CLEAN, CLEVER, COMPETITIVE, Istruzioni per l`uso

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CLEAN, CLEVER, COMPETITIVE, Istruzioni per l`uso
CLEAN, CLEVER, COMPETITIVE. ISTRUZIONI PER L’USO.
[email protected] Università di Roma “Tor Vergata “, Facoltà di Economia,
Dipartimento di Studi Economico Finanziari e Metodi Quantitativi, via Columbia 2, 00133 Roma
Verso una politica ambientale globale: prospettive ed ambiti di intervento
Titolo in inglese (a scelta):
Suggestions for an Active Global Environmental Policy
Towards a Global Environmental Policy: Prospects and Promises
JEL, H000, O400, Q550,
Q200, Q300 (I primi tre o tutti e 5)
Key words:
technology, environmental policy, renewable resources, exhaustible resources , environmental
Kuznets curve, tradable permits
Abstract - italiano
Conciliare la crescita con l’ ambiente è possibile ma non è un risultato al quale si giunge
automaticamente e senza costi. Occorre che il settore pubblico svolga il proprio compito
nell’interesse della collettività e cioè, innanzitutto, stabilisca con chiarezza e credibilità gli obiettivi
e poi scelga gli strumenti di intervento in base all’efficienza rispetto al costo e ai comportamenti di
lungo periodo che ad essi possono seguire. Occorre però che si raggiungano accordi internazionali/
globali perché i problemi da affrontare hanno tale natura e perciò tutti gli stati devono cooperare per
il raggiungimento degli obiettivi e la condivisione dei costi. Lo strumento su cui puntare è il
sistema di diritti negoziabili perché è efficiente rispetto al costo e sembra “gradito” al mercato in
entrambi i lati dell’Atlantico.
Abstract – english
Economic growth and environmental protection can be experienced at the same time but they do not
come automatically and without costs. The government has to play its own important role in the
interest of society as a whole, that is, it has to set credible environmental targets first and then
choose the appropriate instruments of intervention. In doing this cost efficiency and long run
incentives are the criteria to be followed. International/ global agreements are necessary both to
secure the targets, which are global and to share the costs. The most reliable instrument appears to
be a system of tradable permits; it is cost efficient and apparently accepted by markets on both
sides of the Atlantic.
1
Verso una politica ambientale globale: prospettive ed ambiti di intervento
Laura Castellucci
1. La cornice di riferimento. Il modello di produzione e consumo che dalla rivoluzione
industriale ha portato ai nostri giorni, a giudicare dai fatti, ha “funzionato” molto bene: il PIL
(prodotto interno lordo) pro-capite globale è sempre cresciuto nonostante la crescita esponenziale
della popolazione (Maddison, World Bank.1). L’aspirazione allo sviluppo2 è stata ed è la driving
force di tutti i paesi ma mai come in questo periodo l’obiettivo di crescita del PIL è stato così
totalizzante e comune a tutti i paesi, indipendentemente dal loro stadio di sviluppo, tanto da segnare
l’ascesa o il declino della classe politica e da rendere secondario qualsiasi altro obiettivo. Le
economie di Eurolandia vanno bene quando il tasso di crescita del PIL è superiore, anche di poco,
alle previsioni mentre il disastro incombe quando queste previsioni, per esempio del Fondo
Monetario Internazionale, sono riviste al ribasso. Di fatto il PIL “sarebbe” una misura del
Benessere.
In questa competizione per il più alto tasso di crescita, ogni paese, non solo non sembra
interessato a riflettere sul significato dell’indicatore PIL, ma scarica di fatto su ciascuno altro i costi
“esterni” derivanti dal proprio modello di produzione e consumo (peraltro globale), senza
considerare che, insieme a tutti gli altri, ne subirà le conseguenze. Mentre è facile constatare che il
PIL è una misura aggregata del flusso di produzione di beni e servizi, e basta riandare ai lavori dei
padri fondatori3 per rendersi conto che questo era il loro scopo4 e non quello di misurare il
“benessere”, il difficile è sostituirlo con una misura di benessere più convincente e allo stesso tempo
altrettanto sintetica e disponibile per tutti i paesi5.
1
Le circostanze economiche che portarono
Maddison (1982); World Bank, (1991).
Senza entrare nella questione crescita/ sviluppo, utilizziamo i due termini come sinonimi, sebbene non lo siano. Ai fini
del nostro discorso ciò non è infatti rilevante.
3
Richard Stone e altri studiosi produssero le basi e l’impianto della contabilità nazionale le cui regole ,
internazionalmente seguite, portarono a calcolare un PIL per ciascun paese confrontabile a quello di ciascun altro. Tale
confrontabilità non è una questione meramente estetica o di competizione tra paesi ma consente, per esempio, di
finanziarie le istituzioni internazionali tramite contribuzioni proporzionali al proprio PIL. Incidentalmente il periodo che
vide il delinearsi e l’affermarsi di regole di contabilità nazionale, note come SNA (System of National Accounts),
coincise anche con
l’affermarsi e ampliarsi delle rilevazioni statistiche in economia e furono entrambi
frutto/conseguenza della volontà di applicare le prescrizioni di politica economica keynesiana alla recessione economica
post bellica. R. Stone, White Paper, che accompagnò il Bilancio inglese del 1941.
4
Erano i primi “esercizi” di intervento pubblico nell’economia a fini di stabilizzazione ed era perciò strumentale
conoscere quanto l’economia producesse ovvero fosse lontana dal prodotto potenziale.
5
La questione è “Welfare vs Production” e non ha niente a che fare con “Happiness”. Difficile infatti ritenere che
quest’ultima entry rappresenti un tema centrale per gli studi economici e tanto meno che lo stato debba occuparsi della
felicità dei cittadini mentre siamo convinti che debba preoccuparsi eccome di produzione, occupazione e benessere.
Senza entrare nello specifico discorso di come si possa misurare il benessere, questione alquanto spinosa anche da un
punto di vista teorico, ricordiamo che non mancano tentativi, sono anzi in crescita e seguono sostanzialmente due vie.
L’una è quella della elaborazione di indici ad hoc, come per esempio l’HDI (Human Development Index) delle Nazioni
Unite, e l’altra è quella degli “aggiustamenti” del PIL. Nell’indice composito HDI, accanto al PIL pro-capite si
considerano anche il tasso di alfebetizzazione e la speranza di vita alla nascita, ma se con ciò il benessere è certamente
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2
all’elaborazione e calcolo del PIL sono ormai lontane nel tempo e se già mezzo secolo fa, quando
fu inizialmente elaborato, non lo si pensava come indicatore di benessere, come si è detto, oggi
considerarlo tale è ancora meno corretto proprio perché i cambiamenti avvenuti nell’economia
globale fanno divergere sempre di più le due nozioni, produzione di beni e servizi e benessere.
Ciononostante siamo certi che per molti anni a venire il PIL resterà l’indicatore improprio di
benessere: la sua notorietà/ diffusione e capacità di “comunicazione”, sono così elevate da renderne
difficile l’abbandono.
Prendiamo dunque atto che qualsiasi discorso di politica ambientale vada oggi condotto
entro lo spazio che la cornice del PIL delinea. Ora, se il problema fosse soltanto questo dell’uso di
un indicatore improprio di benessere ciò avrebbe conseguenze limitate e, soprattutto, non
riguarderebbe la politica ambientale, né il suo design e né l’individuazione degli strumenti più
efficienti. La questione riguarda invece in pieno la politica ambientale proprio perché le regole
vigenti di contabilità nazionale (SNA) non sono affatto neutre nei confronti dell’ambiente e spesso
sono dei veri e propri incentivi al peggioramento ambientale. Consideriamo per esempio
l’inquinamento di un fiume verso la sua foce; come si sa l’inquinamento finale non è altro che il
risultato, la somma, delle sostanze riversate in esso durante il suo percorso e come tali derivano da
fonti diffuse (incidentalmente non solo dall’industria, dalle fabbriche con ciminiere fumanti simbolo
dell’inquinamento, ma anche dall’agricoltura e dai consumatori). Supponiamo poi che il Comune
(o la Regione o lo Stato) decida di installare un depuratore e seguiamone schematicamente il
percorso contabile. L’acquisto del depuratore da parte del Comune è spesa pubblica e come tale
contribuisce ad aumentare la domanda effettiva globale; la produzione del depuratore ha richiesto
investimenti e ha impiegato lavoratori e perciò ha contribuito positivamente alla formazione del
prodotto nazionale; in sintesi, l’ installazione del depuratore fa aumentare il PIL. Una prima ovvia
considerazione è che tutto ciò non ha certamente aumentato il benessere della collettività perché
semmai ha ricostituito il benessere precedente all’inquinamento (ma ciò non è che un esempio
concreto di come un indicatore di produzione mal si addica a misurare il benessere); una seconda
considerazione, ben più importante, riguarda gli effetti di lungo periodo che questo aumento del PIL
mette in moto. L’effetto dell’installazione del depuratore produce, nell’immediato, il
disinquinamento del fiume ma crea anche l’interesse economico al ripetersi dell’attività di
inquinamento perché soltanto così continuerà ad esistere una domanda di depuratori e di
meglio approssimato si perde l’alto potenziale comunicativo del PIL, qualità che nel XXI secolo va per la maggiore e
non può facilmente essere accantonata. L’altra via, quella degli aggiustamenti delle regole di contabilità per il calcolo
del PIL, sembra molto più promettente e forse naturale, però richiede l’accordo dei paesi su concetti e definizioni.
Com’è noto sono allo studio modifiche di queste regole per migliorare e adeguare le convenzioni contabili adottate dai
paesi facenti parte delle Nazioni Unite, non solo ai mutamenti avvenuti nei sistemi economici ma anche nella
interpretazione degli stessi.
3
conseguenza investimenti e occupazione necessari alla loro produzione. Il risultato nel lungo
periodo perciò non è quello di eliminare l’inquinamento alla fonte (cosa indubbiamente non facile e
comunque complicata dalla diffusione delle fonti), come l’uso ottimo della risorsa naturale fiume
richiederebbe, ma quello del ripetersi delle pratiche inquinanti che fanno aumentare domanda
effettiva globale, occupazione e investimenti. L’incentivo a continuare nella pratica inquinamentodisinquinamento è la diretta conseguenza delle regole di contabilità seguite per il calcolo del PIL
che, come si sa, quando cresce è il miglior segnale di successo di un’economia. Pertanto le ragioni
per la revisione/ aggiustamento nelle regole contabili in direzione ambientale (ma non solo)
diventano sempre più robuste e con il diffondersi della conoscenza degli effetti di lungo periodo, si
allarga la base del loro sostegno6. Nonostante si sia fortemente (e fondatamente) convinti della
necessità di revisioni contabili così come della problematicità derivante dall’uso dell’indiscusso
prodotto nazionale come obiettivo e misura ultima di performance
virtuosa dell’economia,
accantoniamo questi aspetti e, nello sviluppare il nostro discorso su tre temi, prendiamo atto che
l’obiettivo di ciascun paese è la crescita del PIL secondo la misurazione alla quale conducono le
regole vigenti di contabilità nazionale. In altri termini, le questioni che solleviamo sono valide per
se stesse e esulano da quanto sin qui puntualizzato se non altro per prospettare la complessità della
“questione ambientale” della quale approfondiamo soltanto qualche aspetto.
Il primo tema che ci interessa riguarda il problema del legame tra la crescita e la
disponibilità delle risorse naturali; il secondo riguarda il legame tra la crescita e il progresso tecnico
e il terzo affronta la questione delle cosiddette curve di Kuznets ambientali. Da questa analisi
emergerà come inevitabile la necessità di perseguire una politica ambientale “attiva” la quale dovrà
dotarsi di strumenti efficaci ed efficienti per il raggiungimento degli obiettivi di protezione
ambientale sui quali si siano presi impegni nazionali e internazionali. Emergerà anche, e nello
specifico grazie ai contributi di D’Amato e Coromaldi-Zoli in questo stesso numero della rivista,
come l’imprese possano (volontariamente) contribuire a risolvere (o almeno mitigare) alcuni seri
problemi ambientali e come ciò determini una quanto mai desiderabile positiva interazione tra le
scelte del mercato e quelle del settore pubblico. Non emergeranno invece credibili automatismi di
mercato tali da garantire la crescita futura: per questa è necessaria una vera “riconversione
industriale” che prenda atto dei vincoli odierni. Tali riconversione avverrà al minimo costo per la
società solo se entrambi i settori potranno funzionare al loro meglio, come si vedrà.
6
La questione non è di poco conto e l’esempio fatto non è un caso isolato, riguardante la produzione, ma esistono altre
rilevanti spese generate da deterioramento ambientale che nella cornice contabile attuale sembrano “desiderabili”, in
quanto fanno appunto crescere il PIL. Si pensi alle così dette spese “difensive” che le famiglie affrontano quando
installano doppi vetri nella propria abitazione per ridurre il rumore. A ben guardare sembrerebbe più logico “sottrarre”
questo tipo di spese piuttosto che aggiungerle.
4
Come si è detto, bisogna riconoscere che il modello di produzione e consumo, che tanto
successo ha dimostrato in passato, incontra oggi serie difficoltà sia perché la popolazione è
enormemente cresciuta e sia perché, nell’economia globale, i problemi di esternalità e beni pubblici
si sono accresciuti, diventando anch’essi globali e richiedendo pertanto soluzioni cooperative tra gli
stati. Oggi il “vincolo” che diventa sempre più stringente, è la qualità e la quantità delle risorse
naturali disponibili e perciò la crescita del PIL potrà persistere in futuro solo se il modello di
produzione e consumo si adeguerà a tale vincolo. Come la crisi degli anni ’30 fu superata grazie alla
rivoluzione nel pensiero economico (Keynes) e alla volontà di intervento pubblico consequenziale e
cooperativo tra gli stati (USA & Europa), così oggi è necessaria una vera e propria “riconversione
industriale” in ciascun paese e nel loro complesso e una politica ambientale internazionale
concordata, concepita con grande attenzione ai fini di scoraggiare il free riding tra paesi, in
un’ottica di lungo periodo e portata avanti con determinazione.
Questa riconversione industriale può avvenire ma richiede che gli stati, non solo cooperino a
livello globale per sostenerne i costi (non esistono pranzi gratuiti7), ma ispirino la propria politica
economica “attiva” al rispetto dei vincoli naturali e che tutti i settori produttivi (non solo l’industria
ma l’agricoltura, la pesca, le miniere, i trasporti, i servizi) siano incentivati a tenere comportamenti
compatibili. In questa ottica le eco-industries (Coromaldi-Zoli) hanno un ruolo importante da
svolgere sia per accelerare spontaneamente la riconversione (a volte il mercato è più pronto del
settore pubblico) che per contribuire a delineare una politica di regolamentazione compatibile con
la produzione di ricchezza derivante dal mercato entro il vincolo ambientale. Analogamente lo
sviluppo dei mercati del riciclo (D’Amato) può contribuire a ridurre i costi della riconversione
industriale.
2. Crescita e disponibilità di risorse naturali. Porre la questione del legame tra la crescita
economica e la disponibilità di risorse naturali (petrolio, minerali, foreste, pesci, gas, risorse
idriche, suoli, aria,…) può significare porre due domande ben diverse. Possiamo chiederci se la
disponibilità delle risorse naturali spieghi la crescita ovvero sia una sua fonte oppure se la scarsità
di queste e/o la loro indisponibilità impedisca, freni e/o arresti la crescita. Nella prima versione la
domanda ha una risposta relativamente diretta e semplice perché, come molti studi hanno ormai
piuttosto concordemente posto in evidenza 8, tra le fonti della crescita dei singoli paesi non
troviamo la disponibilità delle risorse naturali e valga per tutti l’esempio del nostro Paese. Il
7
La nota espressione usata da Friedman (1975): there is not such a thing as a free lunch, ha avuto il grande merito di
portare all’attenzione dell’opinione pubblica, e non solo degli specialisti, che la fornitura di un bene o servizio è
inevitabilmente costoso anche se non sempre il beneficiario è colui che ne sopporta il costo. In questi casi il pasto è
gratis per il singolo ma non per la società.
8
Per esempio Bela Balassa
5
miracolo economico non fu certo spinto dalla disponibilità di risorse naturali: non le avevamo negli
anni ’50 e non ne avevamo negli anni ’60 eppure la crescita iniziò e andò avanti sostenuta.
La seconda domanda ha risposte più controverse anche perché implica chiarire se la
domanda viene riferita ad un singolo paese o invece alla globalità dei paesi e, inoltre, assumere
una prospettiva di lungo periodo (…..anche se il lungo periodo si sta velocemente accorciando),
prospettiva che gli economisti non sembra sappiano assumere tanto facilmente e che i politici
sembrano non conoscere più. E’ evidente però che in una prospettiva globale e di lungo periodo, la
risposta non possa che essere affermativa e che anzi se non vogliamo che il vincolo diventi
stringente nel futuro immediato dobbiamo prendere contromisure globali, tempestive ed efficaci. Il
punto centrale della questione è proprio questo. In uno scenario nel quale tutti gli stati perseguano
ciascuno il cogente obiettivo della crescita del PIL , possiamo prevedere che l’insieme delle loro
scelte condurrà all’arresto della crescita globale. Siccome infatti le risorse naturali presenti nel
“global village” sono date, sono una grandezza finita, non potranno indefinitamente sostenere
crescita della popolazione, del consumo pro-capite, dei rifiuti pro-capite, del PIL, ecc., per una
inconfutabile legge matematica e perciò ad un certo tempo la crescita si arresterà9. E questo lo
sapevano bene gli economisti classici e non solo Ricardo, ma anche Jevons il quale si chiedeva cosa
sarebbe accaduto all’industrializzazione inglese quando il carbone si fosse esaurito, per non parlare
delle molto conosciute dinamiche demografiche di Malthus10.
Il noto stato stazionario al quale l’economia tendeva secondo Ricardo, sarebbe stato
raggiunto quando, continuando ad aggiungere lavoratori al capitale naturale rappresentato dalle
terre di sempre minore qualità (meno fertili) e più distanti dal mercato di scambio dei prodotti, i
profitti si sarebbero annullati e tutto il prodotto (PIL) sarebbe stato diviso tra Rendite e Monte salari
(con tasso di salario di sussistenza). La crescita si sarebbe dunque arrestata quando il vincolo di
“quantità e qualità” della risorsa naturale terra (non rinnovabile) fosse diventato stringente. Questo
elegante, sintetico, potente, modello di crescita, molto studiato e che ha dato avvio a un autonomo
filone di letteratura economica, ha evidentemente il grande limite di non includere il progresso
tecnico. Analogo limite incontra il ragionamento di Jevons che non tiene conto, come poi la storia
ha invece mostrato, che l’esaurimento del carbone non avrebbe implicato arresto della
industrializzazione inglese perché, grazie al progresso tecnico, sarebbe stato rimpiazzato da altre
fonti di energia (petrolio, gas, nucleare, sole, vento, ecc.).
Evocare gli economisti classici significa dunque da un lato sottolineare come certi problemi
attuali siano molto meno nuovi di quello che si pensi ma dall’altro significa anche dimenticare, per
9
Si veda per esempio in Medows D. –Medows D. – Randers J., 2006, il capitolo 2 su : La crescita esponenziale come
forza motrice.
10
Ricardo D. 1815, W. S. Jevons, 1866. Malthus T., 1798.
6
così dire, il progresso tecnico. Questo è viceversa un ingrediente fondamentale della crescita11, esso
è anzi la principale fonte della crescita economica e come tale deve essere posto al centro della
nostra indagine per cercare di intuirne dinamica e conseguenze.
Nell’affrontare il tema del progresso tecnico occorre sin dall’inizio evitare un facile e
diffuso errore di impostazione: quello di presumere a priori che la sua traiettoria evolutiva sia
positiva. L’evoluzione del progresso tecnico risponde ai prezzi di mercato e quando questi non sono
corretti, come nei noti, numerosi e crescenti casi di esternalità (di produzione e di consumo), o non
esistono, come nei casi dei beni liberi (tragedy of the commons), anch’essa non lo sarà. Di ciò non
tengono conto gli “ottimisti” ovvero i sostenitori della continuità della crescita futura, altrimenti
noti come i teorici della cornucopia, che mostrano come alla base della loro posizione vi sia una
visione “aprioristica” dell’ evoluzione del progresso tecnico in senso positivo. Ad una riflessione
più attenta emerge come questa conclusione non sia frutto di analisi ma coincida con il
convincimento alquanto diffuso, e appunto aprioristico, secondo il quale il progresso tecnico
risolverà i problemi dell’uomo, come avrebbe sempre fatto in passato. Purtroppo anche un’affrettata
indagine scientifica sull’evoluzione del progresso tecnico porta invece ad evidenziare come i
sentieri possano essere sia benefici e che dannosi: non solo non si hanno basi scientifiche per
aspettarci una evoluzione futura positiva ma neanche quella passata è sempre stata positiva.
Per questo riteniamo adesso necessario prendere in considerazione il progresso tecnico e la
sua evoluzione spontanea sulla base di quanto emerge dalla ricerca scientifica e non delle
convinzioni aprioristiche. In estrema sintesi, se è vero che la disponibilità di risorse naturali non
spiega la crescita è altrettanto vero che una loro crescente scarsità porta, ad un tempo sconosciuto
ma prevedibile, all’arresto della crescita medesima a meno che il progresso tecnico non spezzi/
allenti questo vincolo di scarsità ma non è detto che ciò avvenga “automaticamente”.
3. Progresso tecnico e crescita.
L’uomo ha una grande fiducia nel progresso tecnico tanto da essere implicitamente sicuro
che esso possa risolvere i suoi problemi presenti e futuri. E’ questa indiscussa e non provata fiducia
che porta automaticamente a ritenere che il suo impatto/ effetti siano sempre positivi. In un certo
senso ciò è vero perché il progresso tecnico “fa” aumentare le capacità produttive umane e dunque
la produzione complessiva (ancora il PIL). Gli aumenti di produzione possono però essere
qualitativamente ben diversi perché il progresso tecnico si evolve secondo le spinte del mercato,
11
Il residuo di Solow “spiegherebbe” circa i ¾ della crescita. Questi risultati inizialmente ottenuti dallo stesso autore,
sono stati poi sostanzialmente confermati da studi successivi come quelli di Denison (Solow 1957; Denison 1985). Per
l’integrazione nel primo modello di crescita di Solow delle risorse naturali o Capitale Naturale distinto dal Capitale
Prodotto dall’uomo si può vedere lo stesso Solow (1999) e Hartwick (1977). Per i modelli di crescita endogena
Smulders (1995) fornisce un utile prospetto riassuntivo.
7
sostanzialmente risponde ai prezzi di mercato correnti (e non è in grado di considerare il tempo).
Come è ormai assolutamente noto e provato da incontrovertibili dimostrazioni analitiche (primo e
secondo teorema dell’economia del benessere12) il mercato è il meccanismo che conduce all’ottimo
sociale nell’allocazione delle risorse, nella produzione e nello scambio dei beni, pur fondandosi su
scelte “atomistiche” operate da milioni di individui razionali che perseguono i propri interessi
economici. A questo risultato individualmente e socialmente ottimo si giunge grazie ai “segnali” dei
prezzi. Quando però questi segnali siano praticamente assenti (come nei casi di beni totalmente
liberi per i quali il prezzo è nullo) oppure siano errati (come nei casi di beni privati con esternalità
e/o di beni pubblici), sappiamo che il meccanismo di mercato non può assicurare l’ottimo sociale.
Applicando questa strumentazione al progresso tecnico dobbiamo dunque chiederci che tipo di bene
sia ciò che definiamo progresso tecnico, come lo definiamo e, per quello che ci riguarda
direttamente, come si ponga nei confronti della disponibilità, in quantità e qualità, delle risorse
naturali. Il progresso tecnico è un bene a molte componenti: è un bene privato nella misura in cui
brevetti e altre forme di protezione delle opere dell’ingegno, rendono appropriabile il frutto
dell’innovazione (dell’idea), ma è anche un bene pubblico nella misura in cui alla scadenza dei
brevetti diventa utilizzabile da tutti. E già da questa prima semplice constatazione dobbiamo
accettare che, in qualche modo, il settore pubblico intervenga nel mercato13, a monte, per
incentivare l’innovazione e a valle, per correggere la “sottoproduzione” che di esso si avrebbe se il
mercato fosse lasciato totalmente libero di operare. Guardiamo adesso come si pone nei confronti
delle risorse naturali e chiediamoci se le tecnologie economicamente più produttive siano anche le
migliori per l’ambiente e non invece quelle più “rischiose” e/o “dannose”.
Per affrontare correttamente questa questione è opportuno considerare la distinzione tra
risorse naturali rinnovabili (o riproducibili) e risorse naturali non rinnovabili sia perché il corpo
oggi consolidato della teoria dell’ottimo uso delle risorse naturali ha condotto ad individuare regole
specifiche per le une e le altre e sia perché, come vedremo, gli effetti del progresso tecnico sulle une
e le altre sono di segno opposto. Le risorse rinnovabili sono quelle che hanno una loro capacità di
riproduzione e rigenerazione e tali sono per esempio i pesci e le foreste, mentre quelle non
rinnovabili non hanno tale capacità e sono per esempio il petrolio e i minerali in genere.14 Nel caso
delle risorse rinnovabili deve essere considerato il legame esistente tra lo stock della risorsa e il suo
flusso o tasso di riproduzione. Non sorprende che la regola ottima per l’uso di tali risorse richieda
12
Si veda per esempio Varian (1987), Barr, (2004).
E’ forse il caso di evidenziare che il settore pubblico già interviene “a monte” quando produce le forme giuridiche
opportune per la protezione delle opere dell’ingegno alle quali è in ultima analisi affidato il compito dello sviluppo del
progresso tecnico.
14
Il petrolio è dal punto di vista biologico riproducibile ma i tempi di tale riproduzione sono così lunghi rispetto
all’orizzonte temporale dell’uomo da renderlo non riproducibile.
13
8
che l’uomo si appropri di una quantità di risorsa naturale minore o al massimo uguale al suo tasso di
riproduzione: il rispetto di questa regola consentirebbe di lasciare invariato lo stock. Se tale regola
potesse essere fatta rispettare nel caso della pesca nelle acque libere cioè oltre i limiti delle acque
territoriali, non avremmo l’ormai evidente e crescente fenomeno di overfishing misurabile in
termini di riduzione dello stock delle specie ittiche. L’inserimento del progresso tecnico in questa
logica (sommariamente richiamata) è piuttosto semplice in quanto basta ipotizzare che aumenti
l’efficienza del capitale prodotto dall’uomo, pescherecci e mezzi/ strumentazione per la pesca o, se
si preferisce, che riduca i costi di produzione. Questa maggiore efficienza si traduce in incremento
delle quantità pescate per unità di tempo o per unità di fattore lavoro e perciò spinge nella direzione
avversa alla regola di ottimalità nel loro uso. In altre parole il progresso tecnico accelera il
depauperamento dello stock , aumenta il rischio di estinzione e dunque invece di aiutare a risolvere
i vincoli di disponibilità delle risorse rinnovabili li aggrava. (Le reti a strascico fanno aumentare la
produttività dei pescatori ma all’alto costo sociale della distruzione dei fondali).
Per quanto riguarda le risorse non rinnovabili, e possiamo pensare al petrolio come risorsa
“tipica” di questo gruppo ed emblema della nostra economia, che non a caso è stata definita civiltà
del petrolio, il modo di operare del progresso tecnico è invece nel senso positivo atteso, almeno nel
breve periodo. Anche qui richiamiamo la regola per l’uso ottimo di tale risorsa ovvero come
determinare la quantità di barili di petrolio da estrarre in ogni periodo (flusso di produzione) e la
corrispondente quantità di barili da lasciare “investiti”, non estratti, nel loro giacimento. Tale
regola, che fa ormai parte della conoscenza comune, risale ad Hotelling (1931) , e coincide con un
sentiero di prezzo crescente al tasso di interesse. Anche qui ci chiediamo in che senso agisca il
progresso tecnico. La questione trova una risposta nel contributo di Nordhaus e cioè
nell’individuazione di un limite alla crescita del prezzo generato proprio dal progresso tecnico.
Quando infatti il prezzo, muovendosi lungo il suo sentiero di crescita, raggiunge un dato livello, il
progresso tecnico consente di espandere l’offerta tramite l’utilizzazione di prodotti di minore
qualità, o localizzati a maggiori profondità nel sottosuolo o in mare , che presentano perciò costi di
produzione più elevati. Tale meccanismo è conosciuto come tecnologia di backstop. Nel caso delle
risorse non rinnovabili è perciò rilevabile un ruolo positivo del progresso tecnico in quanto frena la
crescita del prezzo perché, rendendo possibile l’utilizzazione di risorse diverse , ne amplia l’offerta.
Evidentemente la crescita del prezzo secondo la regola di Hotelling, incoraggia proprio lo sviluppo
del progresso tecnico perché stimola la ricerca sulle alternative alla risorsa non rinnovabile che
diventa via via più scarsa in seguito al suo uso15 .
15
Hotelling 1931; Nordhaus 1973.
9
In sintesi, l’effetto positivo che implicitamente si attribuisce al progresso tecnico non è
affatto provato e comunque non è univoco: va a favore delle risorse non rinnovabili ma danneggia
quelle rinnovabili. La fiducia che il progresso tecnico possa, come avrebbe fatto in passato,
assicurare la crescita futura o che addirittura, nella forma di conoscenza umana , , “possa conciliare
lo sviluppo economico con la conservazione ambientale”16, secondo quanto ipotizzato dalla teoria
della crescita endogena, sembra al momento poco fondata . Infine e senza addentrarci troppo in
queste questioni, richiamiamo gli “equivoci” che riteniamo più importanti e che dovrebbero essere
sfatati. Primo, in tutti i casi nei quali si trovi che la società “sovrautilizza” le risorse naturali, la
dottrina economica prevalente ne attribuisce la responsabilità al fatto che i mercati dei servizi
ambientali sono “imperfetti”, mentre sarebbe sufficiente conoscere il “vero valore” di tali servizi
per poterli usare efficientemente. In verità la questione è assai più complessa e l’efficienza nell’uso
dell’ambiente non coincide con
la sostenibilità (continuità futura) della crescita che è
principalmente una questione di equità intergenerazionale. Ovviamente l’uso efficiente migliora le
prospettive per la sostenibilità ma non la garantisce. Secondo, la supposta conciliazione tra crescita
e protezione ambientale che la teoria della crescita endogena indicherebbe come possibile grazie
appunto al progresso tecnico come conoscenza, non esce certo rafforzata dagli studi empirici, per
esempio di Denison, sulla riduzione del tasso di crescita della produttività negli Stati Uniti
manifestatosi negli anni ’70. Questi studi troverebbero che tra le cause del rallentamento della
produttività vi sarebbe l’introduzione e l’applicazione di stringenti regolamentazioni ambientali.
Senza attribuire una particolare importanza a questi studi ci sembra che debbano almeno contribuire
a non far ritenere automatica la conciliazione via progresso tecnico: può anche darsi che non siano
conciliabili. Rafforzano l’argomentazione gli studi sull’esportazione delle sostanze tossiche verso
paesi a regolamentazione ambientali meno stringenti17 . Il terzo aspetto riprende la teoria dei prezzi
delle risorse naturali non rinnovabili o materie prime, tuttora esprimibile nella regola di Hotelling
che delinea il sentiero di crescita al tasso di interesse, integrata dal limite superiore costituito dalla
tecnologia di backstop di Nordhaus. Nonostante l’estrema semplificazione del quadro teorico esso
sembra in grado di spiegare la dinamica dei prezzi delle materie prime nella realtà (ad eccezione del
legno vivo).
Essi sono infatti cresciuti significativamente in dati periodi, si sono ridotti in altri, hanno
ripreso a crescere e così via, ma hanno mostrato un trend decrescente in termini relativi18 . In questi
casi il progresso tecnico sembra svolgere un ruolo positivo in quanto arresta la crescita dei prezzi
ma se si approfondisce l’indagine a considerare l’impatto sulle risorse naturali, l’effetto non è più
16
Smulders 1995
World Bank 1991.
18
Il riferimento è al salario e gli studi ai quali si pensa sono quelli di Nordhaus.
17
10
registrabile come tale. Se consideriamo infatti l’aumento del prezzo (relativo) di una risorsa come
un indice di scarsità, il fatto che il progresso tecnico ne freni la crescita nell’immediato, impedisce
semplicemente il diffondersi del segnale della scarsità di tale risorsa e con ciò riduce le
informazioni utili per giudicare la sostenibilità della crescita piuttosto che allentarne i vincoli.
Ovviamente la questione dei prezzi delle materie prime è molto complessa ma ciò su cui ci sembra
necessario riflettere è il tipo di progresso tecnico sul quale contiamo. Per essere positivo nei
confronti delle risorse non rinnovabili deve consentirne la sostituzione e non semplicemente
arrestarne l’aumento dei prezzi nel breve periodo.
Va detto che spesso il progresso tecnico
consentirebbe proprio questa sostituzione ma essa non avviene in pratica perché, si dice, i costi sono
più alti di quelli tradizionali, ma lo sono proprio perché questo è un tipico caso di imperfezione dei
mercati ambientali.
Le vere riconversioni/rivoluzioni sono difficili e non gratuiti ma il non intraprenderle aggrava la
dimensione dei problemi.
4. Curve di Kuznets ambientali: alibi per l’inazione?
Abbiamo appena visto che secondo le evidenze empiriche e teoriche (i.e. scientifiche),
l’evoluzione spontanea del progresso tecnico avviene ai danni delle risorse naturali rinnovabili e, a
favore di quelle non rinnovabili soltanto nel breve periodo (ne rallenta l’utilizzo) mentre nel lungo
potrà favorirle soltanto se prenderà la direzione di renderle sostituibili. Eppure, dato che la
convinzione di impatto positivo resta diffusa, alimentata forse anche da una latente ostilità verso
l’intervento pubblico, potrebbe esserci un’ultima linea di difesa scientifica fin qui trascurata. Tale
ultima linea di difesa è in effetti costituita dalle curve di Kuznets ambientali19. Kuznets, che può
essere considerato il padre fondatore degli studi quantitativi sulla crescita, era interessato a
individuare gli elementi caratterizzanti la crescita economica, attraverso appunto l’analisi empirica,
ma non alle questioni ambientali. Trovò che le origini della moderna crescita economica potevano
essere rinvenute nella Rivoluzione Industriale di tre paesi: l’Inghilterra tra il 1780 e il 1820, gli
Stati Uniti tra il 1810 e 1860 e la Germania tra il 1820 e il 187020. Nelle prime fasi della crescita in
tutti e tre i paesi si registrava una accelerazione nel tasso di crescita del reddito totale e un più alto
tasso di crescita della popolazione insieme a miglioramenti tecnologici molto significativi. Questi
“fenomeni appaiono, dal punto di vista statistico, movimenti piuttosto placidi di linee costantemente
19
E’ appena il caso di accennare al fatto che Kuznets non si è mai occupato di questioni ambientali. Piuttosto furono
Grossman G.M.-Krueger A.B. ad applicare per primi (1991, 1994, 1995) la metodologia applicata di K. alle questioni
ambientali. Oggi esiste una letteratura piuttosto ampia sull’argomento . Si veda Perman R.-Stern D. (2003). R. RanjanJ. Shortle, (2007). Prieur F. (2007).
20
Kuznets S., (1968) e precedenti studi pubblicati nella rivista, Economic Development and Cultural Change, tra
l’ottobre 1956 e il gennaio 1967.
11
crescenti. Ma sotto la superficie si hanno grandi cambiamenti tra i gruppi sociali, che generano
grandi tensioni sulla preesistente cornice societaria, impostata su un ben più basso di crescita”.21
Effettivamente anche studi successivi, e per esempio i già citati di Maddison e World Bank, hanno
trovato che la crescita segue una tipologia comune nei diversi paesi, non sorprende perciò che
quando i problemi ambientali (scarsità di risorse naturali o deterioramento qualitativo) si sono
cominciati a sentire, si sia cercato se esistano relazioni, e di che tipo siano, tra appunto la crescita e
lo stato dell’ambiente. Sono apparse le cosiddette
curve di Kuznets ambientali con il noto
andamento a campana che indicano come nelle prime fasi dello sviluppo di un paese, quando cioè
il reddito pro-capite è basso e scarse o nulle risorse sono destinate alla protezione ambientale, la
crescita avviene ai danni dell’ambiente mentre oltre un certo livello di reddito-pro capite la
relazione si inverte e crescita del reddito e protezione ambientale si muovono nella stessa direzione.
L’inversione della relazione è il frutto di vari effetti tra i quali prevale quello noto come effetto
composizione del PIL che provoca la sostituzione di prodotti altamente inquinanti, o assorbenti
grandi quantità di risorse naturali, con prodotti via via meno inquinanti o a maggior efficienza
ambientale (cioè utilizzanti minori quantità di risorse naturali), la cui produzione è resa possibile dal
maggior reddito pro-capite che consente di destinare risorse crescenti alla protezione ambientale
anche intesa nel senso di investimenti in ricerca di tecnologie più pulite. Del resto anche la
domanda di protezione ambientale cresce con il crescere del reddito pro-capite, implicitamente
relegando i beni ambientali tra quelli di lusso. Dunque se quando il reddito pro capite raggiunge un
certo livello, la crescita si accompagna a miglioramenti ambientali, le aspettative in riferimento ai
paesi sviluppati dovrebbero essere “ottimistiche”, mentre nel caso dei paesi meno sviluppati, nei
quali le situazioni ambientali sono notoriamente molto deteriorate per una molteplicità di ragioni
che non affrontiamo, si tratterebbe di riuscire ad innescare il processo di crescita con il che la
protezione ambientale seguirebbe spontaneamente. La crescita sanerebbe i problemi ambientali così
come generalmente si ritiene che possa ridurre la povertà, la criminalità, far nascere e prosperare le
democrazie ecc. e ciò sarebbe riflesso nella relazione a campana.
In verità mentre per alcuni inquinanti la relazione a campana è stata riscontrata, per altri non
sembra sussistere. Le curve di Kuznets sono per esempio inesistenti per certi indici di
deterioramento, incidentalmente i più gravi, come la CO2 pro-capite e i rifiuti pro-capite, ma anche
per diversi altri e per quelli per i quali esisterebbero, sarebbero più il frutto delle politiche
ambientali “attive” che dell’automatismo di mercato22. Infine, e senza banalizzare i risultati di
questi studi empirici sull’esistenza o meno di relazioni a campana, va considerato che anche quando
tali relazioni vengano riscontrate in riferimento ad un certo indice di deterioramento, esse sono
21
22
Kuznets S., 1968 citato, p. 21.
World Bank, 1992
12
contingenti al paese e al periodo di tempo di rilevazione e niente assicura che continuino ad
esistere in futuro. Ciò indebolisce ancora di più le giustificazioni per l’inazione che alcuni traggono
dalle curve a campana. In effetti alcune curve a campana, che indicano appunto come crescita e
qualità ambientale vadano nella stessa direzione oltre un certo livello di reddito pro-capite, si
“trasformano” in curve ad “N” ovvero la relazione si inverte di nuovo e torna a segnalare che la
crescita avviene di nuovo ai danni dell’ambiente23. Oltre un certo livello di reddito pro-capite
l’effetto scala, al quale sarebbe dovuto il tratto crescente della relazione a campana (nelle fasi
iniziali la crescita danneggia l’ambiente), tornerebbe a prevalere sugli effetti composizione e
tecnologici ai quali spetterebbe il merito di generare, contemporaneamente, incrementi di reddito e
miglioramenti ambientali (tratto discendente della campana). Le aspettative che con la crescita del
reddito pro capite i problemi di deterioramento ambientale si risolvano automaticamente, ci
sembrano destinate a non essere soddisfatte quando il loro maggior fondamento sia rappresentato
dalle curve di Kuznets ambientali.
5. Necessità dell’intervento pubblico.
L’obiettivo principale del nostro discorso è stato quello di richiamare l’attenzione sul fatto
che molte convinzioni, per quanto diffuse, poggiano su
preconcetti. Di tali preconcetti, se
oggettivamente individuati, l’indagine scientifica deve sbarazzarsi. Attenendoci a questa
impostazione riteniamo di aver messo in evidenza come, quando si affronti seriamente la questione
ambientale in termini di disponibilità in quantità e qualità di risorse naturali, assai poco di
favorevole possiamo aspettarci dagli “automatismi” di mercato . I più tipici argomenti che
potrebbero giustificare queste aspettative, che sono l’evoluzione sempre favorevole del progresso
tecnico e le curve di Kuznets ambientali, appaiono assolutamente deboli quando non provate. Il
progresso tecnico risponde ai segnali di mercato e dunque sarà positivo o negativo per la crescita
futura nella misura in cui tali segnali siano corretti e le curve di Kuznets ambientali diventano
sempre più evanescenti . E’ ora che il settore pubblico, lo stato o meglio gli stati, facciano quello
che devono fare in pratica, che non è
dichiarare e firmare protocolli dove si enunciano
incontrovertibili principi di cooperazione internazionale per il bene delle generazioni presenti e
future, ma stabilire con chiarezza i targets ambientali da raggiungere. Ed è ora che il mercato sia
lasciato libero di fare ciò che sa fare e cioè, una volta conosciuti gli obiettivi e le regole, allochi
efficientemente le risorse. A questo fine è assolutamente necessario ribadire che solo se gli stati
saranno credibili nei loro obiettivi, il mercato potrà muoversi con efficienza (e lo stesso potrà
23
Borghesi-Vercelli 2005; Shafik 1994; Grossman 1995.
13
avvenire in termini di progresso tecnico) e, soprattutto, potrà muoversi in coerenza con gli obiettivi
di lungo periodo della collettività che esso non può darsi perchè risponde agli stimoli correnti e, al
massimo, alle aspettative che riesce a formarsi sugli andamenti futuri. Sarebbe pertanto errato
postulare grande lungimiranza nelle scelte delle imprese perché esse sono orientate ai risultati di
bilancio di breve periodo e lo sono tanto più oggi che in passato per motivi di adattamento ai
mutamenti dell’economia. Tra i mutamenti più caratterizzanti l’economia contemporanea vi è
senza dubbio il processo di “finanziarizzazione”, che molti hanno evidenziato24, delle imprese e
dell’economia. Insieme all’importanza crescente dei mercati finanziari e delle Borse25 è andata
infatti anche crescendo, all’interno delle imprese, l’importanza dei bilanci finanziari e ciò ha
portato a privilegiare le decisioni di breve periodo. Ma quanto più si accorcia l’ottica delle decisioni
tanto meno favorevoli all’ambiente potranno essere. Tutto ciò per evidenziare, ancora una volta, che
l’evoluzione spontanea dell’economia non va nella direzione di proteggere l’ambiente e tale
protezione può essere perseguita solo grazie a decisioni volontarie prese allo scopo. Così anche
nell’ambito dei mercati e delle imprese esistono, e sono in aumento, casi di imprese sostenibili o
eco-industrie o imprese verdi, e sono quelle imprese che ottengono risultati di bilancio positivi nel
lungo periodo. Nonostante la finanziarizzazione dell’economia e l’accento sempre più marcato nel
breve periodo fa ben sperare la recente introduzione del Dow Jones Sustainability Index: dopo tutto
per le imprese socialmente responsabili, in senso ambientale, esiste un riconoscimento del mercato
in termini di migliore performance.
Conciliare crescita e ambiente forse si può ma si tratta di affrontare problemi di gestione
globale e di lungo termine, e perciò una fruttuosa interazione, settore pubblico-settore privato, è più
che auspicabile. Ma per far sì che la collettività possa beneficiare dei vantaggi derivanti dalla
migliore combinazione possibile dei due settori, bisognerebbe imboccare una via contraria a quella
attuale: lo stato non decide gli obiettivi, né cura le esternalità e il mercato senza la bussola
complessiva più che creare ricchezza, sovrautilizza le risorse libere o quasi libere e va a caccia di
rendita. Dobbiamo, senza pregiudizi, prendere atto che il progresso tecnico non è, per definizione,
sempre positivo ma può esserlo se incentivato a seguire sentieri evolutivi favorevoli al benessere
delle generazioni presenti e future; che le curve di Kuznets non esistono che raramente e quando
esistano sono contingenti alle rilevazioni effettuate. Esse rappresentano una relazione empirica le
cui giustificazioni teoriche non autorizzano certo ad assumere che con la crescita i problemi
ambientali scompariranno e, d’altra parte, nulla dicono circa i “tempi” necessari per raggiungere il
24
Vercelli-Borghesi, 2005; Nardozzi 2002
Il rapporto tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale, Financial Intensity Ratio, è raddoppiato in USA, UK, Francia
tra l’80 e metà anni ’90 e si è accresciuto del 50 % in Germania e Italia, Nardozzi 2002.
25
14
livello di reddito pro-capite al quale la relazione si invertirebbe e il “livelli” di danno ambientale
corrispondenti e che potrebbero essere molto gravi se non addirittura “irreversibili”.
Giunti dunque alla conclusione che, in fatto di uso ottimo delle risorse naturali e di
protezione ambientale gli automatismi di mercato producono, in generale, risultati non desiderabili,
non resta che fare affidamento sul settore pubblico per decidere il tipo di “riconversione” industriale
necessaria e minimizzarne i costi grazie all’opera congiunta, e non contrapposta, del mercato e dello
stato. A complicare lo scenario va riconosciuto che la direzione del cambiamento deve emergere
dalla decisione congiunta di tutti i paesi perché, nel mondo globalizzato, non siano vanificati gli
sforzi di uno stato da quelli di un altro. La riconversione industriale che si auspica deve quindi
coinvolgere, in misura diversa, tutti i paesi e siccome non può avvenire senza costi (che devono
essere minimizzati) andrà incontro a resistenze e ostacoli: sotto la “tranquilla superficie” delle
statistiche, come faceva notare Kuznets, si muovono settori e attori che subiscono effetti diversi e
consistenti quando cambia il sentiero di crescita.
6. Strumenti di intervento.
Riconosciuta la necessità di una politica ambientale attiva o, più precisamente, la necessità di
una politica industriale attiva che assuma come vincolo prioritario e cogente quello ambientale
(disponibilità di risorse naturali in quantità e qualità), si devono individuare gli strumenti cui
ricorrere. Come si sa nella letteratura specializzata esiste una importante distinzione tra gli
strumenti di tipo Command&Control e strumenti di mercato. La distinzione è utile proprio perché
pone in evidenza come, anche nell’individuare il migliore strumento, la scelta dell’ottica temporale
sulla quale fondare le decisioni, non sia irrilevante. Il giudizio sull’efficacia (ed efficienza) dei
singoli strumenti non può derivare dall’analisi dell’impatto di breve periodo, immediato, degli stessi
(si ricordi l’esempio del depuratore menzionato sopra per sottolineare le problematiche antiambiente implicite nelle regole di contabilità nazionale) ma deve estendersi al medio e lungo
periodo perché i problemi da affrontare sono di lungo periodo. Guardando in questa ottica, è facile
scoprire che alcuni strumenti, una volta avviati, fanno imboccare sentieri “virtuosi” sia in termini di
tipologia di crescita (sinteticamente sostenibile) sia, e ciò è molto importante, in termini di necessità
di continui interventi pubblici o invece di minimizzazione degli stessi. Sotto questo punto di vista il
ranking tra gli strumenti mette al primo posto quelli di mercato e al secondo quelli di tipo
command&control, come gli standards, nonostante si debba constatare che, in pratica, sono
quest’ultimi quelli più usati nei primi stadi di ricorso a politiche ambientali attive (per varie
ragioni tra le quali la relativa facilità di accordo internazionale). La classificazione aiuta inoltre ad
15
evidenziare la diversità dei costi economici associati a ciascun strumento che per ipotesi sia
ugualmente efficace nel raggiungere un dato obiettivo.
Anche qui la scelta dovrà cadere su quelli economicamente meno costosi (efficienza rispetto
al costo) per la collettività ma il confronto dovrà essere fatto tra quegli strumenti che siano in grado
di curare l’origine del problema e non affrontino semplicemente i suoi effetti. Quando parliamo di
riconversione industriale intendiamo proprio sottolineare come l’evidenza empirica mostri che solo
quando la regolamentazione ambientale è stata orientata a risolvere i problemi alla fonte (ha cercato
di individuare le cause e di rimuoverle) e non si è invece orientata verso la cura degli effetti, si sono
avuti risultati duraturi. Solo quando il DDT è stato bandito dall’agricoltura, il mercurio dalla
produzione di candeggina, i CFC dalla produzione dei frigoriferi,o il piombo dalle benzine ecc., vi è
stata innovazione tecnologica tale da consentire l’efficienza agricola senza i danni ambientali
provocati dal DDT, l’uso delle auto senza i danni del piombo ecc., : tutti esempi di riconversione
industriale. Il progresso tecnico “può” salvarci ma va “indirizzato”: non sa, né può sapere , se e
quanto il DDT, il piombo,….siano dannosi.
Con questo in mente, pensando cioè alla riconversione industriale necessaria perché la
crescita del PIL sia compatibile con l’ambiente naturale, siamo convinti della necessità di andare
verso la “virtuosa” interazione tra il mercato e il settore pubblico e dunque riteniamo che anche la
scelta degli strumenti debba andare nella direzione di favorire questa interazione. Riteniamo perciò
che debbano essere valorizzate tutte quelle iniziative che incentivino le imprese a prendere decisioni
compatibili con le scelte di protezione ambientale. Una prima condizione affinché ciò sia possibile
richiede che la legislazione in proposito venga molto semplificata proprio perché le imprese, anche
quelle di piccole/ medie dimensioni come la maggioranza di quelle che compongono il nostro
tessuto industriale, non siano addirittura scoraggiate dalla poca chiarezza e copiosità delle regole
ovvero che dovendo affrontare alti costi di informazione preferiscano non interessarsi alle questioni
ambientali. Snellita la legislazione ci si dovrebbe concentrare sul potenziamento delle diverse
forme di incentivo capaci di rendere le decisioni di produzione più favorevoli all’ambiente e a
promuovere la conoscenza presso i consumatori degli effetti ambientali dei loro comportamenti allo
scopo di renderli più environment friendly , tanto da arrivare ad un modello di consumo sostenibile.
Non sorprende che tra questi attrezzi compaia tutto ciò che incoraggia l’ecolabeling e l’ecodesign
che, come argomentano Coromaldi-Zoli in questo numero, sembrano davvero le grandi promesse in
termini di protezione ambientale alla fonte, cioè non rimedi a posteriori quando i danni sono
avvenuti, ma loro prevenzione . Analogamente, e sempre per restare nel lato della produzione,
anche la certificazione è un’arma da utilizzare tanto più che va ampliandosi la trasformazione in
valore della cosiddetta reputazione.
16
Ma accanto a questi importanti e promettenti strumenti “volontari” senz’altro da valorizzare,
quello che vorremmo vedere essere utilizzato come strumento principale per un’attiva politica
ambientale globale, è il sistema diritti negoziabili. E’ uno strumento efficiente, nel senso tecnico
del termine e cioè rende minimo il costo per la società del raggiungimento di un dato obiettivo
ambientale e, inoltre, è uno strumento che sembra piacere al mercato.
L’idea iniziale per un sistema di “permessi di inquinamento” risale a Dales J.H. e al suo
contributo del 196826, ma il vero padre fondatore è considerato Tom Tietenberg che nell’198527 aprì
definitivamente la via alla sistematizzazione teorica di questo strumento di politica ambientale e
alla sua successiva implementazione pratica. A quest’opera ne seguirono altre tanto che Tietenberg
è oggi “l’autorità” indiscussa in materia sebbene negli anni non siano mancati importanti contributi
di altri economisti che, analogamente, hanno richiamato l’attenzione sulla necessità dell’intervento
pubblico nelle questioni/problematiche ambientali, dove esternalità, beni pubblici e beni liberi sono
le caratteristiche prevalenti. Non si possono infatti dimenticare i lavori di Baumol e di Oates perché
questi autori, individualmente ed insieme, hanno tanto contribuito alla formazione di quel corpus
autonomo della politica economica che è la Politica Ambientale come oggi la conosciamo 28.
Nelle sue opere Tietenberg riflette la realtà statunitense; sullo sfondo del suo pensiero si
trovano le istituzioni, le problematiche concrete e le esperienze pratiche di questo paese. Tutto ciò
ha portato comunemente a
ritenere che i permessi negoziabili siano il tipico strumento di
protezione ambientale per un paese, appunto gli USA, con una decisa avversione per l’intervento
pubblico nel mercato. In altri termini, anche nei casi di riconosciuto mal funzionamento del
mercato, come in presenza di inquinamento (esternalità), le necessità di aggiustamento portano
comunque a preferire meccanismi di mercato che necessitano di una limitata azione di governo,
come appunto i permessi negoziabili, piuttosto che gli strumenti tipici di governo, considerati
troppo ingerenti, come le tasse. Così nel 1989 il governo federale vara, un programma di permessi
negoziabili relativo ai clorofluorocarburi (in risposta all’ormai noto Protocollo di Montreal siglato
allo scopo di evitare l’assottigliamento dello strato di ozono e che ha effettivamente raggiunto
l’obiettivo postosi) e l’anno successivo, l’Environmental Protection Agency interviene sul banking
and trading dei crediti per l’ossido di azoto. Nel 1990 poi viene varata la più vasta applicazione ad
oggi dei permessi negoziabili per ridurre le emissioni di biossido di zolfo, di 10 milioni di tonnellate
al disotto delle emissioni del 1980. Questo sistema dette luogo ad un mercato robusto ed efficace
26
Dales J.H. (1968)
Tietenberg T. (1985).
28
Il fondamentale testo di Baumol W. J.- Oates W. E.,(1975 e successive edizioni ), non solo è il primo testo del genere
in assoluto, ma ha preceduto il lavoro di Tietenberg ed è ormai un “classico” per gli economisti dell’ambiente. Inutile
aggiungere che contiene una trattazione dei marketable permits. Per chi desiderasse maggiori informazioni può
consultare anche i precedenti Tietenberg (1980) e Baumol (1972).
27
17
tanto che subito dopo ben 12 stati introdussero sistemi simili (di tipo cap-and-trade) per l’ossido di
azoto e altri ne seguirono successivamente e fino ai nostri giorni. Mentre dunque negli USA si
creano con successo sistemi del genere, l’Europa sembra seguire la sua più congeniale via per gli
aggiustamenti, quella cioè dell’intervento pubblico più tipico della tassazione e dell’imposizione di
standard. Nel 1992 per esempio, dopo molti vivaci e approfonditi dibattiti e proposte, i tempi
sembravano maturi per l’introduzione di una tassa europea di tipo ambientale: la carbon tax , come
inizialmente proposto o la successiva variante carbon/energy tax. Sebbene la proposta non riuscì a
trasformarsi nell’attesa imposta europea, singoli
paesi europei fecero propria l’iniziativa ed
introdussero nei loro sistemi fiscali , carbon-tax e/o tasse analoghe (tipicamente i paesi scandinavi),
tanto che oggi la percentuale di gettito ottenuto da tassazione ambientale si aggira in media (ma con
grande variabilità tra i paesi) nei paesi OECD intorno al 7 % e, sempre in media per i soliti paesi,
rappresenta circa il 2,5% del Prodotto Interno Lordo29 .
Può dunque sorprendere che nel 2005 proprio in Europa sia decollato un sistema di
Emissions Trading
“all’americana” e che anzi esso superi le esperienze americane quanto a
dimensione: esso è il primo sistema operativo di tipo internazionale (o sopranazionale), è cioè
“comune” ad un numero, anche piuttosto elevato, di stati nazionali sovrani, quelli della Comunità
Europea e non opera in un solo stato (anche se federale). Questa recente esperienza, da poco
superata la fase sperimentale ed entrata nella seconda fase, sembra finalmente aver aperto una
strada
molto promettente per la protezione ambientale internazionale. Se gli insegnamenti
deducibili dalla sperimentazione iniziale saranno effettivamente seguiti, si dovrebbe riuscire a ben
puntualizzare il sistema, a migliorarlo dove necessario ed ad ottenere perciò la massima possibile
efficacia in termini di obiettivi ambientali.
Così i diritti, o permessi, negoziabili sembrano oggi godere del favore della maggioranza
dei paesi su entrambe le sponde dell’Atlantico, soprattutto di quelli determinati a porre rimedio ai
cambiamenti climatici dovuti al surriscaldamento terrestre per la parte provocata dall’uomo con la
combustione di fossili. In ultima analisi l’economia mondiale, a partire dalla rivoluzione industriale
iniziata alla fine del ‘700 e affermatasi nell’’800, si è basata ed evoluta proprio sul processo di
combustione dei fossili (carbone prima e poi petrolio e gas naturale), sprigionando ampi e crescenti
quantitativi di gas ad effetto serra (sono ormai di dominio comune, e circolano su molti siti, i grafici
che riportano la dinamica delle immissioni in atmosfera dei gas ad effetto serra. E’ impressionante
notare come questa dinamica sia praticamente identica alla dinamica della popolazione e a quella
29
OECD, 2006.
18
del processo di industrializzazione). Anche nel recentissimo Rapporto Stern30 sui problemi del
cambiamento climatico, è dedicato ampio spazio ai diritti negoziabili. Il rapporto sottolinea come il
cambiamento climatico sia un problema “internazionale e intergenerazionale” le cui esternalità
negative sono estremamente più gravi di quelle derivanti dall’inquinamento o dalla congestione e
ciononostante i diritti negoziabili (e ovviamente anche le tasse ) sarebbero in grado di mitigarne gli
effetti e di farlo ad un basso costo per la collettività globale.
In effetti si hanno segnali incoraggianti verso la diffusione di questo strumento, in fondo un
titolo cartaceo che può servire ad attestare, non solo quote di appropriazione dell’aria
(inquinamento) per la cui disponibilità si deve pagare, ma anche comportamenti “virtuosi” per la
società come i titoli di efficienza energetica (i cosiddetti certificati bianchi) e i titoli di produzione
di energia da fonti rinnovabili (i cosiddetti certificati verdi). L’allargamento dell’uso di questo
strumento, potenzialmente molto promettente, (e si pensa anche ai “crediti” di assorbimento di CO2
derivanti da certi tipi di foreste), può davvero condurre al controllo efficiente , cioè corrispondente
al minimo costo per la società, delle emissioni dannose. Per tutto ciò è necessario che si creino,
come appunto sta avvenendo, “mercati per l’ambiente” dove sia possibile commerciare, definite
regole e istituzioni di certificazione e scambio,
titoli ambientali attestanti comportamenti
individuali dannosi e virtuosi per la società. Per questo, e per quanto possa sembrare strano, ci piace
notare che se i termini permessi negoziabili, mercati per l’ambiente, e
“borsa dei fumi”,
cominciano a diffondersi, c’è speranza che qualcosa di concreto si stia davvero facendo per
proteggere l’ambiente.
La ricetta potrebbe essere molto semplice. Basterebbe che tutti gli stati accettassero di
ricorrere all’uso di strumenti efficaci e poco costosi,
quali appunto i diritti negoziabili ed
incentivassero ogni forma di riduzione, recupero e riciclo dei materiali utilizzati per la produzione e
consumo.
7. Conclusioni.
Esistono concrete possibilità di essere clean and competitive, ovvero di coniugare
l’ambiente con la crescita, ma dipendono dalle nostre capacità di far funzionare al meglio il mercato
e il settore pubblico. A questo fine è cruciale prendere atto dell’effettivo
vincolo
oggi
rappresentato dalla quantità e qualità delle risorse naturali che, nell’era della globalizzazione sono
30
Commissionato dal Tesoro inglese (Ministero dell’economia e delle finanze) e dato alle stampe nel marzo 2007,
come Stern Review on the Economics of Climate Ch’ange.
19
soggette a rischi di free riding e di tragedy of the commons enormemente accresciuti rispetto al
passato e tuttora crescenti. Gli strumenti ci sarebbero ma l’accordo credibile per l’uso globalizzato
di essi non sembra avere mordente mentre l’uso a livello di singolo paese, lasciato alla volontarietà
delle decisioni nazionali, risulta insufficiente. Ciò che fa ben sperare è che, con l’aggravarsi dei
problemi di insostenibilità economica mondiale degli attuali modelli di produzione e consumo (i
famosi scenari del tipo business as usual) , i “giuochi” tra i paesi diventano “ripetuti” e le
“punizioni” si diffondono. Chissà che davvero la teoria dei giuochi a cui l’ambiente ha fornito tanti
“esempi” non ci abbia proprio indicata la strada da seguire, quella degli accordi internazionali con
incontri ripetuti. Sul fatto poi che prima o dopo tutti i paesi subiscano la punizione non c’è che da
aspettare che i processi naturali facciano il loro corso. L’attesa o l’inazione è certamente pericolosa
ma può avere anche i suoi effetti positivi: i problemi non si risolvono da soli, grazie alla capacità di
resistenza e adattamento della natura alle nostre attività di produzione e consumo, ma arrivati a
certe soglie “puniscono” tutti. Quanto ci vorrà per prendere atto che in assenza di accordo tutti i
paesi ci perdono non si sa, ma è su ciò che si basa la certezza che questa riconversione industriale e
di modello di consumo avverrà. Speriamo non avvenga molto tardi anche perché più tardi avverrà
più alto sarà il costo che tutti gli stati dovranno affrontare. I costi dell’inazione sono positivi e
crescenti.
20
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Dales J.H., Pollution, Property and Prices, (University of Toronto Press, Toronto, 1968),
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Baumol W.J., On taxation and the control of externalities” in American Economic Review,1972
OECD , The Political Economy of Environmentally Related Taxes, Paris, 2006.
22
Eco-progettazione e qualità ambientale: regolamentazione o strumenti volontari?
Mariangela Zoli e Manuela Coromaldi
Abstract
L’eco-progettazione rappresenta uno degli strumenti più promettenti per ridurre l’impatto
ambientale derivante dalla produzione e dal consumo dei beni. Poiché le rigidità e le problematiche
connesse allo smaltimento o al riciclaggio dei prodotti si determinano principalmente nelle fasi
iniziali di progettazione e sviluppo, l’inclusione delle valutazioni di impatto ambientale
direttamente in queste fasi costituisce una opportunità rilevante per la realizzazione di uno sviluppo
maggiormente eco-sostenibile. Le modalità con cui si diffondono le pratiche di eco-progettazione si
differenziano nei diversi contesti nazionali: in alcuni casi l’eco-progettazione è incentivata dagli
schemi di regolamentazione dei governi, in altri è il risultato delle scelte volontarie di imprese
desiderose di competere in un contesto internazionale sempre più attento alle problematiche
ambientali. Questo contributo si propone di prendere in esame le complesse interdipendenze tra gli
incentivi all’eco-progettazione, le iniziative volontarie delle imprese e le regolamentazioni dei
governi. Partendo dall’analisi di alcuni casi di studio esaminati in letteratura, il lavoro distingue tra
un approccio “europeo”, in cui gli stimoli al DFE sono forniti dalle politiche di regolamentazione
delle autorità pubbliche, e un approccio “statunitense”, in cui l’eco-progettazione è il risultato delle
azioni volontarie delle imprese. L’efficacia dei due approcci in termini di stimoli all’ecoprogettazione è valutata attraverso una rassegna critica della letteratura, empirica e teorica,
sull’argomento. L’analisi effettuata suggerisce l’importanza dell’intervento pubblico nella fornitura
degli incentivi più appropriati e nel controllo del rispetto di comportamenti eco-sostenibili da parte
delle imprese.
Design for Environment and Environmental Quality: Regulatory Policy or Voluntary
Programs?
Abstract
Design for Environment (DfE) is one of the more promising tools for reducing the
environmental impact throughout the product life-cycle. Since most of the waste management and
recycling problems are “locked” into the product at the design stage, DfE provides a relevant
opportunity to make critical interventions early in the product development process in order to
eliminate, avoid or reduce downstream environmental impacts. DfE activities are stimulated in
different ways in different countries. In this paper we analyze the relationship between DfE
incentives, public policies and voluntary programs, by considering the theoretical and empirical
literature. We distinguish between an “European approach”, where DfE is spurred by public
regulations, and a “US approach”, where producers pursue more voluntary efforts in reducing the
environmental impacts of their products. By providing an overview of the theoretical and empirical
literature, we conclude that public policies tend to be more effective in spurring DfE.
Codici di classificazione JEL: H23, Q53, Q58
Keywords: design for environment, responsabilità estesa del produttore, regolamentazione ambientale
Indirizzo e-mail per corrispondenza: [email protected]
Recapito postale: Università degli Studi di Roma "Tor Vergata", Facoltà di Economia, Dipartimento SEFEMEQ,
Via Columbia, 2 - 00133 Roma, Italia
Eco-progettazione e qualità ambientale: regolamentazione o strumenti
volontari?
Mariangela Zoli e Manuela Coromaldi*
1. Introduzione
Le recenti tendenze a livello internazionale evidenziano l’importanza crescente attribuita dai
governi e dalle imprese ai concetti di eco-progettazione (Design for Environment – DFE),
valutazione del ciclo di vita del prodotti e responsabilità estesa del produttore (Extended Producer
Responsibility – EPR).
Come suggerito da una letteratura sempre più nutrita, gli approcci di eco-progettazione
possiedono un enorme potenziale in termini di riduzione dell’impatto ambientale causato dalla
produzione e dal consumo di beni e servizi. Il DFE rappresenta uno strumento particolarmente
valido per realizzare interventi specifici a monte dei processi produttivi, nelle fasi di progettazione e
sviluppo dei beni, influenzando il modo in cui un determinato prodotto o servizio interagirà con
l’ambiente circostante e con i suoi utilizzatori e permettendo di eliminarne o, almeno, ridurne
sensibilmente, l’impatto ambientale a valle. In questo senso, il DFE si basa sul concetto secondo cui
“la prevenzione è migliore della cura”.
La rilevanza riconosciuta al DFE è testimoniata, oltre che dalle numerose imprese che investono
considerevoli risorse finanziarie nello sviluppo di prodotti eco-sostenibili e che adottano strategie
maggiormente rispettose dell’ambiente1, dalla molteplicità di università e istituti di ricerca che
hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale per lo sviluppo di strumenti e metodi
di DFE2.
L’evidenza empirica suggerisce che gli schemi attraverso cui vengono realizzate le strategie di
eco-progettazione si differenziano a seconda dei contesti socio-economici di riferimento. In alcuni
casi, il DFE è incoraggiato dall’intervento pubblico, mentre, in altri, è la conseguenza delle scelte
autonome delle imprese.
Questo contributo si propone di prendere in esame le complesse interdipendenze tra gli incentivi
all’eco-progettazione, le iniziative volontarie delle imprese e le regolamentazioni dei governi.
Partendo dall’analisi di alcuni casi di studio esaminati in letteratura, il lavoro distingue tra un
approccio “europeo”, in cui gli stimoli al DFE sono forniti dalle politiche di regolamentazione delle
autorità pubbliche, e un approccio “statunitense”, in cui l’eco-progettazione è il risultato delle
*
Manuela Coromaldi ha curato il paragrafo 6.
Il DFE è divenuto una parola d’ordine per molte grandi corporations, come Philips Electronics, Hewlett-Packard,
Herman Miller, Miele, Electrolux, Xerox, BMW e Daimler-Benz, per citarne solo alcune.
2
In Europa, le Università Tecniche di Delft, nei Paesi Bassi, Copenhagen e Berlino sono all’avanguardia per quanto
riguarda il design dei prodotti orientato alle problematiche ambientali. In Inghilterra, numerose università stanno
sviluppando nuove tecniche di DFE per rispondere alle esigenze di settori industriali chiave, come quelli
dell’elettronica, degli elettrodomestici, degli imballaggi e dei mobili commerciali (Lewis et al., 2001).
1
1
azioni volontarie di imprese preoccupate della propria immagine presso i consumatori e desiderose
di competere in un contesto internazionale sempre più attento alle problematiche ambientali.
Mentre negli Stati Uniti la maggior parte delle iniziative di DFE hanno origine direttamente
all’interno dei settori industriali3, in Europa, negli ultimi anni, le preoccupazioni per i costi e per gli
effetti ambientali delle principali opzioni di smaltimento hanno portato molti governi a introdurre
politiche volte a ridurre il volume dei rifiuti industriali e domestici e la proporzione di rifiuti non
riciclabili. Tra gli strumenti di politica ambientale proposti e utilizzati, uno dei più rilevanti e
innovativi è rappresentato dalla responsabilità estesa del produttore (EPR – Extended Producer
Responsibility), un approccio che estende la responsabilità dei beni, una volta consumati, ai
produttori, al fine di indurli a tenere conto del costo sociale del loro smaltimento. L’obiettivo
dichiarato è di fornire incentivi alla riduzione della produzione di rifiuti “alla fonte” e di
promuovere l’eco-progettazione.
L’esistenza, o la prossima implementazione, delle regolamentazioni ambientali ha avuto, e
continua ad avere, una considerevole influenza sulle scelte di progettazione di numerose imprese
operanti in Europa, ma anche delle imprese statunitensi che desiderano esportare e competere con le
concorrenti europee. Molte aziende tendono ad “anticipare” l’azione pubblica, investendo
nell’adozione di nuove tecnologie e processi produttivi che consentano di ridurre sensibilmente
l’impatto ambientale dei loro prodotti.
Al fine di valutare l’efficacia dei due approcci in termini di stimoli allo sviluppo dell’ecoprogettazione, questo contributo presenta una rassegna critica della letteratura, empirica e teorica,
sull’argomento. L’esame delle esperienze considerate suggerisce di trattare con cautela i casi di
“successo” che sembrano emergere in ciascuno dei due approcci. In generale, si può concludere che
l’iniziativa volontaria, da sola, non è sufficiente a garantire il rispetto di target ambientali
soddisfacenti nel medio-lungo periodo. Di conseguenza, le istituzioni pubbliche devono svolgere un
ruolo rilevante nella fissazione degli standard, nella fornitura degli incentivi più appropriati e nel
controllo del rispetto di comportamenti eco-sostenibili da parte delle imprese.
Come evidenziato dalla sintesi della letteratura economica, i diversi strumenti di policy a
disposizione dei governi hanno una differente capacità di stimolo al DFE, ed anche l’efficacia dei
meccanismi più promettenti può essere limitata dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Più
precisamente, gli incentivi all’eco-progettazione dipendono strettamente dall’esistenza e dal
funzionamento dei mercati per i prodotti riciclati.
Nello specifico, il lavoro è organizzato nel modo seguente.
3
Nel campo delle apparecchiature elettroniche per ufficio, ad esempio, grandi aziende, come Xerox, Hewlett-Packard,
AT&T e IBM stanno mostrando una grande attenzione per il DFE, il riutilizzo e la gestione dei propri prodotti. Anche i
produttori di mobili per ufficio di alto profilo, come Herman Miller, Steelcase e Knoll, da tempo hanno avviato una
intensa attività di ricerca, disegno, produzione e riutilizzo di sedie ergonomiche, divisori e postazioni di lavoro (Lewis
et al., 2001).
2
Dopo aver introdotto il DFE ed evidenziato la sua rilevanza nel perseguimento dell’obiettivo di
riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti e dei processi produttivi (paragrafo 2), vengono
presentate le principali politiche di responsabilità estesa del produttore e valutate le loro potenzialità
di stimolo all’eco-progettazione (paragrafo 3). Il paragrafo successivo propone una sintesi dei
contributi teorici della letteratura economica ritenuti più significativi per illustrare gli effetti delle
politiche di EPR sugli incentivi al DFE, mentre il quinto paragrafo illustra le relazioni tra gli
incentivi al DFE, gli interventi governativi e le iniziative volontarie delle imprese attraverso la
presentazione di alcuni casi di studio.
Infine, l’ultimo paragrafo analizza le potenzialità economiche delle eco-industries, volte allo
sviluppo di tecnologie pulite e alla produzione di beni e servizi per misurare e minimizzare i danni
ambientali causati dai processi produttivi tradizionali.
2. Eco-progettazione: le potenzialità di riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti
Gli approcci tradizionali di riduzione dell’inquinamento e dell’impatto ambientale dei rifiuti si
basano sull’adozione di strategie relative al loro trattamento “end-of-pipe”, attraverso lo
smaltimento in discarica o l’incenerimento, oppure attraverso gli incentivi alla raccolta differenziata
e lo sviluppo delle attività di riciclaggio. Solo recentemente, a questo approccio di tipo “correttivo”
si è affiancato un approccio “preventivo”, che sposta l’attenzione dalla fase di gestione dei rifiuti
alle fasi di creazione e progettazione dei prodotti e dei processi produttivi.
In altri termini, anziché fronteggiare l’emergenza di dover gestire volumi crescenti di rifiuti si
ritiene preferibile ridurre a monte la quantità di materiali utilizzati dalle imprese, per i prodotti e gli
imballaggi, oppure aumentare il loro grado di riciclabilità e la loro facilità di disassemblaggio. In
questa ottica, un ruolo fondamentale è svolto dalle strategie di eco-progettazione nelle fasi iniziali
del ciclo di vita dei prodotti.
Il DFE ha luogo quando le imprese incorporano esplicitamente le valutazioni dell’impatto
ambientale nelle decisioni relative alla progettazione e produzione dei loro beni (Fiksel, 1996). Per
ridurre i rifiuti associati al consumo, ad esempio, le imprese possono “alleggerire” i propri prodotti,
riducendo sensibilmente la quantità di imballaggi utilizzati, oppure possono renderli più facili e
meno costosi da riciclare. Questi obiettivi possono essere soddisfatti cambiando il tipo di materiali
usati, evitando l’impiego congiunto di materiali diversi in un solo prodotto, specificando il tipo di
materie prime e le modalità di riciclo, progettando i prodotti in modo da renderne più agevole il
disassemblaggio.
I vari tipi di beni esercitano i propri effetti negativi sull’ambiente in fasi diverse del loro ciclo di
vita, dall’estrazione delle materie prime necessarie alla produzione, all’utilizzo dell’energia elettrica
per il loro funzionamento, allo smaltimento una volta esaurita la loro vita utile. Tuttavia,
indipendentemente dalla fase specifica in cui si manifesta, l’impatto ambientale di un prodotto è
inevitabilmente determinato al momento della sua progettazione, quando vengono scelti i materiali
3
di cui sarà composto e se ne stabilisce il rendimento potenziale. Una volta che la fase di
progettazione generale è stata completata, le tecnologie produttive e le materie prime sono state
identificate, restano solo possibilità marginali per il miglioramento dell’efficienza e la riduzione
dell’impatto ambientale dei prodotti. La scelta dei materiali utilizzati e delle modalità di
assemblaggio vincola le opportunità di riutilizzo dei prodotti, rendendo poco efficaci anche le più
sofisticate tecnologie di riciclaggio.
Schematicamente, l’effetto “lock-in” ambientale lungo il ciclo di vita di un prodotto può essere
rappresentato come in Figura 1. I riquadri ombreggiati rappresentano le strategie che possono essere
messe in opera per ridurre l’impatto ambientale in corrispondenza delle diverse fasi del ciclo di vita.
L’effetto “lock-in” tende a crescere molto rapidamente nello stadio iniziale di disegno e
progettazione dei beni, e più lentamente nelle fasi successive; in altri termini, l’accumulazione
dell’effetto “lock-in” può essere descritta da una funzione concava nei diversi stadi del ciclo di vita.
Poiché le potenzialità di riduzione dei rifiuti, di minimizzazione delle risorse utilizzate, di
conservazione dell’acqua e di efficienza energetica dipendono strettamente da scelte, caratterizzate
da un grado elevato di irreversibilità, effettuate nel momento in cui i prodotti vengono progettati, il
DFE rappresenta uno strumento molto potente per la realizzazione di beni, servizi ed edifici ecocompatibili. Solo un approccio di progettazione che prenda in esame, a monte, tutto il ciclo di vita
del prodotto può essere in grado di incorporare le valutazioni di impatto ambientale nella fase di
ideazione e creazione dei beni.
In questo senso, le strategie di DFE influenzano il disegno dei prodotti, ad esempio
moltiplicandone le funzioni, allungandone il periodo di vita utile, facilitandone la riparazione e la
sostituzione dei componenti, ma hanno effetti anche sui processi produttivi, riducendo il numero
delle fasi di produzione, e quindi il consumo di energia e materie prime, incentivando la
reintegrazione dei rifiuti di produzione nella catena di fabbricazione, selezionando modalità
produttive che facilitino il disassemblaggio e il reimpiego dei materiali. Analogamente, anche le
fasi di distribuzione e commercializzazione dei beni possono essere rese maggiormente ecocompatibili, attraverso l’eliminazione degli imballaggi superflui, l’utilizzo di materiali riciclabili o
biodegradabili, la massimizzazione della quantità di prodotto, per unità di volume, durante il
trasporto.
(qui: inserire Figura 1)
3. Il concetto di responsabilità estesa del produttore e i principali strumenti di policy
Nonostante gli sforzi compiuti per ridurre l’inquinamento e la produzione di rifiuti, la pressione
esercitata sull’ambiente dalle attività umane di produzione e consumo continua ad aumentare e a
costituire una seria minaccia alla sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. In particolare, i
volumi di rifiuti hanno continuato a crescere, negli ultimi due decenni, ad un tasso vicino a quello
della crescita economica. I rifiuti urbani, ad esempio, sono aumentati di oltre il 59% tra il 1980 e il
2002, e ci si attende un loro ulteriore incremento fino al 2020, sebbene ad un tasso leggermente più
4
basso (OECD, 2004). Nello stesso tempo, si sono aggravati i problemi relativi alla ricerca di nuovi
siti di stoccaggio e sono state rese più stringenti le regole per l’interramento e l’incenerimento dei
rifiuti, accrescendone i costi di gestione.
La preoccupazione per i costi e per gli effetti ambientali delle principali opzioni di smaltimento
ha portato molti paesi a sviluppare politiche volte a ridurre la proporzione di rifiuti non riciclabili e
ad incentivare il riutilizzo/riciclo dei prodotti. Una possibile soluzione di lungo periodo al problema
dei rifiuti è stata individuata nelle modifiche alle strategie di progettazione dei beni e del loro
imballaggio. In questa ottica si inserisce la proposta di introduzione della responsabilità estesa del
produttore (EPR), un approccio di politica ambientale che cerca di ridurre i costi economici e
ambientali della gestione dei rifiuti attraverso l’estensione della responsabilità dei produttori per i
loro beni alla fase successiva al consumo, al fine di indurli a tenere conto del costo sociale del loro
smaltimento.
A partire dal 1995, in occasione del “Waste Minimisation Workshop” organizzato dall’OECD a
Washington, l’EPR è stata identificata come un principio strategico per la minimizzazione dei
rifiuti. Formalmente, l’EPR ha la finalità di rendere i produttori responsabili (in termini finanziari e,
in alcuni casi, anche fisici; in tutto o in parte) del trattamento e dello smaltimento dei loro prodotti,
una volta esaurita la loro funzione di soddisfacimento dei bisogni dei consumatori (OECD, 2001).
In questo modo, le responsabilità e i costi della gestione di alcuni rifiuti vengono trasferiti dalle
autorità di governo locale, tipicamente responsabili delle operazioni di raccolta e smaltimento, ai
produttori dei beni stessi. Come conseguenza indiretta dell’applicazione del principio, i produttori
dovrebbero essere stimolati a tenere conto dell’impatto ambientale dei propri prodotti, riducendo la
produzione di rifiuti “alla fonte” e promuovendo la progettazione e la realizzazione di prodotti
maggiormente eco-compatibili.
Il principio di EPR, quindi, se applicato in modo appropriato, può correggere le inefficienze
costringendo i responsabili dei danni ambientali a farsi carico dei relativi costi. Il fatto di
internalizzare i costi esterni legati allo smaltimento dei rifiuti fa sì che le decisioni dei produttori
mirate alla massimizzazione del profitto siano compatibili con l’efficienza sociale.
La proposta del principio di EPR si inserisce nell’ambito dell’approccio più generale del
Polluter-Pays Principle (PPP), a cui si sono ispirate le regolamentazioni ambientali dei paesi
OECD, a partire dall’inizio degli anni Settanta, al fine di promuovere un’allocazione efficiente delle
risorse per la protezione ambientale. In base a questo principio, dovrebbero essere i soggetti che
inquinano a sostenere le spese dell’impatto ambientale che generano, e non l’intera collettività. Di
conseguenza, la politica ambientale dovrebbe intervenire nella fase del ciclo di vita di un prodotto
più vicina possibile al punto in cui si genera l’esternalità. Nel caso delle esternalità create dai
processi di smaltimento dei rifiuti, l’applicazione del PPP ha comportato, in genere, l’attribuzione
dei costi ambientali ai consumatori finali dei prodotti. In tal modo, l’esternalità negativa verrebbe
internalizzata costringendo i consumatori a sostenerne il costo sociale.
Il meccanismo attraverso cui gli strumenti PPP possono influenzare le scelte di ecoprogettazione si basa sui tradizionali segnali di prezzo generati dalla competizione tra le imprese sul
5
mercato dei prodotti. Poiché i consumatori sono tenuti a sostenere un costo per l’acquisto dei beni
che include, oltre al prezzo di vendita, anche il contributo di smaltimento commisurato al volume di
rifiuti generati, tenderanno a sostituire i prodotti con un maggiore impatto ambientale con quelli che
creano minori quantità di rifiuti, inducendo le imprese a competere sull’offerta di prodotti più ecocompatibili.
Tuttavia, al di fuori di mercati perfettamente concorrenziali, i segnali di prezzo associati
all’applicazione del PPP non vengono trasmessi efficacemente lungo la catena produttiva, con la
conseguenza che, spesso, le politiche ambientali applicate al livello dell’esternalità non sono in
grado di raggiungere i loro obiettivi ambientali.
Le politiche di EPR, al contrario, forniscono incentivi espliciti ai produttori perché incorporino
l’obiettivo di riduzione dell’impatto ambientale nella progettazione dei loro beni. L’estensione della
responsabilità dei produttori alla fase successiva al consumo dei loro beni può contribuire a
stimolare e indirizzare modifiche e innovazioni nella selezione dei materiali e nel design del
prodotto. In altre parole, l’esternalità negativa creata dallo smaltimento dei rifiuti sarebbe
internalizzata facendone sostenere direttamente il costo sociale ai produttori, che in questo modo
sarebbero indotti a scegliere un livello ottimale di eco-progettazione dei loro beni.
Rispetto agli altri strumenti di politica ambientale, l’aspetto più rilevante delle politiche EPR è
proprio l’incentivo potenziale all’eco-progettazione che esse possono creare.
L’adozione del principio di EPR da parte dei governi è giustificata da molteplici motivazioni
(OECD, 2005).
La principale argomentazione fa riferimento all’obiettivo di riduzione dei costi complessivi di
gestione dei rifiuti, dove per costi non si intendono solo le risorse finanziarie necessarie per
l’organizzazione delle operazioni di smaltimento, ma soprattutto i costi, monetari e non, derivanti
dall’impatto ambientale dei rifiuti. I costi di eliminazione dei rifiuti nei termovalorizzatori, ad
esempio, non includono solo l’ammontare monetario necessario per costruire e rendere operativo
l’impianto, ma anche i costi non monetari derivanti dagli effetti sulla salute umana provocati dalle
emissioni della combustione. Analogamente, lo stoccaggio nelle discariche può dare origine a
problemi di contaminazione delle falde acquifere, producendo un grave danno per la salute dei
residenti ed elevati costi di purificazione e bonifica del territorio. Quando non sono chiamati a
sostenere i costi dello smaltimento dei rifiuti, i produttori possono ignorare gli effetti delle proprie
scelte produttive sull’inquinamento ambientale e i conseguenti problemi sanitari. Al contrario, si
ritiene che l’attribuzione della responsabilità dei propri rifiuti ai produttori possa incoraggiarli ad
adottare azioni e comportamenti più virtuosi, per esempio eliminando gli imballaggi in eccesso e
scegliendo materiali più facilmente riciclabili. In molti casi, i governi hanno intrapreso i programmi
EPR in modo da migliorare la gestione di rifiuti pericolosi che possono provocare gravi rischi
sanitari. A questo fine, l’EPR è stata utilizzata per disporre di un canale separato e più controllato
per la gestione di prodotti tossici e pericolosi (come batterie, pneumatici e prodotti contenenti
mercurio), oppure per contrastare i problemi legati agli smaltimenti impropri o illegali, per esempio
di frigoriferi contenenti CFC. Gli alti costi associati allo smaltimento di questo tipo di rifiuti
6
potrebbe incentivare i produttori a ridurre l’utilizzo di materiali e sostanze tossiche, laddove
possibile.
Una ulteriore motivazione all’introduzione di politiche EPR riguarda la riduzione degli oneri
finanziari a carico delle municipalità e delle altre autorità locali impegnate nella raccolta dei rifiuti.
I volumi crescenti di rifiuti, le difficoltà connesse all’apertura di nuove discariche a fronte
dell’esaurimento delle possibilità di stoccaggio nelle vecchie, le regolamentazioni più stringenti
derivanti dal rispetto degli standard ambientali sono fattori che hanno accresciuto enormemente i
costi dell’organizzazione dei rifiuti, rendendo attraenti per le autorità locali opzioni di condivisione
degli oneri complessivi.
Infine, un altro argomento a favore del principio EPR riguarda gli incentivi che fornisce alla
riduzione nell’utilizzo delle risorse. Nel caso delle risorse naturali, i prezzi di mercato non riflettono
i reali costi sociali del loro utilizzo, sia perché in molti paesi l’estrazione e la trasformazione delle
risorse sono attività sussidiate, sia perché le esternalità negative associate a tali attività non si
riflettono nei prezzi delle materie prime (Tietenberg, 2006). Se le risorse fossero pagate ad un
prezzo che ne riflette l’intero costo sociale, inclusi quindi gli effetti esterni dei processi di estrazione
e trattamento, nonché il valore di scarsità delle risorse esauribili, i produttori sarebbero incoraggiati
ad adottare strategie e tecnologie che riducono l’utilizzo delle materie prime vergini e fanno
maggiormente ricorso a materiali riciclati. I programmi di EPR potrebbero indurre le imprese ad
adottare tali comportamenti più rispettosi dell’ambiente.
3.1 I programmi di EPR e gli incentivi al DFE
I programmi che si ispirano al principio di EPR introdotti negli ultimi anni nei vari contesti
nazionali hanno attribuito un peso diverso alle motivazioni precedenti, così come diversi sono stati
gli strumenti concretamente adottati per metterli in pratica. Sebbene il principio del “take-back” sia
quello più comunemente associato alle politiche di EPR, la responsabilità dei produttori è un
concetto molto più ampio, che include una vasta gamma di specifici strumenti di policy. A parte gli
obblighi per i produttori relativi al ritiro degli imballaggi o dei prodotti, una volta consumati, alcuni
programmi prevedono l’attribuzione ai produttori della responsabilità dei costi di uno smaltimento
appropriato dei prodotti e materiali raccolti, così come la fissazione di obiettivi e regole per la
gestione dei rifiuti, per esempio, specificando tassi minimi di riutilizzo e di riciclaggio.
Nello specifico, gli obblighi di ritiro dei prodotti (product take-back mandate), una volta
esaurita la loro vita utile, sono in genere associati alla specificazione di target di riciclaggio, che
vincolano i produttori a riciclare una certa percentuale dei materiali di cui sono composti i loro
prodotti.
Gli obiettivi possono essere specificati sia a livello di singolo produttore (responsabilità
individuale) sia a livello dell’intero settore o industria (responsabilità collettiva). In questo secondo
caso, per soddisfare i requisiti, spesso le imprese formano delle organizzazioni per la responsabilità
dei produttori (Producer Responsibility Organization - PRO), in modo da agevolare la gestione
7
della raccolta e del riciclaggio dei rifiuti e di assicurare il raggiungimento degli obiettivi4. In alcuni
casi, le regole di partecipazione all’organizzazione5 prevedono che tutte le operazioni di raccolta e
smaltimento dei rifiuti siano realizzate attraverso l’organizzazione stessa, mentre, in altri casi, le
imprese possono avere l’opportunità di uscire dalla PRO e di soddisfare i loro obblighi di recupero e
riciclaggio individualmente. In alcuni contesti, sono sorte numerose PRO, in competizione tra loro.
Solitamente, una PRO richiede alle imprese partecipanti il pagamento di contributi per coprire i
costi di raccolta e di trattamento dei rifiuti. Le modalità con cui sono stabiliti tali contributi
influenzano gli incentivi all’eco-progettazione da parte delle imprese. Nei casi in cui i costi sono
ripartiti in proporzione alle quote di mercato delle imprese, il singolo produttore può non avere un
forte incentivo ad introdurre modifiche nel disegno del proprio prodotto in modo da ridurne i costi
di gestione. Mentre i costi dell’eco-progettazione sono sopportati dall’impresa che la realizza, i
benefici derivanti dal risparmio sui costi di smaltimento ricadono su tutte le imprese della PRO e,
quindi, tendono ad avvantaggiare maggiormente le imprese che non introducono innovazioni,
rispetto a quelle che le realizzano. L’eco-progettazione diventa una sorta di bene pubblico per le
imprese che aderiscono alla PRO, ciascuna delle quali avrà incentivi ad assumere comportamenti da
free-rider. Come conseguenza, il DFE tenderà ad essere realizzato in misura minore rispetto alla
quantità efficiente.
Uno stimolo più efficace al DFE, invece, è fornito da meccanismi di ripartizione dei costi della
PRO in base alle unità di prodotto vendute, così da collegare direttamente il contributo che le
imprese devono versare ai costi di smaltimento del loro specifico prodotto. In questo modo, i
cambiamenti di design che riducono i costi di gestione dei rifiuti vanno effettivamente a beneficio
dell’impresa che li ha introdotti, e il programma di EPR è in grado di incentivare l’utilizzo di
materiali più facilmente riciclabili o la riduzione della quantità di materiale impiegato nei processi
produttivi. La possibilità di far pagare alle imprese contributi differenziati in base ai costi di
smaltimento, tuttavia, comporta costi molto elevati di organizzazione del programma collettivo,
come testimonia l’esperienza di ICT-Milieu. Per far fronte agli obblighi di take-back dei prodotti
elettrici ed elettronici previsti dalla legislazione olandese (The Management of White and Brown
Goods Decree) introdotta nel 1998, sono sorte due diverse organizzazioni di produttori e
importatori, ICT-Milieu e NVMP, il primo responsabile per il recupero delle apparecchiature
(informatiche e di telecomunicazione) da ufficio a fine vita, il secondo della gestione dei beni
esausti appartenenti alla filiera del bianco e del bruno (elettrodomestici grandi e piccoli,
apparecchiature elettroniche per uso domestico). Inizialmente, il finanziamento delle attività di ICTMilieu era realizzato attraverso il pagamento di contributi differenziati per le diverse marche, in
base ai costi di riciclaggio e al peso dei prodotti. Tuttavia, questa modalità si è rivelata
eccessivamente onerosa, cosicché, a partire dal 2003, le quote di compartecipazione ai costi di
4
In Italia, per esempio, il Consorzio ecoR’it, è un sistema collettivo integrato per la raccolta e il trattamento dei rifiuti
di apparecchiature elettriche ed elettroniche, professionali e domestiche. Attualmente è composto da oltre 580 soci
(http://www.ecorit.it).
5
Le organizzazioni possono essere anche società distinte dalle aziende che le compongono. In questi casi, i produttori
individuali sono azionisti delle PRO.
8
raccolta e trattamento dei rifiuti sono determinate in base alle quote di mercato delle imprese
partecipanti6.
In alternativa al meccanismo delle PRO, nei casi in cui i target di riciclaggio si applicano ad un
intero settore industriale, le imprese possono avere la possibilità di scambiare tra loro i cosiddetti
“crediti negoziabili di riciclaggio” (tradable recycling credits)7. In un sistema di questo tipo, ad
ogni imprenditore è richiesto di soddisfare un target predefinito, in termini, ad esempio, di una certa
percentuale del peso del prodotto che deve essere riciclato. Il soddisfacimento del target può essere
realizzato direttamente dalle imprese, individualmente o attraverso il pagamento a società di
riciclaggio, oppure attraverso l’acquisto di crediti da altre imprese, che hanno realizzato quote di
riciclaggio superiori a quanto richiesto. Le imprese più virtuose, che sostengono costi più bassi per
riciclare i propri prodotti, infatti, possono avere convenienza a superare le quote prefissate,
vendendo le quote eccedenti, sotto forma di crediti, alle imprese che hanno invece maggiori
difficoltà (e maggiori costi) a soddisfare i target richiesti.
Con questo sistema, gli obiettivi di riciclaggio per l’intera industria vengono soddisfatti, al costo
minore per le imprese. Il pregio principale di un meccanismo di crediti negoziabili risiede proprio
nella sua maggiore flessibilità, rispetto ad un approccio di tipo comando e controllo, che preveda
l’imposizione di specifici standard di riciclaggio uguali per tutte le imprese (si veda il contributo di
Castellucci in questo volume). In un sistema di crediti negoziabili, le imprese che realizzano
prodotti particolarmente difficili da riciclare, ovvero che hanno costi più alti di riciclaggio, possono
scegliere di acquistare crediti, mentre le imprese che riciclano più facilmente possono venderli,
dietro il pagamento di un prezzo. Limitandosi a definire le quote di riciclaggio e lasciando agire il
mercato, le autorità pubbliche possono conseguire un’allocazione efficace rispetto al costo, anche in
assenza di informazioni circa i costi di riciclaggio delle imprese. Graficamente, l’allocazione
efficace rispetto al costo è rappresentata dal punto E nella Fig. 28, in corrispondenza del quale i
costi marginali di riciclaggio sono uguali per le imprese e il costo necessario per soddisfare il target
di riciclaggio è minimizzato. A qualsiasi altra allocazione è associato un costo complessivo di
raggiungimento del target più elevato.
Qui: Figura 2
6
Più precisamente, questa è la modalità adottata per le apparecchiature di peso non superiore ai 35 chilogrammi. Per le
apparecchiature più pesanti, le imprese possono scegliere di ritirare e processare autonomamente i propri prodotti presso
società qualificate (informazioni disponibili sul sito http://www.fenit.nl/index.shtml?ch=MIL&id=2827, ultimo accesso
22 giugno 2008).
7
Si tratta di un meccanismo analogo a quello dei permessi di inquinamento negoziabili, in base al quale tutti i soggetti
inquinanti devono disporre di appositi permessi per poter rilasciare emissioni nocive nell’ambiente. Il numero massimo
di permessi in circolazione dipende dalla quantità massima di inquinamento che le autorità decidono di poter tollerare.
Una volta che i permessi sono stati assegnati, possono essere scambiati liberamente tra le imprese sul mercato. In questo
modo, un’impresa virtuosa, che riesce a dimezzare le sue emissioni può vendere parte dei suoi permessi ad un’altra
impresa che decide di espandere la sua attività produttiva e, di conseguenza, le sue emissioni. In equilibrio, ciascuna
impresa ridurrà l’inquinamento fino al livello in corrispondenza del quale il costo marginale di riduzione
dell’inquinamento è uguale al prezzo di mercato dei permessi (Tietenberg, 2006).
8
Si sta assumendo che il costo marginale di riciclaggio di ciascuna delle due imprese sia crescente all’aumentare della
quota di riciclaggio richiesta.
9
E’ evidente che un sistema di crediti negoziabili di riciclaggio fornisce incentivi molto forti
all’eco-progettazione: poiché i costi di riciclaggio dei prodotti sono sopportati direttamente da
coloro che li producono, questi ultimi saranno incentivati ad apportare modifiche ai beni che
consentano di ridurne i costi di smaltimento.
Un esempio di funzionamento dei crediti negoziabili è costituito dal sistema inglese di gestione
degli imballaggi, in cui le imprese che si occupano del trattamento degli scarti emettono delle
“quote di recupero dei rifiuti da imballaggio” (packaging waste recovery notes – PRNs) che le
imprese e le PRO possono scambiare reciprocamente per soddisfare i propri vincoli di riciclaggio9.
Un altro strumento che rientra nell’ambito delle misure adottate per realizzare la EPR è
costituito dalle “tasse anticipate per il riciclaggio” (Advance Recycling Fees – ARF), imposte sulle
vendite utilizzate per finanziare i costi di riciclaggio, applicate per quantità/peso o per unità di
prodotto10. Le imposte possono essere in aggiunta al prezzo di vendita e quindi chiaramente
distinguibili dal consumatore, oppure possono essere applicate a monte, sui produttori, e incorporate
successivamente nel prezzo al dettaglio. Talvolta, il gettito di queste imposte viene usato per
finanziare sussidi al riciclaggio (per unità o per quantità di prodotto riciclato). Gli effetti di
incentivo al DFE sono strettamente legati al modo in cui viene utilizzato il gettito dell’imposta. Lo
stimolo all’eco-progettazione è praticamente inesistente nei casi in cui i proventi del prelievo sono
utilizzati per finanziare, in modo generalizzato, i costi di gestione dei rifiuti o delle relative
infrastrutture, mentre diventa rilevante se il gettito è impiegato per finanziare sussidi al riciclaggio
(si veda il paragrafo successivo).
Tutti i precedenti strumenti di policy rendono il produttore finanziariamente o fisicamente
responsabile per l’impatto ambientale dei beni giunti al termine del loro ciclo di vita e rientrano,
quindi, nella logica dei programmi EPR. Ovviamente, però, ogni strumento presenta costi diversi,
un diverso effetto incentivante sui produttori ed un diverso impatto ambientale.
L’analisi empirica del funzionamento e degli effetti di incentivo al DFE dei vari strumenti è
ancora in una fase iniziale di sviluppo e, a parte alcuni casi di studio, sulla base della nostra
conoscenza, non è ancora stata effettuata una valutazione completa e coerente dell’impatto dei
molteplici meccanismi di EPR. Una prima, interessante analisi è quella realizzata in Walls (2006),
in cui si definisce l’efficienza di uno strumento EPR, ovvero la sua efficacia rispetto al costo, sulla
base della sua capacità di sfruttare tutte le diverse opportunità di riduzione dei rifiuti. La riduzione
dell’utilizzo di materiali nei processi produttivi, la progettazione di beni più facilmente riciclabili, la
diminuzione dei consumi e l’incentivo alle abitudini di riciclaggio dei consumatori sono tutti
elementi che concorrono alla minimizzazione dei rifiuti. L’adozione di programmi che influenzano
solo una delle precedenti opzioni comporta la perdita di significative opportunità nel perseguimento
dell’obiettivo di riduzione dei rifiuti. In questa ottica, è possibile valutare i diversi strumenti di
9
Per una descrizione più dettagliata si rimanda a Portney (2006).
Uno strumento analogo è costituito dalle “tasse anticipate per lo smaltimento” (Advance Disposal Fees – ADF), per
cui i produttori pagano un certo ammontare per ogni unità o peso di prodotto venduto, al fine di coprire, in anticipo, i
futuri costi di smaltimento dei beni stessi.
10
10
policy. Quanto più elevato è il numero di risposte positive nelle caselle della Tabella 1, tanto più lo
strumento analizzato risulta efficace rispetto al costo11.
In molti casi, la combinazione di due strumenti, come l’imposta anticipata (ARF) e il sussidio al
riciclaggio, che incoraggiano congiuntamente la riduzione dell’uso delle risorse e il riciclaggio,
risulta più efficace rispetto sia alla applicazione della sola imposta, che incentiva la diminuzione
dell’uso delle materie prime, sia all’applicazione del solo sussidio, che stimola il riciclaggio, ma
non la parsimonia nell’uso degli input (se non indirettamente).
Un fattore rilevante che influenza l’efficienza degli strumenti di policy riguarda le modalità con
cui sono determinati i valori di imposte e sussidi. Un sussidio al riciclaggio, per esempio, risulta più
efficace se applicato “al margine”, per unità o peso di prodotto, rispetto alla fornitura lump-sum: nel
primo caso, le aziende di riciclaggio ricevono compensi più elevati in proporzione alla quantità di
materiale che riciclano, mentre nel secondo non sono stimolati ad accrescere le quote di riciclaggio.
Anche nell’ipotesi di applicazioni “al margine”, inoltre, sembrano essere relativamente più efficaci
gli strumenti commisurati al peso dei prodotti, rispetto a quelli applicati per unità di prodotto. Nel
caso dell’imposta anticipata di riciclaggio, ad esempio, gli stimoli all’eco-progettazione, in termini
di sostituzione di materiali, riduzione e alleggerimento dei beni, sono più forti se l’aliquota è
determinata in base al peso del prodotto.
La valutazione dell’efficacia degli obblighi di recupero dei prodotti (take-back mandates) è
particolarmente difficile da realizzare a causa della diversità tra le regolamentazioni e l’effettiva
implementazione dei programmi. Come già notato, nei casi in cui la raccolta e il riciclaggio dei
materiali non sono effettuati direttamente dalle singole imprese, ma dalle organizzazioni formate
dai produttori del settore (PRO), gli effetti incentivanti dei programmi dipendono dai modi di
finanziamento e dall’effettivo funzionamento delle organizzazioni. Se i contributi alle PRO sono
commisurati alle vendite dei prodotti (in base al loro peso) tendono ad agire come una imposta
anticipata per il riciclaggio (ARF) e ad avere gli stessi effetti. Inoltre, richiedendo che una certa
percentuale del materiale venga riciclato, gli obblighi di recupero agiscono da stimolo alle attività di
riciclaggio. Tuttavia, imponendo degli standard, i produttori non hanno incentivi a superare le soglie
prefissate, a differenza di quanto accade con i sussidi al riciclo, che hanno un impatto continuo sui
volumi riciclati. E’ probabile, quindi, che i programmi di take-back siano meno efficaci, rispetto ad
altri tipi di strumenti, nell’incentivare l’eco-progettazione e l’utilizzo di materiali facilmente
riciclabili.
Infine, variabili come i costi amministrativi di implementazione delle misure, i costi di
smistamento dei beni dopo il consumo, la struttura dei mercati dei prodotti riciclati svolgono un
ruolo importante nel determinare la maggiore o minore efficienza ed efficacia delle politiche EPR12.
11
La tabella qui riportata rappresenta una sintesi dei risultati di Walls (2006), in cui è presente una analisi molto più
approfondita dell’impatto di meccanismi EPR e non EPR.
12
Un approfondimento sui costi di transazione nei mercati per i prodotti riciclati è effettuato nel contributo di D’Amato
in questo volume.
11
Qui: Tabella 1
4. Le politiche EPR e il Design for Environment nella letteratura economica
Come abbiamo notato, le possibilità che una politica EPR sia in grado effettivamente di
incentivare i produttori a modificare il design dei propri beni al fine di ridurne i costi di trattamento
e smaltimento sono strettamente legate al modo in cui la politica stessa è progettata. In particolare,
l’efficacia degli incentivi è legata alla possibilità che i produttori, singolarmente, siano chiamati a
sopportare un onere finanziario commisurato a quelle caratteristiche dei prodotti che ne influenzano
i costi di gestione, in termini di tossicità o di difficoltà di riciclaggio, per esempio (Walls, 2006).
In pratica, l’efficacia delle politiche può essere notevolmente ridotta da una serie di fattori
(OECD, 2005).
In primo luogo, il segnale fornito ai produttori potrebbe essere annullato dalla capacità di
trasferimento dell’onere finanziario sul prezzo al consumo. Nel caso di beni a domanda
particolarmente rigida, il trasferimento quasi completo ai consumatori dei costi di gestione dei
rifiuti determinerebbe la completa inefficacia degli incentivi al ridisegno dei prodotti.
In secondo luogo, per alcuni tipi di beni, le opportunità di ridisegno per renderli maggiormente
eco-compatibili possono essere alquanto limitate. Nel caso dell’olio utilizzato nei motori dei veicoli,
ad esempio, le possibilità di riduzione degli scarti sono più legate alle modifiche alla struttura e al
funzionamento dei veicoli che non a cambiamenti nella composizione dell’olio stesso. In questi
casi, i programmi di EPR hanno la funzione di assicurare una gestione appropriata dell’olio esausto,
piuttosto che di incentivare una progettazione più attenta alle conseguenze ambientali.
In generale, poi, i produttori tenderanno a confrontare i risparmi di costo nella gestione dei
rifiuti, ottenibili attraverso l’eco-progettazione, con la possibile insoddisfazione dei consumatori dei
beni per le modifiche introdotte. I cambiamenti di design saranno realizzati nella misura in cui sono
in grado di produrre risparmi di costo senza ridurre in modo significativo il valore dei beni per i
consumatori.
Nel dibattito teorico sull’introduzione dei principi di EPR una delle questioni centrali è relativa
ai diversi effetti di stimolo all’eco-progettazione esercitati da opzioni di policy alternative. In
pratica, si tratta di valutare se il DFE sia maggiormente incentivato dall’uso di strumenti che
incidono direttamente a monte, sul comportamento dei produttori, oppure da strumenti che
colpiscono, a valle, i consumatori e influenzano le fasi di progettazione dei beni solo indirettamente.
Un esempio rilevante di questo secondo tipo di strumenti è rappresentato dalle tariffe sui rifiuti
(disposal fee), in base alle quali le famiglie sono chiamate a pagare un certo ammontare monetario
per ogni determinata quantità di rifiuti. Alcuni autori ritengono, che, sotto certe ipotesi,
l’applicazione di questo tipo di tariffe sia in grado di inviare segnali di prezzo corretti ai produttori,
i quali sarebbero incentivati a modificare il disegno dei propri prodotti in una direzione
maggiormente eco-compatibile. In questa direzione si muove, ad esempio, il lavoro di Fullerton e
Wu (1998), che costituisce uno dei primi contributi all’analisi teorica degli incentivi al DFE. Nel
loro modello di equilibrio generale, in cui sono considerate tutte le fasi del ciclo di vita di un
12
prodotto (dalla progettazione alla produzione, imballaggio, vendita, utilizzo e smaltimento) si
assume l’assenza di incertezza, una ipotesi alquanto restrittiva che rende possibile l’applicazione di
imposte e sussidi commisurati al costo marginale sociale connesso all’esternalità negativa derivante
dallo smaltimento dei rifiuti.
Nell’economia è presente un solo bene di consumo, q, caratterizzato da un certo grado di
riciclabilità (ρ) e da un certo tasso di imballaggio (θ ). ρ può essere interpretato come la frazione di
peso del prodotto che può essere riciclata al termine della sua vita utile, e θ come il peso
dell’imballaggio che accompagna ogni unità di prodotto. Si assume che l’imballaggio non possa
essere riciclato.
Le imprese, che producono il loro output utilizzando risorse primarie (lavoro e capitale - kq) e
materiali riciclati (r), scelgono anche la quantità di imballaggi e il grado di riciclabilità del loro
prodotto.
Le famiglie forniscono le risorse primarie e generano un ammontare di rifiuti e di riciclaggio che
dipende dalle scelte di packaging e di riciclabilità delle imprese. I rifiuti solidi prodotti possono
essere smaltiti sotto forma di raccolta indifferenziata di immondizia (g) oppure sotto forma di
riciclaggio (r). La produzione di g dipende dalla tecnologia delle famiglia, secondo la funzione:
(1) g = g ( q, ρ ,θ )
per cui i volumi di rifiuti dipendono positivamente dalla quantità di prodotto consumato e dalla
quantità di imballaggi, e negativamente dal grado di riciclabilità del bene.
Il riciclaggio, invece, cresce con la quantità di prodotto e con il grado di riciclabilità:
(2) r = r ( q, ρ )
L’utilità della famiglia dipende dalla quantità del bene q acquistato sul mercato e dalla quantità
di un altro bene, h, auto-prodotto, ma è influenzata anche dall’esistenza di una esternalità negativa
generata dall’ammontare complessivo di rifiuti non riciclati generati nell’economia:
(3) u = u ( q, h, G )
dove G = ng rappresenta i rifiuti totali prodotti dalle n famiglie. Questa formulazione implica che
l’utilità delle famiglie non sia influenzata direttamente dal riciclaggio e dalla quantità di imballaggi,
ma indirettamente, attraverso i fattori che modificano la produzione di g.
Affinché tutti i mercati siano in equilibrio, l’ammontare di beni riciclati dalle famiglie deve
essere uguale alla quantità di materiali riciclati riutilizzati dalle imprese, mentre la quantità di rifiuti
non riciclati deve essere uguale all’offerta di servizi di smaltimento delle imprese che si occupano
della raccolta.
Sulla base di queste ipotesi, gli autori individuano una serie di possibili fallimenti del mercato,
a fronte dei quali vengono proposti diversi strumenti correttivi. In un primo caso, si assume che le
imprese incaricate della raccolta possano imporre un prezzo, per unità di rifiuti, che riflette il costo
privato dello smaltimento, ma non l’esternalità negativa (in termini di problemi sanitari, odori
sgradevoli e rumore associati al deposito in discariche o all’incenerimento dei rifiuti).
13
In un secondo caso, si ipotizza che l’applicazione di un prezzo (imposta) per unità di spazzatura
non sia possibile, a causa di difficoltà amministrative e costi di adeguamento, o dell’emergere di
comportamenti scorretti, come il diffondersi delle discariche abusive. In tale situazione, la raccolta
gratuita dei rifiuti permette di evitare i costi amministrativi e gli smaltimenti illegali, ma non
fornisce incentivi alle famiglie per ridurre la quantità di scarti; indirettamente, le imprese non sono
stimolate a produrre beni più facilmente riciclabili e con meno imballaggi.
In sintesi, quindi, nei casi in cui i fallimenti del mercato possono essere corretti da tariffe
appropriate che permettono di internalizzare l’intero costo sociale dell’esternalità, il comportamento
dei consumatori può indurre le imprese ad adottare pratiche di eco-progettazione, riducendo il
volume degli imballaggi e disegnando prodotti più facilmente riciclabili. Se, al contrario,
l’emergere di pratiche illegali per evitare il pagamento delle tariffe o il funzionamento non
efficiente dei mercati per il riciclaggio non consentono l’applicazione di meccanismi che colpiscano
a valle lo smaltimento dei rifiuti, il benessere sociale può essere accresciuto realizzando politiche
direttamente rivolte alle imprese. Tra queste, una politica di take-back può fornire i giusti incentivi
all’impresa perché progetti prodotti più facilmente riciclabili, ma solo se opportunamente integrata
con un sistema di tariffazione a carico dei consumatori.
La necessità di stimolare l’adozione di un approccio “integrato” di policy, che preveda l’utilizzo
congiunto di diversi strumenti, è sottolineata anche da altri contributi. Walls e Palmer (2001), ad
esempio, evidenziano come l’applicazione di un solo strumento non sia in grado di determinare
un’allocazione socialmente efficiente nei casi in cui le esternalità negative dei processi produttivi
non riguardino solo lo smaltimento dei prodotti nella fase successiva al consumo, ma anche la
produzione di scarti della lavorazione e l’inquinamento di aria e acqua.
In questo contesto, l’equilibrio di first-best può essere raggiunto sia attraverso l’applicazione
congiunta di imposte pigouviane sulle emissioni, imposte sull’output e sussidi al riciclaggio, sia, nei
casi in cui la logica à la Pigou non sia applicabile, attraverso l’uso di meccanismi alternativi,
compresa la combinazione di standard regolamentativi e imposte anticipate di smaltimento (ADF).
Altri lavori evidenziano come la capacità delle tariffe sui rifiuti di stimolare un livello efficiente
di DFE dipenda strettamente dalle ipotesi relative al funzionamento dei mercati di riciclaggio
(Calcott e Walls, 2000). In altri termini, gli incentivi al DFE si realizzerebbero solamente nei casi in
cui tali mercati siano perfettamente funzionanti, ovvero quando le imprese che si occupano del
riciclaggio pagano alle famiglie un prezzo per i rifiuti commisurato al grado di riciclabilità dei beni
stessi. Sotto questa ipotesi, sia un meccanismo downstream di tariffazione dei rifiuti sia un
meccanismo di tipo EPR, costituito dall’applicazione di un’imposta/sussidio sui produttori
(UCTS)13 possono portare ad un equilibrio efficiente di smaltimento dei rifiuti, riciclaggio e DFE.
L’ipotesi di perfetto funzionamento dei mercati del riciclaggio è, tuttavia, alquanto irrealistica.
L’esistenza di informazione incompleta e di elevati costi di transazione nei processi di raccolta dei
rifiuti riciclabili e di pagamento in base alle opportunità di riciclo dei beni riduce notevolmente
13
Si tratta di un meccanismo analogo ai depositi rifondibili, ma in questo caso l’imposta (deposito) si applica sui
produttori di beni intermedi (come lingotti di alluminio o rotoli di carta) mentre il sussidio è garantito alle imprese che
raccolgono i beni usati (lattine, vecchi giornali…) e li rivendono alle imprese di riciclaggio (Palmer et al., 1997).
14
l’efficienza dei meccanismi di tariffazione a valle, rendendo impossibile il raggiungimento
dell’ottimo sociale (si veda, a questo proposito, il contributo di D’Amato in questo stesso volume).
In un contesto più realistico, in cui le famiglie non sono pagate per i rifiuti che riciclano e quindi
attribuiscono lo stesso valore a tutti i rifiuti, indipendentemente dalla loro facilità di riciclo,
l’imposta sui rifiuti non è in grado di fornire segnali corretti ai produttori perché siano stimolati a
produrre beni più facilmente riciclabili. In questo caso, l’ottimo sociale di first-best non è più
raggiungibile, a causa dell’esistenza dei costi di transazione, mentre è possibile pervenire ad un
ottimo vincolato, di second-best, attraverso l’applicazione di un programma UCTS e di una tariffa
di smaltimento, di importo minore rispetto al costo marginale sociale di smaltimento dei rifiuti
(corrispondente all’aliquota dell’imposta pigouviana).
In Calcott e Walls (2005) viene esplicitata l’ipotesi di un imperfetto funzionamento dei mercati
del riciclaggio a causa dell’esistenza di costi di transazione. Sotto questa ipotesi, lo scambio sul
mercato dei prodotti riciclabili è un’operazione costosa, poiché richiede alle imprese che si
occupano del riciclaggio di determinare il valore dei beni riciclabili e di pagare un prezzo
commisurato a tale valore. Rispetto ai modelli precedenti, quindi, per la prima volta, vengono prese
in considerazione anche le scelte strategiche delle imprese di riciclaggio nella determinazione delle
condizioni di equilibrio e degli incentivi al DFE.
In estrema sintesi, nel framework di Calcott e Walls (2005) sono rappresentate tre categorie di
attori: i produttori, i consumatori e le imprese di riciclaggio.
I produttori possono rendere i propri beni più riciclabili, sostenendo un certo costo. Tanto più i
prodotti sono riciclabili, tanto meno costosa è l’operazione di riciclaggio. Le imprese di riciclaggio
sono quindi disposte a pagare ai consumatori un prezzo più alto per i prodotti maggiormente
riciclabili. I consumatori, d’altra parte, possono decidere di gettare tutti i propri rifiuti (riciclabili e
non) nei contenitori per l’immondizia indifferenziata, oppure possono portare i materiali riciclabili
nei centri di riciclaggio, ottenendo in cambio un pagamento, proporzionale al grado di riciclabilità
del prodotto stesso. Il trasporto dei rifiuti fino ai centri, tuttavia, comporta dei costi di transazione e
i consumatori confrontano questi costi addizionali con la possibilità, a costo zero, di smaltire i rifiuti
in discarica.
In questo quadro, l’eco-progettazione può entrare nella fase iniziale del processo produttivo,
manifestando i suoi effetti lungo tutto il ciclo di vita dei prodotti.
Nel modello di Calcott e Walls (2005) l’equilibrio dell’economia è il risultato di tre problemi di
massimizzazione.
In primo luogo, i consumatori massimizzano la loro utilità soggetta al rispetto del vincolo di
bilancio. Le preferenze dei consumatori non sono influenzate dalle caratteristiche dei beni di
consumo, che si differenziano tra loro sulla base del loro grado di riciclabilità. In pratica, quindi, i
consumatori non hanno una preferenza per i beni maggiormente riciclabili. Tuttavia, il loro vincolo
di bilancio è influenzato dal pagamento che può derivare dalle imprese di riciclaggio, in funzione
del grado di riciclabilità dei rifiuti consegnati. Al contrario, il volume aggregato dei rifiuti influenza
negativamente l’utilità dei consumatori, ossia i rifiuti generano una esternalità negativa.
15
In secondo luogo, i produttori, eterogenei, massimizzano i propri profitti, scegliendo quanto
output produrre e il relativo grado di riciclabilità. Per accrescere la facilità di riciclo dei prodotti, le
imprese produttrici devono sostenere dei costi aggiuntivi, da confrontare con i ricavi addizionali che
possono ottenere vendendo i prodotti più riciclabili ad un prezzo maggiore. Infatti, poiché sono
meno costosi da riciclare, questi prodotti consumati, una volta consegnati ai centri deputati,
riceveranno un compenso più alto, il quale, a sua volta, renderà i consumatori più disponibili a
pagare un prezzo più alto al momento dell’acquisto.
Infine, le imprese di riciclaggio raccolgono i prodotti alla fine dell’attività di consumo, li
sottopongono a nuovi processi di lavorazione e li rivendono ai produttori, che li impiegano come
input di produzione. Una parte dei rifiuti riciclabili è ottenuta tramite la raccolta diretta, mentre
un’altra parte è il risultato della consegna da parte dei consumatori, che ricevono in cambio il
pagamento commisurato al grado di riciclabilità. Esisterà un livello di facilità di riciclo, al di sopra
del quale le imprese sceglieranno di non accettare i prodotti, perché troppo costosi da processare.
Poiché il grado di riciclabilità dei prodotti non può essere osservato perfettamente, non è
possibile per le autorità di governo stabilire aliquote di imposta e sussidi esattamente commisurati a
tale livello; l’ottimo sociale a cui si perviene sarà pertanto un ottimo di second best. Calcott e Walls
(2005) dimostrano che la combinazione di un sistema di depositi rifondibili (UCTS)14 e di una
modesta imposta sullo smaltimento (inferiore al livello socialmente efficiente) consente di
raggiungere un risultato di ottimo vincolato15. Ai fini del nostro ragionamento, tuttavia, è
importante rilevare come, in un contesto più realistico, caratterizzato dalla presenza di imperfezioni
nel funzionamento del mercato dei prodotti riciclati, l’utilizzo di politiche che spostano sui
produttori gli oneri finanziari della gestione dei rifiuti può stimolare l’introduzione di modifiche alla
progettazione dei prodotti, per renderli maggiormente e più facilmente riciclabili. L’impatto delle
politiche di EPR sul DFE, però, dipende strettamente dall’esistenza dei mercati per i prodotti
riciclati, seppure funzionanti in modo imperfetto. Sono i prezzi pagati su questi mercati, infatti, a
stimolare l’aumento del grado di riciclabilità dei prodotti, attraverso il meccanismo virtuoso che si
innesca nelle interazioni tra tutti i soggetti coinvolti.
5. L’eco-progettazione tra regolamentazione e iniziative volontarie
Come si è già rilevato, le modalità di incentivazione allo sviluppo dell’eco-progettazione nei
processi produttivi delle imprese sono profondamente diverse a seconda dei contesti nazionali
considerati. Sulla base della letteratura empirica disponibile, è possibile distinguere tra un approccio
basato sul concetto di responsabilità estesa del produttore, in cui sono le iniziative di policy dei
governi a stimolare l’introduzione di innovazioni nel disegno e nella realizzazione dei prodotti, e un
approccio maggiormente basato sulle iniziative volontarie di imprese, che adottano individualmente
14
Ovvero, l’uso combinato di un’imposta sui produttori e di un sussidio al riciclaggio.
Per il ruolo svolto dal funzionamento del mercato per i prodotti riciclati nel raggiungimento delle condizioni di ottimo
si veda anche il contributo di D’Amato in questo volume.
15
16
il DFE per accrescere la propria competitività, migliorando la propria immagine presso i
consumatori e penetrando in mercati caratterizzati da regolamentazioni ambientali stringenti.
Con un certo grado di approssimazione, possiamo ritenere che il primo approccio caratterizzi
l’impostazione europea ed il secondo l’impostazione statunitense al DFE.
In Europa, i principi di EPR hanno ispirato numerose iniziative rilevanti negli ultimi due
decenni, a partire dal programma tedesco “Duales System Deutschland (DSD)”, realizzato
dall’industria degli imballaggi in risposta all’Ordinanza sul packaging del 1991 (German Packaging
Ordinance). Questa ordinanza richiede ai produttori e ai distributori di ritirare gli imballaggi
associati ai prodotti realizzati/venduti. Le “parti” incaricate degli obblighi di take-back sono
numerose, dai produttori di imballaggi, ai produttori di materiali utilizzati negli imballaggi, alle
imprese di assemblaggio di questi materiali, alle imprese che producono i beni che usufruiscono
degli imballaggi, e così via, fino ai distributori dei beni. Per fare fronte a questi obblighi, il settore
industriale coinvolto ha dato vita al sistema “Green Dot”, un logo che viene concesso da una
impresa non profit, la Duales System Deutschland (DSD), alle imprese partecipanti. La DSD si
occupa di tutte le operazioni di raccolta, trasporto e riciclaggio degli imballaggi contrassegnati dal
logo. I contributi di partecipazione alla società, solitamente finanziati dalle imprese che producono i
beni contenuti negli imballaggi, variano in funzione dei materiali utilizzati e delle vendite
realizzate.
La maggior parte delle valutazioni effettuate dagli esperti è concorde nel rilevare una riduzione
molto significativa della quantità di imballaggi (e di rifiuti da imballaggio) registrata dopo
l’approvazione della legge. Ancora più significativo per la nostra analisi è l’impatto positivo,
evidenziato da numerosi studi, sullo sviluppo dell’eco-progettazione: il pagamento di contributi
commisurati al tipo di materiale, ad esempio, ha indotto processi di sostituzione dei materiali più
difficilmente riciclabili (come le plastiche), a favore di materiali meno costosi da riutilizzare, come
il vetro (Palmer e Walls, 2002).
A partire da questa e da altre iniziative pionieristiche, la responsabilità estesa è stata applicata ad
un’ampia gamma di rifiuti solidi urbani, rifiuti speciali e pericolosi, come vernici, batterie, prodotti
elettronici, cellulari, pneumatici, oli esausti delle auto, elettrodomestici e autoveicoli.
L’attenzione per la progettazione ambientale dei prodotti è divenuta una priorità anche a livello
di Unione Europea, e gli incentivi all’eco-progettazione sono al centro di alcune direttive della
Commissione Europea per gli Stati Membri. Tra queste, la direttiva 2002/96/CE sui rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche16 (WEEE - Waste Electric and Electronic Equipment)
contiene misure volte a prevenire la produzione di rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche e a favorire il loro riutilizzo e riciclaggio. La direttiva, che applica il principio della
EPR, introduce innovazioni che possono avere una rilevante funzione di stimolo al DFE, come la
raccolta separata delle apparecchiature e il finanziamento della gestione dei rifiuti a carico dei
produttori, il loro trattamento obbligatorio presso appositi centri specializzati, e l’aumento nel
16
La Direttiva sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche e la Direttiva sulla restrizione dell’uso di
determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Direttiva RoHS) sono state recepite in
Italia con il decreto legislativo n. 151/2005.
17
tempo dei tassi di take-back dei prodotti. Per la prima volta, inoltre, la Commissione Europea
suggerisce agli Stati Membri di incoraggiare la progettazione e la produzione di apparecchiature
elettriche ed elettroniche che tengano in considerazione le loro possibilità di riutilizzo e di riciclo.
In questa direzione va anche un’altra direttiva comunitaria, 2005/32/CE (EUP - Energy Using
Products), una direttiva quadro che lascia a direttive specifiche della Commissione il compito di
stabilire criteri per la progettazione eco-compatibile di singole categorie di prodotti che consumano
energia. Anche questa iniziativa evidenzia l’importanza attribuita dalle istituzioni comunitarie alla
necessità di favorire l’integrazione degli aspetti e delle problematiche ambientali nelle fasi di
progettazione dei prodotti17.
Se in Europa gli incentivi all’eco-progettazione sono forniti principalmente dalle autorità di
governo, attraverso gli appositi programmi di policy e le relative sanzioni per gli inadempienti, negli
Stati Uniti sono le imprese a decidere volontariamente di realizzare innovazioni al disegno dei loro
prodotti per renderli maggiormente eco-compatibili. Numerose imprese, agendo individualmente o
collettivamente, hanno intrapreso una serie di iniziative per favorire il riciclaggio dei prodotti e il
DFE. Queste iniziative sono fondamentalmente di tre tipi: programmi realizzati a livello della
singola impresa, programmi gestiti a livello di settore industriale, programmi che prevedono la
partecipazione di molteplici attori, accanto alle imprese, come le autorità di governo e i gruppi
ambientalisti.
Un esempio di iniziativa che rientra nella prima categoria è rappresentato dal programma di
riciclaggio delle scarpe sportive avviato dalla Nike nel 1993 (Nike’s Reuse-a-Shoe Program),
all’interno del quale l’azienda propone di ritirare le scarpe sportive usate o non vendute per difetti di
fabbricazione. Le scarpe subiscono un nuovo processo di lavorazione, che consente di ottenere un
materiale, noto come Nike Grind, utilizzato per produrre superfici sportive per i campi da tennis e
da basket, piste da corsa, campi di calcio, pavimentazioni per palestre e parchi giochi. La società
fornisce il materiale ai produttori di superfici, che pagano una licenza per poter utilizzare il logo
Nike sui loro prodotti. Dal momento del lancio dell’iniziativa, più di ventuno milioni di scarpe da
ginnastica sono state riciclate, contribuendo a realizzare più di 265 superfici sportive18. E’ difficile
valutare l’efficacia del programma in termini di incentivi al DFE. La Nike sostiene che l’iniziativa
ha stimolato l’introduzione di modifiche al disegno dei prodotti, per renderli maggiormente
riciclabili, ma soprattutto per ridurre l’impiego di sostanze tossiche, a partire dall’eliminazione dei
cloruri di polivinile (PVC) (Palmer e Walls, 2002).
Anche la compagnia di arredi per uffici Herman Miller ha introdotto autonomamente modifiche
rilevanti al disegno dei propri prodotti per migliorarne l’impatto ambientale. In particolare, la sedia
denominata “Mirra” è stata il primo prodotto realizzato tenendo conto degli aspetti ambientali fin
17
La Direttiva WEEE e la Direttiva sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature
elettriche ed elettroniche sono state recepite in Italia con il Decreto Legislativo n. 151/2005, mentre la Direttiva
2005/32/CE è stata recepita dal Decreto Legislativo n. 201/2007.
18
I dati sono tratti dalla pagina web della Nike:
http://www.nikebiz.com/responsibility/community_programs/reuse_a_shoe.html (ultimo accesso 8 giugno 2008).
18
dalla fase di ideazione. Come notano Rossi et al. (2006), nel corso dello sviluppo della sedia, le
attività di eco-progettazione hanno dato luogo a molteplici cambiamenti nella struttura del prodotto,
prevedendo l’utilizzo di materiali innovativi, accrescendo il grado di riciclabilità e la facilità di
disassemblaggio dei componenti e eliminando la presenza materiali nocivi per la salute umana
(come il PVC). Grazie alle sue caratteristiche di maggiore eco-compatibilità ambientale, la sedia ha
ottenuto un grande successo di mercato e numerosi riconoscimenti internazionali19.
In altri casi, le imprese, anziché agire individualmente, si accordano per avviare programmi
volontari collettivi, come nel caso della Rechargeable Battery Recycling Corporation (RBRC),
istituita nel 1994, che riunisce i produttori di batterie ricaricabili e i produttori i cui beni utilizzano
tali batterie. La mancanza di dati sulla quantità di riciclaggio realizzato rende difficile effettuare
valutazioni sul successo o meno del programma, sebbene sia diffusa la convinzione che l’iniziativa
abbia in parte disatteso le aspettative. Ancora più difficile è valutare gli incentivi al DFE, in questo
caso soprattutto per la difficoltà di introdurre innovazioni per questo tipo di prodotto.
Infine, alcuni programmi prevedono la partecipazione di numerosi attori, anche istituzionali,
accanto alle imprese del settore. Un esempio di questo tipo di iniziative è rappresentato dal
Minnesota Electronics Recycling Iniziative, che riuniva società come la Sony e la Panasonic, il
Waste Management’s Asset Recovery Group e l’American Plastics Council. L’obiettivo del
programma era di organizzare occasioni di raccolta di tutti i tipi di prodotti elettrici ed elettronici
non più utilizzati. Tuttavia, gli alti costi del programma e i bassi tassi di partecipazione ne hanno
scoraggiato la continuazione.
Il grado di efficienza con cui queste iniziative volontarie riescono effettivamente ad
internalizzare le esternalità ambientali connesse allo smaltimento dei prodotti e ad incentivare il
DFE dipende, ovviamente, anche dalla natura dei programmi. Nel caso delle iniziative condotte al
livello della singola impresa, appare difficile che il grado ottimale di DFE possa essere raggiunto,
dal momento che l’impresa sopporta l’intero costo dell’eco-progettazione, ma non riesce a godere di
tutti i benefici. In particolare, l’impatto positivo sull’ambiente non viene in alcun modo remunerato
all’impresa.
Anche i programmi realizzati a livello di industria devono fronteggiare problemi simili. In
particolare, sia le imprese che partecipano agli accordi volontari, sia quelle che non vi partecipano
possono avere incentivi ad assumere comportamenti da free-rider, beneficiando dei risultati del
programma senza sostenerne i costi. Anche in questo caso, il livello di eco-progettazione raggiunto
risulterebbe subottimale.
Gli accordi che prevedono la partecipazione di molti attori, inclusi i rappresentanti dei governi,
invece, possono avere maggiori potenzialità di raggiungimento di livelli ottimali di ecoprogettazione, dovendo tenere conto dei costi sociali dello smaltimento dei prodotti. Tuttavia, anche
19
Le caratteristiche environment friendly dei prodotti Herman Miller sono evidenziati anche sul sito internet
dell’azienda: http://www.hermanmiller.com.
19
in questi casi, non essendo legalmente vincolanti, i partecipanti possono avere incentivi ad adottare
strategie che consentono il raggiungimento di situazioni di ottimo individuale, ma che producono un
allontanamento dall’ottimo sociale.
6. Le eco-industrie
In base alla definizione suggerita dall’OECD e da Eurostat, le eco-industrie sono attività
economiche che producono beni e servizi per misurare, impedire, limitare, minimizzare o
correggere danni ambientali all’acqua, all’aria e al suolo, così come problemi legati ai rifiuti,
all’inquinamento acustico e agli ecosistemi. Ciò include tecnologie, prodotti e servizi che riducono
il rischio ambientale e minimizzano l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse (OECD, 1999).
I settori possono essere distinti sostanzialmente in due categorie: management
dell’inquinamento e management delle risorse. La prima categoria comprende nove settori di ecoindustrie che trattano flussi di materiali che partono da processi gestiti da uomini (le tecnosfere)
fino a tornare in natura, generalmente utilizzando tecnologie “end of pipe”. Inoltre comprendono
tecnologie e prodotti di pulitura, che vengono denominati “equipment”. Alcuni esempi includono:
gestione e riciclaggio dei rifiuti solidi;
trattamento delle acque di scarico;
controllo dell’inquinamento dell’aria;
pubbliche amministrazioni;
società private per la gestione dell’ambiente;
recupero e pulitura del suolo e delle acque;
controllo delle vibrazioni e dei rumori;
ricerca e sviluppo per l’ambiente;
strumentazione e controllo ambientale.
Nella categoria management delle risorse sono compresi cinque settori di eco-industrie che
presentano un approccio più di prevenzione nella gestione dei flussi di materiali dalla natura alle
tecnosfere. Essi includono:
fornitura di acqua;
materiali riciclati;
produzione di energie rinnovabili;
protezione della natura;
eco-costruzione.
Le eco-industrie nascono principalmente con i mercati tradizionali, relativi alla domanda di beni
essenziali quali l’acqua piuttosto che la raccolta di rifiuti. Vi sono inoltre mercati basati su esigenze
ed opportunità specifiche nazionali come ad esempio l’inceneritore per il trattamento dei gas in
Germania.
Recentemente, le eco-industrie si sono sviluppate anche in seguito alla necessità di adattarsi alle
nuove leggi ambientali. Per tali imprese, la crescita è stata determinata principalmente da requisiti
legali, seguendo cicli di sviluppo che dipendono dal tempo richiesto per adeguarsi ai nuovi standard
20
e target. Questo include l’adeguamento agli obiettivi comunitari ed altri requisiti legali nazionali
come target relativi alla qualità dell’acqua e quelli relativi allo sfruttamento di fonti di energia
rinnovabili.
Generalmente, le industrie eco-sostenibili presentano varie forme e dimensioni. Esse possono
presentarsi sottoforma di gruppi multi-utilities internazionali, imprese industriali statali, pubbliche
amministrazioni, gruppi di R&S, piccole e medie imprese, aziende di nicchia specializzate in un
segmento del mercato e perfino consulenti privati. La domanda di prodotti e servizi provenienti
dalle eco-industrie deriva sia dal settore privato che da quello pubblico.
Le compagnie che operano nel mercato delle eco-industrie hanno spesso origine da compagnie
operanti nel settore manifatturiero. In mercati maturi, tali imprese tendono ad essere sussidiate da
grandi corporation, soprattutto nei settori relativi alla gestione dei rifiuti, all’offerta di acqua, al
trattamento delle acque di scarico ed al controllo dell’inquinamento dell’acqua. Le attività quali
eco-costruzione o il controllo dei rumori e delle vibrazioni tendono a svilupparsi in piccole imprese,
alcune delle quali vengono poi integrate in aziende più grandi. Diventa dunque difficile stimare il
turnover generato specificatamente da tali attività. Molte di queste imprese espandono la loro
attività anche al di fuori dei loro confini, operando sia a livello europeo che globale e diventando
leader mondiali, ad esempio, nella gestione dei rifiuti, nella fornitura di acqua, nel trattamento delle
acque di scarico e nella produzione di turbine per lo sfruttamento del vento. Di piccole e medie
dimensioni sono invece le imprese specializzate che operano nei mercati il cui sviluppo è legato
principalmente ad incentivi legali, come, ad esempio, il monitoraggio ambientale.
L’entrata in Europa dei nuovi stati membri e la loro negoziazione delle acquis communautaire,
ha favorito la crescita e lo sviluppo per le eco-industrie. Nei mercati maturi dei paesi EU-15 vi è
poca possibilità di crescita e di nuove opportunità, al contrario nei nuovi stati membri
l’implementazione di nuove capacità, spesso finanziate con fondi comunitari, consente lo sviluppo
delle seguenti aree: trattamento dei fumi degli inceneritori, strutture per il trattamento dei rifiuti,
sviluppo e rinnovamento della fornitura di acqua, implementazione delle direttive sulla qualità
dell’aria, eco-costruzione e sostituzione di strutture non eco-efficienti ed energia rinnovabile.
In alcuni settori c’è un trend verso la crescita dell’offerta di servizi, dovuto alla forte
competizione nelle attività manifatturiere e alla maggiore profittabilità nel settore dei servizi.
L’incremento della domanda di servizi può essere spiegato anche dal crescente bisogno di soluzioni
integrate e dal sempre più diffuso ricorso a gestione e controllo ambientale in outsourcing.
In Europa le eco-industrie si sono sviluppate maggiormente nel periodo 1994-1999, soprattutto
in Grecia, Portogallo e Spagna, in risposta all’implementazione delle politiche comunitarie. Se si
considerano i singoli settori, si evidenzia un forte legame tra la dimensione delle eco-industrie e la
percentuale di investimenti sostenuti in seguito alle politiche comunitarie intraprese negli anni
precedenti. Da ciò si deduce che la politica comunitaria sia un fattore cruciale per la crescita e lo
sviluppo delle eco-industrie.
21
7. Considerazioni conclusive
L’eco-progettazione rappresenta una opportunità importante a disposizione delle imprese per
ridurre l’impatto ambientale causato dai loro beni. Nonostante i potenziali benefici ambientali,
l’accoglimento delle strategie di eco-progettazione nei processi produttivi delle imprese è ancora in
una fase molto preliminare.
Le possibilità di diffusione sono strettamente legate alle modalità di intervento che i governi
decideranno di adottare: si tratta di scegliere tra un approccio basato sulle regolamentazioni e uno
basato sulle iniziative volontarie delle imprese. L’efficacia degli stimoli forniti dalle due
impostazioni allo sviluppo del DFE dipende da una molteplicità di elementi, identificati da una
letteratura recente e sintetizzati in questo lavoro.
L’approccio volontario è ovviamente sollecitato dalle imprese, che in alcuni contesti, come
quello statunitense, hanno opposto una forte resistenza all’introduzione di regolamentazioni basate
sui principi di EPR, ritenendole un vincolo eccessivamente pressante e poco efficace. Proprio
l’esperienza statunitense evidenzia, tuttavia, come l’iniziativa volontaria sia insufficiente a
stimolare il diffondersi del DFE, se non accompagnata da adeguati provvedimenti di
regolamentazione.
L’eco-progettazione è una attività costosa per l’impresa, poiché richiede l’attuazione di
investimenti addizionali, rispetto a quelli previsti per il normale ciclo produttivo; di conseguenza,
sarà realizzata solamente se l’impresa si attende in cambio dei guadagni addizionali. I vantaggi
derivanti dall’adozione di una progettazione maggiormente eco-compatibile possono essere di vari
tipi. La produzione di beni a minor impatto ambientale può accrescere, ad esempio, le quote di
mercato dell’impresa, che può attrarre gli acquisti dei consumatori più sensibili alle problematiche
ambientali, o, in alternativa, può applicare prezzi più alti sfruttando la maggiore disponibilità a
pagare per i prodotti ecologici. Un’altra fonte di potenziali guadagni è rappresentata dalla riduzione
dei costi delle materie prime, nei casi in cui il DFE consenta all’impresa di realizzare risparmi nelle
quantità di materiali e energia impiegati. Le attività volontarie di eco-progettazione possono poi
consentire alle imprese di “anticipare” l’azione dei governi, potendo così godere di una maggiore
flessibilità nell’adeguamento agli standard prefissati, ed inoltre possono facilitare l’ingresso in
mercati di altri paesi già sottoposti a regolamentazioni ambientali stringenti.
L’opportunità di sfruttare questi ed altri vantaggi può spingere le imprese ad introdurre il DFE.
Tuttavia, occorre tenere presente che una quota rilevante dei benefici dell’eco-progettazione non
può essere goduta dall’impresa che la realizza. In particolare, non sono remunerate all’impresa le
esternalità positive derivanti dal DFE in termini di riduzione dei volumi di rifiuti destinati allo
smaltimento in discarica o all’incenerimento, di minor sfruttamento delle risorse naturali e di
diminuzione dell’uso di sostanze tossiche e inquinanti. Come suggerisce la teoria economica in
tema di esternalità, poiché non sono adeguatamente compensate per i benefici esterni prodotti, le
imprese avranno pochi incentivi ad effettuare investimenti in eco-progettazione, con la conseguenza
che il livello di investimento risulterà inferiore a quello efficiente dal punto di vista sociale.
22
Inoltre, proprio perché per l’impresa il DFE è un’attività costosa e dagli esiti incerti, la sua
realizzazione sarà sensibile agli andamenti finanziari dell’impresa stessa, oltre che alle mode e ai
cambiamenti di preferenze dei consumatori.
Per tutti questi motivi, è auspicabile che le scelte di introduzione dell’eco-progettazione non
siano affidate solo alla iniziativa imprenditoriale, ma siano incentivate e sostenute da adeguati
interventi governativi.
In questo caso, appare sconsigliabile l’opzione di stimolare l’eco-progettazione attraverso
l’applicazione di strumenti basati sulla regolamentazione diretta (del tipo command and control). La
specificazione di standard uniformi per tutte le imprese costituisce, infatti, una modalità poco
efficiente di perseguimento degli obiettivi ambientali, per quanto possa essere efficace nel vincolare
le imprese ad incrementare il grado di riciclabilità dei prodotti o a evitare l’impiego di materiali
tossici. Come accade per gli standard di inquinamento, anche per l’eco-progettazione e la riduzione
dell’impatto ambientale dei prodotti si può presumere che imprese diverse debbano sostenere costi
diversi per raggiungere i target prefissati. A parità di obiettivo, il costo economico totale della
regolamentazione risulta, quindi, più alto, rispetto all’applicazione di strumenti commisurati ai costi
marginali delle imprese. Inoltre, le politiche del tipo command and control, una volta raggiunto lo
standard stabilito, non forniscono alle imprese incentivi a migliorare ulteriormente il disegno e la
realizzazione dei prodotti, anche quando i costi necessari per farlo sarebbero minimi.
E’ invece preferibile l’adozione di meccanismi basati sul mercato (incentive-based), che
influenzano gli incentivi delle imprese a prendere decisioni compatibili con le scelte di protezione
ambientale. In altri termini, anche quando il mercato da solo non è in grado di realizzare
un’allocazione efficiente delle risorse, per la presenza, ad esempio, di effetti esterni, l’utilizzo di
strumenti simili al mercato può indurre le imprese ad adottare comportamenti efficienti. Strumenti
come le imposte, i depositi rifondibili, i sussidi al riciclaggio e i crediti negoziabili di riciclaggio
rientrano in questa categoria di intervento pubblico.
Anche scegliendo questa seconda impostazione di policy, non è possibile, e nemmeno
raccomandabile, individuare un unico strumento valido in assoluto e per tutti i contesti. Al
contrario, ci sembra di poter affermare che l’efficacia di stimolo al DFE dei vari meccanismi di
intervento pubblico dipenda anche dalle tipologie dei prodotti e dalle caratteristiche dei processi
produttivi. Per alcuni settori produttivi, infatti, può essere relativamente poco costoso introdurre
modifiche al disegno dei beni e sostituzioni nei materiali impiegati per rendere i prodotti finali
maggiormente eco-compatibili. In tali situazioni, l’applicazione di imposte o di schemi di depositi
rifondibili può essere sufficiente a svolgere una efficace funzione di stimolo all’eco-progettazione.
Per altre tipologie di prodotti, invece, la realizzazione di cambiamenti nella struttura produttiva,
nell’uso delle materie prime o nelle caratteristiche dei beni stessi possono comportare investimenti e
costi molto elevati. In questi casi è opportuno che l’intervento dello Stato preveda l’impiego di
strumenti più complessi, in grado di lasciare alle imprese maggiore flessibilità e autonomia nella
scelta delle modalità di adeguamento alla normativa.
23
In questo senso, una particolare attenzione dovrebbe essere prestata ai cosiddetti crediti
negoziabili di riciclaggio, che permettono di soddisfare gli obiettivi di riciclaggio al costo più basso
per le imprese. Tale sistema ha, infatti, il vantaggio di consentire alle imprese una elevata
flessibilità, potendo scegliere se soddisfare i requisiti individualmente, attraverso la partecipazione a
organizzazioni collettive di riciclaggio, oppure acquistando la possibilità di riciclare meno di quanto
prescritto, sfruttando i crediti generati da altre imprese più virtuose. Poiché la vendita dei crediti
fornisce un ricavo alle imprese, alcune di esse saranno stimolate a rendere i propri prodotti più
facilmente riciclabili, ridefinendone le caratteristiche nelle fasi iniziali di progettazione. In questo
caso, l’eco-progettazione è il frutto delle decisioni di massimizzazione del profitto delle imprese e
non dell’applicazione rigida di standard regolativi uguali per tutte. Al contrario, le imprese che
presentano vincoli maggiori all’introduzione di soluzioni eco-compatibili, e che quindi dovrebbero
sopportare costi più elevati per perseguire i target di riciclabilità, possono essere disposte ad
acquistare crediti dalle imprese più virtuose. Il sistema consente dunque di soddisfare gli obiettivi di
riduzione dell’impatto ambientale e di stimolo al DFE al costo più basso per le imprese.
La flessibilità offerta da questo meccanismo è particolarmente rilevante in un contesto come
quello italiano, caratterizzato dalla forte presenza di imprese di piccole e medie dimensioni, spesso
impossibilitate a sostenere costi elevati di ricerca e progettazione.
Essendo basato sul meccanismo dei prezzi, il sistema dei crediti negoziabili può essere visto
come una sorta di strumento “intermedio” tra i due estremi rappresentati dal mercato e
dall’intervento pubblico. In questo senso, ci si può aspettare che esso risulti gradito sia nei contesti
in cui l’iniziativa imprenditoriale tradizionalmente è caratterizzata da una maggiore indipendenza,
sia nei paesi in cui è più forte l’attività di indirizzo delle autorità pubbliche.
Tuttavia, affinché il meccanismo dei crediti risulti veramente efficace, nello stimolo all’ecoprogettazione e nella riduzione dell’impatto ambientale dei rifiuti, occorre che ne siano definite
accuratamente le modalità di attuazione, così come è essenziale la creazione di “mercati” per lo
scambio dei titoli di credito. Come suggerisce l’esperienza dei permessi negoziabili di
inquinamento, ad esempio, la fissazione di adeguati target di riciclaggio è cruciale per l’avvio di un
meccanismo virtuoso di incentivazione dei comportamenti individuali. Se gli obiettivi sono stabiliti
a livelli troppo bassi e facilmente raggiungibili da parte delle imprese, il sistema non si rivela
efficace, poiché i prezzi dei crediti risultano troppo bassi per remunerare le iniziative di ecoprogettazione.
Anche in questo caso, le opportunità di sfruttare appieno i vantaggi derivanti dall’aumento della
riciclabilità dei prodotti dipendono dall’esistenza di strutture, imprese e meccanismi che consentano
di “chiudere il cerchio”, permettendo alle imprese a monte di acquistare e riutilizzare i materiali
riciclati nei loro processi produttivi.
Infine, non bisogna dimenticare che un ruolo fondamentale per la realizzazione del circolo
virtuoso sopra delineato è svolto dai consumatori finali dei beni prodotti dalle imprese. Il successo
ambientale delle strategie di eco-progettazione dipende anche dai comportamenti di smaltimento
24
differenziato dei rifiuti da parte di individui e famiglie, che devono essere sempre più coinvolti e
responsabilizzati nell’ambito degli interventi pubblici di gestione del problema dei rifiuti.
25
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1
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2
Tabella 1 – Effetti di incentivo degli strumenti EPR
Lock-in cumulato dell’impatto ambientale
Ricerca e
sviluppo
Lock-in ambientale causato
dalle decisioni adottate lungo il
ciclo di vita del prodotto
Design for
Environment
Progettazione
Cleaner
production
Manifattura
Educazione dei
consumatori
Utilizzo
Gestione dei
rifiuti e riciclo
Smaltimento o recupero
Ciclo di sviluppo del prodotto
Figura 1 – Rappresentazione del lock-in ambientale durante il ciclo di vita del prodotto
Fonte: adattamento da Lewis e altri (eds), 2001
Rifiuti, mercati del riciclo ed efficienza economica
Waste Management, Recycling Markets and Efficiency
Alessio D’Amato
Dipartimento SEFEMEQ, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma
“Tor Vergata”. Indirizzo email: [email protected]
Keywords: Recycling, Optimal Waste Management, Environmental Policy,
Market Based Instruments, Recycling Markets
JEL: L50, L98, Q53
Abstract (italiano)
L’ottenimento di un livello efficiente di riciclaggio dei rifiuti passa attraverso due
stadi:
1. L’internalizzazione dei costi esterni legati ad una incorretta gestione dei rifiuti.
2. La rimozione di potenziali fallimenti nei mercati di beni e materiali riciclati.
Questo lavoro si concentra principalmente sul secondo punto. In particolare,
focalizziamo la nostra attenzione sugli effetti della presenza di asimmetrie informative
e dell’esistenza di diverse forme di potere di mercato. L’analisi svolta conferma che
non esistono soluzioni universali che garantiscano sempre un funzionamento efficiente
del mercato: la struttura ottimale del settore del riciclo e le politiche appropriate di
intervento devono essere valutate caso per caso, dipendendo in modo cruciale dal tipo
di materiale riciclabile e dal sistema economico oggetto di analisi.
Abstract (english)
The achievement of an efficient recycling level requires two steps to be undertaken:
1. The internalization of external costs generated by incorrect waste management
practices.
2. The removal of market failures in secondary material markets.
This paper focuses mainly on the second issue. We provide, in particular, an overview
of market failures related to the presence of informational asymmetries and various
kinds of market power. The main conclusion of our investigation is that no one-sizefits-all solution exists: the optimal recycling markets structure, as well as the policies
to achieve efficiency, strongly depend on the involved secondary material, as well as
on the features of the economy under scrutiny.
1. Introduzione
I dati contenuti nel Rapporto Rifiuti 2007 dell’APAT mostrano in modo
inequivocabile come la situazione dei rifiuti in Italia non sia affatto rosea. La
produzione dei rifiuti urbani, nel 2006, ha fatto registrare, un aumento, raggiungendo
32,5 milioni di tonnellate, con un incremento, rispetto al 2005, superiore al 2,7%
(quasi 860 mila tonnellate) ed un livello pro capite di circa 550 kg/abitante per anno
(11 kg/abitante per anno in più rispetto al 2005). A questo si aggiunga il fatto che
l’incremento medio sperimentato nel triennio 2004 – 2006 (2,7%) è stato superiore al
corrispondente incremento (1,3%) relativo al triennio precedente (2001 – 2003).
Seguendo Tietenberg (2006) la via d’uscita da questo tipo di problemi si basa
sulla cosiddetta “strategia delle tre R”: Riduzione, Riutilizzo e Riciclaggio.
Indubbiamente, sotto il profilo del riciclaggio e del recupero si stanno facendo passi
avanti. Una risposta positiva può essere riscontrata, ad esempio, nell’incremento della
raccolta differenziata che, nel 2006, è stata pari al 25,8% della produzione totale dei
rifiuti urbani. Si tratta tuttavia di un valore inferiore rispetto agli obiettivi del 40%,
introdotti dalla Legge 27 dicembre 2006, n. 296. Le notizie migliorano se facciamo
riferimento a specifici settori. E’ possibile infatti identificare tipologie di rifiuti per le
quali il recupero e il riciclaggio stanno conoscendo veri e propri boom. Nel caso degli
imballaggi, ad esempio, sia a livello di UE che in Italia tutti gli obiettivi di legge sono
stati superati: seguendo il CONAI1, la percentuale di recupero complessivo nel 2007
ha rappresentato quasi il 70% degli imballaggi immessi al consumo, raggiungendo (e
superando) gli obiettivi previsti dalla normativa nazionale ed europea per il 2008. A
ciò si è accompagnato, sempre nello stesso anno, un andamento crescente delle
percentuali di riciclo, con risultati particolarmente significativi per carta (+7,8%),
alluminio (+7,7%) e plastica (+ 6,3%). La stessa cosa vale per l’UE più in generale:
già nel 2004 molti paesi erano vicini al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla
Direttiva 2004/12/CE. Inoltre, nonostante il trend nella produzione di rifiuti da
imballaggio sia crescente, si osserva, per le quattro più importanti frazioni di tale tipo
di rifiuti (vetro, metalli, carta e cartone, plastica) un tasso di crescita nella produzione
inferiore al tasso di crescita del GDP. Ciò supporta la conclusione che un certo
decoupling stia effettivamente avendo luogo2.
1
2
www.conai.org/hpmdoc.asp?IdDoc=1032
http://www.eea.europa.eu/themes/waste/indicators
Il boom che si osserva in alcuni settori del riciclaggio suggerisce che vi siano
possibilità importanti di espansione per i mercati dei materiali e dei prodotti riciclati. I
dati EEA (2005) sembrano confermare questa evidenza: le imprese operanti
nell’industria dei materiali riciclati contribuiscono a circa il 10% del turnover totale
delle eco-industries, settore che sta conoscendo una rapida espansione3. D’altra parte,
molta strada è ancora necessaria per arrivare ad una gestione dei rifiuti e a livelli di
riciclo e di recupero efficienti.
L’ottenimento di un livello efficiente di riciclaggio dei rifiuti passa attraverso
due stadi:
3. La soluzione “a monte”, nella fase in cui i rifiuti sono prodotti, dei problemi di
inefficienza connessi alle scelte individuali.
4. La predisposizione “a valle” di mercati il cui funzionamento possa garantire, sia
per chi produce materiali di scarto sia per chi consuma prodotti derivanti da tali
materiali, incentivi adeguati al raggiungimento (o, quanto meno, alla migliore
approssimazione possibile) dell’ottimo sociale.
Nel prossimo paragrafo approfondiremo il primo punto, delineando le principali fonti
di inefficienza connesse alla produzione ed alla gestione dei rifiuti; presenteremo
inoltre alcuni strumenti di intervento che la teoria economica propone per il ripristino
dell’efficienza, oltre ad alcuni esempi della loro applicazione pratica. La parte restante
del lavoro, che ne costituisce il fulcro, è finalizzata ad una valutazione dei principali
ostacoli che sembrano impedire il formarsi di mercati del riciclo efficienti. La
rimozione di tali ostacoli è di cruciale importanza poiché, come risulterà chiaro più
avanti, l’intervento pubblico per la correzione delle distorsioni connesse alle scelte
individuali nella produzione dei rifiuti, può non sortire effetti (o addirittura portare al
peggioramento delle situazioni di inefficienza) proprio in assenza di mercati
adeguatamente funzionanti per le materie prime ed i prodotti riciclati.
2. Riciclo socialmente efficiente: inefficienze di natura
ambientale ed intervento pubblico
Il grado di efficienza di un sistema economico nelle scelte riguardanti il tasso di
riciclo e la gestione dei rifiuti è determinato dalle scelte di produttori e consumatori. I
primi, attraverso un adeguato disegno dei prodotti, possono favorire sia un più facile
recupero dei materiali utilizzati che un minore spreco di risorse. D’altra parte, la
deresponsabilizzazione (parziale o, a volte, addirittura totale) dei produttori in merito
al destino dei propri prodotti al termine del loro ciclo di vita fa si che i produttori stessi
non debbano farsi carico interamente dei costi di una gestione errata dei rifiuti generati
da tali prodotti. Si tratta quindi di costi esterni. Un esempio importante sotto questo
profilo è quello associato allo smaltimento in discarica; in questo caso i costi esterni
possono manifestarsi attraverso un peggioramento della qualità ambientale nelle zone
in cui lo smaltimento avviene, a cui seguono effetti negativi sulla salute di coloro che
vivono nelle vicinanze delle discariche4.
3
Si veda European Commission – DG ENV (2006) ed EEA (2005).
Si vedano, da questo punto di vista, Bianchi ed altri (2004) ed il più recente Rapporto a cura di Matuzzi et al.
(2008), commissionato dal Dipartimento della Protezione Civile.
4
La presenza di questo tipo di costi esterni genera, d’altra parte, inefficienze
anche dal lato del consumo. Se i consumatori dovessero farsi interamente carico dei
costi associati ad una incorretta gestione dei rifiuti, sarebbero motivati a restituire i
prodotti riciclabili, una volta utilizzati, agli appositi centri di raccolta o, comunque, a
tenere un comportamento maggiormente compatibile con il recupero dei materiali, ad
esempio attraverso la differenziazione dei propri rifiuti. Da questo punto di vista, la
distorsione degli incentivi individuali nasce dalla mancata inclusione dei costi sociali
generati da un’errata gestione dei rifiuti nel corrispettivo che i cittadini devono pagare
a fronte del servizio di raccolta dei rifiuti. Inoltre, l’ammontare pagato dai singoli
cittadini non è commisurato, se non sulla carta, né alla quantità di rifiuti prodotta né
alla porzione di rifiuti avviata alla raccolta differenziata.
Il cosiddetto Decreto “Ronchi” (D. Lgs. 22/1997) prevedeva il passaggio ad un
regime tariffario tale da garantire un corrispettivo per la gestione dei rifiuti
commisurato alla quantità di residui generati ed al reale costo sociale delle diverse
opzioni di gestione (smaltimento, riciclo ecc.). Purtroppo, la “tariffa per la gestione dei
rifiuti urbani”, la cui graduale introduzione rappresenta l’applicazione pratica (lenta ed
irta di ostacoli) di quanto visto, ancora riguarda una minoranza dei Comuni e della
popolazione italiana (APAT (2008)); inoltre, la sua efficacia è danneggiata dal fatto
che essa è in molti comuni calcolata sulla base di metodi “presuntivi”, basati su
parametri quali la dimensione delle abitazioni o il numero di persone residenti; di
conseguenza, in molti casi, la tariffa non è effettivamente commisurata alla quantità di
residui generata.
Sia dal lato della produzione che dal lato del consumo, quindi, esistono rilevanti
costi esterni che non sono debitamente “internalizzati” nel momento in cui i singoli
individui scelgono se privilegiare o meno un comportamento compatibile con il
riciclaggio dei rifiuti. Le conseguenze dell’esistenza di costi esterni possono essere
chiarite sinteticamente attraverso la figura 1.
(inserire figura 1)
Nella figura, la distanza verticale tra costi marginali privati e costi marginali
sociali rappresenta quei costi esterni che imprese e consumatori non considerano nelle
scelte che influenzano la possibilità di riciclare o meno i propri scarti. Ciò significa
che le decisioni prese dai privati saranno distorte rispetto a quelle che sarebbero
socialmente ottime, portando al punto Qp anziché al punto Qs. Le conseguenze saranno
una percentuale di riciclaggio insufficiente a raggiungere l’ottimo ed una eccessiva
scelta di metodi di smaltimento ad alto impatto ambientale.
3. Come correggere gli incentivi di scelta individuali?
Intervento pubblico e mercati del riciclo.
3.1. L’intervento pubblico
L’assenza di incentivi adeguati al raggiungimento dell’efficienza rende
necessario l’intervento pubblico. Il problema diviene quindi la scelta del migliore
possibile strumento per riportare le scelte di individui o imprese verso l’ottimo sociale.
L’imposizione di una tariffa sui rifiuti disegnata secondo una logica a la Pigou, al fine
di internalizzare i costi sociali connessi ad una errata gestione dei rifiuti, si scontra con
almeno due ordini di problemi, il primo legato alle difficoltà di un’ effettiva
misurazione della produzione di rifiuti, il secondo alla difficoltà di fissare un “prezzo
al chilo” effettivamente pari all’intero costo sociale legato allo smaltimento e/o al
riciclo.
Approcci alternativi possono essere basati sui cosiddetti depositi rifondibili, già
diffusi in molti paesi per i contenitori in vetro ed in alluminio.
Seguendo Tietenberg (2006), il meccanismo dei depositi rifondibili svolge due
funzioni: gli agenti economici sono chiamati a pagare un’imposta iniziale il più
possibile vicina al costo sociale connesso allo smaltimento del prodotto acquistato;
agli stessi agenti viene poi garantito il rimborso di quanto pagato a titolo di deposito
nel caso in cui restituiscano il prodotto al produttore o al venditore. Ciò al fine di
incentivarne il riciclaggio, favorendo in questo modo la conservazione delle materie
prime vergini.
Sistemi di questo tipo sono stati e sono tuttora applicati in molti paesi. Ad
esempio, in Svezia ed in Norvegia si è utilizzato il deposito rifondibile per contrastare
il problema dell'abbandono delle automobili fuori uso; uno schema di questo tipo è
oggi in vigore in Danimarca. In molti paesi dell’Unione Europea “a 25” sono
correntemente in vigore sistemi di depositi rifondibili applicati sia a lattine in
alluminio che a contenitori in vetro. Lo stesso approccio è stato adottato negli USA
(ma anche in Danimarca) per garantire un incremento del riciclaggio delle batterie per
auto e degli pneumatici. Stessa logica è applicata in molti paesi in via di sviluppo per
garantire, ad esempio, la restituzione dei contenitori di pesticidi una volta utilizzati5.
Le attività di riciclaggio possono, in linea di principio, essere favorite anche
attraverso politiche più ampie di natura tributaria, basate sia sulla tassazione
dell’utilizzo di materiali vergini sia sulle sovvenzioni all’acquisto di attrezzature per il
riciclaggio. Queste strategie si traducono generalmente in esenzioni dalle imposte sulle
vendite, in crediti di imposta sugli investimenti oppure in prestiti o contributi alle
comunità locali, e hanno la finalità di promuovere lo start up delle attività e dei settori
del riciclaggio. Per avere un’idea di come la politica tributaria possa influenzare gli
incentivi ad una gestione corretta dei rifiuti, è istruttivo analizzare il sistema che lo
Stato dell'Oregon ha utilizzato a partire dai primi anni ’80: al fine di ridurre il consumo
5
Gli esempi riportati sono tratti da Tietenberg (1996) e dall’OECD/EEA database on instruments used for environmental
policy and natural resources management (ultimo accesso: 15 maggio 2008).
di energia e promuovere le attività di riciclaggio, l'Oregon Department of Energy
accordò crediti d'imposta a 163 progetti. Le aziende che ponevano in essere tali
progetti avevano diritto, per un periodo di cinque anni, a detrarre dalle imposte un
importo pari al 35% del costo sostenuto per l'acquisto di qualsiasi attrezzatura
utilizzata esclusivamente per attività di riciclaggio. Questa politica di intervento,
congiuntamente alle politiche esistenti in termini di crediti di imposta sull’acquisto di
macchinari ed altri beni immobili, ha portato a rilevanti risultati in alcuni settori del
riciclo. Ad esempio, le cartiere se ne sono avvalse generando la capacità necessaria per
fabbricare carta a partire da carta da giornale e cartone riciclati e portando ad un
incremento del tasso di riciclaggio dei giornali in Oregon doppio rispetto alla media
nazionale negli USA tra il 1981 ed il 1987.
Si tratta chiaramente di politiche di intervento che, da sole, non sono sufficienti
a garantire l’efficienza nel lungo periodo. Come sottolineano Coromaldi e Zoli, in
questo stesso volume, il problema dei rifiuti può essere risolto solo influendo
sull’intero “disegno” del ciclo di vita del prodotto, dalla progettazione alle scelte in
termini di imballaggio, fino alle modalità di ritiro dei prodotti che abbiano terminato la
propria vita utile. In altre parole, solo l’applicazione del principio della responsabilità
estesa del produttore è compatibile con il raggiungimento di un livello efficiente di
riciclaggio nel lungo periodo. Questa logica sembra compatibile, ad esempio, con
quanto previsto dai legislatori UE (si pensi alla Direttiva 2002/96/CE, che applica il
principio della responsabilità estesa al caso dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche).
E’ doveroso sottolineare, a questo punto, come anche l’intervento pubblico
possa “fallire”. Esistono esempi di situazioni in cui l’intervento dello Stato ha generato
(e genera) inefficienza piuttosto che correggere gli incentivi di scelta individuali. La
presenza ancora rilevante di sussidi dannosi per l’ambiente che, dal nostro punto di
vista, potrebbero assumere la forma di sussidi all’utilizzo di materie prime vergini, è
una rappresentazione lampante di questo tipo di problemi. La rimozione di tali sussidi
è una condizione necessaria per il ripristino dell’efficienza nella gestione delle risorse
naturali6.
Un’ultima importante fonte di inefficienza che influenza il tasso di riciclaggio e
recupero dei materiali è legata alla presenza di rilevanti esternalità di natura
tecnologica (OECD (2006)). La presenza di tali esternalità implica che le scelte
produttive “a monte” possano generare importanti costi esterni a danno dei produttori
di materie prime riciclate. Ad esempio:
• l’utilizzo di plastiche multistrato può rendere impossibile il riciclaggio
degli imballaggi alimentari;
• l’utilizzo di una grande varietà di colori per le bottiglie di plastica può
rendere necessaria una laboriosa fase di separazione prima della fase di
recupero;
• l’utilizzo di particolari inchiostri per la stampa può complicare il riciclo
della carta.
6
Si veda, per una analisi approfondita del problema, OECD (2005).
La necessità di evitare l’insorgere di questo tipo di esternalità rappresenta
un’ulteriore, importante, giustificazione alla base dell’introduzione del principio di
responsabilità estesa del produttore.
3.2. L’importanza dei mercati per i materiali e i prodotti riciclati
Il disegno delle politiche di intervento nella gestione dei rifiuti ha un ruolo
fondamentale nella correzione delle connesse inefficienze. D’altra parte, gli strumenti
finalizzati all’internalizzazione dei costi esterni legati ad una incorretta gestione dei
rifiuti sono destinati all’insuccesso se non sono accompagnati da mercati efficienti per
i materiali riciclati (Stromberg (2004), OECD (2006)). Da ciò nasce la necessità di
disegnare le politiche di intervento in modo tale da considerare sia i fallimenti del
mercato “a monte” (quelli legati ai già citati costi esterni di natura ambientale) sia
quelli “a valle”, legati al funzionamento dei mercati per le materie prime ed i prodotti
riciclati. Le conclusioni su quale sia lo strumento migliore per affrontare questi
problemi possono differire in modo notevole dalle predizioni della teoria economica
della politica ambientale strettamente intesa.
Ad esempio, l’introduzione di sistemi di raccolta differenziata particolarmente
efficaci può non servire allo scopo di incrementare il riciclo se non si provvede, allo
stesso tempo, a rimuovere eventuali barriere “a valle” che rendano difficoltoso o
estremamente costoso investire in impianti di trattamento e separazione dei rifiuti.
Per capire meglio come la politica ambientale possa non esplicare appieno i
suoi effetti in mancanza di mercati a valle per i materiali riciclati possiamo introdurre
un caso “di scuola”, riguardante la gestione dei rifiuti da imballaggio in Germania. In
tale paese i produttori (nonché i dettaglianti, in quanto intermediari) sono per legge
obbligati a riprendere indietro tutti gli imballaggi dei prodotti. Per incoraggiare i
consumatori a restituire gli imballaggi sono stati previsti centri di raccolta
comodamente accessibili e sistemi di depositi rifondibili per alcuni tipi di confezioni.
I produttori di imballaggi hanno risposto agli obblighi di legge attraverso
l’istituzione di una società senza fini di lucro, la Duales System Deutschland (DSD),
con la finalità di raccogliere i materiali di imballaggio e di riciclarli. Il funzionamento
di questa organizzazione è vicino a quello dell’equivalente consorzio Italiano (il
CONAI); in particolare, essa è finanziata attraverso contributi versati dai produttori e
calcolati in base ai chilogrammi di imballaggi utilizzati.
L’effetto aggregato della politica ambientale e della istituzione del sistema DSD
ha, a quanto sembra, portato importanti benefici in termini di efficienza nella gestione
e nel riciclo dei rifiuti. In particolare, come sottolinea il Tietenberg (2006), si è
osservata una importante riduzione sia nel volume degli imballaggi prodotti che nella
quantità degli stessi destinata agli inceneritori e alle discariche.
D’altra parte, un importante difetto del sistema DSD è stato l'incapacità di
individuare mercati per i materiali riciclati raccolti, generando così un eccesso di
offerta di tali materiali. Situazioni simili a quella tedesca sono molto diffuse (Boerner
e Chilton (1994)) e possono costituire un serio ostacolo all’efficacia delle politiche di
intervento nel campo del riciclaggio.
4. I mercati dei materiali riciclati: fallimenti e possibili
politiche di intervento.
L’importanza dei mercati per il raggiungimento di livelli efficienti di riciclaggio
si scontra con i rilevanti fallimenti che contraddistinguono i settori del riciclaggio e del
recupero dei materiali. Il resto del lavoro si pone l’obiettivo di chiarire i motivi che
portano il mercato dei materiali riciclati lontano dall’efficienza e le possibili direzioni
da intraprendere per apportare le necessarie correzioni.
Seguendo l’OECD (2007), tra le cause di fallimento dei mercati del riciclo è
possibile identificare: la presenza di rilevanti costi di transazione, l’esistenza di
asimmetrie informative tra gli agenti economici coinvolti, una distorta percezione della
qualità da parte degli utilizzatori e la presenza di potere di mercato.
Alcune di queste cause di inefficienza sono proprie di mercati relativamente
“nuovi”; dovrebbero quindi divenire sempre meno importanti man mano che il
mercato “matura”; questo è il caso dei costi di transazione e dell’errata percezione
della qualità dei prodotti da parte dei consumatori (OECD (2007)).
Focalizzeremo, di conseguenza, la nostra analisi sui problemi ai quali il
mercato non può fornire “endogenamente” una soluzione, in particolare la presenza di
asimmetrie di informazione e di potere di mercato.
4.1 Asimmetrie Informative
La qualità dei materiali da avviare al riciclo (o riciclati e destinati alla
produzione o al consumo) può essere la causa centrale di un importante fallimento del
mercato, generato dalla presenza di asimmetrie informative. Un esempio di questo tipo
di difficoltà è quello legato agli scarti di oli lubrificanti: è impossibile o comunque
estremamente costoso verificare se gli scarti ricevuti dalle imprese di riciclo siano
privi di contaminanti (come metalli pesanti, bifenili o addirittura acqua) che
renderebbero impossibile l’operazione di recupero. Altro esempio sono le materie
plastiche: la presenza di contaminanti, anche in quantità minime, renderebbe del tutto
inutilizzabili gli scarti ai fini della produzione di plastiche riciclate (OECD (2006)).
La rilevanza delle asimmetrie informative nei mercati di prodotti e materiali
riciclati dipende da diversi aspetti legati alle difficoltà di monitoraggio da parte degli
acquirenti ed alla facilità con cui i venditori possono nascondere la reale qualità della
propria offerta. Ovviamente, i problemi saranno tanto più complessi da risolvere
quanto maggiore sarà il costo di monitoraggio della qualità e quanto minori saranno i
costi attesi connessi alla possibilità di non rivelare le caratteristiche qualitative dei
materiali riciclati o da destinare al riciclaggio.
Sin dal cosiddetto “mercato dei bidoni” di Akerlof (1970), è chiaro che la
presenza di asimmetrie informative riguardanti le caratteristiche dell’offerta comporta
fallimenti del mercato ed impedisce che transazioni altrimenti convenienti sotto il
profilo del benessere sociale avvengano effettivamente. Si tratta di un esempio tipico
di ciò che viene chiamato problema di informazione nascosta o selezione avversa7
(Guiso e Terlizzese (1994), Laffont e Martimort (2002)).
Per illustrare il problema, consideriamo il seguente semplice esempio, tratto da
Levin (2001). Supponiamo vi siano rifiuti plastici caratterizzati da tre possibili livelli
di qualità, pessimo (P), medio (M) ed alto (A). Supponiamo, per ciascuna unità di
materie plastiche di scarto, che la disponibilità marginale a pagare degli acquirenti (a)
e il prezzo unitario praticato dai venditori (v) siano dati, rispettivamente, da:
14 se qualità P
0 se qualità P


a = 28 se qualità M v = 20 se qualità M
42 se qualità A
40 se qualità A


Come risulta evidente, in una situazione di informazione simmetrica tutti i tipi di
materiali sarebbero scambiati sul mercato: per ciascun tipo di materiale, infatti, la
disponibilità marginale a pagare da parte dei potenziali acquirenti è maggiore del
prezzo al quale i venditori sono disposti ad offrire le materie plastiche sul mercato. Ciò
porterebbe ad una allocazione efficiente.
Cosa accadrebbe se i venditori fossero pienamente informati, ma gli acquirenti
non fossero in grado di riconoscere la qualità dell’offerta?
Supponiamo che ciascun acquirente assegni uguale probabilità ai tre tipi di
qualità. In questo caso, il valore atteso della sua disponibilità a pagare sarebbe E(a) =
28. A questo prezzo però i fornitori delle qualità migliori uscirebbero dal mercato. La
conclusione che possiamo trarre da quest’esempio è che la presenza di asimmetrie di
informazione a favore dei venditori condurrebbe a fenomeni di selezione avversa ed
alla conseguente impossibilità di raggiungere l’efficienza.
Una possibile soluzione a questo tipo di problemi può passare attraverso
meccanismi di monitoraggio della qualità. Trattandosi di attività costose, il
raggiungimento dell’ottimo sociale di first best sarebbe comunque impossibile. D’altra
parte, se i costi di monitoraggio fossero inferiori alle perdite di benessere legate al
malfunzionamento del mercato, allora il controllo della qualità potrebbe essere
socialmente desiderabile.
In alcuni casi il monitoraggio non è una soluzione percorribile da parte delle
imprese. L’OECD (2006) sottolinea come per alcuni tipi di materiali di scarto sia
finanziariamente troppo gravoso procedere ad un controllo accurato della qualità. La
conseguente incertezza potrebbe in questi casi portare le imprese ad utilizzare solo
scarti generati dalla propria attività di produzione, o a fenomeni di integrazione
verticale, ad esempio tra imprese fornitrici di materiali da destinare al riciclo e imprese
di lavorazione. In questo modo, come sottolinea, ad esempio, Arrow (1975),
l’integrazione verticale porterebbe ad un miglioramento nella qualità
dell’informazione disponibile.
7
Esiste, inoltre, una vasta letteratura sui problemi cui va incontro la regolamentazione ambientale in presenza di
asimmetrie informative. Si veda Lewis (1996).
Una soluzione alternativa a disposizione delle imprese che vendono materiali
riciclabili (o riciclati) di alta qualità potrebbe consistere nella segnalazione di tale
qualità. Questo al fine di non perdere l’opportunità di scambi vantaggiosi. Per capire
come questo sia possibile, ricorriamo ad una versione modificata di un esempio fornito
da Varian (2002). Supponiamo vi siano due tipi di imprese, uno dei quali offre
materiali di alta qualità, mentre l’altro offre materiali di bassa qualità. Supponiamo che
ciascun acquirente valuti aB ogni unità di materiale di bassa qualità, e valuti aA i
materiali di qualità elevata. Il venditore che offre alta qualità è disposto ad offrire il
materiale di alta qualità a v, mentre quello che offre materiali di scarsa qualità è
disposto a disfarsene anche gratuitamente. Supponiamo, infine, che aA > v > aB >0,
cosicché tutti gli scambi siano vantaggiosi (la disponibilità marginale a pagare
dell’acquirente è maggiore del valore di vendita per ogni tipo di materiali). Secondo
queste ipotesi, tutte le unità di materiali di buona qualità dovrebbero essere scambiate
ad un prezzo compreso tra aA e v, mentre quelle di scarsa qualità dovrebbero essere
scambiate ad un prezzo minore o uguale ad aB . In presenza di asimmetria informativa
d’altra parte, è evidente che i venditori di materiali di scarsa qualità avrebbero
incentivo a presentare il materiale riciclato offerto come materiale di buona qualità. In
una situazione di questo genere prenderebbe piede un fenomeno di selezione avversa
come quello illustrato in precedenza: i fornitori di materiali di buona qualità
uscirebbero dal mercato e vi sarebbero scambi efficienti non effettuati. Per evitare
questo, i fornitori di materiali di buona qualità possono avere incentivo a segnalare tale
qualità agli acquirenti, ad esempio attraverso la predisposizione di studi “a campione”,
presso società di certificazione, che mostrino la qualità media elevata della propria
offerta. Si tratta di una politica costosa; supponiamo che il costo sia pari ad s. Se tale
costo fosse inferiore a quanto il venditore può ottenere dallo scambio, la segnalazione
sarebbe conveniente. In altre parole, se aA - v > s, per il venditore di materiali di
buona qualità sarebbe potenzialmente conveniente segnalarsi8. Il costo della
segnalazione, ancora una volta, dipende da quanto sia complesso misurare la qualità
dei materiali riciclati. Dipende quindi sia dal tipo di materiale di riferimento che dalla
tecnologia di verifica e di monitoraggio disponibile. Questo suggerisce un altro
possibile motivo per cui politiche pubbliche o investimenti privati finalizzati al
miglioramento delle tecnologie di monitoring possano portare i mercati dei materiali
riciclabili e dei prodotti riciclati verso l’efficienza.
Il settore pubblico può avere un ruolo importante nel determinare l’incentivo
dei venditori a nascondere la qualità della propria offerta anche attraverso
penalizzazioni ex post. Consideriamo ancora una volta l’esempio tratto da Levin
(2001) e supponiamo che il venditore sia neutrale nei confronti del rischio ed abbia la
possibilità di proporre all’acquirente una unità di materiale plastico riciclato di
pessima qualità fingendo sia di alta qualità. La convenienza ad agire in questo senso
dipende dalla percezione che il venditore ha della probabilità di essere scoperto e
dell’entità della “punizione”. In questo caso, se la perdita attesa per il venditore
dall’essere colto “in flagrante” fosse maggiore di 42 € egli non sarebbe incentivato a
mentire sulla qualità della sua offerta. La perdita attesa percepita dal venditore è
determinata da due elementi:
8
La segnalazione non sarebbe invece conveniente per i venditori di materie riciclate di scarsa qualità, a meno di non
consentire agli stessi di corrompere gli addetti alla misurazione. Ipotizziamo ciò non possa avvenire.
• l’entità della punizione cui il venditore andrebbe incontro proponendo un
prodotto di qualità inferiore a quanto annunciato.
• la probabilità percepita dal venditore stesso riguardo alla possibilità di essere
effettivamente scoperto.
Una punizione attesa sufficientemente elevata, garantita da un sistema di multe
ed una rete di controlli efficace, potrebbe quindi porre rimedio al vantaggio
informativo a favore del venditore. Le politiche di supporto alla ricerca di tecnologie
di monitoraggio sempre più affidabili e sempre meno costose possono quindi essere
fruttuose anche sotto questo profilo.
Un altro importante meccanismo di punizione, particolarmente rilevante in un
mercato, come quello delle materie prime riciclate, in cui le transazioni tendono a
ripetersi nel tempo9, è costituito dalla perdita di reputazione. In presenza di relazioni
ripetute tra acquirenti e venditori, infatti, è possibile per i primi porre in essere
strategie di punizione basate, ad esempio, sul successivo abbandono del venditore. Da
questo punto di vista, un filone importante della letteratura economica modellizza le
interazioni tra acquirenti e venditori come giochi ripetuti, concludendo che una
sequenza di comportamenti “corretti” nel tempo da parte del venditore può essere una
strategia di equilibrio. Ciò è possibile, ad esempio, se il sistema di fissazione dei prezzi
è disegnato in modo da penalizzare chi ha venduto beni di qualità bassa in passato e da
premiare chi ha fornito materiali di qualità elevata (si veda Levin (2003)). La
punizione potrebbe essere inclusa in un contratto a lungo termine, in cui il prezzo
percepito dal venditore in ogni periodo dipende dalla corrispondenza tra qualità
assicurata e qualità effettiva nei periodi precedenti.
4.2. Presenza di Potere di Mercato
Johnstone and de Tilly (2006) identificano tre possible fonti di potere di mercato nei
mercati del riciclo:
1. Potere di monopsonio legato al carattere locale dei mercati dei prodotti riciclati.
2. Utilizzo di integrazione verticale, come nel caso dei rottami metallici, con
conseguente creazione di barriere all’entrata
3. Discriminazione di prezzo e segmentazione del mercato, come nel caso degli
pneumatici ricondizionati o dei materiali plastici riciclati.
Il potere di monopsonio è in generale legato alla natura locale di alcuni tipi di
mercati per i prodotti riciclati. Questo può essere il caso, ad esempio, del vetro e dei
rifiuti derivanti da attività di costruzione o demolizione. In tali mercati è possibile che
l’impresa che trasforma i materiali di scarto in prodotti riciclati pronti per il riutilizzo
sia l’unico acquirente. Una possibile causa può essere riscontrata in elevati costi di
trasporto verso altri potenziali utilizzatori dei materiali di scarto. Il potere di
monopsonio può però nascere anche da una logica non competitiva nella assegnazione
del “diritto” ad accedere ai materiali di scarto, ad esempio attraverso la concessione di
licenze da parte delle autorità locali.
9
Ringraziamo un referee anonimo per aver suggerito questa particolare riflessione.
La teoria economica standard ci mostra come in presenza di potere di
monopsonio il mercato non produrrà un risultato efficiente10. In particolare,
un’impresa che sia anche acquirente unico sul mercato degli input fisserà l’ammontare
acquistato sulla base della condizione
(1)
CMM = RMM
dove CMM rappresenta il costo marginale di una unità aggiuntiva di materie di scarto,
mentre RMM rappresenta il ricavo marginale generato dall’utilizzo di tale unità nella
produzione di materiali riciclati. In presenza di monopsonio, d’altra parte,
(2)
CMM > CMeM ,
dove CMeM rappresenta il costo medio delle materie di scarto. Il monopsonista sa
infatti che un incremento nella domanda di fattori produttivi comporterebbe un
incremento nel prezzo praticato dall’impresa a monte.
Le caratteristiche del mercato delle materie prime riciclate possono comportare,
quindi, una riduzione dei prezzi delle materie di scarto da re-immettere nella catena
produttiva. Questo può comportare un incentivo insufficiente al raggiungimento di
obiettivi di riciclaggio socialmente ottimi. In questo caso, una possibile soluzione
risiederebbe, dove possibile, nella promozione della competizione “per il mercato”,
garantendo l’accesso ai materiali di scarto, che costituiscono l’input principale nel
mercato del riciclo, attraverso procedure d’asta trasparenti ed il più possibile
competitive. Si veda da questo punto di vista, la letteratura che ha preso il via a partire
del contributo fondamentale di Demsetz (1968).
L’autore focalizza la propria attenzione sul caso di imprese che competono per
la fornitura di un bene o servizio sulla base di una semplice asta in cui il vincitore è
colui che propone il prezzo più basso, ma questo tipo di schema potrebbe essere
adattato per garantire l’accesso al mercato a monte alle imprese di produzione di
materiali riciclati che garantiscano il maggiore prezzo di acquisto dei materiali
potenzialmente riciclabili. Sotto determinate condizioni, questo tipo di asta
competitiva può contribuire a miglioramenti in termini di efficienza rispetto a
condizioni di potere di mercato come quella sopra esposta11.
Un ulteriore rilevante problema che può essere legato alla natura “locale” dei
mercati per i prodotti riciclati ed alla conseguente presenza di potere di mercato è
quello, cosiddetto, della doppia marginalizzazione (Spengler (1950)). Questo
fenomeno può essere schematizzato utilizzando un semplice modello (Rickard (2006)).
Si consideri un mercato dei prodotti per il riciclo caratterizzato da due imprese:
• una a monte che si occupa della raccolta delle materie di scarto da
avviare al riciclo.
10
Si veda, ad esempio, Rickard (2006).
Ovviamente, lo strumento della concorrenza per il mercato costituisce solo uno degli elementi del
“portafoglio” di strumenti che la regolazione dei mercati del riciclo ha a disposizione. Altri strumenti dovranno
poi essere utilizzati, ad esempio al fine di regolare il comportamento delle imprese una volta che abbiano avuto
accesso al mercato. Per una rassegna delle diverse problematiche connesse si veda, ad esempio, Small (1999).
11
• una a valle che elabora queste ultime e vende i materiali o i prodotto così
ottenuti agli utilizzatori finali (imprese o consumatori).
Supponiamo che la curva di domanda per le materie prime riciclate (la cui quantità è
contrassegnata dalla lettera q) sia lineare:
(3)
p q = α − βq
Supponiamo, inoltre, che per ciascuna unità di bene riciclato prodotta sia necessaria
una unità di materiale di scarto (denotiamo la corrispondente quantità con la lettera x),
per cui x = q. La massimizzazione dei profitti da parte dell’impresa a valle implica che
il ricavo marginale sia uguale al costo marginale, dato dal prezzo unitario dei materiali
di scarto forniti dall’impresa a monte (px):
(4)
α − 2βq = p x ,
per cui la quantità prodotta dall’impresa a valle sarà:
(5)
q=
α − px
= x.
2β
Data l’ipotesi di relazione 1 ad 1 tra materiali di scarto e materie riciclate, la (5) mostra
contemporaneamente l’offerta di materie riciclate e la domanda di materiali di scarto
da parte dell’impresa a monte. La stessa impresa a monte fisserà il proprio output sulla
base della condizione Ricavo Marginale = Costo Marginale. Supponiamo che il costo
totale sia lineare nella quantità di materiali di scarto raccolta e fornita. In particolare,
supponiamo che CT x = c x x , per cui cx > 0 rappresenta il costo marginale e medio di
x.
La quantità prodotta sarà quindi:
(6)
x=
α − cx
4β
Dalla seconda uguaglianza presente nella (5) possiamo ricavare il prezzo praticato dal
monopolista a monte, che sarà12:
(7)
12
px =
1
(α + c x ) > c x
2
La disuguaglianza nella (7) discende dal fatto che la produzione del monopolista a monte è positiva solamente
se α > c x .
Sostituendo nella (4), e tenendo conto che abbiamo assunto x = q, otteniamo il prezzo
dei materiali riciclati prodotti e venduti dall’impresa a valle:
(8)
pq =
1
(3α + c x ) > p x
4
La (7) e la (8) mostrano analiticamente gli effetti della doppia marginalizzazione: il
produttore a monte fissa un prezzo maggiore del costo marginale, mentre il venditore
delle materie riciclate a valle fissa un ulteriore mark up sul costo marginale del proprio
input , determinato dall’impresa a monte. Tutto ciò porta ad una perdita di benessere
sociale rispetto ad una allocazione efficiente. La figura 2 mostra l’entità di tale
perdita13.
(Inserire figura 2)
Nella figura 2, il livello competitivo di output (quello in corrispondenza del
quale le imprese a monte e a valle si comportano da price taker) è q1. L’impresa a
monte sa che l’impresa a valle fisserà la quantità prodotta sulla base del confronto tra i
propri ricavi marginali (RMq) e i costi marginali (CMq). Questi ultimi coincideranno
con il prezzo praticato dall’impresa a monte sul proprio output. La curva di domanda
per l’impresa a monte (Dx) corrisponderà, sotto l’ipotesi di relazione 1 a 1 tra quantità
di materiali da riciclare e materiali riciclati prodotti, con la curva di ricavo marginale
dell’impresa a valle (si veda anche la condizione (4)). I corrispondenti ricavi marginali
dell’impresa a monte saranno dati dalla curva RMx. L’impresa a monte produrrà quindi
la quantità q3, e tale quantità, date le nostre ipotesi, coinciderà con la quantità prodotta
e venduta dall’impresa a valle. Il prezzo praticato dalla stessa impresa dipenderà dalla
posizione della curva di domanda Dq, e sarà quindi pari a pq > px > CMx .
La perdita di benessere sociale che risulta della doppia marginalizzazione è di
conseguenza data dall’area GEB. Tale perdita è evidentemente maggiore di quella che
si avrebbe se il fenomeno della doppia marginalizzazione non fosse presente. Questo
potrebbe avvenire, ad esempio, se le imprese a monte e a valle fossero verticalmente
integrate. In quest’ultimo caso, infatti, il costo marginale per l’impresa integrata
fornitrice di materiali riciclati sarebbe CMq la quantità prodotta sarebbe q2 e sarebbe
venduta ad un prezzo pari a px: la perdita di benessere si ridurrebbe da GEB a BCD.
Il rimedio a problemi di doppia marginalizzazione è una delle motivazioni
teoriche a favore dell’integrazione verticale. La teoria economica individua altre
possibili motivazioni che possono spingere le imprese a procedere verso l’integrazione
verticale, sia strettamente intesa che attraverso accordi contrattuali più o meno forti14.
Tra esse possiamo individuare la presenza di costi di transazione o di incertezza,
asimmetrie di informazione ed esternalità tecnologiche (Perry (1989)) che, come
13
L’analisi grafica è, per semplicità, svolta sotto l’ipotesi di curve di domanda lineari e costi marginali costanti,
come nell’esempio analitico riportato nel testo.
14
Non è obiettivo di questa parte una analisi dettagliata delle forme e del grado di intensità che gli accordi di
integrazione verticale possono assumere. Esempi di condizioni o accordi che possono avvicinare le imprese ad
una integrazione verticale senza portarle a divenire un’unica impresa integrata sono, ad esempio, il controllo del
prezzo di rivendita (RPM), il rifiuto di vendere a determinate imprese a valle o di acquistare da imprese a monte,
l’esclusività territoriale ecc….
abbiamo visto in precedenza sono caratteristici fallimenti dei mercati dei materiali
riciclati.
L’OECD (2006) mostra, d’altra parte, come l’integrazione verticale possa non
essere benigna in termini di benessere sociale. Ad esempio, è possibile che
l’integrazione verticale tra il settore forestale e quello di produzione cartaria comporti
rilevanti barriere all’entrata per le imprese produttrici di carta riciclata. Allo stesso
modo, l’evidenza suggerisce, almeno con riferimento agli USA, che la presenza di
potere di mercato nella produzione di alluminio possa avere conseguenze
sull’efficienza del mercato dell’alluminio riciclato (Grant (1999)). La presenza di
argomentazioni a favore (Posner (1981)) e contro (Rey e Tirole (1986)) suggerisce la
necessità di giudicare l’opportunità o meno dell’integrazione verticale “caso per caso”.
La possibile segmentazione del mercato rappresenta l’ultimo rilevante caso di
esercizio di potere di mercato con riferimento a materie prime e prodotti riciclati.
Un’impresa dotata di potere di mercato può infatti cercare di sfruttare differenze nelle
elasticità della domanda di diversi potenziali acquirenti affidandosi a caratteristiche
osservabili di questi ultimi (Varian (1989)). Un esempio di tale situazione si può
osservare nel mercato degli pneumatici, quando i produttori di pneumatici nuovi siano
coinvolti anche nella produzione di pneumatici riciclati e sfruttino le differenze di
elasticità della domanda relativa ai due tipi di pneumatico per incrementare i propri
profitti. L’effetto di questo tipo di pratiche sul livello di riciclo non può comunque
essere determinato a priori. Dipende infatti da molti fattori, tra cui fondamentali sono
le differenze in termini di costi di produzione e di elasticità della domanda tra mercati
del prodotto riciclato e mercati del prodotto ottenuto da materie prime vergini. Se
l’elasticità della domanda fosse maggiore nel caso dei mercati riciclati, come
suggerisce OECD (2006), allora la segmentazione del mercato potrebbe portare ad un
incremento in termini di riciclo.
4.3. Volatilità dei prezzi
Seguendo Stromberg (2004), un problema rilevante nel funzionamento dei
mercati per il riciclo può essere legato ad una elevata volatilità dei prezzi. Più
specificamente, un’estrema variabilità dei prezzi dei prodotti riciclati può incidere
negativamente sulla propensione delle imprese coinvolte ad investire e, in ultima
analisi, sul ritmo al quale il mercato dei prodotti riciclati si sviluppa.
In particolare, la presenza di una elevata volatilità dei prezzi merita una analisi a
se stante perché:
1. può essere considerata allo stesso tempo una causa ed una conseguenza dei
fallimenti del mercato
2. è connessa a diversi altri fallimenti del mercato discussi in questo articolo
(asimmetrie informative, incertezza ecc...);
3. può influenzare negativamente il livello di incertezza, con impatti rilevanti sui
livelli di investimento.
Un’elevata volatilità dei prezzi può essere guidata dalla presenza di incertezza
connessa, ad esempio, all’impossibilità di prevedere i flussi futuri di domanda ed
offerta, ma anche a possibili fluttuazioni nelle politiche di intervento (si pensi alle
incertezze connesse all’applicazione in Italia della Direttiva 1999/31/CE relativamente
alle discariche di rifiuti). In situazioni di questo genere si crea una sorta di circolo
vizioso, in cui si passa dalla alta variabilità dei prezzi ad un accrescimento
dell’incertezza ad una ancora maggiore variabilità e così via. Tutto ciò può spingere le
imprese potenzialmente interessate ad investire nel settore a rimandare le proprie
decisioni in attesa di migliori informazioni.
Sempre seguendo Stromberg (2004), uno dei principali motivi che porta ad una
elevata volatilità dei prezzi delle materie prime riciclate è legata alla bassissima
elasticità dell’offerta, come conferma, almeno per alcuni tipi di rifiuti, la letteratura
empirica (si veda, ad esempio, Edgren and Moreland (1989)). In altre parole, l’offerta
di materiali riciclabili si aggiusta molto lentamente, per cui è molto probabile si
verifichino situazioni di disequilibrio. In presenza di rapidi e frequenti cambiamenti
nella domanda si possono avere altrettanto frequenti e significative distorsioni nei
prezzi.
OECD (2006) suggerisce di utilizzare il grado di volatilità dei prezzi come test
di efficienza dei mercati per i materiali riciclati15. L’evidenza riportata nella
pubblicazione suggerisce come effettivamente con riferimento a molti tipi di materie
prime riciclate la volatilità del prezzo sembri più elevata nei mercati per i materiali
riciclati piuttosto che in quelli per i sostituti più vicini tra le materie prime vergini.
In ogni caso, l’effetto di questa volatilità sull’efficienza del mercato e sugli
incentivi all’investimento è determinata in modo complesso da molte variabili, tra cui
il grado di sostituibilità tra materie prime riciclate e materie prime vergini gioca un
ruolo importante. Inoltre, le stime contenute in Stromberg (2004) non sembrano
confermare quanto riportato nella pubblicazione dell’OECD16.
L’evidenza sopra riportata suggerisce come il disegno di appropriate politiche
di intervento renda necessario ulteriore studio nella valutazione della volatilità del
prezzo delle materie prime riciclate e delle sue determinanti.
4.4. Altre fonti di inefficienza
La presenza di incertezza riguardo la qualità delle materie riciclate e
l’incapacità di stabilire un “linguaggio comune” di dialogo tra acquirenti e venditori
può generare non solo problemi di informazione asimmetrica ma, più in generale, può
essere fonte di rilevanti costi di transazione. L’OECD (2007) individua diversi fattori
che possono determinare tali costi:
• vi possono essere significativi costi di “ricerca”, legati alle difficoltà di
acquirenti e venditori di incontrarsi. La rilevanza di questo primo tipo di costi di
transazione è legata al fatto che i produttori di materiali utili al riciclo sono
diffusi sul territorio e non è facile prevedere la quantità e qualità di materiali
15
Ovviamente si tratta di una misura di efficienza molto rudimentale. La stessa OECD (2006) sottolinea infatti
come mercati caratterizzati da elevata inefficienza (ad esempio mercati monopolistici) possano essere
caratterizzati da prezzi molto stabili. La volatilità dei prezzi è comunque importante in termini di efficienza di
lungo periodo, dati i già sottolineati effetti di tale volatilità sugli investimenti.
16
Più in particolare, l’analisi econometrica svolta dall’autore, con riferimento a dati USA e svedesi, suggerisce
come la volatilità dei prezzi delle materie prime riciclate non differisca in modo sostanziale da quella relativa
alle corrispondenti materie prime vergini, fatta eccezione per i materiali cartacei.
che si renderà disponibile. Ciò è dovuto al fatto che la produzione di materiali
di scarto non è in se una attività economica ma è la conseguenza di altre
decisioni, di produzione o di consumo;
• possono esistere rilevanti costi amministrativi connessi alla fornitura di prodotti
riciclati. Tali costi possono essere, ad esempio, legati alla necessità, da parte dei
produttori di materie prime riciclate, di ottenere permessi per la produzione ed
il riciclo. Inoltre, la fonte di input per tali produttori può essere legata più o
meno fortemente a strutture che hanno obiettivi diversi dalla massimizzazione
del profitto (ad esempio strutture pubbliche di raccolta dei rifiuti);
• possono infine non esistere basi informative affidabili riguardanti i prezzi delle
materie prime riciclate.
Le conseguenze dell’esistenza di costi di transazione possono essere approfondite
attraverso l’analisi della figura 3.
(inserire figura 3)
La figura 3 riporta la curva di offerta delle materie prime riciclate (Or ) e quella
relativa all’offerta totale di materie prime (vergini e riciclate) (Otot). La distanza
verticale tra curva di offerta totale e curva di offerta di materie riciclate rappresenta
quindi l’offerta di materie prime vergini (Ov) ed è assunta costante per semplicità17.
La presenza di costi di transazione comporta uno spostamento verso l’alto della curva
di offerta delle materie prime riciclate (in O’r ). Questo genera un corrispondente
spostamento verso l’alto della curva di offerta totale di materie prime (vergini più
riciclate), in O’tot . La distanza verticale tra le curve di offerta, d’altra parte, rimane
invariata. Ciò significa che la contrazione nel mercato delle materie prime è
interamente assorbita dal settore del mercato soggetto a costi di transazione, quello
relativo ai materiali riciclati.
La presenza di costi di transazione nei mercati del riciclo è esplicitamente
modellizzata da Calcott e Walls (2002), che incorporano tali costi in un modello di
equilibrio economico generale che considera tutte le fasi nel ciclo di vita delle materie
prime: la produzione, il consumo, il riciclaggio e lo smaltimento. In particolare, il
modello considera come endogena la scelta da parte dei produttori riguardo alla
“riciclabilità” dei prodotti. La conclusione degli autori è che la scelta dello strumento
di intervento in presenza di costi di transazione dipende in modo cruciale dal grado di
riciclabilità dei prodotti scelto dai produttori.
L’inefficienza associata a tali costi potrebbe essere neutralizzata solamente
utilizzando strumenti di intervento molto complessi, disegnati in modo da variare al
variare del grado di riciclabilità scelto dai produttori. Ciò è di difficilissima
implementazione nella realtà, cosicché gli autori ripiegano su strumenti di second best.
Da questo punto di vista i risultati di Calcott e Walls (2002) sono incoraggianti e
suggeriscono che la politica ottimale di second best sia una combinazione di interventi
17
La figura 3, che è una rielaborazione da OECD (2006, fig. 1.3, pag 21) è, necessariamente, una
rappresentazione molto sintetica e semplificata del mercato delle materie prime. E’ tuttavia sufficiente per
l’analisi svolta in questa parte del lavoro.
per la correzione delle esternalità associate al ciclo dei rifiuti e per la promozione di un
miglioramento nel funzionamento dei mercati del riciclo. Questo può essere ottenuto,
secondo gli autori, attraverso l’utilizzo di una modesta imposta sullo smaltimento
(inferiore al livello socialmente efficiente) ed un sistema di depositi rifondibili. Il ruolo
del mercato è legato al fatto che indubbiamente imposte e rimborsi influenzano gli
incentivi per i produttori a creare prodotti riciclabili, ma l’esistenza di un mercato,
anche non perfettamente funzionante (cioè affetto da costi di transazione), genera
incentivi virtuosi attraverso il meccanismo dei prezzi, che dovrebbe premiare i
produttori di beni caratterizzati da una maggiore riciclabilità.
Questo secondo tipo di incentivi virtuosi sarà ovviamente tanto maggiore
quanto migliore sarà il funzionamento dei mercati per i materiali riciclati, vale a dire,
tanto minori saranno i costi di transazione. Per questo, molti governi promuovono
politiche compatibili con una riduzione di tali costi. Come suggerisce OECD (2006), le
autorità pubbliche dei paesi OECD hanno sinora privilegiato la pubblicazione di liste
contenenti potenziali acquirenti ed offerenti materiali riciclati. Altri metodi per ridurre
i costi di ricerca hanno portato paesi come il Regno Unito, l’Austria e gli USA a
supportare l’utilizzo di transazioni tramite Internet, relative a diversi tipi di materiali
riciclati.
Per ovviare al problema della mancanza di informazioni affidabili sui prezzi e
alla difficoltà di porre in essere una transazione tra parti incapaci di riconoscere, se
non con dispendio di tempo e risorse, la qualità del prodotto oggetto della transazione
stessa, possono essere utilizzati contratti a lungo termine18, che però hanno la
caratteristica di introdurre “rigidità” nel mercato, tali da renderlo incapace di
aggiustarsi rapidamente alle mutevoli condizioni di domanda ed alla rapida evoluzione
del progresso tecnico.
Infine, i costi di transazione possono essere sostanzialmente ridotti attraverso l’utilizzo
di contratti “standardizzati”, come avviene, ad esempio, in Olanda.
In aggiunta ai problemi legati alla presenza di costi di transazione, importanti
freni ad un funzionamento efficiente per i mercati delle materie prime possono
derivare dalla diffidenza, a volte estrema ed ingiustificata, che i consumatori possono
avere nei confronti delle materie prime riciclate.
Questo è particolarmente importante con riferimento a quei materiali riciclati il
cui utilizzo può comportare costi ingenti, per cui la perdita attesa per i consumatori
finali è alta nonostante la probabilità di un evento negativo sia molto bassa. Due
esempi tipici sono gli pneumatici ricondizionati, prodotti a partire da pneumatici di
scarto, e l’olio motore ottenuto da oli di scarto. In entrambi i casi, l’utilizzo della
materia riciclata comporterebbe ingenti risparmi di costo, ma il valore atteso della
perdita economica legato all’esplosione di uno pneumatico o ad un guasto grave al
motore della propria auto è così alto da allontanare i consumatori da questo tipo di
prodotti riciclati.
Questo tipo di comportamento viene spiegato dalla teoria economica sulla base
di quella che viene chiamata “avversione alla delusione” (disappointment aversion).
Seguendo, Grant, Kajii e Polak (2001), un agente economico è avverso alla delusione
se, in presenza di incertezza, la sua utilità legata ad un esito negativo è minore
dell’utilità che lo stesso esito produce direttamente. In altre parole, vi è una riduzione
18
Si veda anche la trattazione svolta nel paragrafo 4.1.
di utilità legata non all’esito in se, ma alla delusione per la negatività dello stesso. Ciò
distingue l’avversione alla delusione dall’avversione al rischio, poiché al contrario di
quest’ultima, l’avversione alla delusione implica il confronto esplicito tra il benessere
legato all’evento che effettivamente si verifica e quello generato dagli eventi (migliori)
che non si sono verificati.
L’intervento pubblico può avere luogo sia alimentando direttamente la
domanda, segnalando così ai consumatori la qualità dei prodotti riciclati, sia fornendo
standard qualitativi stringenti, al limite imponendo gli stessi vincoli di qualità previsti
per i prodotti ottenuti da materiali vergini. Questo è quanto prevede, ad esempio, la
recente Direttiva sui materiali di scarto derivanti dalle attività di costruzione (OECD
(2006)). Bisogna però, a nostro avviso, porre attenzione a questo tipo di interventi, che
non generano necessariamente effetti positivi: restrizioni qualitative molto forti per i
materiali riciclati possono renderne estremamente costosa la produzione ed, in ultima
analisi, interferire con la capacità del mercato di raggiungere l’efficienza.
5. Considerazioni conclusive
L’ottenimento di un tasso di riciclaggio efficiente richiede due livelli di
intervento, il primo finalizzato alla correzione delle esternalità di natura ambientale ed
il secondo teso all’individuazione ed alla correzione delle imperfezioni del mercato
dove le materie prime ed i prodotti riciclati sono scambiati.
In questo lavoro, ci siamo concentrati sul secondo obiettivo, con particolare
attenzione alle cause di distorsione presenti nei settori legati al riciclaggio.
Da quanto evidenziato in questo lavoro, non è facile proporre una soluzione one
size fits all: la struttura ottimale del settore e le politiche appropriate di intervento
devono necessariamente essere valutate caso per caso. Un esempio, sotto questo
profilo, riguarda l’opportunità (o meno) di favorire processi di integrazione verticale.
Sembra invece abbastanza chiaro che investimenti nel miglioramento delle tecnologie
di monitoring possano sortire effetti positivi, sia riducendo le asimmetrie di
informazione che contenendo i costi di transazione.
Al fine di rendere operativi i concetti introdotti in questo lavoro, è necessaria
un’investigazione il più possibile dettagliata delle attuali caratteristiche del mercato
italiano dei rifiuti, con attenzione particolare al settore del riciclaggio. L’evidenza
fornisce, per alcune categorie di materiali, segnali incoraggianti. L’esperienza tedesca
ci insegna, d’altra parte, come l’esistenza di un mercato funzionante “a valle” per
questi materiali sia condizione essenziale perché le politiche di intervento connesse al
ciclo dei rifiuti svolgano pienamente i loro effetti. La valutazione delle caratteristiche
del mercato italiano del riciclo, al fine di individuare eventuali inefficienze e di
proporre le necessarie correzioni, costituisce quindi una sfida importante sulla strada
verso una gestione dei rifiuti il più possibile vicina all’ottimo sociale nel nostro paese:
questo tema sarà oggetto della nostra futura attività di ricerca.
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€
CM sociale di
smaltimento
Costo marginale
di riciclaggio
CM privato di
smaltimento
0%
Qp
Qs
100%
Quota riciclata
0%
Quota smaltita
100%
Figura 1 – Livello efficiente di riciclaggio
Fonte: Nostra rielaborazione da Tietenberg (1996)
pq
E
C
CMq = px
=CM
px
G
D
Dx=RMq
RMx
q3
B
q2
Dq
q1
Figura 2 – Doppia marginalizzazione
Fonte: Lipczynski et al. (2005)
CMx
Produzione
O’r
P,
CM
Or
Domanda
O’tot
Ov
Otot
Q
Figura 3: costi di transazione e
mercato del riciclaggio
Crescita economica sostenibile e ruolo del settore dei servizi
di Ignazio Musu
Classificazione JEL: Q540; Q550; L800
Keywords: global warming, environmental sustainability, growth, services
1. Introduzione.
La crescita economica è universalmente desiderata in quanto a ragione si ritiene che da
essa possano derivare effetti positivi in termini di una migliore qualità della vita per tutti i
componenti di una società. Ma la crescita economica per definizione comporta una
espansione continua della scala dell’attività economica, e questa espansione esercita una
pressione crescente sulle risorse della natura e dell’ambiente, che può avere due effetti
negativi: da un lato quello meramente quantitativo di compromettere la possibilità della
crescita di continuare, dall’altro lato quello qualitativo di allontanare sempre di più la
crescita economica dal più generale obiettivo del miglioramento della qualità della vita.
Sono questi i due aspetti del problema della sostenibilità ambientale della crescita
economica.
La possibilità di una sostenibilità ambientale della crescita economica, ossia di garantire
assieme crescita economica e preservazione della qualità ambientale, si basa su un
approccio intergenerazionale: come le generazioni passate hanno investito in capitale
fisico, capitale umano, scienza e tecnologia in modo tale da permettere alle generazioni
presenti di conseguire più elevati livelli di reddito e di qualità della vita, così anche le
generazioni presenti, comportandosi nello stesso modo, e beneficiando del più elevato
stock di capitale fisico, umano e in termini di conoscenza ereditato dalle generazioni
passate, potranno a loro volta permettere alle generazioni future di godere di livelli di
reddito e di una qualità della vita ancora più elevati.
In questo lavoro mi propongo: 1) di discutere gli aspetti generali del rapporto tra crescita
economica e preservazione dell’ambiente; 2) di mostrare come per perseguire la
sostenibilità ambientale della crescita economica sia necessario integrare le politiche di
regolazione ambientale con appropriate politiche di innovazione tecnologica; 3) di
discutere come il crescente peso del settore dei servizi nel prodotto nazionale di una
economia possa contribuire alla sostenibilità ambientale della sua crescita.
2. Mercato e risorse naturali esauribili
Il problema della sostenibilità ambientale della crescita economica ha due aspetti. Il
primo aspetto è quello quantitativo della possibilità della crescita di continuare anche se
alcune risorse naturali, quelle ovviamente che sono più importanti per la crescita stessa,
si esauriscono. Il secondo aspetto è quello qualitativo, che riguarda soprattutto la qualità
dell’ambiente: se la crescita economica comporta un deterioramento della qualità
dell’ambiente, essa diventa insostenibile sotto il profilo della sua capacità di garantire
anche un miglioramento della qualità della vita.
Il primo aspetto della sostenibilità riguarda in modo particolare le risorse esauribili, il cui
esempio più importante sono i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale),
risorse che almeno attualmente svolgono un ruolo essenziale nell’intero sistema
2
produttivo. Per queste risorse il problema della scarsità si pone in modo radicale: una
volte utilizzate esse non esistono più. L’unica strategia che l’uomo ha nei confronti di
queste risorse per renderne l’utilizzo compatibile con la crescita economica è puntare
sulla loro sostituzione con altre risorse che non abbiano la caratteristica della esauribilità,
facendo diventare le risorse esauribili inessenziali allo svolgimento dell’attività economica
(Dasgupta e Heal, 1979, Heal, 1998).
I mercati per le risorse naturali esauribili possono segnalare con prezzi crescenti la loro
crescente scarsità. Oggi ad esempio la globalizzazione della crescita economica,
ampliando la scala globale dell’attività economica, ha determinato un aumento della
domanda di energia, e quindi un aumento della utilizzazione dei combustibili fossili dai
quali la produzione di energia principalmente dipende, senza precedenti (International
Energy Agency, 2007). E’ inevitabile che questo comporti un progressivo aumento dei
prezzi dei combustibili fossili; e questo aumento dei prezzi rappresenta l’incentivo più
importante per coprire i costi crescenti di utilizzo dei giacimenti esistenti, per allontanare
il momento dell’esaurimento delle risorse, e per stimolare il passaggio ad una nuova base
dell’economia energetica mondiale fondata su fonti rinnovabili.
In mercati tipicamente non concorrenziali, come sono quelli dei combustibili fossili, la
crescita della domanda si combina, in modo spesso non facilmente distinguibile, con una
scarsità di offerta prodotta artificialmente da uno spregiudicato esercizio del potere di
monopolio dei possessori degli stocks di risorse esauribili. Questo è ciò a cui stiamo
probabilmente assistendo adesso. Le imperfezioni dei mercati si inseriscono nel gioco
consentendo all’esercizio spregiudicato del potere dei paesi detentori dei giacimenti, sia
di petrolio che di gas naturale, e al commercio a termine sui mercati finanziari, di
accentuare la spinta al rialzo dei prezzi molto al di là di quello che sarebbe ragionevole
sulla base dell’eccesso strutturale della domanda e dei costi crescenti di estrazione.
Sarebbe opportuno intervenire su questi eccessi determinati dall’imperfezione dei
mercati. Ma è oggettivamente molto difficile, data l’assenza di un adeguato sistema di
regolazione internazionale. E’ molto importante che i governi non diano segnali che
protraggano nell’opinione pubblica l’illusione che si possa prolungare all’infinito l’era dei
bassi costi dell’energia. Un graduale aumento dei prezzi delle risorse energetiche
esauribili, che ne rifletta la crescente scarsità, è necessario per aumentare, in primo
luogo, l’efficienza energetica nell’uso delle fonti esistenti, e per muoversi verso una
transizione graduale, ma irreversibile, a nuove fonti energetiche commercializzabili.
3. Mercato e risorse ambientali.
Veniamo ora la secondo aspetto, quello qualitativo, della sostenibilità della crescita
economica. Esso riguarda il mantenimento o se possibile il miglioramento della qualità
dell’ambiente, che è a sua volta un aspetto essenziale della qualità della vita di una
società.
La natura è costituita da un ampio insieme di risorse che offrono servizi ecologici la cui
qualità è essenziale per il mantenimento nel lungo termine della qualità della vita della
società. La grande opportunità per il mantenimento della qualità dei servizi ecologici
offerti dalle risorse della biosfera è costituita dalla loro rigenerabilità, consentita dai cicli
stessi della natura. La quantità e la qualità dell’acqua, la qualità dell’aria, la qualità del
3
suolo, le foreste e le popolazioni animali, gli ecosistemi sono risorse che, anche se
vengono sfruttate dall’uomo, possono essere ricostituite nei limiti dei cicli naturali.
Se il flusso di sfruttamento di queste risorse da parte dell’attività umana supera il flusso
di rigenerazione naturale, lo stock declinerà e la risorsa è destinata ad esaurirsi; in questo
caso ci si trova nella stessa situazione delle risorse naturali esauribili: un maggior
sfruttamento corrente della risorsa implica una minore possibilità di sfruttamento futuro.
Solo se il flusso di rigenerazione da parte dell’uomo si mantiene nei limiti del flusso di
rigenerazione naturale, lo stock può mantenuto indefinitamente. In questo caso sia il
flusso di sfruttamento sia lo stock possono essere definiti sostenibili.
L’inquinamento è un esempio di sfruttamento eccessivo di risorse naturali rigenerabili. In
questo caso il ruolo di capacità di rigenerazione è svolto dalla capacità naturale di
assimilare e neutralizzare l’effetto negativo dell’inquinamento sulla qualità dell’ambiente.
La parte del flusso di emissioni che supera la capacità naturale di assimilare la sostanza
inquinante si accumula nell’ambiente e produce effetti netti negativi sulla qualità
dell’ambiente.
La qualità dell’ambiente è dunque un esempio di risorsa naturale rigenerabile: essa si può
preservare se le emissioni inquinanti vengono mantenute nei limiti della capacità naturale
di assimilazione. Altrimenti la qualità dell’ambiente si deteriora e tende ad esaurirsi. Se la
crescita economica comporta un deterioramento o addirittura l’esaurimento della qualità
dell’ambiente, essa comporta anche il deterioramento della qualità della vita e pertanto
non si può definire sostenibile.
Il meccanismo di mercato incontra serie difficoltà nel garantire che l’inquinamento
avvenga nei limiti della capacità naturali di assimilazione, senza quindi compromettere la
qualità dell’ambiente. Il mercato infatti non è in grado, come sia pure imperfettamente
avviene nel caso delle risorse naturali esauribili, di esprimere prezzi crescenti che rivelino
la crescente scarsità della qualità dell’ambiente per effetto dell’inquinamento (Perman et
al., 2003).
La ragione di ciò sta nel fatto che la qualità dell’ambiente è un bene pubblico: di essa
possono godere in modo non rivale e non esclusivo molte persone; questo rende
impossibile determinare dei diritti di proprietà sulla qualità dell’ambiente; e questo a sua
volta rende difficile determinare una domanda e una offerta e quindi determinare dei
prezzi di mercato.
Prendiamo ad esempio il caso dell’atmosfera. Il mercato non è in grado di rivelare il
costo del deterioramento della qualità dell’atmosfera, e quindi, ad esempio, il costo del
cambiamento climatico derivante dalle eccessive emissioni e dalla eccessiva
concentrazione di “gas serra” nell’atmosfera.
Il problema del cambiamento climatico è di particolare interesse non solo per la sua
pervasività e gravità, ma anche perché in esso si saldano un problema di esaurimento
delle risorse naturali esauribili e di deterioramento della qualità dell’ambiente. Infatti il
cambiamento climatico deriva dalle eccessive emissioni di gas che provengono dallo
sfruttamento dei combustibili fossili. Il prezzo crescente dei combustibili fossili riflette la
scarsità di queste risorse esauribili, ma non i costi sociali derivanti dal deterioramento
della qualità globale dell’atmosfera che si manifesta nel cambiamento climatico.
Queste considerazioni giustificano una assunzione diretta di responsabilità sulle risorse
ambientali da parte pubblica. Nel caso di risorse globali come l’atmosfera questa
4
assunzione di responsabilità dovrà manifestarsi in un controllo esercitato attraverso la
collaborazione internazionale dei diversi stati.
4. Condizioni per una crescita economica sostenibile.
La capacità di rigenerazione della natura non cresce nel tempo, perché l’offerta di servizi
ecologici da parte della natura è limitata dal flusso di energia che proviene dal sole e
questo flusso non cresce nel tempo. Ma la crescita economica implica che l’attività
umana che determina la domanda di servizi ecologici cresce nel tempo. Come è possibile
mantenere la qualità dell’ambiente se la domanda di servizi ecologici da parte
dell’economia cresce ad un tasso esponenziale a fronte di una sostanziale costanza
dell’offerta netta di servizi ecologici da parte della natura?
La pressione dell’attività economica sull’ambiente dipende da tre fattori: la crescita della
scala dell’attività economica, la modificazione della struttura produttiva e lo sviluppo
della tecnologia che definisce l’impatto sull’ambiente delle diverse attività produttive
(Brock e Taylor, 2005).
La scala dell’attività economica, considerata da sola, è un fattore che esercita una
pressione crescente sull’insieme limitato delle risorse dell’ambiente e della natura, ed ha
pertanto un effetto negativo sull’ambiente (questo è noto come “effetto scala”). La scala
dell’attività economica aumenta per effetto della crescita della popolazione e della
crescita del prodotto pro-capite; considerati da soli dunque, questi fattori esercitano un
effetto negativo sull’ambiente. Questo effetto negativo può essere compensato o più che
compensato da una riduzione del coefficiente medio di impatto sull’ambiente per unità di
prodotto aggregato. E’ evidente che, se (e va sottolineato il “se”) il coefficiente medio di
impatto sull’ambiente per unità di prodotto si riduce ad un ritmo superiore a quello al
quale aumenta il prodotto aggregato per via dell’aumento della popolazione e
dell’aumento del prodotto pro-capite, la pressione sull’ambiente della crescita economica
si riduce progressivamente e migliorano le condizioni di sostenibilità.
La dinamica del coefficiente medio di impatto sull’ambiente per unità di prodotto
aggregato dipende a sua volta da due fattori: la composizione della struttura produttiva e
la dinamica dei coefficienti di impatto ambientale per unità di prodotto in ciascun settore
produttivo. Il coefficiente medio diminuirà tanto più velocemente quanto più aumenta il
peso nella struttura produttiva dei settori il cui coefficiente di impatto per unità di
prodotto è più basso e/o decresce più rapidamente.
I cambiamenti nella struttura produttiva dipendono essenzialmente dalla evoluzione della
struttura della domanda, mentre le dinamiche dei coefficienti di impatto ambientale
settoriali dipendono dalla dinamica del progresso tecnologico nei diversi settori
produttivi.
Anche la dinamica del prodotto pro-capite dipende però dal progresso tecnologico. Il
progresso tecnologico infatti aumenta la produttività del lavoro. Perciò la sostenibilità
della crescita economica dipende dal rapporto tra due tipi di progresso tecnologico: un
progresso tecnologico che, sotto il profilo della sostenibilità, possiamo definire “buono”,
e che si manifesta nella riduzione dei coefficienti settoriali di impatto ambientale per unità
di prodotto; e un progresso tecnologico che, sotto il profilo della sostenibilità, possiamo
definire “cattivo”, e che si manifesta in un aumento della produttività del lavoro.
Quest’ultimo, come abbiamo visto, agisce negativamente sull’ambiente perché accresce
5
l’effetto di scala. L’effetto sulla sostenibilità della crescita sarà tanto più positivo quanto
maggiore è il peso del progresso tecnico di tipo “buono” rispetto al peso del progresso
tecnico di tipo “cattivo”. La situazione ideale sarebbe la combinazione di due fattori: un
progresso tecnologico che, nel momento in cui accresce la produttività del lavoro, riduce
anche, almeno nella stessa misura, la pressione sull’ambiente per unità di prodotto; e una
modificazione nella composizione della domanda e della struttura produttiva che
favorisce i beni e servizi e i processi produttivi caratterizzati da un pressione decrescente
sull’ambiente per unità di prodotto (Smulders, 2000).
Ma la realizzazione di questa combinazione ideale non è automatica; l’interazione tra i
vari fattori in gioco può quindi dar luogo a svariate configurazioni del rapporto tra
crescita economica e qualità dell’ambiente. Non è automatico che prevalga quella che
consente di ottenere crescita economica e al tempo stesso riduzione della pressione
sull’ambiente.
L’esperienza storica ci dice qualcosa su questa complessità delle interazioni tra i vari
fattori in gioco. Nelle fasi iniziali dello sviluppo, tende a prevalere l’effetto negativo di
scala sia per la crescita della popolazione sia per l’accelerazione della crescita del
prodotto pro-capite; inoltre nella fase iniziale della crescita aumenta nella struttura
produttiva il peso dei settori industriali più inquinanti ossia quelli a più alto coefficiente di
impatto ambientale. Inoltre nelle fasi iniziali della crescita le politiche ambientali sono
normalmente molto deboli. Questo spiega perché le fasi iniziali della crescita sono
normalmente accompagnate da un deterioramento della qualità dell’ambiente.
Con il procedere dello sviluppo si riduce la componente dell’effetto di scala dovuta
all’aumento della popolazione, aumenta il peso dei settori produttivi con coefficienti
minori e decrescenti di impatto ambientale, quali i settori dei servizi e delle produzioni
immateriali, ed è probabile che si acceleri la riduzione dei coefficienti settoriali di impatto
ambientale per lo sviluppo delle innovazioni ambientali da parte delle imprese, stimolate
da una appropriata regolazione ambientale.
Queste osservazioni hanno condotto molti economisti ad avanzare l’ipotesi che tra
degrado ambientale e crescita economica vi sia una relazione prima crescente e poi
decrescente: nelle fasi iniziali della crescita la qualità dell’ambiente tende a peggiorare,
ma quando la crescita si consolida e diventa più matura, ed è anche caratterizzata, come
è normale, da più bassi tassi di crescita, la qualità dell’ambiente tende a migliorare. La
consistenza empirica di questa relazione (nota come “curva di Kuznets ambientale”) è
però molto discussa (Xepapadeas, 2005). Per alcuni inquinanti si osserva effettivamente
un miglioramento ai livelli più elevati di reddito pro-capite (ad esempio per gli inquinanti
atmosferici urbani); per altri, come ad esempio le emissioni di CO2 e di altri gas
responsabili del cambiamento climatico e per i rifiuti, la relazione non è così confortante.
L’analisi teorica e l’esperienza empirica portano allora a rifiutare tesi drastiche ed
estreme come quella secondo cui la crescita economica è sempre e comunque
apportatrice di degrado della qualità dell’ambiente, ma anche quella opposta che vede
sempre e comunque una automatica compatibilità tra crescita economica e preservazione
dell’ambiente.
La conclusione più appropriata è che la compatibilità tra questi due obiettivi è possibile,
ma non è automatica, ed esige delle condizioni. Queste condizioni hanno a che fare con i
comportamenti e le scelte delle persone; le istituzioni che incentivano e i valori che
ispirano tali comportamenti e tali scelte svolgono un ruolo essenziale. Nel determinare il
6
verificarsi di queste condizioni il mercato si rivela insufficiente e quindi le politiche
ambientali rivestono un ruolo essenziale.
5. Il ruolo della regolazione per una crescita sostenibile.
Le politiche ambientali, pur essendo richieste per una insufficienza del mercato, non
necessariamente si attuano in opposizione al mercato, ma anzi possono essere
congegnate in modo da avvalersi il più possibile delle potenzialità del mercato (Musu,
2003; Tietenberg, 2006).
L’idea centrale della politica economica ambientale è che se si vuole rendere la crescita
economica compatibile con la preservazione, o meglio ancora con il miglioramento, della
qualità dell’ambiente, si deve intervenire con adeguate politiche di incentivo e di
disincentivo che orientino il mercato in questa direzione. Lo scopo di queste politiche
deve essere di far sì che il progresso tecnologico e l’evoluzione della struttura produttiva
assumano le caratteristiche che consentono alla crescita economica di essere sostenibile.
Gli strumenti economici della politica ambientale elaborati dalla economia ambientale,
quali la tassazione ecologica e i permessi negoziabili di inquinamento, possono quindi
essere recuperati in questa prospettiva di sostenibilità.
Elemento comune delle politiche ambientali basate sull’uso di strumenti economici è che
esse operano in modo che il prezzo dell’uso dell’ambiente rifletta il danno che tale uso
comporta in termini di deterioramento della qualità dell’ambiente stesso.
I costi ambientali possono venire dai processi produttivi e dall’utilizzo dei prodotti finali.
I costi ambientali dei processi produttivi sono diversi da prodotto a prodotto. Quindi i
prezzi dei prodotti che richiedono processi produttivi i quali sono più dannosi per
l’ambiente dovranno aumentare relativamente ai prezzi dei prodotti che richiedono
processi produttivi che sono meno dannosi per l’ambiente. Questo sposterà la domanda
dei consumatori verso i prodotti i cui processi produttivi sono più favorevoli
all’ambiente, riducendo la domanda dei prodotti i cui processi produttivi inquinano di
più. Ciò a sua volta indurrà le imprese a ridurre i costi che devono pagare per i processi
produttivi che danneggiano di più l’ambiente introducendo innovazioni tecnologiche che
riducono l’impatto sull’ambiente per unità di prodotto.
Analogo discorso vale per l’effetto negativo sull’ambiente derivante dal consumo dei
prodotti (ad esempio il rilascio di CO2 per l’uso dell’automobile, o il deposito di rifiuti).
Occorre che anche questo costo ambientale si traduca in un prezzo per il danno generato,
per quanto piccolo esso possa apparire a chi lo genera. Infatti è la somma dei danni
derivanti dall’inquinamento generato dai comportamenti individuali che conta nel
produrre il danno ambientale complessivo, e tale somma può essere molto elevata
nell’aggregato, anche se l’inquinamento individuale è molto piccolo.
In conclusione, le politiche ambientali basate su un approccio di mercato, ossia su prezzi
per l’uso dell’ambiente, determinati direttamente dal regolatore come le tasse ambientali
o indirettamente da un mercato di permessi negoziabili, possono fornire forti incentivi
alle imprese per adottare innovazioni tecnologiche esistenti che riducano la pressione
sull’ambiente per unità di prodotto (Jaffe et al., 2002).
La questione è però se le politiche ambientali orientate al mercato sono sufficienti a
stimolare le imprese ad inventare e introdurre nuove tecnologie che riducano la pressione
sull’ambiente per unità di prodotto, o se costituiscono solo una condizione necessaria. A
7
questo proposito è stato giustamente rilevato (Jaffe et al., 2005) che queste politiche
andrebbero integrate con le politiche per la promozione dell’innovazione tecnologica, e
viceversa.
Se l’inquinamento rappresenta una esternalità negativa, è noto che la produzione di
nuova conoscenza nella quale si manifesta il progresso tecnologico rappresenta una
esternalità positiva. Infatti una impresa che ha successo nell’inventare una nuova
tecnologia fornisce un beneficio di cui le altre imprese possono approfittare senza costi.
Quindi il mercato tende a produrre troppo inquinamento, ma anche a produrre troppo
poca innovazione tecnologica. Queste considerazioni sono alla base dell’idea che ci deve
essere sia una politica ambientale che internalizzi l’esternalità negativa costituita
dall’inquinamento, sia una politica per l’innovazione tecnologica che internalizzi
l’esternalità positiva costituita dalla nuova conoscenza.
Che cosa induce a ritenere che le due politiche vadano tra loro integrate? In primo luogo,
il processo di innovazione tecnologica è soggetto a incompletezza informativa e ad
incertezza. Le imprese, a fronte di politiche generali di sostengo dell’innovazione, sono
indotte ad orientare i loro sforzi verso le innovazioni che presentano maggiori probabilità
di successo sul mercato e minor rischio. Le innovazioni ambientali sono tra quelle che
presentano invece maggiori rischi e maggiori incertezze di successo. D’altra parte più
intenso è il flusso di sforzi nella ricerca tanto maggiore è la probabilità che la ricerca
stessa abbia successo.
Questo indica che è improbabile che la politica ambientale da sola crei sufficienti incentivi
all’innovazione tecnologica ambientale, e quindi che è necessaria anche una politica di
stimolo dell’innovazione; ma indica anche che tale politica di stimolo all’innovazione
deve cercare di essere mirata all’innovazione ambientale.
Nel far questo bisogna però evitare di cadere in una eccessiva rigidità, quale quella
connessa all’imposizione di standard tecnologici, e cercare di favorire invece la ricerca
della migliore tecnologia, anche mediante l’implementazione di procedure sistematiche di
valutazione. Un ruolo molto importante può essere esercitato dalla domanda
dell’operatore pubblico, il cui intervento spesso ha rilevanti impatti ambientali: dalle
caratteristiche ambientali richieste negli appalti pubblici, ad interventi più diretti quali la
raccolta e il trattamento dei rifiuti, e il disegno urbano.
Una strategia di regolazione che integri le politiche ambientali orientate al mercato e le
politiche per l’innovazione ambientale risponde anche ad una obiezione che viene
normalmente fatta all’uso degli strumenti economici nelle politiche ambientali.
L’obiezione è che queste ultime, comportando l’aumento dei prezzi dei prodotti
inquinanti, siano un fattore di perdita della competitività. Questa obiezione però si
dimostra sempre meno valida alla prova dei fatti. In un sempre maggiore numero di casi
la diffusione della consapevolezza che la qualità dell’ambiente va protetta e se possibile
migliorata si associa all’incremento del livello del reddito pro-capite comportato dallo
sviluppo economico. Questo è sempre più vero anche per i paesi in via di sviluppo.
La diffusione delle politiche ambientali determina un mercato sempre più ampio non solo
per tecnologie di produzione favorevoli all’ambiente, ma anche per prodotti finiti che
usano tali tecnologie e che hanno caratteristiche tali da rendere l’impatto ambientale del
loro consumo sempre minore (ad esempio attraverso un aumento della riciclabilità).
Vi è dunque una sinergia tra ruolo della regolazione e ruolo delle preferenze dei
consumatori che si modificano in senso più favorevole all’ambiente a causa del
8
diffondersi di una cultura di crescente consapevolezza ambientale. Gli incentivi messi in
atto dalla regolazione consentono a preferenze progressivamente più orientate
all’ambiente di tradursi in segnali concreti di mercato. Preferenze favorevoli all’ambiente
da parte dei consumatori sono un segnale importante e di grande efficacia per le imprese.
Se le imprese sanno che i consumatori sono disposti a pagare di più per prodotti a
minore impatto sull’ambiente o che sono ottenuti con processi produttivi meno
inquinanti, esse modificano di conseguenza i loro comportamenti di produzione e di
investimento per rispondere a questi segnali di mercato.
Questo però non elimina la necessità di una regolazione, a causa della persistenza delle
imperfezioni di mercato che sono collegate alle esternalità negative ambientali. Ma
certamente una cultura della responsabilità ambientale che si traduce in una
modificazione delle preferenze rende la regolazione meno invasiva.
L’espandersi di questa cultura aiuta inoltre la stessa regolazione ambientale. Questa
infatti deve basarsi sul consenso dei cittadini che li porta a sostenere con il loro voto
scelte pubbliche che vadano nella direzione di una crescita economica sostenibile.
Dunque una diffusa cultura di responsabilità ambientale non solo stimola ad una
modificazione favorevole all’ambiente delle preferenze delle persone in quanto
consumatori, ma anche spinge il cittadino elettore ad un comportamento più orientato
verso valori di rispetto per l’ambiente. In altri termini, una cultura di responsabilità
ambientale rende la regolazione stessa al tempo stesso meno invasiva e più efficace.
Si può quindi concludere che una regolazione appropriata stimola le imprese verso
investimenti delle imprese in innovazione ambientale che costituiscono un fattore
favorevole al miglioramento della competitività. Essa è quindi uno strumento che non
ostacola, ma favorisce la competitività (Porter, 1991; Porter e van der Linde, 1995 ).
6. Il ruolo dei servizi nella crescita economica sostenibile.
Abbiamo visto che uno dei fattori che possono giocare a favore della crescita economica
sostenibile è lo spostamento della composizione strutturale dell’economia verso settori a
minore impatto ambientale per unità di prodotto.
Si sostiene normalmente che un aumento del peso del settore dei servizi nelle fasi di
maturità della crescita economica va a favore della sostenibilità ambientale della crescita
stessa. E’ certamente vero che l’impatto sull’ambiente del settore dei servizi è minore di
quello della industrie manifatturiere, soprattutto di quelle di base, ma molto dipende
dall’effetto della tecnica ossia dalla tecnologia che viene utilizzata.
Nelle economie avanzate il settore dei servizi rappresenta oltre il 50% del prodotto
interno lordo; negli Stati Uniti esso supera il 75%. Tuttavia non è automatico che questa
espansione e le pratiche produttive delle imprese vadano a favore di una maggiore
sostenibilità ambientale della crescita economica. La ragione sta nel fatto che la stessa
economia dei servizi ha bisogno di un supporto materiale per svilupparsi, ed è soprattutto
attraverso questo supporto materiale che si esercita la pressione sull’ambiente.
L’effetto sull’ambiente è naturalmente diverso a seconda del tipo di servizio, ma
coinvolge spesso contemporaneamente più tipi di servizi. Ad esempio l’espansione del
commercio non solo è causa di quantità crescenti di rifiuti solidi, a cominciare dagli
imballaggi, per finire ai materiali di scarto che vengono sostituiti quando si acquistano
9
beni durevoli più moderni, ma determina una espansione del trasporto di merci. E il
trasporto costituisce un altro esempio di servizio la cui espansione ha effetti ambientali
molto rilevanti. Il trasporto ad esempio contribuisce per circa un quinto alle emissioni
globali di CO2, e quindi costituisce uno dei settori che più contribuiscono al
cambiamento climatico globale.
L’effetto ambientale del commercio riguarda anche la forma di commercio che a prima
vista si presenta come attività fortemente caratterizzata in senso “immateriale” ossia il
commercio on line, che sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie della
comunicazione. E’ vero che questa attività riduce i punti fisici di vendita, ma certamente
non riduce, anzi espande, il volume di trasporto delle merci materiali, perché amplia lo
spazio entro il quale tale trasporto avviene. I conseguenti problemi logistici hanno un
impatto ambientale molto rilevante. Inoltre, l’attività commerciale on line si appoggia su
tutta una serie di strumenti materiali (quali i PC e i telefoni cellulari) che diventano
rapidamente obsoleti e che sono di non facile riciclabilità, anche perché contengono
materiali tossici. Al punto che il problema dei cosiddetti “e-wastes” è oggi uno dei
problemi che stanno diventando sempre più seri in tutti i paesi.
Tornando al trasporto, si deve anche osservare che esso è destinato ad espandersi per lo
sviluppo crescente della urbanizzazione e per la formazione di aree urbane e
metropolitane di dimensioni e popolazione sempre più vaste, specialmente nei paesi in via
di sviluppo. Il trasporto urbano è un fattore sempre più importante di inquinamento
dell’atmosfera e il problema della mobilità sostenibile è una delle sfide più urgenti che la
politica ambientale dovrà affrontare.
Un altro servizio decisamente in espansione che ha rilevanti effetti sull’ambiente è il
turismo. L’espansione del turismo di massa costituisce una inevitabile conseguenza del
fatto che un numero crescente di persone sono destinate a godere nel futuro i frutti della
crescita economica (basta pensare ai due miliardi e mezzo che costituiscono la
popolazione della Cina e dell’India) in termini di un maggior reddito pro-capite e sono
quindi in grado di spendere una quota di tale reddito in attività turistiche. E’ evidente che
questa espansione è destinata ad esercitare una pressione molto forte sull’ambiente
specialmente in particolari aree, e cioè quelle dove sono localizzati ecosistemi ed habitat
di particolare pregio ed anche quindi di particolare fragilità, e quelle in cui è localizzato
un patrimonio artistico di grande attrazione. In queste aree le conseguenze che mettono
in serio pericolo la sostenibilità sono: l’inquinamento in genere ma, soprattutto, quello
del suolo attraverso rifiuti crescenti; la congestione; le modificazioni nell’uso del
territorio.
Inoltre il turismo genera per definizione un aumento del trasporto, questa volta delle
persone più che delle merci. Questo incremento di trasporto è un fenomeno
internazionale, ma si concentra in particolare sulle aree oggetto di visita da parte dei
turisti, determinando fenomeni di congestione del traffico che hanno effetti rilevanti
soprattutto sull’inquinamento atmosferico.
Non si deve infine trascurare l’effetto ambientale dell’espansione dei servizi alla persona.
Prendiamo ad esempio il caso dei servizi sanitari. Essi usano materiali i quali determinano
quantità crescenti di rifiuti solidi che hanno un elevato grado di tossicità (ad esempio il
mercurio).
10
La relazione tra servizi e ambiente non è però unidirezionale. Il problema della
sostenibilità si manifesta anche nei servizi come effetto negativo del deterioramento
ambientale sul risultato dell’attività economica.
Un esempio al riguardo può essere fornito dall’effetto del cambiamento climatico sul
settore dei servizi. In certe aree il turismo potrà beneficiare del cambiamento climatico,
ma in altre sarà danneggiato. Nelle zone costiere il turismo sarà penalizzato dal più
elevato livello del mare, dalla erosione delle spiagge, dalla intensificazione degli eventi
meteorologici estremi. Nelle zone montane il turismo sarà danneggiato da una minore
caduta di neve e dal ridursi della stagione.
Un altro settore dei servizi che sarà colpito dal cambiamento climatico è quello delle
assicurazioni. Le compagnie di assicurazione stanno già percependo l’impatto economico
negativo dell’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi. Il valore dei danni ad essi
collegato, danni che riguardano le persone, ma anche le proprietà immobiliari, è destinato
ad intensificarsi molto in futuro, e questo potrà determinare un atteggiamento di
crescente riluttanza nell’offerta di polizze da parte delle compagnie. Segni in questa
direzione si sono già manifestati negli Stati Uniti dopo l’uragano Katrina.
Anche nei confronti del settore dei servizi si pone un problema di regolazione ambientale.
Molte delle caratteristiche della regolazione ambientale che abbiamo visto in precedenza
rimangono valide anche per i servizi. Uno strumento importante di tale regolazione è
costituito dall’incentivo dei prezzi. Esempi specifici per il settore dei servizi sono tariffe
di accesso per il traffico nelle aree urbane e ticket per l’accesso dei turisti nelle aree di
particolare fragilità ecologica. Data la rigidità della domanda l’effetto di questi prezzi
può non essere, almeno nel breve periodo, quello di selezionare in modo adeguato la
domanda; ma è certamente quello di determinare un reddito che la collettività potrà usare
per coprire almeno una parte dei costi ambientali, senza gravare eccessivamente ed in
modo chiaramente regressivo sui residenti locali. Qualora si renda necessaria un
restrizione quantitativa dell’uso dell’ambiente per evitare che si superino soglie che
rendono il danno inaccettabile, l’uso dello strumento dei prezzi può essere accoppiato
con standard quantitativi, anche con lo scopo di rendere il più efficace possibile rispetto
ai costi il perseguimento di tali standard aggregati.
Un altro aspetto della regolazione ambientale nel settore dei servizi riguarda la estensione
della responsabilità ambientale agli intermediari finanziari per quanto riguarda il danno
ambientale dei progetti di investimento da essi finanziati. Questa infatti incentiva gli
intermediari stessi a mettere in atto incentivi perché i prenditori di prestiti applichino
tecnologie più rispettose dell’ambiente. Ad esempio le condizioni di prestito per
l’acquisto di una casa potrebbero diventare più favorevoli se venisse dimostrato che la
casa acquistata è più efficiente dal punto di vista energetico o che l’acquirente si impegna
ad introdurre miglioramenti in questa direzione. Questo vale anche per le compagnie di
assicurazione che potrebbero essere indotte ad offrire sconti sui premi in contratti di
assicurazione che riguardano automobili più efficienti dal punto di vista del consumo di
combustibili.
Esempi di questi comportamenti virtuosi già esistono; può certamente essere il caso che
essi vengano determinati da una maggior responsabilità ambientale dell’impresa; ma è
molto improbabile che essi possano divenire comportamenti diffusi in assenza di una
regolazione che li renda convenienti imponendo dei costi se non vengono conseguiti
risultati in termini di qualità dell’ambiente. Importante sotto questo profilo è l’estensione
11
della disciplina della responsabilità civile anche agli intermediari finanziari coinvolti nel
finanziamento di progetti di investimento che hanno sempre anche degli impatti
sull’ambiente.
Naturalmente anche nel settore dei servizi la regolazione può essere più facilmente
attuata in presenza di una diffusa coscienza ambientale. Ad esempio i turisti sono
normalmente più disposti a pagare un prezzo per l’accesso in un ambiente di particolare
pregio e delicatezza ecologica se sanno che tale prezzo verrà utilizzato per la
preservazione dell’ambiente stesso.
Alcuni servizi sono poi esplicitamente espressione di una politica ambientale. Si pensi alle
public utilities e alla loro responsabilità nel campo della gestione dell’acqua e dei rifiuti.
In generale la domanda pubblica per soddisfare la domanda crescente di servizi pubblici
costituisce un veicolo importante per la diffusione di tecnologie a minore impatto
ambientale.
Questo porta ad un altro aspetto di regolazione mirata che riguarda in particolare i
servizi, e cioè la differenziazione dei livelli di intervento. La regolazione ambientale di
alcuni tipi di servizi coinvolge infatti in modo particolare il livello locale: si pensi al
trasporto urbano, al turismo, alla gestione dei servizi pubblici e alla persona che sono
molto radicati sul territorio. Uno dei problemi che ciò solleva è quello del rapporto tra i
diversi livelli della politica ambientale, e quindi anche il problema del federalismo fiscale
ambientale. Si tratta di definire l’autonomia dell’autorità locale nello stabilire il livello di
una tassa sull’uso dell’ambiente o del patrimonio culturale locale, e poi nel trattenere il
gettito di tale tassa e nel decidere come utilizzarlo.
Infine anche nel settore dei servizi è necessario creare le condizioni perché si arrivi ad
una interazione virtuosa in termini di sostenibilità della crescita economica tra
regolazione e valorizzazione del ruolo delle imprese mediante l’integrazione con una
politica di promozione dell’innovazione ambientale. Tuttavia l’importanza
dell’innovazione tecnologica ambientale è maggiore nel settore della produzione
materiale, del quale peraltro il settore dei servizi si avvale per rendere possibile la propria
attività.
In conclusione, l’evoluzione della crescita economica verso un modello post-industriale
dove il settore dei servizi ha un peso prevalente non elimina i problemi di impatto
dell’attività economica sull’ambiente e la necessità di un “effetto della tecnica” positivo
che compensi l’”effetto scala” negativo. Sia pure in modo meno pesante che nel caso
dell’industria, ma anche a causa della interdipendenza settoriale tra servizi e industria, si
pone anche nel settore dei servizi la sfida ad una regolazione ambientale integrata con
una politica appropriata di stimolo all’innovazione che sia strumento di promozione di
una crescita sostenibile.
Come abbiamo visto nel settore dei servizi questa regolazione avrà un aspetto locale di
importanza crescente. Se questo rende più facile il collegamento tra la regolazione e la
società che esprime l’autorità deputata a questa regolazione, è anche un aspetto che
aumenta la responsabilità delle collettività locali nella loro capacità di saper affrontare e
risolvere il conflitto tra crescita economica e preservazione dell’ambiente, individuando e
poi sostenendo un modello condiviso di sostenibilità della collettività locale. L’esperienza
spesso non positiva con le cosiddette “agende 21 locali” ci mostra che non sempre
questo avviene. Nel caso di ambienti che hanno un valore che va al di là della dimensione
locale, occorre perciò spostare in alto il livello di decisione. Ma il problema della
12
consapevolezza delle collettività locali non si può eludere e alla lunga si affronta
mediante l’educazione ambientale, che diventa così un pilastro di una lungimirante
politica ambientale.
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