondenti ricavi marginali dell’impresa a monte saranno dati dalla curva RMx. L’impresa a monte produrrà quindi la quantità q3, e tale quantità, date le nostre ipotesi, coinciderà con la quantità prodotta e venduta dall’impresa a valle. Il prezzo praticato dalla stessa impresa dipenderà dalla posizione della curva di domanda Dq, e sarà quindi pari a pq > px > CMx . La perdita di benessere sociale che risulta della doppia marginalizzazione è di conseguenza data dall’area GEB. Tale perdita è evidentemente maggiore di quella che si avrebbe se il fenomeno della doppia marginalizzazione non fosse presente. Questo potrebbe avvenire, ad esempio, se le imprese a monte e a valle fossero verticalmente integrate. In quest’ultimo caso, infatti, il costo marginale per l’impresa integrata fornitrice di materiali riciclati sarebbe CMq la quantità prodotta sarebbe q2 e sarebbe venduta ad un prezzo pari a px: la perdita di benessere si ridurrebbe da GEB a BCD. Il rimedio a problemi di doppia marginalizzazione è una delle motivazioni teoriche a favore dell’integrazione verticale. La teoria economica individua altre possibili motivazioni che possono spingere le imprese a procedere verso l’integrazione verticale, sia strettamente intesa che attraverso accordi contrattuali più o meno forti14. Tra esse possiamo individuare la presenza di costi di transazione o di incertezza, asimmetrie di informazione ed esternalità tecnologiche (Perry (1989)) che, come 13 L’analisi grafica è, per semplicità, svolta sotto l’ipotesi di curve di domanda lineari e costi marginali costanti, come nell’esempio analitico riportato nel testo. 14 Non è obiettivo di questa parte una analisi dettagliata delle forme e del grado di intensità che gli accordi di integrazione verticale possono assumere. Esempi di condizioni o accordi che possono avvicinare le imprese ad una integrazione verticale senza portarle a divenire un’unica impresa integrata sono, ad esempio, il controllo del prezzo di rivendita (RPM), il rifiuto di vendere a determinate imprese a valle o di acquistare da imprese a monte, l’esclusività territoriale ecc…. abbiamo visto in precedenza sono caratteristici fallimenti dei mercati dei materiali riciclati. L’OECD (2006) mostra, d’altra parte, come l’integrazione verticale possa non essere benigna in termini di benessere sociale. Ad esempio, è possibile che l’integrazione verticale tra il settore forestale e quello di produzione cartaria comporti rilevanti barriere all’entrata per le imprese produttrici di carta riciclata. Allo stesso modo, l’evidenza suggerisce, almeno con riferimento agli USA, che la presenza di potere di mercato nella produzione di alluminio possa avere conseguenze sull’efficienza del mercato dell’alluminio riciclato (Grant (1999)). La presenza di argomentazioni a favore (Posner (1981)) e contro (Rey e Tirole (1986)) suggerisce la necessità di giudicare l’opportunità o meno dell’integrazione verticale “caso per caso”. La possibile segmentazione del mercato rappresenta l’ultimo rilevante caso di esercizio di potere di mercato con riferimento a materie prime e prodotti riciclati. Un’impresa dotata di potere di mercato può infatti cercare di sfruttare differenze nelle elasticità della domanda di diversi potenziali acquirenti affidandosi a caratteristiche osservabili di questi ultimi (Varian (1989)). Un esempio di tale situazione si può osservare nel mercato degli pneumatici, quando i produttori di pneumatici nuovi siano coinvolti anche nella produzione di pneumatici riciclati e sfruttino le differenze di elasticità della domanda relativa ai due tipi di pneumatico per incrementare i propri profitti. L’effetto di questo tipo di pratiche sul livello di riciclo non può comunque essere determinato a priori. Dipende infatti da molti fattori, tra cui fondamentali sono le differenze in termini di costi di produzione e di elasticità della domanda tra mercati del prodotto riciclato e mercati del prodotto ottenuto da materie prime vergini. Se l’elasticità della domanda fosse maggiore nel caso dei mercati riciclati, come suggerisce OECD (2006), allora la segmentazione del mercato potrebbe portare ad un incremento in termini di riciclo. 4.3. Volatilità dei prezzi Seguendo Stromberg (2004), un problema rilevante nel funzionamento dei mercati per il riciclo può essere legato ad una elevata volatilità dei prezzi. Più specificamente, un’estrema variabilità dei prezzi dei prodotti riciclati può incidere negativamente sulla propensione delle imprese coinvolte ad investire e, in ultima analisi, sul ritmo al quale il mercato dei prodotti riciclati si sviluppa. In particolare, la presenza di una elevata volatilità dei prezzi merita una analisi a se stante perché: 1. può essere considerata allo stesso tempo una causa ed una conseguenza dei fallimenti del mercato 2. è connessa a diversi altri fallimenti del mercato discussi in questo articolo (asimmetrie informative, incertezza ecc...); 3. può influenzare negativamente il livello di incertezza, con impatti rilevanti sui livelli di investimento. Un’elevata volatilità dei prezzi può essere guidata dalla presenza di incertezza connessa, ad esempio, all’impossibilità di prevedere i flussi futuri di domanda ed offerta, ma anche a possibili fluttuazioni nelle politiche di intervento (si pensi alle incertezze connesse all’applicazione in Italia della Direttiva 1999/31/CE relativamente alle discariche di rifiuti). In situazioni di questo genere si crea una sorta di circolo vizioso, in cui si passa dalla alta variabilità dei prezzi ad un accrescimento dell’incertezza ad una ancora maggiore variabilità e così via. Tutto ciò può spingere le imprese potenzialmente interessate ad investire nel settore a rimandare le proprie decisioni in attesa di migliori informazioni. Sempre seguendo Stromberg (2004), uno dei principali motivi che porta ad una elevata volatilità dei prezzi delle materie prime riciclate è legata alla bassissima elasticità dell’offerta, come conferma, almeno per alcuni tipi di rifiuti, la letteratura empirica (si veda, ad esempio, Edgren and Moreland (1989)). In altre parole, l’offerta di materiali riciclabili si aggiusta molto lentamente, per cui è molto probabile si verifichino situazioni di disequilibrio. In presenza di rapidi e frequenti cambiamenti nella domanda si possono avere altrettanto frequenti e significative distorsioni nei prezzi. OECD (2006) suggerisce di utilizzare il grado di volatilità dei prezzi come test di efficienza dei mercati per i materiali riciclati15. L’evidenza riportata nella pubblicazione suggerisce come effettivamente con riferimento a molti tipi di materie prime riciclate la volatilità del prezzo sembri più elevata nei mercati per i materiali riciclati piuttosto che in quelli per i sostituti più vicini tra le materie prime vergini. In ogni caso, l’effetto di questa volatilità sull’efficienza del mercato e sugli incentivi all’investimento è determinata in modo complesso da molte variabili, tra cui il grado di sostituibilità tra materie prime riciclate e materie prime vergini gioca un ruolo importante. Inoltre, le stime contenute in Stromberg (2004) non sembrano confermare quanto riportato nella pubblicazione dell’OECD16. L’evidenza sopra riportata suggerisce come il disegno di appropriate politiche di intervento renda necessario ulteriore studio nella valutazione della volatilità del prezzo delle materie prime riciclate e delle sue determinanti. 4.4. Altre fonti di inefficienza La presenza di incertezza riguardo la qualità delle materie riciclate e l’incapacità di stabilire un “linguaggio comune” di dialogo tra acquirenti e venditori può generare non solo problemi di informazione asimmetrica ma, più in generale, può essere fonte di rilevanti costi di transazione. L’OECD (2007) individua diversi fattori che possono determinare tali costi: • vi possono essere significativi costi di “ricerca”, legati alle difficoltà di acquirenti e venditori di incontrarsi. La rilevanza di questo primo tipo di costi di transazione è legata al fatto che i produttori di materiali utili al riciclo sono diffusi sul territorio e non è facile prevedere la quantità e qualità di materiali 15 Ovviamente si tratta di una misura di efficienza molto rudimentale. La stessa OECD (2006) sottolinea infatti come mercati caratterizzati da elevata inefficienza (ad esempio mercati monopolistici) possano essere caratterizzati da prezzi molto stabili. La volatilità dei prezzi è comunque importante in termini di efficienza di lungo periodo, dati i già sottolineati effetti di tale volatilità sugli investimenti. 16 Più in particolare, l’analisi econometrica svolta dall’autore, con riferimento a dati USA e svedesi, suggerisce come la volatilità dei prezzi delle materie prime riciclate non differisca in modo sostanziale da quella relativa alle corrispondenti materie prime vergini, fatta eccezione per i materiali cartacei. che si renderà disponibile. Ciò è dovuto al fatto che la produzione di materiali di scarto non è in se una attività economica ma è la conseguenza di altre decisioni, di produzione o di consumo; • possono esistere rilevanti costi amministrativi connessi alla fornitura di prodotti riciclati. Tali costi possono essere, ad esempio, legati alla necessità, da parte dei produttori di materie prime riciclate, di ottenere permessi per la produzione ed il riciclo. Inoltre, la fonte di input per tali produttori può essere legata più o meno fortemente a strutture che hanno obiettivi diversi dalla massimizzazione del profitto (ad esempio strutture pubbliche di raccolta dei rifiuti); • possono infine non esistere basi informative affidabili riguardanti i prezzi delle materie prime riciclate. Le conseguenze dell’esistenza di costi di transazione possono essere approfondite attraverso l’analisi della figura 3. (inserire figura 3) La figura 3 riporta la curva di offerta delle materie prime riciclate (Or ) e quella relativa all’offerta totale di materie prime (vergini e riciclate) (Otot). La distanza verticale tra curva di offerta totale e curva di offerta di materie riciclate rappresenta quindi l’offerta di materie prime vergini (Ov) ed è assunta costante per semplicità17. La presenza di costi di transazione comporta uno spostamento verso l’alto della curva di offerta delle materie prime riciclate (in O’r ). Questo genera un corrispondente spostamento verso l’alto della curva di offerta totale di materie prime (vergini più riciclate), in O’tot . La distanza verticale tra le curve di offerta, d’altra parte, rimane invariata. Ciò significa che la contrazione nel mercato delle materie prime è interamente assorbita dal settore del mercato soggetto a costi di transazione, quello relativo ai materiali riciclati. La presenza di costi di transazione nei mercati del riciclo è esplicitamente modellizzata da Calcott e Walls (2002), che incorporano tali costi in un modello di equilibrio economico generale che considera tutte le fasi nel ciclo di vita delle materie prime: la produzione, il consumo, il riciclaggio e lo smaltimento. In particolare, il modello considera come endogena la scelta da parte dei produttori riguardo alla “riciclabilità” dei prodotti. La conclusione degli autori è che la scelta dello strumento di intervento in presenza di costi di transazione dipende in modo cruciale dal grado di riciclabilità dei prodotti scelto dai produttori. L’inefficienza associata a tali costi potrebbe essere neutralizzata solamente utilizzando strumenti di intervento molto complessi, disegnati in modo da variare al variare del grado di riciclabilità scelto dai produttori. Ciò è di difficilissima implementazione nella realtà, cosicché gli autori ripiegano su strumenti di second best. Da questo punto di vista i risultati di Calcott e Walls (2002) sono incoraggianti e suggeriscono che la politica ottimale di second best sia una combinazione di interventi 17 La figura 3, che è una rielaborazione da OECD (2006, fig. 1.3, pag 21) è, necessariamente, una rappresentazione molto sintetica e semplificata del mercato delle materie prime. E’ tuttavia sufficiente per l’analisi svolta in questa parte del lavoro. per la correzione delle esternalità associate al ciclo dei rifiuti e per la promozione di un miglioramento nel funzionamento dei mercati del riciclo. Questo può essere ottenuto, secondo gli autori, attraverso l’utilizzo di una modesta imposta sullo smaltimento (inferiore al livello socialmente efficiente) ed un sistema di depositi rifondibili. Il ruolo del mercato è legato al fatto che indubbiamente imposte e rimborsi influenzano gli incentivi per i produttori a creare prodotti riciclabili, ma l’esistenza di un mercato, anche non perfettamente funzionante (cioè affetto da costi di transazione), genera incentivi virtuosi attraverso il meccanismo dei prezzi, che dovrebbe premiare i produttori di beni caratterizzati da una maggiore riciclabilità. Questo secondo tipo di incentivi virtuosi sarà ovviamente tanto maggiore quanto migliore sarà il funzionamento dei mercati per i materiali riciclati, vale a dire, tanto minori saranno i costi di transazione. Per questo, molti governi promuovono politiche compatibili con una riduzione di tali costi. Come suggerisce OECD (2006), le autorità pubbliche dei paesi OECD hanno sinora privilegiato la pubblicazione di liste contenenti potenziali acquirenti ed offerenti materiali riciclati. Altri metodi per ridurre i costi di ricerca hanno portato paesi come il Regno Unito, l’Austria e gli USA a supportare l’utilizzo di transazioni tramite Internet, relative a diversi tipi di materiali riciclati. Per ovviare al problema della mancanza di informazioni affidabili sui prezzi e alla difficoltà di porre in essere una transazione tra parti incapaci di riconoscere, se non con dispendio di tempo e risorse, la qualità del prodotto oggetto della transazione stessa, possono essere utilizzati contratti a lungo termine18, che però hanno la caratteristica di introdurre “rigidità” nel mercato, tali da renderlo incapace di aggiustarsi rapidamente alle mutevoli condizioni di domanda ed alla rapida evoluzione del progresso tecnico. Infine, i costi di transazione possono essere sostanzialmente ridotti attraverso l’utilizzo di contratti “standardizzati”, come avviene, ad esempio, in Olanda. In aggiunta ai problemi legati alla presenza di costi di transazione, importanti freni ad un funzionamento efficiente per i mercati delle materie prime possono derivare dalla diffidenza, a volte estrema ed ingiustificata, che i consumatori possono avere nei confronti delle materie prime riciclate. Questo è particolarmente importante con riferimento a quei materiali riciclati il cui utilizzo può comportare costi ingenti, per cui la perdita attesa per i consumatori finali è alta nonostante la probabilità di un evento negativo sia molto bassa. Due esempi tipici sono gli pneumatici ricondizionati, prodotti a partire da pneumatici di scarto, e l’olio motore ottenuto da oli di scarto. In entrambi i casi, l’utilizzo della materia riciclata comporterebbe ingenti risparmi di costo, ma il valore atteso della perdita economica legato all’esplosione di uno pneumatico o ad un guasto grave al motore della propria auto è così alto da allontanare i consumatori da questo tipo di prodotti riciclati. Questo tipo di comportamento viene spiegato dalla teoria economica sulla base di quella che viene chiamata “avversione alla delusione” (disappointment aversion). Seguendo, Grant, Kajii e Polak (2001), un agente economico è avverso alla delusione se, in presenza di incertezza, la sua utilità legata ad un esito negativo è minore dell’utilità che lo stesso esito produce direttamente. In altre parole, vi è una riduzione 18 Si veda anche la trattazione svolta nel paragrafo 4.1. di utilità legata non all’esito in se, ma alla delusione per la negatività dello stesso. Ciò distingue l’avversione alla delusione dall’avversione al rischio, poiché al contrario di quest’ultima, l’avversione alla delusione implica il confronto esplicito tra il benessere legato all’evento che effettivamente si verifica e quello generato dagli eventi (migliori) che non si sono verificati. L’intervento pubblico può avere luogo sia alimentando direttamente la domanda, segnalando così ai consumatori la qualità dei prodotti riciclati, sia fornendo standard qualitativi stringenti, al limite imponendo gli stessi vincoli di qualità previsti per i prodotti ottenuti da materiali vergini. Questo è quanto prevede, ad esempio, la recente Direttiva sui materiali di scarto derivanti dalle attività di costruzione (OECD (2006)). Bisogna però, a nostro avviso, porre attenzione a questo tipo di interventi, che non generano necessariamente effetti positivi: restrizioni qualitative molto forti per i materiali riciclati possono renderne estremamente costosa la produzione ed, in ultima analisi, interferire con la capacità del mercato di raggiungere l’efficienza. 5. Considerazioni conclusive L’ottenimento di un tasso di riciclaggio efficiente richiede due livelli di intervento, il primo finalizzato alla correzione delle esternalità di natura ambientale ed il secondo teso all’individuazione ed alla correzione delle imperfezioni del mercato dove le materie prime ed i prodotti riciclati sono scambiati. In questo lavoro, ci siamo concentrati sul secondo obiettivo, con particolare attenzione alle cause di distorsione presenti nei settori legati al riciclaggio. Da quanto evidenziato in questo lavoro, non è facile proporre una soluzione one size fits all: la struttura ottimale del settore e le politiche appropriate di intervento devono necessariamente essere valutate caso per caso. Un esempio, sotto questo profilo, riguarda l’opportunità (o meno) di favorire processi di integrazione verticale. Sembra invece abbastanza chiaro che investimenti nel miglioramento delle tecnologie di monitoring possano sortire effetti positivi, sia riducendo le asimmetrie di informazione che contenendo i costi di transazione. Al fine di rendere operativi i concetti introdotti in questo lavoro, è necessaria un’investigazione il più possibile dettagliata delle attuali caratteristiche del mercato italiano dei rifiuti, con attenzione particolare al settore del riciclaggio. L’evidenza fornisce, per alcune categorie di materiali, segnali incoraggianti. L’esperienza tedesca ci insegna, d’altra parte, come l’esistenza di un mercato funzionante “a valle” per questi materiali sia condizione essenziale perché le politiche di intervento connesse al ciclo dei rifiuti svolgano pienamente i loro effetti. La valutazione delle caratteristiche del mercato italiano del riciclo, al fine di individuare eventuali inefficienze e di proporre le necessarie correzioni, costituisce quindi una sfida importante sulla strada verso una gestione dei rifiuti il più possibile vicina all’ottimo sociale nel nostro paese: questo tema sarà oggetto della nostra futura attività di ricerca. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI A.P.A.T. (2008), Rapporto Rifiuti 2007, Roma, Agenzia per l’Ambiente e i Servizi Tecnici. Akerlof, G. A. (1970), The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in “Quarterly Journal of Economics”, 84, pp. 488 – 500. Arrow, K.J. (1975), Vertical Integration and Communication, in “Bell Journal of Economics”, 6, pp. 173 – 183. Boerner, B. e K. Chilton (1994), False Economy: The Folly of Demand-Side Recycling, in “Environment”, 36, pp. 6 – 15. Calcott, P. e M. 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(2002), Microeconomia, Venezia, Cafoscarina. € CM sociale di smaltimento Costo marginale di riciclaggio CM privato di smaltimento 0% Qp Qs 100% Quota riciclata 0% Quota smaltita 100% Figura 1 – Livello efficiente di riciclaggio Fonte: Nostra rielaborazione da Tietenberg (1996) pq E C CMq = px =CM px G D Dx=RMq RMx q3 B q2 Dq q1 Figura 2 – Doppia marginalizzazione Fonte: Lipczynski et al. (2005) CMx Produzione O’r P, CM Or Domanda O’tot Ov Otot Q Figura 3: costi di transazione e mercato del riciclaggio Crescita economica sostenibile e ruolo del settore dei servizi di Ignazio Musu Classificazione JEL: Q540; Q550; L800 Keywords: global warming, environmental sustainability, growth, services 1. Introduzione. La crescita economica è universalmente desiderata in quanto a ragione si ritiene che da essa possano derivare effetti positivi in termini di una migliore qualità della vita per tutti i componenti di una società. Ma la crescita economica per definizione comporta una espansione continua della scala dell’attività economica, e questa espansione esercita una pressione crescente sulle risorse della natura e dell’ambiente, che può avere due effetti negativi: da un lato quello meramente quantitativo di compromettere la possibilità della crescita di continuare, dall’altro lato quello qualitativo di allontanare sempre di più la crescita economica dal più generale obiettivo del miglioramento della qualità della vita. Sono questi i due aspetti del problema della sostenibilità ambientale della crescita economica. La possibilità di una sostenibilità ambientale della crescita economica, ossia di garantire assieme crescita economica e preservazione della qualità ambientale, si basa su un approccio intergenerazionale: come le generazioni passate hanno investito in capitale fisico, capitale umano, scienza e tecnologia in modo tale da permettere alle generazioni presenti di conseguire più elevati livelli di reddito e di qualità della vita, così anche le generazioni presenti, comportandosi nello stesso modo, e beneficiando del più elevato stock di capitale fisico, umano e in termini di conoscenza ereditato dalle generazioni passate, potranno a loro volta permettere alle generazioni future di godere di livelli di reddito e di una qualità della vita ancora più elevati. In questo lavoro mi propongo: 1) di discutere gli aspetti generali del rapporto tra crescita economica e preservazione dell’ambiente; 2) di mostrare come per perseguire la sostenibilità ambientale della crescita economica sia necessario integrare le politiche di regolazione ambientale con appropriate politiche di innovazione tecnologica; 3) di discutere come il crescente peso del settore dei servizi nel prodotto nazionale di una economia possa contribuire alla sostenibilità ambientale della sua crescita. 2. Mercato e risorse naturali esauribili Il problema della sostenibilità ambientale della crescita economica ha due aspetti. Il primo aspetto è quello quantitativo della possibilità della crescita di continuare anche se alcune risorse naturali, quelle ovviamente che sono più importanti per la crescita stessa, si esauriscono. Il secondo aspetto è quello qualitativo, che riguarda soprattutto la qualità dell’ambiente: se la crescita economica comporta un deterioramento della qualità dell’ambiente, essa diventa insostenibile sotto il profilo della sua capacità di garantire anche un miglioramento della qualità della vita. Il primo aspetto della sostenibilità riguarda in modo particolare le risorse esauribili, il cui esempio più importante sono i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale), risorse che almeno attualmente svolgono un ruolo essenziale nell’intero sistema 2 produttivo. Per queste risorse il problema della scarsità si pone in modo radicale: una volte utilizzate esse non esistono più. L’unica strategia che l’uomo ha nei confronti di queste risorse per renderne l’utilizzo compatibile con la crescita economica è puntare sulla loro sostituzione con altre risorse che non abbiano la caratteristica della esauribilità, facendo diventare le risorse esauribili inessenziali allo svolgimento dell’attività economica (Dasgupta e Heal, 1979, Heal, 1998). I mercati per le risorse naturali esauribili possono segnalare con prezzi crescenti la loro crescente scarsità. Oggi ad esempio la globalizzazione della crescita economica, ampliando la scala globale dell’attività economica, ha determinato un aumento della domanda di energia, e quindi un aumento della utilizzazione dei combustibili fossili dai quali la produzione di energia principalmente dipende, senza precedenti (International Energy Agency, 2007). E’ inevitabile che questo comporti un progressivo aumento dei prezzi dei combustibili fossili; e questo aumento dei prezzi rappresenta l’incentivo più importante per coprire i costi crescenti di utilizzo dei giacimenti esistenti, per allontanare il momento dell’esaurimento delle risorse, e per stimolare il passaggio ad una nuova base dell’economia energetica mondiale fondata su fonti rinnovabili. In mercati tipicamente non concorrenziali, come sono quelli dei combustibili fossili, la crescita della domanda si combina, in modo spesso non facilmente distinguibile, con una scarsità di offerta prodotta artificialmente da uno spregiudicato esercizio del potere di monopolio dei possessori degli stocks di risorse esauribili. Questo è ciò a cui stiamo probabilmente assistendo adesso. Le imperfezioni dei mercati si inseriscono nel gioco consentendo all’esercizio spregiudicato del potere dei paesi detentori dei giacimenti, sia di petrolio che di gas naturale, e al commercio a termine sui mercati finanziari, di accentuare la spinta al rialzo dei prezzi molto al di là di quello che sarebbe ragionevole sulla base dell’eccesso strutturale della domanda e dei costi crescenti di estrazione. Sarebbe opportuno intervenire su questi eccessi determinati dall’imperfezione dei mercati. Ma è oggettivamente molto difficile, data l’assenza di un adeguato sistema di regolazione internazionale. E’ molto importante che i governi non diano segnali che protraggano nell’opinione pubblica l’illusione che si possa prolungare all’infinito l’era dei bassi costi dell’energia. Un graduale aumento dei prezzi delle risorse energetiche esauribili, che ne rifletta la crescente scarsità, è necessario per aumentare, in primo luogo, l’efficienza energetica nell’uso delle fonti esistenti, e per muoversi verso una transizione graduale, ma irreversibile, a nuove fonti energetiche commercializzabili. 3. Mercato e risorse ambientali. Veniamo ora la secondo aspetto, quello qualitativo, della sostenibilità della crescita economica. Esso riguarda il mantenimento o se possibile il miglioramento della qualità dell’ambiente, che è a sua volta un aspetto essenziale della qualità della vita di una società. La natura è costituita da un ampio insieme di risorse che offrono servizi ecologici la cui qualità è essenziale per il mantenimento nel lungo termine della qualità della vita della società. La grande opportunità per il mantenimento della qualità dei servizi ecologici offerti dalle risorse della biosfera è costituita dalla loro rigenerabilità, consentita dai cicli stessi della natura. La quantità e la qualità dell’acqua, la qualità dell’aria, la qualità del 3 suolo, le foreste e le popolazioni animali, gli ecosistemi sono risorse che, anche se vengono sfruttate dall’uomo, possono essere ricostituite nei limiti dei cicli naturali. Se il flusso di sfruttamento di queste risorse da parte dell’attività umana supera il flusso di rigenerazione naturale, lo stock declinerà e la risorsa è destinata ad esaurirsi; in questo caso ci si trova nella stessa situazione delle risorse naturali esauribili: un maggior sfruttamento corrente della risorsa implica una minore possibilità di sfruttamento futuro. Solo se il flusso di rigenerazione da parte dell’uomo si mantiene nei limiti del flusso di rigenerazione naturale, lo stock può mantenuto indefinitamente. In questo caso sia il flusso di sfruttamento sia lo stock possono essere definiti sostenibili. L’inquinamento è un esempio di sfruttamento eccessivo di risorse naturali rigenerabili. In questo caso il ruolo di capacità di rigenerazione è svolto dalla capacità naturale di assimilare e neutralizzare l’effetto negativo dell’inquinamento sulla qualità dell’ambiente. La parte del flusso di emissioni che supera la capacità naturale di assimilare la sostanza inquinante si accumula nell’ambiente e produce effetti netti negativi sulla qualità dell’ambiente. La qualità dell’ambiente è dunque un esempio di risorsa naturale rigenerabile: essa si può preservare se le emissioni inquinanti vengono mantenute nei limiti della capacità naturale di assimilazione. Altrimenti la qualità dell’ambiente si deteriora e tende ad esaurirsi. Se la crescita economica comporta un deterioramento o addirittura l’esaurimento della qualità dell’ambiente, essa comporta anche il deterioramento della qualità della vita e pertanto non si può definire sostenibile. Il meccanismo di mercato incontra serie difficoltà nel garantire che l’inquinamento avvenga nei limiti della capacità naturali di assimilazione, senza quindi compromettere la qualità dell’ambiente. Il mercato infatti non è in grado, come sia pure imperfettamente avviene nel caso delle risorse naturali esauribili, di esprimere prezzi crescenti che rivelino la crescente scarsità della qualità dell’ambiente per effetto dell’inquinamento (Perman et al., 2003). La ragione di ciò sta nel fatto che la qualità dell’ambiente è un bene pubblico: di essa possono godere in modo non rivale e non esclusivo molte persone; questo rende impossibile determinare dei diritti di proprietà sulla qualità dell’ambiente; e questo a sua volta rende difficile determinare una domanda e una offerta e quindi determinare dei prezzi di mercato. Prendiamo ad esempio il caso dell’atmosfera. Il mercato non è in grado di rivelare il costo del deterioramento della qualità dell’atmosfera, e quindi, ad esempio, il costo del cambiamento climatico derivante dalle eccessive emissioni e dalla eccessiva concentrazione di “gas serra” nell’atmosfera. Il problema del cambiamento climatico è di particolare interesse non solo per la sua pervasività e gravità, ma anche perché in esso si saldano un problema di esaurimento delle risorse naturali esauribili e di deterioramento della qualità dell’ambiente. Infatti il cambiamento climatico deriva dalle eccessive emissioni di gas che provengono dallo sfruttamento dei combustibili fossili. Il prezzo crescente dei combustibili fossili riflette la scarsità di queste risorse esauribili, ma non i costi sociali derivanti dal deterioramento della qualità globale dell’atmosfera che si manifesta nel cambiamento climatico. Queste considerazioni giustificano una assunzione diretta di responsabilità sulle risorse ambientali da parte pubblica. Nel caso di risorse globali come l’atmosfera questa 4 assunzione di responsabilità dovrà manifestarsi in un controllo esercitato attraverso la collaborazione internazionale dei diversi stati. 4. Condizioni per una crescita economica sostenibile. La capacità di rigenerazione della natura non cresce nel tempo, perché l’offerta di servizi ecologici da parte della natura è limitata dal flusso di energia che proviene dal sole e questo flusso non cresce nel tempo. Ma la crescita economica implica che l’attività umana che determina la domanda di servizi ecologici cresce nel tempo. Come è possibile mantenere la qualità dell’ambiente se la domanda di servizi ecologici da parte dell’economia cresce ad un tasso esponenziale a fronte di una sostanziale costanza dell’offerta netta di servizi ecologici da parte della natura? La pressione dell’attività economica sull’ambiente dipende da tre fattori: la crescita della scala dell’attività economica, la modificazione della struttura produttiva e lo sviluppo della tecnologia che definisce l’impatto sull’ambiente delle diverse attività produttive (Brock e Taylor, 2005). La scala dell’attività economica, considerata da sola, è un fattore che esercita una pressione crescente sull’insieme limitato delle risorse dell’ambiente e della natura, ed ha pertanto un effetto negativo sull’ambiente (questo è noto come “effetto scala”). La scala dell’attività economica aumenta per effetto della crescita della popolazione e della crescita del prodotto pro-capite; considerati da soli dunque, questi fattori esercitano un effetto negativo sull’ambiente. Questo effetto negativo può essere compensato o più che compensato da una riduzione del coefficiente medio di impatto sull’ambiente per unità di prodotto aggregato. E’ evidente che, se (e va sottolineato il “se”) il coefficiente medio di impatto sull’ambiente per unità di prodotto si riduce ad un ritmo superiore a quello al quale aumenta il prodotto aggregato per via dell’aumento della popolazione e dell’aumento del prodotto pro-capite, la pressione sull’ambiente della crescita economica si riduce progressivamente e migliorano le condizioni di sostenibilità. La dinamica del coefficiente medio di impatto sull’ambiente per unità di prodotto aggregato dipende a sua volta da due fattori: la composizione della struttura produttiva e la dinamica dei coefficienti di impatto ambientale per unità di prodotto in ciascun settore produttivo. Il coefficiente medio diminuirà tanto più velocemente quanto più aumenta il peso nella struttura produttiva dei settori il cui coefficiente di impatto per unità di prodotto è più basso e/o decresce più rapidamente. I cambiamenti nella struttura produttiva dipendono essenzialmente dalla evoluzione della struttura della domanda, mentre le dinamiche dei coefficienti di impatto ambientale settoriali dipendono dalla dinamica del progresso tecnologico nei diversi settori produttivi. Anche la dinamica del prodotto pro-capite dipende però dal progresso tecnologico. Il progresso tecnologico infatti aumenta la produttività del lavoro. Perciò la sostenibilità della crescita economica dipende dal rapporto tra due tipi di progresso tecnologico: un progresso tecnologico che, sotto il profilo della sostenibilità, possiamo definire “buono”, e che si manifesta nella riduzione dei coefficienti settoriali di impatto ambientale per unità di prodotto; e un progresso tecnologico che, sotto il profilo della sostenibilità, possiamo definire “cattivo”, e che si manifesta in un aumento della produttività del lavoro. Quest’ultimo, come abbiamo visto, agisce negativamente sull’ambiente perché accresce 5 l’effetto di scala. L’effetto sulla sostenibilità della crescita sarà tanto più positivo quanto maggiore è il peso del progresso tecnico di tipo “buono” rispetto al peso del progresso tecnico di tipo “cattivo”. La situazione ideale sarebbe la combinazione di due fattori: un progresso tecnologico che, nel momento in cui accresce la produttività del lavoro, riduce anche, almeno nella stessa misura, la pressione sull’ambiente per unità di prodotto; e una modificazione nella composizione della domanda e della struttura produttiva che favorisce i beni e servizi e i processi produttivi caratterizzati da un pressione decrescente sull’ambiente per unità di prodotto (Smulders, 2000). Ma la realizzazione di questa combinazione ideale non è automatica; l’interazione tra i vari fattori in gioco può quindi dar luogo a svariate configurazioni del rapporto tra crescita economica e qualità dell’ambiente. Non è automatico che prevalga quella che consente di ottenere crescita economica e al tempo stesso riduzione della pressione sull’ambiente. L’esperienza storica ci dice qualcosa su questa complessità delle interazioni tra i vari fattori in gioco. Nelle fasi iniziali dello sviluppo, tende a prevalere l’effetto negativo di scala sia per la crescita della popolazione sia per l’accelerazione della crescita del prodotto pro-capite; inoltre nella fase iniziale della crescita aumenta nella struttura produttiva il peso dei settori industriali più inquinanti ossia quelli a più alto coefficiente di impatto ambientale. Inoltre nelle fasi iniziali della crescita le politiche ambientali sono normalmente molto deboli. Questo spiega perché le fasi iniziali della crescita sono normalmente accompagnate da un deterioramento della qualità dell’ambiente. Con il procedere dello sviluppo si riduce la componente dell’effetto di scala dovuta all’aumento della popolazione, aumenta il peso dei settori produttivi con coefficienti minori e decrescenti di impatto ambientale, quali i settori dei servizi e delle produzioni immateriali, ed è probabile che si acceleri la riduzione dei coefficienti settoriali di impatto ambientale per lo sviluppo delle innovazioni ambientali da parte delle imprese, stimolate da una appropriata regolazione ambientale. Queste osservazioni hanno condotto molti economisti ad avanzare l’ipotesi che tra degrado ambientale e crescita economica vi sia una relazione prima crescente e poi decrescente: nelle fasi iniziali della crescita la qualità dell’ambiente tende a peggiorare, ma quando la crescita si consolida e diventa più matura, ed è anche caratterizzata, come è normale, da più bassi tassi di crescita, la qualità dell’ambiente tende a migliorare. La consistenza empirica di questa relazione (nota come “curva di Kuznets ambientale”) è però molto discussa (Xepapadeas, 2005). Per alcuni inquinanti si osserva effettivamente un miglioramento ai livelli più elevati di reddito pro-capite (ad esempio per gli inquinanti atmosferici urbani); per altri, come ad esempio le emissioni di CO2 e di altri gas responsabili del cambiamento climatico e per i rifiuti, la relazione non è così confortante. L’analisi teorica e l’esperienza empirica portano allora a rifiutare tesi drastiche ed estreme come quella secondo cui la crescita economica è sempre e comunque apportatrice di degrado della qualità dell’ambiente, ma anche quella opposta che vede sempre e comunque una automatica compatibilità tra crescita economica e preservazione dell’ambiente. La conclusione più appropriata è che la compatibilità tra questi due obiettivi è possibile, ma non è automatica, ed esige delle condizioni. Queste condizioni hanno a che fare con i comportamenti e le scelte delle persone; le istituzioni che incentivano e i valori che ispirano tali comportamenti e tali scelte svolgono un ruolo essenziale. Nel determinare il 6 verificarsi di queste condizioni il mercato si rivela insufficiente e quindi le politiche ambientali rivestono un ruolo essenziale. 5. Il ruolo della regolazione per una crescita sostenibile. Le politiche ambientali, pur essendo richieste per una insufficienza del mercato, non necessariamente si attuano in opposizione al mercato, ma anzi possono essere congegnate in modo da avvalersi il più possibile delle potenzialità del mercato (Musu, 2003; Tietenberg, 2006). L’idea centrale della politica economica ambientale è che se si vuole rendere la crescita economica compatibile con la preservazione, o meglio ancora con il miglioramento, della qualità dell’ambiente, si deve intervenire con adeguate politiche di incentivo e di disincentivo che orientino il mercato in questa direzione. Lo scopo di queste politiche deve essere di far sì che il progresso tecnologico e l’evoluzione della struttura produttiva assumano le caratteristiche che consentono alla crescita economica di essere sostenibile. Gli strumenti economici della politica ambientale elaborati dalla economia ambientale, quali la tassazione ecologica e i permessi negoziabili di inquinamento, possono quindi essere recuperati in questa prospettiva di sostenibilità. Elemento comune delle politiche ambientali basate sull’uso di strumenti economici è che esse operano in modo che il prezzo dell’uso dell’ambiente rifletta il danno che tale uso comporta in termini di deterioramento della qualità dell’ambiente stesso. I costi ambientali possono venire dai processi produttivi e dall’utilizzo dei prodotti finali. I costi ambientali dei processi produttivi sono diversi da prodotto a prodotto. Quindi i prezzi dei prodotti che richiedono processi produttivi i quali sono più dannosi per l’ambiente dovranno aumentare relativamente ai prezzi dei prodotti che richiedono processi produttivi che sono meno dannosi per l’ambiente. Questo sposterà la domanda dei consumatori verso i prodotti i cui processi produttivi sono più favorevoli all’ambiente, riducendo la domanda dei prodotti i cui processi produttivi inquinano di più. Ciò a sua volta indurrà le imprese a ridurre i costi che devono pagare per i processi produttivi che danneggiano di più l’ambiente introducendo innovazioni tecnologiche che riducono l’impatto sull’ambiente per unità di prodotto. Analogo discorso vale per l’effetto negativo sull’ambiente derivante dal consumo dei prodotti (ad esempio il rilascio di CO2 per l’uso dell’automobile, o il deposito di rifiuti). Occorre che anche questo costo ambientale si traduca in un prezzo per il danno generato, per quanto piccolo esso possa apparire a chi lo genera. Infatti è la somma dei danni derivanti dall’inquinamento generato dai comportamenti individuali che conta nel produrre il danno ambientale complessivo, e tale somma può essere molto elevata nell’aggregato, anche se l’inquinamento individuale è molto piccolo. In conclusione, le politiche ambientali basate su un approccio di mercato, ossia su prezzi per l’uso dell’ambiente, determinati direttamente dal regolatore come le tasse ambientali o indirettamente da un mercato di permessi negoziabili, possono fornire forti incentivi alle imprese per adottare innovazioni tecnologiche esistenti che riducano la pressione sull’ambiente per unità di prodotto (Jaffe et al., 2002). La questione è però se le politiche ambientali orientate al mercato sono sufficienti a stimolare le imprese ad inventare e introdurre nuove tecnologie che riducano la pressione sull’ambiente per unità di prodotto, o se costituiscono solo una condizione necessaria. A 7 questo proposito è stato giustamente rilevato (Jaffe et al., 2005) che queste politiche andrebbero integrate con le politiche per la promozione dell’innovazione tecnologica, e viceversa. Se l’inquinamento rappresenta una esternalità negativa, è noto che la produzione di nuova conoscenza nella quale si manifesta il progresso tecnologico rappresenta una esternalità positiva. Infatti una impresa che ha successo nell’inventare una nuova tecnologia fornisce un beneficio di cui le altre imprese possono approfittare senza costi. Quindi il mercato tende a produrre troppo inquinamento, ma anche a produrre troppo poca innovazione tecnologica. Queste considerazioni sono alla base dell’idea che ci deve essere sia una politica ambientale che internalizzi l’esternalità negativa costituita dall’inquinamento, sia una politica per l’innovazione tecnologica che internalizzi l’esternalità positiva costituita dalla nuova conoscenza. Che cosa induce a ritenere che le due politiche vadano tra loro integrate? In primo luogo, il processo di innovazione tecnologica è soggetto a incompletezza informativa e ad incertezza. Le imprese, a fronte di politiche generali di sostengo dell’innovazione, sono indotte ad orientare i loro sforzi verso le innovazioni che presentano maggiori probabilità di successo sul mercato e minor rischio. Le innovazioni ambientali sono tra quelle che presentano invece maggiori rischi e maggiori incertezze di successo. D’altra parte più intenso è il flusso di sforzi nella ricerca tanto maggiore è la probabilità che la ricerca stessa abbia successo. Questo indica che è improbabile che la politica ambientale da sola crei sufficienti incentivi all’innovazione tecnologica ambientale, e quindi che è necessaria anche una politica di stimolo dell’innovazione; ma indica anche che tale politica di stimolo all’innovazione deve cercare di essere mirata all’innovazione ambientale. Nel far questo bisogna però evitare di cadere in una eccessiva rigidità, quale quella connessa all’imposizione di standard tecnologici, e cercare di favorire invece la ricerca della migliore tecnologia, anche mediante l’implementazione di procedure sistematiche di valutazione. Un ruolo molto importante può essere esercitato dalla domanda dell’operatore pubblico, il cui intervento spesso ha rilevanti impatti ambientali: dalle caratteristiche ambientali richieste negli appalti pubblici, ad interventi più diretti quali la raccolta e il trattamento dei rifiuti, e il disegno urbano. Una strategia di regolazione che integri le politiche ambientali orientate al mercato e le politiche per l’innovazione ambientale risponde anche ad una obiezione che viene normalmente fatta all’uso degli strumenti economici nelle politiche ambientali. L’obiezione è che queste ultime, comportando l’aumento dei prezzi dei prodotti inquinanti, siano un fattore di perdita della competitività. Questa obiezione però si dimostra sempre meno valida alla prova dei fatti. In un sempre maggiore numero di casi la diffusione della consapevolezza che la qualità dell’ambiente va protetta e se possibile migliorata si associa all’incremento del livello del reddito pro-capite comportato dallo sviluppo economico. Questo è sempre più vero anche per i paesi in via di sviluppo. La diffusione delle politiche ambientali determina un mercato sempre più ampio non solo per tecnologie di produzione favorevoli all’ambiente, ma anche per prodotti finiti che usano tali tecnologie e che hanno caratteristiche tali da rendere l’impatto ambientale del loro consumo sempre minore (ad esempio attraverso un aumento della riciclabilità). Vi è dunque una sinergia tra ruolo della regolazione e ruolo delle preferenze dei consumatori che si modificano in senso più favorevole all’ambiente a causa del 8 diffondersi di una cultura di crescente consapevolezza ambientale. Gli incentivi messi in atto dalla regolazione consentono a preferenze progressivamente più orientate all’ambiente di tradursi in segnali concreti di mercato. Preferenze favorevoli all’ambiente da parte dei consumatori sono un segnale importante e di grande efficacia per le imprese. Se le imprese sanno che i consumatori sono disposti a pagare di più per prodotti a minore impatto sull’ambiente o che sono ottenuti con processi produttivi meno inquinanti, esse modificano di conseguenza i loro comportamenti di produzione e di investimento per rispondere a questi segnali di mercato. Questo però non elimina la necessità di una regolazione, a causa della persistenza delle imperfezioni di mercato che sono collegate alle esternalità negative ambientali. Ma certamente una cultura della responsabilità ambientale che si traduce in una modificazione delle preferenze rende la regolazione meno invasiva. L’espandersi di questa cultura aiuta inoltre la stessa regolazione ambientale. Questa infatti deve basarsi sul consenso dei cittadini che li porta a sostenere con il loro voto scelte pubbliche che vadano nella direzione di una crescita economica sostenibile. Dunque una diffusa cultura di responsabilità ambientale non solo stimola ad una modificazione favorevole all’ambiente delle preferenze delle persone in quanto consumatori, ma anche spinge il cittadino elettore ad un comportamento più orientato verso valori di rispetto per l’ambiente. In altri termini, una cultura di responsabilità ambientale rende la regolazione stessa al tempo stesso meno invasiva e più efficace. Si può quindi concludere che una regolazione appropriata stimola le imprese verso investimenti delle imprese in innovazione ambientale che costituiscono un fattore favorevole al miglioramento della competitività. Essa è quindi uno strumento che non ostacola, ma favorisce la competitività (Porter, 1991; Porter e van der Linde, 1995 ). 6. Il ruolo dei servizi nella crescita economica sostenibile. Abbiamo visto che uno dei fattori che possono giocare a favore della crescita economica sostenibile è lo spostamento della composizione strutturale dell’economia verso settori a minore impatto ambientale per unità di prodotto. Si sostiene normalmente che un aumento del peso del settore dei servizi nelle fasi di maturità della crescita economica va a favore della sostenibilità ambientale della crescita stessa. E’ certamente vero che l’impatto sull’ambiente del settore dei servizi è minore di quello della industrie manifatturiere, soprattutto di quelle di base, ma molto dipende dall’effetto della tecnica ossia dalla tecnologia che viene utilizzata. Nelle economie avanzate il settore dei servizi rappresenta oltre il 50% del prodotto interno lordo; negli Stati Uniti esso supera il 75%. Tuttavia non è automatico che questa espansione e le pratiche produttive delle imprese vadano a favore di una maggiore sostenibilità ambientale della crescita economica. La ragione sta nel fatto che la stessa economia dei servizi ha bisogno di un supporto materiale per svilupparsi, ed è soprattutto attraverso questo supporto materiale che si esercita la pressione sull’ambiente. L’effetto sull’ambiente è naturalmente diverso a seconda del tipo di servizio, ma coinvolge spesso contemporaneamente più tipi di servizi. Ad esempio l’espansione del commercio non solo è causa di quantità crescenti di rifiuti solidi, a cominciare dagli imballaggi, per finire ai materiali di scarto che vengono sostituiti quando si acquistano 9 beni durevoli più moderni, ma determina una espansione del trasporto di merci. E il trasporto costituisce un altro esempio di servizio la cui espansione ha effetti ambientali molto rilevanti. Il trasporto ad esempio contribuisce per circa un quinto alle emissioni globali di CO2, e quindi costituisce uno dei settori che più contribuiscono al cambiamento climatico globale. L’effetto ambientale del commercio riguarda anche la forma di commercio che a prima vista si presenta come attività fortemente caratterizzata in senso “immateriale” ossia il commercio on line, che sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie della comunicazione. E’ vero che questa attività riduce i punti fisici di vendita, ma certamente non riduce, anzi espande, il volume di trasporto delle merci materiali, perché amplia lo spazio entro il quale tale trasporto avviene. I conseguenti problemi logistici hanno un impatto ambientale molto rilevante. Inoltre, l’attività commerciale on line si appoggia su tutta una serie di strumenti materiali (quali i PC e i telefoni cellulari) che diventano rapidamente obsoleti e che sono di non facile riciclabilità, anche perché contengono materiali tossici. Al punto che il problema dei cosiddetti “e-wastes” è oggi uno dei problemi che stanno diventando sempre più seri in tutti i paesi. Tornando al trasporto, si deve anche osservare che esso è destinato ad espandersi per lo sviluppo crescente della urbanizzazione e per la formazione di aree urbane e metropolitane di dimensioni e popolazione sempre più vaste, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Il trasporto urbano è un fattore sempre più importante di inquinamento dell’atmosfera e il problema della mobilità sostenibile è una delle sfide più urgenti che la politica ambientale dovrà affrontare. Un altro servizio decisamente in espansione che ha rilevanti effetti sull’ambiente è il turismo. L’espansione del turismo di massa costituisce una inevitabile conseguenza del fatto che un numero crescente di persone sono destinate a godere nel futuro i frutti della crescita economica (basta pensare ai due miliardi e mezzo che costituiscono la popolazione della Cina e dell’India) in termini di un maggior reddito pro-capite e sono quindi in grado di spendere una quota di tale reddito in attività turistiche. E’ evidente che questa espansione è destinata ad esercitare una pressione molto forte sull’ambiente specialmente in particolari aree, e cioè quelle dove sono localizzati ecosistemi ed habitat di particolare pregio ed anche quindi di particolare fragilità, e quelle in cui è localizzato un patrimonio artistico di grande attrazione. In queste aree le conseguenze che mettono in serio pericolo la sostenibilità sono: l’inquinamento in genere ma, soprattutto, quello del suolo attraverso rifiuti crescenti; la congestione; le modificazioni nell’uso del territorio. Inoltre il turismo genera per definizione un aumento del trasporto, questa volta delle persone più che delle merci. Questo incremento di trasporto è un fenomeno internazionale, ma si concentra in particolare sulle aree oggetto di visita da parte dei turisti, determinando fenomeni di congestione del traffico che hanno effetti rilevanti soprattutto sull’inquinamento atmosferico. Non si deve infine trascurare l’effetto ambientale dell’espansione dei servizi alla persona. Prendiamo ad esempio il caso dei servizi sanitari. Essi usano materiali i quali determinano quantità crescenti di rifiuti solidi che hanno un elevato grado di tossicità (ad esempio il mercurio). 10 La relazione tra servizi e ambiente non è però unidirezionale. Il problema della sostenibilità si manifesta anche nei servizi come effetto negativo del deterioramento ambientale sul risultato dell’attività economica. Un esempio al riguardo può essere fornito dall’effetto del cambiamento climatico sul settore dei servizi. In certe aree il turismo potrà beneficiare del cambiamento climatico, ma in altre sarà danneggiato. Nelle zone costiere il turismo sarà penalizzato dal più elevato livello del mare, dalla erosione delle spiagge, dalla intensificazione degli eventi meteorologici estremi. Nelle zone montane il turismo sarà danneggiato da una minore caduta di neve e dal ridursi della stagione. Un altro settore dei servizi che sarà colpito dal cambiamento climatico è quello delle assicurazioni. Le compagnie di assicurazione stanno già percependo l’impatto economico negativo dell’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi. Il valore dei danni ad essi collegato, danni che riguardano le persone, ma anche le proprietà immobiliari, è destinato ad intensificarsi molto in futuro, e questo potrà determinare un atteggiamento di crescente riluttanza nell’offerta di polizze da parte delle compagnie. Segni in questa direzione si sono già manifestati negli Stati Uniti dopo l’uragano Katrina. Anche nei confronti del settore dei servizi si pone un problema di regolazione ambientale. Molte delle caratteristiche della regolazione ambientale che abbiamo visto in precedenza rimangono valide anche per i servizi. Uno strumento importante di tale regolazione è costituito dall’incentivo dei prezzi. Esempi specifici per il settore dei servizi sono tariffe di accesso per il traffico nelle aree urbane e ticket per l’accesso dei turisti nelle aree di particolare fragilità ecologica. Data la rigidità della domanda l’effetto di questi prezzi può non essere, almeno nel breve periodo, quello di selezionare in modo adeguato la domanda; ma è certamente quello di determinare un reddito che la collettività potrà usare per coprire almeno una parte dei costi ambientali, senza gravare eccessivamente ed in modo chiaramente regressivo sui residenti locali. Qualora si renda necessaria un restrizione quantitativa dell’uso dell’ambiente per evitare che si superino soglie che rendono il danno inaccettabile, l’uso dello strumento dei prezzi può essere accoppiato con standard quantitativi, anche con lo scopo di rendere il più efficace possibile rispetto ai costi il perseguimento di tali standard aggregati. Un altro aspetto della regolazione ambientale nel settore dei servizi riguarda la estensione della responsabilità ambientale agli intermediari finanziari per quanto riguarda il danno ambientale dei progetti di investimento da essi finanziati. Questa infatti incentiva gli intermediari stessi a mettere in atto incentivi perché i prenditori di prestiti applichino tecnologie più rispettose dell’ambiente. Ad esempio le condizioni di prestito per l’acquisto di una casa potrebbero diventare più favorevoli se venisse dimostrato che la casa acquistata è più efficiente dal punto di vista energetico o che l’acquirente si impegna ad introdurre miglioramenti in questa direzione. Questo vale anche per le compagnie di assicurazione che potrebbero essere indotte ad offrire sconti sui premi in contratti di assicurazione che riguardano automobili più efficienti dal punto di vista del consumo di combustibili. Esempi di questi comportamenti virtuosi già esistono; può certamente essere il caso che essi vengano determinati da una maggior responsabilità ambientale dell’impresa; ma è molto improbabile che essi possano divenire comportamenti diffusi in assenza di una regolazione che li renda convenienti imponendo dei costi se non vengono conseguiti risultati in termini di qualità dell’ambiente. Importante sotto questo profilo è l’estensione 11 della disciplina della responsabilità civile anche agli intermediari finanziari coinvolti nel finanziamento di progetti di investimento che hanno sempre anche degli impatti sull’ambiente. Naturalmente anche nel settore dei servizi la regolazione può essere più facilmente attuata in presenza di una diffusa coscienza ambientale. Ad esempio i turisti sono normalmente più disposti a pagare un prezzo per l’accesso in un ambiente di particolare pregio e delicatezza ecologica se sanno che tale prezzo verrà utilizzato per la preservazione dell’ambiente stesso. Alcuni servizi sono poi esplicitamente espressione di una politica ambientale. Si pensi alle public utilities e alla loro responsabilità nel campo della gestione dell’acqua e dei rifiuti. In generale la domanda pubblica per soddisfare la domanda crescente di servizi pubblici costituisce un veicolo importante per la diffusione di tecnologie a minore impatto ambientale. Questo porta ad un altro aspetto di regolazione mirata che riguarda in particolare i servizi, e cioè la differenziazione dei livelli di intervento. La regolazione ambientale di alcuni tipi di servizi coinvolge infatti in modo particolare il livello locale: si pensi al trasporto urbano, al turismo, alla gestione dei servizi pubblici e alla persona che sono molto radicati sul territorio. Uno dei problemi che ciò solleva è quello del rapporto tra i diversi livelli della politica ambientale, e quindi anche il problema del federalismo fiscale ambientale. Si tratta di definire l’autonomia dell’autorità locale nello stabilire il livello di una tassa sull’uso dell’ambiente o del patrimonio culturale locale, e poi nel trattenere il gettito di tale tassa e nel decidere come utilizzarlo. Infine anche nel settore dei servizi è necessario creare le condizioni perché si arrivi ad una interazione virtuosa in termini di sostenibilità della crescita economica tra regolazione e valorizzazione del ruolo delle imprese mediante l’integrazione con una politica di promozione dell’innovazione ambientale. Tuttavia l’importanza dell’innovazione tecnologica ambientale è maggiore nel settore della produzione materiale, del quale peraltro il settore dei servizi si avvale per rendere possibile la propria attività. In conclusione, l’evoluzione della crescita economica verso un modello post-industriale dove il settore dei servizi ha un peso prevalente non elimina i problemi di impatto dell’attività economica sull’ambiente e la necessità di un “effetto della tecnica” positivo che compensi l’”effetto scala” negativo. Sia pure in modo meno pesante che nel caso dell’industria, ma anche a causa della interdipendenza settoriale tra servizi e industria, si pone anche nel settore dei servizi la sfida ad una regolazione ambientale integrata con una politica appropriata di stimolo all’innovazione che sia strumento di promozione di una crescita sostenibile. Come abbiamo visto nel settore dei servizi questa regolazione avrà un aspetto locale di importanza crescente. Se questo rende più facile il collegamento tra la regolazione e la società che esprime l’autorità deputata a questa regolazione, è anche un aspetto che aumenta la responsabilità delle collettività locali nella loro capacità di saper affrontare e risolvere il conflitto tra crescita economica e preservazione dell’ambiente, individuando e poi sostenendo un modello condiviso di sostenibilità della collettività locale. L’esperienza spesso non positiva con le cosiddette “agende 21 locali” ci mostra che non sempre questo avviene. Nel caso di ambienti che hanno un valore che va al di là della dimensione locale, occorre perciò spostare in alto il livello di decisione. Ma il problema della 12 consapevolezza delle collettività locali non si può eludere e alla lunga si affronta mediante l’educazione ambientale, che diventa così un pilastro di una lungimirante politica ambientale. Riferimenti bibliografici. W. Brock, M. S. 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