La Santa Sede e l`Europa centro-orientale nella seconda metà del

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La Santa Sede e l`Europa centro-orientale nella seconda metà del
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Pietro Pastorelli, La Santa Sede e l’Europa centro-orientale nella seconda metà del Novecento,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 254, € 17,00, Isbn 978-88-498-3894-3.
Roger Peyrefitte, in uno dei suoi libri sulle Ambasciate, riporta una frase detta da un diplomatico francese a un collega: «Essayez de vous faire nommer à l’Ambassade près du Saint
Siège; vous verrez à l’oeuvre la première diplomatie du monde».
Che la diplomazia della Santa Sede abbia dato e dia prove di grande abilità, guidando la
navicella di San Pietro attraverso flutti e tempeste, lo dimostrano i numerosi studi e saggi ad
essa dedicati. Abbiamo già avuto occasione, in questa Rivista, di occuparci di alcune opere al
riguardo del prof. Barberini (Giovanni Barberini, L’Ostpolitik della Santa Sede, Bologna, il Mulino, 2007; Id., Le carte Casaroli sull’Ostpolitik vaticana, Bologna, il Mulino, 2008; Id., La Santa Sede alla Conferenza di Helsinki, Siena, Cantagalli, 2010); ed ora il compianto Pietro Pastorelli, recentemente scomparso, ci offre un esauriente quadro di come la Santa Sede abbia affrontato la difficile situazione della «Chiesa del silenzio» nella seconda metà del secolo scorso.
«Questa indagine – precisa l’incipit del volume – ha lo scopo di inquadrare in una prospettiva storica quella che è stata chiamata la Ostpolitik vaticana, impersonata, come negoziatore, da mons. Agostino Casaroli» (p. 7). Ma dalla premessa vediamo subito che l’indagine è
più ampia, poiché l’Autore ritiene che ai fini di una migliore comprensione dell’argomento
occorre avere ben presenti le vicende storico-politiche, territoriali ed etniche, dal 1938 al termine del secondo conflitto mondiale, dei paesi della cosiddetta fascia cattolica dell’Europa
centro-orientale (Lituania, Polonia, Slovacchia, Austria, Ungheria, Croazia e Slovenia). Non
solo: è importante inquadrare tutto ciò nella situazione generale di ‘guerra fredda’ che il mondo
ha vissuto nel periodo considerato. A queste precisazioni è dedicato il primo capitolo, “I mutamenti territoriali, etnici e politici nei paesi cattolici dell’Europa centro-orientale”.
Per descrivere quegli anni, papa Roncalli prima, e mons. Casaroli poi, usarono la parola
«martirio». E veramente fu la Chiesa del martirio quella che forma oggetto del capitolo successivo: il quale, per coloro che gli furono devoti e che non comprendono il ritardo nella sua
beatificazione, è un capitolo da elogiare senza riserve, perché mette in luce la grande figura di
Pio XII. Papa Pacelli aveva una vasta conoscenza del mondo e prese due iniziative di portata
universale: si adoperò per l’introduzione della libertà di religione nella carta atlantica, e suggerì a Roosevelt l’istituzione di un organismo internazionale per assicurare il mantenimento
della pace, idea che il presidente americano fece sua ed ottenne che fosse condivisa da Stalin,
giungendosì così all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Fu dunque Pio XII il primo pontefice (seguito poi dai suoi successori) a dover gestire la
penosa situazione dei cattolici nell’Europa centro-orientale del dopoguerra. Era uno stillicidio
quasi quotidiano di notizie della persecuzione: chiusura delle scuole cattoliche, abolizione dell’insegnamento della religione in quelle statali, chiusura dei seminari, privazione delle risorse
economiche per le parrocchie e le altre istituzioni religiose cattoliche. A ciò si aggiungevano i
molti processi a singoli sacerdoti che si mostravano più decisi a sostenere la loro fede, che si
concludevano tutti con immotivate condanne a fini intimidatori. Ancora più grave era l’assalto alla gerarchia cattolica con la nomina di vicari capitolari scelti dai governi per le sedi vescovili resesi vacanti o l’invio di controllori governativi a fianco dei titolari delle diocesi. In più,
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operazioni di maggiore risonanza, anche internazionale: i processi e le condanne ai cardinali
Stepinac (Jugoslavia), Mindszenty (Ungheria) e Wyszynski (Polonia).
Le vicende della storia, peraltro, sono imprevedibili, e proprio alla fine di quei dolorosi
anni Cinquanta cominciò a delinearsi la Ostpolitik vaticana al tempo del pontificato di
Giovanni XXIII. Fu un timido inizio: nel settembre 1961 Kruscev, in un’intervista pubblicata
dalla «Pravda», espresse il suo apprezzamento per l’azione del papa in favore della pace, e il
successivo 25 novembre formulò auguri per l’80° compleanno del pontefice.
Il disgelo continuò l’anno dopo, quando l’11 ottobre 1962 iniziarono i lavori del Concilio
ecumenico, e Kruscev permise ad alcuni prelati dell’Est (ma non a tutti) di prendervi parte.
Pochi giorni dopo scoppiò la crisi di Cuba, e il 26 ottobre Giovanni XXIII emise un messaggio di invito alla pace.
Il 15 dicembre il papa ricevette da Kruscev una lettera con gli auguri natalizi, ed in risposta inviò il suo sentito ringraziamento e la sua paterna benedizione al «popolo russo», riprendendo la classica distinzione tra l’errante e l’errore, già usata da Pio XII durante la seconda
guerra mondiale, e dovuta – ricorda l’Autore – a san Tommaso d’Aquino.
L’opera prosegue con la descrizione dei negoziati svolti da mons. Casaroli, avendo come
interlocutori Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Polonia, e si conclude con la liberazione
delle nazioni cattoliche dell’Europa centro-orientale, conseguenza della fine dell’Unione
Sovietica. L’Autore non manca di mettere in luce il ruolo essenziale svolto al riguardo da papa
Wojtyla.
Pastorelli era uno storico acuto, ed ecco quello che scrive a proposito della caduta del muro
di Berlino: «La demolizione del muro era la testimonianza che il sistema comunista era in crisi,
ma non che esso fosse finito come tanti sembrano credere: la caduta del muro di Berlino non
equivaleva alla scomparsa dell’Unione Sovietica» (p. 229). Questa, per l’esattezza, avvenne il
31 dicembre 1991.
Si chiude il libro con un senso di rimpianto per gli studi e le analisi che Pastorelli ci avrebbe ancora dato, e che purtroppo non potrà più darci.
(Giorgio Bosco)
Jean-Marc de La Sablière, Dans les coulisses du monde, Paris, Laffont, 2013, pp. 384, € 24,20,
Isbn 978-2-221-13114-5.
In Francia, quella dei diplomatici scrittori è una tradizione ben consolidata: basti pensare a
Léger e Claudel, citati recentemente dalla direttrice di questa Rivista. Entra ora a farne parte
Jean-Marc de La Sablière, con questo che è più di un libro di memorie; ai ricordi della sua vita
diplomatica si aggiungono considerazioni sulle vicende mondiali e sulla politica estera della
Francia. Basandosi sulla sua esperienza, l’Autore svolge un’analisi dell’attualità immediata,
soprattutto in Europa e nel mondo arabo.
Ciò gli viene facilitato dalla circostanza di essere stato investito di notevoli responsabilità:
direttore della Direzione generale Africa al Quai d’Orsay, ambasciatore in Egitto e in Italia,
consigliere diplomatico di Jacques Chirac, rappresentante permanente del suo paese alle Nazioni
Unite, dove assunse le sue funzioni nel novembre 2002, alla vigilia della crisi irachena.
Nel relativo capitolo egli definisce quella mossa all’Iraq una «guerra illegittima», in armonia con la posizione francese dell’epoca. Dalle sue pagine possiamo seguire come si manifestò
l’impegno della Francia al Consiglio di sicurezza per tentare di evitare il conflitto. In una conferenza stampa a New York del 20 gennaio 2003, «la verve de Dominique de Villepin fait merveille. Il affirme devant les journalistes médusés que la France ira jusqu’au bout dans l’affirmation de ses principes. Il ajoute qu’aussi longtemps que la coopération de l’Irak avec les
inspecteurs peut être exploitée, il n’y a aucune raison de choisir la pire des solutions, l’intervention militaire» (p. 208).
La scena diplomatica, dunque, si trasformava: veniva mandato all’aria il piano americano
di una denuncia collettiva per stigmatizzare l’insufficiente cooperazione irachena e legittimare
in tal modo la guerra. Nonostante ciò, nel marzo cominciarono le operazioni belliche, e
l’Autore commenta che al termine del conflitto risultò chiara la non esistenza di armi di distru-
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