Interpretazioni della Rivoluzione francese

Transcript

Interpretazioni della Rivoluzione francese
1770-1830 RIVOLUZIONI E RESTAURAZIONE / SCHEDA 2
1. François FURET - Maurice AGULHON: 1789: Terrore o libertà?
Due storici a confronto. Fu un atto giusto o ingiusto? I massacri erano davvero inevitabili? Possiamo ancora richiamarci a quelle idee o la
Rivoluzione è finita? Rivoluzione e libertà. Rivoluzione e Stato moderno. Ma anche Rivoluzione e violenza, dittatura, terrore, Stato dispotico:
tutte conseguenze della «forza delle cose», come diceva Saint-Just, o si è trattato, al contrario, di elementi generati dalla stessa idea
rivoluzionaria? E poi: se oggi in Francia e nel resto dell'Occidente la democrazia è consolidata è grazie all'eredità lasciata dalla Rivoluzione
oppure è proprio perché «la Rivoluzione è finita», come ha decretato tempo fa François Furet? Duecento anni dopo, il dibattito è aspro,
soprattutto fra gli storici. Noi abbiamo riassunto i termini delle loro contese in questo faccia a faccia tra lo stesso François Furet, capofila della
scuola detta "revisionista", e Maurice Agulhon che dal College de France guida una corrente che dà della Rivoluzione un giudizio meno
negativo. Il dibattito ha avuto luogo presso l'Istituto culturale italiano di Parigi.
L'Espresso: Cominciamo da una questione di fondo: la Rivoluzione francese è stato un atto "giusto"? Era davvero inevitabile la
sua esplosione ed erano davvero inevitabili le forme politiche che ha assunto?
FURET: «Io non credo all'inevitabilità della storia. Alla fine del diciottesimo secolo, di veramente inevitabile c'era la necessità di
un aggiornamento: né la monarchia assoluta né la società aristocratica né la Chiesa potevano durare. Ma perché mai le forme
del cambiamento dovevano essere per forza quelle? Quale inevitabilità c'era, ad esempio, nel fatto che in quegli anni la Francia
avesse un re così malaccorto come Luigi XVI? Insomma se mi si chiede di rispondere in coscienza alla domanda se ciò che è
accaduto sarebbe potuto accadere diversamente, io rispondo nettamente sì. Sì, le cose potevano andare in maniera diversa».
AGULHON: «Già ma è un fatto che l'aggiornamento non c'è stato e che Luigi XVI, più che malaccorto, è stato un monarca
intellettualmente integrato nell'Ancien Régime, che ha rifiutato le riforme e che, anche quando ha dovuto accettarle, lo ha fatto
al fine di ripartire da posizioni più vantaggiose. Fu lui a rendere pressoché inevitabile la radicalizzazione dei suoi avversari. La
presa della Bastiglia e i primi linciaggi per le strade di Parigi non sarebbero esistiti se l'11 luglio 1789 il re non avesse deciso di
dimettere il ministro Necker e non avesse mandato sulle piazze la cavalleria. Il carattere violento della Rivoluzione ha avuto
come primo responsabile la resistenza controrivoluzionaria».
FURET: «Io non sono d'accordo. Non si può dimenticare che Luigi chiamò a dirigere le Finanze riformatori come Turgot e Necker,
e che esitò sino all'ultimo prima di schierarsi con l'aristocrazia. Non si può parlare di una fatalità antiriformista della monarchia
francese ma solo di un re che non arriva al termine della sua politica. Il vero problema comunque è un altro».
L'Espresso: Quale?
FURET: Ciò che caratterizza la Rivoluzione francese nel suo affermarsi è che essa mal si concilia con la libertà politica. Per due
volte la Rivoluzione, prima con Robespierre e poi sotto Bonaparte, esprime dei periodi incompatibili con i Diritti dell'uomo e con
la libertà. Su questo, Agulhon, siamo in disaccordo. Tu attribuisci al ruolo della controrivoluzione la responsabilità di queste
deviazioni illiberali. Io non lo nego: ma dico che non basta, e che nella cultura democratica rivoluzionaria del 1789 esistono degli
elementi di illibertà. In altre parole io dico che la dinamica della Rivoluzione è potenzialmente dispotica. Ci sono elementi della
cultura rivoluzionaria che sin dall'origine, penso per esempio a Marat e al giornale che pubblica nel settembre 1789, risultano
incompatibili con la libertà politica».
AGULHON: «Non ci sto a una ricostruzione che fa partire il Terrore addirittura da Rousseau. Se Luigi XVI avesse accettato un
sistema monarchico all'inglese, ovvero se avesse accettato le raccomandazioni di Mirabeau e dei Costituenti, sarebbe mai
esistita per Robespierre la minima possibilità di arrivare al potere? Credo di no».
FURET: «Io ricordo che quando ero studente non mi parlavano che di questo e mai però mi spiegavano le ragioni interne della
deriva terroristica...».
L'Espresso: E ora può spiegarle lei a noi queste «ragioni interne»?
FURET: «Il fenomeno rivoluzionario francese si caratterizza subito per il totale rifiuto dell'Ancien Régime, il che non stava scritto
negli astri né nella necessità, e poi per l'idea che ai francesi spetti di inaugurare un nuovo periodo della storia. Ora, questa idea si
lega subito a quella della rigenerazione del popolo. E da entrambe si arriva facilmente ad una successiva, che è quella di
costruire un uomo nuovo, un popolo di "citoyens", di soggetti. Da qui è ancora una volta facile arrivare all'idea delle limitazioni
delle libertà... Insomma, la Rivoluzione francese è manichea sin dal primo momento».
L'Espresso: Un altro aspetto di illibertà non sta nel fatto che essa non arriva a concepire la sovranità che come una e indivisibile?
FURET: «Certo. Mentre gli americani, in quegli stessi anni, si pongono il problema di suddividere la sovranità del popolo, i
francesi non si rendono conto che anche essa può diventare dispotica quando non se ne faccia un uso saggio. Basta paragonare
le "Federalist Letters" che commentano la Costituzione americana del 1787 ai dibattiti francesi dell'agosto-settembre 1789 e si
vede bene questa enorme differenza. Insomma, la Rivoluzione francese produce una cultura politica nella quale non si può più
pensare il pluralismo».
AGULHON: «Ma gli americani, una volta fatta la loro rivoluzione, non hanno dovuto misurarsi con i controrivoluzionari che se ne
sono tornati in Inghilterra o sono emigrati in Canada! Così, tutta la vita politica ha potuto svilupparsi tra gente che aveva una
1
comune adesione ai suoi principi. Che le cose siano andate diversamente in Francia, si sa, l'abbiamo visto ed è inutile tornarci
sopra. » [François FURET - Maurice AGULHON: 1789: Terrore o libertà? tratto da: L’Espresso (supplemento), 22.1.1989, n. 3.]
Dall’Ancien Régime all’età delle rivoluzioni: l’affermazione dello Stato moderno.
2.1 I caratteri dell' Antico regime
L'«Antico regime» (espressione resa famosa da Alexis de Tocqueville) era un impasto di assolutismo e di feudalismo e
tale impasto era conflittuale, poiché il potere assoluto cercava di sopraffare i poteri feudali e viceversa. […]
La monarchia che si dice assoluta non raggiunse mai una forza sufficiente per imporsi nel modo che l'aggettivo farebbe
supporre. Il monarca era un personaggio bivalente: rispetto alle distinzioni feudali più importanti, quelle tra gli «stati», egli si
trovava a giocare su due lati. Doveva essere alleato simultaneamente dei nobili (e del clero) contro i borghesi (il terzo stato) e
dei borghesi contro i nobili. Per ingraziarsi ora gli uni ora gli altri distribuiva favori qua e là. Così non riuscì mai a sbarazzarsi dei
suoi antagonisti per divenire effettivamente e incondizionatamente sovrano.
Il potere del Re incontrava dunque dei limiti, ma a questi non corrispondevano diritti dei singoli bensì privilegi dei corpi
sociali in cui i singoli erano inseriti. I singoli non avevano diritti ma, appartenendo a una delle categorie sociali, godevano perciò
di una posizione sociale (cioè, come si dice, di uno status), corrispondente alla loro collocazione nella società. Era lo status che
faceva da scudo contro il potere assoluto del Re e contro le prepotenze degli altri corpi sociali. Ma chi non aveva status (le
donne, i vagabondi, i mendicanti, in genere i reietti della società) era soggetto all'arbitrio altrui, poiché non aveva diritti come
individuo singolo.
La struttura feudale della società si traduceva così in un estremo particolarismo giuridico. Le leggi generali, valide per
tutti, erano soppiantate dalle leggi e dalle consuetudini speciali e locali […]
2.2 Le nuove esigenze dell' Antico regime
Questo stato di cose non era alla lunga sostenibile, poiché contrario alle esigenze poste dallo sviluppo economico. Al
cambiamento erano interessati sia il Re - per poter aumentare le entrate dello Stato attraverso le tasse -, sia gli imprenditori
borghesi - per affrancarsi dalle vessazioni dei signori locali e commerciare liberamente, eliminando gli ostacoli che i diversi
privilegi feudali ponevano in continuazione. Il Re e il terzo stato, in un arco di tempo che va dal XVI al XVIII secolo, operarono di
frequente in accordo, per combattere i residui feudali che avvantaggiavano la nobiltà e il clero.
In economia, fu attuata la politica detta del mercantilismo, che puntava all'aumento della ricchezza pubblica (il
«Tesoro»), a una «bilancia dei pagamenti» attiva - più esportazioni che importazioni ( e quindi accumulo di ricchezza) - per
rendere forte lo Stato e consentire una politica estera da grande potenza. […] È l'inizio dell'economia moderna, rivolta alla
produzione intensiva di beni per lo scambio (invece che alla produzione dei beni necessari all'autoconsumo, cioè alla semplice
sopravvivenza di piccoli nuclei di persone, come era nell'economia feudale). Tutto ciò indebolì progressivamente i ceti
economicamente meno intraprendenti come la nobiltà e il clero, rafforzando il terzo stato, e crea più vasti ambiti di circolazione
delle merci (i «mercati» ), aventi dimensioni nazionali, ponendo con ciò le premesse per l'abbattimento della società degli status.
In politica, per combattere i particolarismi, il Re, d'accordo con il terzo stato, tenta di dare al regno una struttura più
compatta e centralizzata. Per questo combatte i privilegi e detta regole uniformi in settori decisivi della vita sociale, come il
commercio, i trasporti, la finanza pubblica. Questa è l'origine dello «Stato moderno», portato poi a compimento dalla
Rivoluzione: uno Stato nazionale accentrato, dipendente da un'unica volontà sovrana che si irradia dappertutto da un centro (la
capitale) verso la periferia, attraverso una rete di funzionari che trasmettono capillarmente gli ordini superiori ricevuti. Tali
funzionari non erano più legati al Re da un rapporto personale (come nel feudalesimo, quando i feudatari erano i fedelissimi i
comites o conti - del Re) ma erano diventati degli impiegati alle dipendenze dello Stato.
Si vengono a formare così grandi apparati di funzionari pubblici (la burocrazia) che operano in maniera impersonale,
anonima, per così dire «senz'anima», per trasmettere volontà altrui. Questa burocrazia «oggettiva» (che sostituisce gli amici del
Re) è una delle caratteristiche salienti dello Stato moderno. Attraverso di essa, lo Stato assume un aspetto oggettivo e
spersonalizzato. Non coincide più con il Re come persona fisica, poiché anche il Re diviene un funzionario, anche se il più alto,
dello Stato stesso (è di Federico il Grande, Re di Prussia dal 1740 al 1786, la definizione di sé come «il primo servitore dello
Stato») . Separato lo Stato dalle persone che lo fanno operare, si giunse addirittura all'altro estremo, cioè a concepirlo come
grande persona a sé stante, nella quale i funzionari perdevano la propria identità e si riducevano a puri ingranaggi. L’idea dello
Stato-persona esprime chiaramente la contrapposizione tra gli individui come tali e la società formata da essi da una parte, e lo
Stato, come organizzazione pubblica, oggettiva, separata, dall'altra. La consapevolezza di questo distacco, tipico dello Stato
moderno e introvabile nella società feudale, si è espressa nella grande distinzione tra Stato e società civile, una distinzione che
adoperiamo ancora oggi.
La Rivoluzione francese giunse per portare a compimento la vittoria dello Stato moderno sui residui feudali. Non fu solo
questo, ma fu questo prima di tutto. (Gustavo Zagrebelsky, Questa Repubblica, ed. Le Monnier, Firenze 2003)
2