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Chi fa il mestiere del musicista è semplicemente un artigiano, delle volte un’artista, nei casi più fortunati un poeta. Quasi mai,
tranne casi patologici, un musicista si investe della carica di maestro, più spesso è un effige che gli viene attribuita da chi le
parole dovrebbe pesarle. Succede poi che intorno a lui i semplici ammiratori finiscono per trasformarsi in adepti di una religione
che nessuno ha scritto, l’uomo supera l’uomo e diventa un’icona, la rappresentazione di qualcosa che non è più musica ma
fanatismo musicale. Lo stesso fanatismo che si trasforma in sciacallaggio ai danni dei musicisti prematuramente scomparsi, i primi
a diventare miti perché aiutati da quest’aura di maledizione, questo velo di mistero che tanto piace. Per chi rimane e diventa
volente o nolente un maestro non è vita facile oppure lo è troppo, a seconda dei casi. Recentemente in una sua autobiografia
Bob Dylan ha preso le distanze da chi per anni gli ha forzatamente fatto indossare i panni del cantante politico, altri, diciamo,
vivono di rendita. Difficile spiegarsi allora strane parabole compiute da artisti che a un certo punto sembrano aver perso la
bussola in balia di questa onda lunga di successo. Forse il problema non è dell’artista in sé ma nostro, del pubblico, siamo noi che
alimentiamo con la nostra cecità e sordità sogni che forse sarebbe stato meglio interrompere molti anni fa. Considerando che
l’autocombustione è un fenomeno raro in natura dovremmo almeno cercare di conquistare quella che alcuni chiamano onestà
intellettuale. Prendere le distanze dalle cose alle volte te le fa vedere meglio, nella loro interezza. E allora sentendo cantare De
Gregori in coppia con Venditti “sono Antonello e questo è mio fratello” non si può non pensare ai loro duetti in Theorius Campus
senza un pizzico di nostalgia.
Tutto cambia, guai se non fosse così, legittimo è sperare che sia sempre in meglio.
Con una punta di ironia abbiamo deciso sotto il mordace stimolo del nostro amico romano Antonio di esaminare in questo
nuovo numero del giornale alcuni personaggi considerati dai più maestri del loro genere. Spaziando tra sacro, profano e faceto
abbiamo messo in mezzo un po’ tutti. Si è ingaggiata tra collaboratori e amici una sorta di gara al rilancio, una specie di toto
sopravvalutati che ha dato esiti inaspettati.
Partendo dal presupposto che se ne parliamo è perché si tratta di artisti comunque di altissimo livello ci siamo divertiti a
decostruire carriere, a criticare comportamenti o cambiamenti, a scherzare sull’immunità di alcuni, sulla mascherata decadenza
di altri, sull’immeritato entusiasmo suscitato da qualcuno. Speriamo che questo non offenda nessuno ma sia solamente un modo
per pizzicare alcune corde e fare magari discutere in amicizia. Da criticoni quali abbiamo deciso di essere accettiamo, come
sempre, risposte in tutti i sensi.
L’evento del mese è il concerto dei Karate, storica formazione di Boston tra le più rappresentative della scena alternativa
americana. Maestri anche loro, ma a nostro avviso inattaccabili perché mai messi in cattedra da nessuno. I Karate saranno in
concerto l’8 febbraio al Chlorò di Calimera. Un concerto che Coolclub è felice e orgogliosa di organizzare e presentare. Questo
ed altri concerti fanno parte della rassegna alternativa Keep Cool che ha già esaurito i suoi primi appuntamenti riscontrando
un buon successo di pubblico e un entusiasmo generale ma che si è anche scontrata con problemi che possiamo definire
strutturali. La crescita di una realtà rock, fatta di concerti, band locali e in questo caso straniere che suonano nella nostra terra
incontrano un ostacolo che altre realtà o semplicemente altri generi non conoscono. Parlo di spazi, luoghi in cui un gusto diverso
di fare e ascoltare non trova accoglienza. Tante come al solito sarebbero le proposte, moltissime le idee ma poche e purtroppo
vaghe le risposte. Noi non vogliamo assumere il ruolo del meridionale insoddisfatto ma semplicemente, e questo giornale ne è la
dimostrazione, far vedere che le cose qui si fanno, si possono fare. La speranza è che questi sforzi trovino presto altre braccia su
cui poter contare, nuove energie e magari una casa nella quale crescere.
Osvaldo
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Via De Jacobis 42 73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
Sito: www.coolclub.it
Anno 2 Numero 11
Iscritto al registro della stampa del
tribunale di Lecce il 15.01.2004 al
n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Dario
Quarta, C. Michele Pierri, Gianpiero
Chionna
Collaboratori:
Giancarlo Susanna, Valentina
Cataldo, Cesare Liaci, Sergio
Chiari, Maurizia Calò, Marcello
Zappatore, Davide Castrignanò,
Amedeo Savino, Patrizio Longo,
Augusto Maiorano, Antonio Iovane,
Rossano Astremo, Rita Miglietta,
Marta Vignola, Daniele Lala, Elisa De
Portu, Daniele Rollo, Marco Daretti,
Marco Leone, Fulvio Totaro, Stefano
Toma, Federico Vaglio, Lorenzo
Coppola, Paola Volante, Nicola
Pace, Giacomo Rosato, Antonietta
Rosato, Nino D’Attis, Luca Greco,
Luisa Cotardo, Rakelman, Antonella
Lippo, Livio Romano, Pierfrancesco
Pacoda, Stefano Cristante, Carlo
Chicco, Antonino De Blasi, Fabio
Rossi, Marcello Aprile, Annalisa
Serpilli, Nicola Pace, Massimo Muci,
Francesco Lefons, Alfredo Borsetti,
Fabio Striani.
Per le foto si ringrazia
Alice Pedroletti
Progetto grafico
dario
Stampa
Lupo Editore - Copertino
Chiuso in redazione all’1 e 35 circa
del 26 gennaio 2005
Per inserzioni pubblicitarie:
[email protected]
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l’anima
del
maestro
abbasso i maestri
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dischi
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20
cinema
appuntamenti
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libri
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23
keepcool
editoriale
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«Il maestro è nell’anima/ e
dentro l’anima per sempre
resterà».
Il maestro Paolo Conte la
spiega così, e mi sembra un
eccellente riassunto. Significa,
bene o male, che tutte
le verità che ci sembrano
provenire da fuori, ce le
avevamo già dentro. Chi è
stato a mostrarcele? I maestri,
of course.
I maestri ti dicono chi sei. Ti
indicano una via. Socrate
era un maestro. Gesù era
un maestro. Buddha era un
maestro. (Tanto per volare
bassi). Erano maestri. Con la loro
personale visione della realtà e
un metodo convincente per
leggerla; con la loro semplicità
affabulatoria e la loro abilità
retorica; con la loro capacità di spiegarti
chi sei. Non è che alla fine te lo spiegassero
letteralmente, chi eri. Sempre ad alludere,
a parlar per metafore, perché la verità non
è che si lascia cogliere tanto facilmente,
perché la verità è selettiva. Ma è certo
che - nel loro magistero - ci trovavi quello
di cui avevi bisogno per «conoscere te
stesso». Sono psicanalisti, i maestri. La tua
natura - la natura umana - te la mostrano
chiaramente. Ma non si impongono:
lasciano che tu venga travolto da te
stesso. Il maestro non fa uso di coercizione.
Socrate non ha mai dato un cazzotto,
Buddha non aveva nemmeno il fisico,
Gesù era già più irritabile, ma poi anche
lui peace & love. Non avevano eserciti. Ma
erano dei grandi affabulatori, giganti della
comunicazione. E poi avevano saggezza:
conoscenza più esperienza. Ciascuno,
tuttavia, il suo maestro se lo sceglie. E
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non è che debba trattarsi per forza di un
supereroe di quelli succitati. Puoi anche
decidere che il tuo maestro sia un santo
minore, un assessore circoscrizionale o un
pubblicitario. Poi, però, ti ci voglio vedere a
citare davanti a tutti «Conti perché non sei
solo un conto» o «Italia uno!». Puoi scegliere
che il tuo maestro sia Pietro Pacciani. Però,
magari, tiettelo per te.
Abbasso i maestri. Ti convinci che il
maestro non potrà sbagliare. E, insomma,
da adolescente ci cresci con questa
tensione, e se Jim Morrison o Jean-Paul
Sartre hanno scritto sul sussidiario dei loro
cinque anni che «il senso del non agire è
nell’agire» tu non pensi che possa essere
una stronzata. Pensi che abbiano ragione.
Pensi che posseggano la chiave della
verità. E non perché sei un cretino. Ma
perché una struttura ancora non ce l’hai,
perché sei ancora uno spettatore e devi
stare a guardare. Ma poi arriva l’anno
del Signore 2000 e diventi un attore.
E allora devi comprendere. E per
comprendere devi abbattere gli idoli.
Devi criticare i maestri, ammettere
di averli sopravvalutati. L’identità, la
personalità, si forma innanzitutto per
negazione. Così noi ci proviamo, a
L’ANIMA
DEL MAESTRO
Non
abbattiamo
i miti. Non
distruggiamo
carriere. Non
cerchiamo
di fermare i
carri armati della sapienza con ulteriore sapienza. Non saliamo in
cattedra alla ricerca dell’affermazione personale. Abbasso i maestri,
come vi hanno già spiegato il direttore Osvaldo e il promotore (del
tema) Antonio, è un riassunto di una società, la fotografia delle
nostre camerette ma anche la rabbia covata da tempo, le antipatie
personali. Abbasso i maestri è nato via mail e poi è cresciuto sul sito,
per telefono, in alcuni baretti nelle fredde e inutilI giornate di festa,
sulle scale dell’ateneo e sui tavoli del caffè. Abbasso i maestri è un
piccolo sondaggio, un’opera collettiva dalla quale sono usciti molti
nomi e molti sentimenti contrastanti. Il risultato, assolutamente non
attendibile e assolutamente non scientifico (anche se in televisione
campioni ben più infimi e taroccati vengono considerati bocche
della verità e decidono delle sorti di persone) ci consegna molte e
variegate riflessioni.
I maestri che abbiamo considerato sono diversi tra loro
giacché non abbiamo tralasciato nessun campo, dal calcio
alla televisione, dalla letteratura alla musica. Tutto può essere
toccato e nulla è stato intoccabile. Le motivazioni sono state
le più svariate e abbiamo accettato quasi tutto. Alla fine
abbiamo deciso per comodità e per pigrizia di molti collaboratori
(compresi noi) di dedicare schede personali a pochi eletti e di
dire cosa non siamo e
non vogliamo. Perché
non vogliamo fare la
fine di chi non critica
i maestri: quella di
diventare cattivi allievi.
Ed eccola qui, la nostra
identità. Un necessario
saluto, un forzato addio
a chi ci ha spiegato chi
siamo. Ciao, Nietzsche;
grazie Dante; è stato un
piacere, Berlinguer, belle
canzonette, De Gregori.
«Abbasso i maestri».
Chiaramente, nel senso
di «abbattere».
Chi abbiamo criticato?
Naturalmente un’opera
di demolizione è tanto
più valida quanto più
colpisce
personaggi
intoccabili. Insomma, se nell’elenco non
troverete Adolf Hitler, non è perché non ci
siamo azzardati a metterlo in discussione,
ma perché riteniamo che sia già stato
abbondantemente redarguito per il suo
non proprio edificante magistero. Tutto
questo senza, però, evocare la gabbia
anagrafica
della
generazione,
che
servirebbe solo ad addomesticarci. Ci
siamo spesi tanto per non sentirci gregge,
non mi sembra il caso di cominciare nel
2005. Ma allora cosa siamo, se non una
generazione? Semplice. Siamo un progetto
complesso.
Demolire i propri maestri è come procurarsi
una ferita. Fa male. Perché i maestri sono
una parte di te. La stessa discussione
attorno agli idoli da abbattere ha sollevato
più di un dissapore. Ci siamo tirati addosso i
maestri, ci siamo gridati contro al sacrilegio!
Giù le mani dal mio maestro, che è stato
come dire: giù le mani da me. Perché
criticare quello in cui ci specchiavamo non
è stata impresa facile. È perché sarebbe
stato fin troppo facile fare l’incendiario coi
maestri degli altri. Comincia coi tuoi, se ci
riesci. Alla fine ci abbiamo provato.
Antonio
trattare tutti gli altri in questo calderone, pastone, pezzone che
ho avuto la sventura e l’avventura di scrivere (e all’interno del
quale non sono entrati i molti e con gli esclusi ci scusiamo).
Partiamo dalla musica e come il testone di Super classifica show
inizio con gli schiaffi in faccia alla vostra e alla mia coscienza.
Gettonatissimi nella classifica dei sopravvalutati sono quasi tutti
i cantautori italiani. C’è chi drasticamente ha stroncato tutta
la musica italiana (maledetta operetta!) c’è chi si è limitato a
indicare solo alcuni nomi: Francesco De Gregori, Franco Battiato,
Vinicio Capossela, Roberto Vecchioni e molti altri. Del principe
romano non parlo perché troverete una fenomenale opera di
demolizione firmata da Fabio. Quanto a Franco Battiato dagli
esordi di sperimentazione al cinema attuale, passando per i
fiori e le messe arcaiche, a molti sembra che il suo ruolo sia
profondamente cambiato e che Battiato (con il fido Sgalambro)
si sia trasformato in un santone un po’ troppo cervellotico. I
militanti di base non gli perdonano quella apparizione alla Festa
Tricolore di Alleanza Nazionale anche se il siciliano rispondendo
alle polemiche sul suo presunto schieramento da quella parte
disse in un’intervista “A me non interessa essere di destra o di
sinistra. Nella vita pubblica certe cose non puoi dirle. Anche
a me, quando guardo la televisione, capita di dare giudizi
piuttosto pungenti su personaggi che non mi piacciono: ma
questo resta nel privato”. Insomma, sul ponte sventola bandiera
bianca. Altro bersaglio della canzone italica è certamente
l’avvinazzato Vinicio Capossela. Idolatrato da una generazione
di beoni praticamente sconosciuto a una metà del cielo l’autore
del Ballo di San Vito si fa notare anche per la somiglianza
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“CICCIO” DEI PEZZI
DI VETRO
Criticare un maestro, per me,
significa criticare Francesco
De Gregori. Sì, proprio lui, il
mio cantautore preferito.
Uno di quelli che, con buoni
compagni come Nanni
Moretti, contribuisce in
modo decisivo ai successi
dei Berluscones. Funziona
così: uno che non segue la
politica lo sente parlare per
qualche minuto; poi chiede:
“ma questo è di sinistra?”; e
quindi vota inevitabilmente
Forza Italia. Sperando che
il Cavaliere, sorridendo, lo
mandi in esilio. Per carità,
Francesco si tenga pur
cari i suoi atteggiamenti,
snobisticamente puerili o
realisticamente misantropici
che si vogliano considerare.
Padronissimo di non volere
che si parli di lui. Ma abbia
almeno la decenza di ritirarsi
a vita privata, pubblicare i
suoi album (anche in versione
Live, come un Venditti
qualsiasi) e non propinarci
più quei concerti da Bob
Dylan de noantri. Ai quali
puntualmente andiamo,
fedeli e devoti, uscendone
con frasi tipo “è l’ultima volta
che mi frega”. Una cosa
è fare karaoke, neanche
fossimo al Festivalbar, un’altra
è impedire al pubblico di
cantare, mostrando fastidio
quando qualcuno tenta
di accennare il ritornello
della Donna cannone. O
rimproverare il pubblico
di Napoli che lo chiama
affettuosamente “Ciccio”.
Ammettiamolo, quelli di destra
sono più simpatici. Magari
meno colti, ma purtroppo
l’Italia è questa: e i voti di
“quelli che hanno letto un
milione di libri” valgono
quanto le preferenze di “quelli
che non sanno nemmeno
parlare”.
Fabio Biglondoner
vocale e compositiva con il ben più famoso Tom Waits.
Fallimentare (secondo quelli che se lo sono goduto) anche
l’esordio letterario. Solo autore (non dite paroliere altrimenti
si incazza) è Mogol che con la sua scuola è il vero maestro
della canzone italiana e tutti vanno in pellegrinaggio da lui
(compreso Sanremo) per cercare ispirazione. Tra i giovani
(???) musicisti “un po’ così e così” ma considerati enormi ho
sentito molte volte il nome di Sergio Cammariere (etichettato
come “loffione”), Marlene Kuntz (odiati soprattutto per i
mostri che hanno generato), Daniele Silvestri (con i suoi
atteggiamenti da comunista inviperito contro tutto e contro
tutti ma poi capace di andare a Sanremo con Salirò e un
ballerino), Nicola Conte (ma qui molti diranno “e maestro de
che”), Morgan e i Bluvertigo, i Subsonica. Non mi dilungo sul
tarantolato Giovanni Lindo Ferretti che da queste parti può
anche fare un ruttino e si urla al miracolo artistico e Francesco
Guccini che ci ha regalato una serie di perline colorate da
custodire gelosamente e varie versioni della stessa canzone,
quasi sempre tristissima. Non dimenticherò i pomeriggi di mio
fratello trascorsi ad ascoltare “Quando il mio ultimo giorno
verrà dopo il mio ultimo sguardo sul mondo, non voglio pietra
su questo mio corpo, perché pesante mi sembrerà”. Se
trovate Guccini e le sue osterie in questa lista prendetevela
con Bubu. Qualcuno ha bestemmiato arrivando a intaccare
la stella luminosissima di Vasco Rossi (anch’egli logorò le mie
orecchie). Ma io lascerei il blasco e mi concentrerei su chi ha
esordito o quasi inneggiando al cantante emiliano. Lorenzo
Cherubini, in arte Jovanotti, si è fatto notare prima come vj
e dj e con idioti canzonette poi come cantante maturo e
innovatore e infine come salvatore delle patrie e cancellatore
di debiti (che avrebbe tranquillamente cancellato solo con i
suoi vertiginosi cachet). E qui mi fermo con gli italiani anche
CHE PUFFONATA!
Nel 1958 Pierre Cuillford, detto
Peyo, ideò la tribù di piccole
creature azzurre che tante
generazioni hanno affascinato
e tanto inchiostro hanno fatto
sprecare a sociologi e fans.
Trasposizione della vita politica
staliniana: Grande puffo
uguale a Stalin, Quattrocchi
Trotskij e così via.
Manifesto propagandistico
dell’assunzione di
allucinogeni: i funghi bianchi
e rossi, il blu della loro
pelle come il colore che
più comunemente viene
percepito nelle allucinazioni
da LSD.
Utopia di una comune
gay: Sciccoso, Vanitoso,
Forzuto,Quattrocchi, Grande
Puffo, Jhon, Gargamella
e la sua gatta e tutti gli
altri sono degli stereotipi
dell’omosessualità; inoltre
non hanno donne all’infuori
di Puffetta, l’unico esemplare
femmina di Puffo creato
dalla magia del loro acerrimo
nemico. Particolare da
non trascurare: le creature
sono sprovviste di apparato
genitale, infatti, le loro tutine
non presentano rigonfiamenti
o altra manifestazione della
loro presenza.
La storia, le avventure, i
personaggi e il modo di vivere
dei fascinosi “ometti blu” sono
direttamente proporzionali
alla povertà e alla pochezza
del proprio vocabolario (in ciò
ricordano Simona Ventura):
incapaci di esprimersi, usano il
verbo “puffare” praticamente
per tutto. Decisamente
sopravvalutati!
Antonino De Blasi
perché dovrei citare tanti autori, cantautori e musicisti che
hanno venduto l’anima al dio commerciale della canzonetta
sole, cuore e amore (e non fatemi parlare).
Molto complicato (anche perché il campo sarebbe
sconfinato) buttare dalla torre gli artisti stranieri. E qui lo so
lettori che inizierete con quella espressione da “questi sono
pazzi e presuntuosi” a esclamare in coro NOOOOO. Io
riprendo e vi assicuro che da qui alla fine sarà una escalation
di sorprese. Partiamo con l’impensabile e l’inarrivabile.
Marcello stronca i Beatles. Detta così sembra impossibile e
invece un fondo di verità c’è. E tanto per non farci mancare
niente qualcuno ci ha infangato pure i Rolling Stones,
soprattutto gli ultimi considerati come vecchie cariatidi
con chitarre al collo. Le pietre rotolanti, che, lo sanno tutti,
prendono il nome dalla canzone di Bob Dylan (e chi si
permette di dire qualcosa contro Bob alzi la mano che diverrà
il nuovo Muzio Scevola), pagano la non immortalità per la
propria longevità. John Lennon, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Curt
Cobain, Bob Marley sono entrati nel mito e nella leggenda
grazie alle loro opere ma anche grazie alle loro morti (più o
meno cruente). È meglio essere sparato da un pazzo fanatico
che legge Il giovane Holden (sopravvaluto anch’esso) che
diventare un placido vecchietto che si atteggia a giovane
rockettaro? E vuoi mettere una bella morte suicida (in Italia
purtroppo è toccato a Luigi Tenco) con una placida fine in
casa di riposo? Elvis Presley (quello che rubava ai neri per
dare ai bianchi) è morto gonfio di molte cose e soprattutto
pieno del suo successo tanto straordinario quanto costruito
da chi ha intravisto in lui la possibilità di vivere alla grande.
Tra i morti sopravvalutati secondo il nostro Gianpiero c’è
anche Jeff Buckley (al quale, lo ricordo, abbiamo dedicato
la copertina di ottobre e una manifestazione con concerto
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A FETTE I BARONETTI
È arduo etichettare come
sopravvalutati i Beatles,
soprattutto per chi, come me,
è invaghito della loro musica;
ma trovo che non abbiano
inventato niente, e che
arrivassero sempre in ritardo
alle innovazioni tecniche e
musicali: non hanno inventato
il feedback con I Feel Fine e
non sono stati i primi ad usare
il sitar (ci avevano già pensato
gli Yardbirds); le
loro armonie vocali
erano mutuate
dalle Shirelles e
dai Beach Boys,
eppure oggi si
parla di “coretto
a la Beatles” e
non di “coretto a
la Shirelles”; prima
di Helter Skelter,
già i Troggs o i più
celebri Cream
avevano lanciato
dei segnali ai futuri
gruppi heavy-metal; i timidi
approcci alla forma della
suite di Abbey Road erano
poca cosa se confrontati
con quanto già realizzato
da gente come Frank
Zappa o i Pink Floyd. Però
della portata rivoluzionaria
della musica degli anni
Sessanta probabilmente
ci sarebbe poca traccia
oggi, se non fosse stato per
la loro abilità di edulcorare
ogni novità adattandola
alla forma della canzone,
rendendola tollerabile anche
a quella middle class cui
faceva paura sia la schiera
di sudati rocker neri degli
anni Cinquanta sia gli artisti
che erano espressione della
contestazione studentesca.
Si può discutere di quanto
ciò possa essere un merito,
di quanto poi questo merito
sia da attribuire ai quattro
Baronetti anziché al manager
Epstein o al produttore
George Martin, ma non si
discute la magica alchimia
che fa sì che, dopo tanti anni,
i quattro ‘sopravvalutati’ di
Liverpool continuino ad essere
il mio gruppo preferito.
Marcello Zappatore
per i dieci anni di Grace) che con un solo album alle spalle è
entrato nell’alveo degli intoccabili. Impossibile sfiorare anche
Freddy Mercury e i Queen. D’altronde il cantante del gruppo
inglese si è trasformato nei primi anni ’90 nel testimonial più
efficace della lotta all’Aids con il cestista del Dream Team
statunitense Magic Johnson (se dite qualcosa contro di lui vi
schiaccio in faccia). Quasi tutti mi hanno nominato anche
con la faccia disgustata i Dire Straits, qualcuno ha toccato
i Pink Floyd e moltissimi sono stati concordi nell’affermare la
propria negazione totale ai Genesis. Per non parlare delle
facce viste in giro toccando il discorso progressive. Degni di
sopravvalutazione anche U2 (ci ha pensato per noi Davide),
Nora Jones (secondo molti soporifera se non mortale), Oasis,
Blur, Sonic Youth, Clash, Nick Cave, Pink Floyd, Depeche
Mode, Rem (con gli ultimi album e soprattutto gli ultimi
considerati tremendi) e molti molti altri (e mi scuso con quelli
che non sono stati nominati). Parlando di Michael Stipe e
compagni entro dritto in un tema molto caro agli italiani. I
sopravvalutati molto spesso diventano beniamini del pubblico
grazie alla propria faziosità politica. Qui pericolosamente
mi addentro in un altro motivo portante di questa spietata
analisi. Il mito viene alimentato dal pubblico, dalle idee, dalle
ideologie, dalla strada, dalla piazza, dai cortei. Pensare che
Caro lettore, voglio
fare un esempio
banale della differenza
tra la secca linearità
di chi ha qualcosa da
dire e chi si contorce
dandosi arie da intellettuale
senza titolo. In Schindler’s List
di Spielberg, a un certo punto,
Oskar Schindler (“gli piacciono
le donne. Gli piacciono tutte
le donne di bell’aspetto”,
dice di lui un ufficiale tedesco
che cerca di giustificarlo)
riceve la visita della moglie
nella città polacca in cui
vive. Passa un giorno o forse
più, e i due parlano a letto
prima di addormentarsi. Lei
lo guarda e gli dice “Oskar,
dimmi solo una parola, e
io rimango qui”. Alla scena
seguente si vede la moglie
alla stazione, che parte.
Oskar: un grande. Spielberg:
un grande. Ecco una finezza
che non ha neanche
bisogno delle parole, tanto
è secca, essenziale. Ecco
una finezza a cui uno come
Nanni Moretti non arriverà
mai, e non si vede neanche
come mai potrebbe visto
che fa film in cui si vedono
famiglie meravigliose e
inesistenti senza cellulare
senza litigi senza protagonismi
senza squilibri senza amanti
senza ufficio senza parenti
senza una figlia che voglia
fare la velina o almeno la
giornalista di punta senza
rivolte adolescenziali senza
un cazzo di problema che
sia uno e poi il figlio muore e
tutti piangono come quando
c’era un film di Mario Merola
il cui sottotitolo era “Io stongo
carcerato e mamma more”.
Tutti piangono e si scaricano
e sono felici, che bello.
Sinceramente, il sospetto
che quelli che espongono i
film di Moretti sul tavolo del
DVD in realtà abbiano da
qualche parte Terminator e
Natale in India (tanto il livello
di approfondimento è uguale)
è troppo forte; solo che non lo
confessano mai, i bastardi.
Marcello Aprile
il regista del Maurizio Costanzo Show sia colui che cantava
“Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce e
portate il martello / scendete giù in piazza e picchiate con
quello / scendete giù in piazza e affossate il sistema” provoca
scompensi ormonali e svenimenti ripetuti. Eppure Paolo
Pietrangeli, maestro per quella generazione sessantottina
(pre e post) che cantava oltre a Contessa anche Karl
Marx Strasse e Mio caro padrone domani ti sparo ha solo
continuato e proseguito il suo lavoro di regista. Niente di male
(???). Comunque tornando alla politica i Rem sono stati tra i
promotori della campagna anti Bush che da un punto di vista
cinematografico è stata guidata invece da Michael Moore
che in un paio di anni si è trasformato nel megafono della
sinistra (???) americana e, di riflesso, mondiale. La vittoria a
Cannes con un documentario contro il presidente è stata
ritenuta da molti scandalosa. E sempre a Cannes è maturata
la beatificazione cinematografica di un altro idolo della sinistra
(soprattutto italiana). Nanni Moretti è passato di generazione
in generazione ma le frasi dei suoi film sono diventate icone di
molti sinistrorsi. Moretti è considerato (secondo i miscredenti)
più come attore sociale e politico che come vero regista.
E adesso si appresta a scrivere un lungometraggio contro il
premier Berlusconi. Da Moore a Mo(o)retti il passo è breve.
continua
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Prima di sproloquiare su quello
che nella mia adolescenza
ha rappresentato un punto
di riferimento, faccio partire il
cd di “Boy” e con le prime
note di ‘I will follow’ mi
dico: “Toh!, mi ricorda qu
alcosa...mhm..assomiglia
a Vertigo!!?!” e raggiungo
l’assunto (apocalittico per
la mia psiche di fan) che
il gruppo di cui solo 15
anni fa avevo la massima
stima in realtà ha talmente
riciclato tutto il possibile
riciclabile alla portata delle
sue possibilità cognitive
(riuscendo comunque
a creare un suo stile) da
essere ormai costretto a
riciclare se stesso!
Affranto mi rendo conto
che forse è giunto il
momento di riunire in
una colletta globale tutti i
fans sparsi nel mondo del
planetario rappresentante
del rock made in Ireland per
una raccolta fondi senza
precedenti grazie alla quale
consentire un restyling, almeno
di ‘facciata’, alla dignità di
un gruppo che resta, credo!,
comunque importante nella
storia della musica del rock
...popolare.
I fondi saranno raccolti e gestiti
dal “Fans of disappeared”
Foundation e serviranno
soprattutto al leader
carismatico del gruppo, Paul
Hewson (aka Bono Vox),
per l’acquisto di caramelle
balsamiche, con cui restituirgli
almeno
in parte
la voce,
e per
l’acquisto
di una
fornitura di
libri, opere
creative
e idee
politiche
grazie
alle quali
risvegliare
quella
che una
volta era
la vena,
seppur
riciclatoria,
ma creativa del signor Hewson.
I fondi finanziari necessari
saranno immensi e
richiederanno grandi rinunce
a tutti i fans in quanto
si dovranno sostenere
anche lunghissime sedute
psicanalitiche per il leader Vox.
I trattamenti serviranno a far
comprendere a messer Bono
che Gesù Cristo non è risorto il
10 maggio del 1960 a Dublino
grazie a papà “SanGiuseppe”
Bobby Hewson e a sua moglie
“madonna” Iris.
Infine, se avanzeranno risorse
finanziarie, la mia proposta
è di investire in un gruppo di
consulenti finanziari ad hoc,
grazie ai quali Bono, TheEdge,
Larry Muller e Adam Clayton
forse potranno dormire sonni
più tranquilli sul loro futuro
economico e non saranno
costretti a sfornare da qualsiasi
orifizio utile degli insignificanti
concentrati di pseudocanzonette spagnoleggianti.
Detto ciò a fini di buon
auspicio faccio partire “The
Unforgettable fire”, sperando
che “The Joshua tree” non
diventi “The Judas tree”.
Davide Castrignanò
Qualcosa da ridire anche
contro la schiera dei comiciattori che ad un certo punto
della carriera abbandonano il
ruolo di “buffone di corte” per
entrare nell’alveo dei poeti.
Così Roberto Benigni (quello
del mitico Inno del Corpo
Sciolto) dopo capolavori di
comicità (quasi sempre) si è
ritagliato con La vita è bella e
Pinocchio un ruolo di cantore
delle coscienze italiche.
Eppure il suo travestimento
da piccolo burattino è stato
quasi imbarazzante e la sua
Divina Commedia in tv è stata
didascalica in alcuni punti ed
eccessivamente
comica in altri
(grandiosità
dicono alcuni
– du palle
rispondono gli
altri). Lontani
i tempi in cui
prendeva
in braccio
Berlinguer e
sfotteva il Papa. Negli ultimi
anni ha raccolto sicuramente
più di quanto meritasse. La
trasformista Sabina Guzzanti
ha preso una deriva populista
che a molti non piace.
Decisamente meglio e più
geniale il fratello Corrado. E
come comico non dispiace
neanche il padre Paolo.
Non ci soffermiamo anche in
questo caso sui comici (che
fanno ridere solo perché il
comico deve fare ridere).
Abbandoniamo la politica
(o la comicità) e rituffiamoci
nel cinema. Il più votato nel
nostro misero sondaggio (e
qui abbiamo difficoltà ma
ascriviamo il giovane regista
nel club dei maestri) è Gabriele
Muccino che dopo L’ultimo
bacio è diventato la coscienza
critica della generazione dei
trentenni insoddisfatti e sfigati
con problemi di impotenza o
di erotomania. Secondo alcuni
le sue pellicole sono pugni
nello stomaco al perbenismo
dell’italietta da seconda
repubblica secondo molti
altri i suoi film sono girati
all’americana ma le sue
storie sono assolutamente
banali e inutili. Un altro
“maestro” un po’ troppo
osannato è l’italoturco
Ferzan Ozpetek che ha
fatto delle tematiche
omosessuali il suo cavallo
di battaglia. La Finestra di
fronte, però, è veramente
un polpettone insipido con
velleità da capolavoro
(mentre scrivo è in uscita il
nuovo film, vedremo). Eroe
comune di alcuni episodi
dei due registi è l’ex prete
dei gelati Stefano Accorsi
abbastanza sopravvalutato
perché ha poche facce e
troppi sorrisi. Ma sugli attori
sorvoliamo perché in molti
casi bisognerebbe offendere
direttamente le capacità
espressive di ciocchi di legno
spacciati per attori e teatranti.
Giacché il germe della
sopravvalutazione
nei campi in cui
anche l’occhio
vuole la sua parte
è sempre pronto
ad insinuarsi nei
cervelli più enormi
e funzionanti. Tra
gli altri registi un
po’ per antipatia,
un po’ per i
film sono stati
segnalati Woody
Allen, Sophia
Coppola, che
secondo molti
gode del nome
del padre, le ultime uscite
cinematografiche del maestro
Michelangelo Antonioni
oppure lo scandinavo Las Von
Trier che in alcuni momenti
è veramente irritante per la
sua saccenza. La scandinavia
portò fortuna all’italiano
Dario Fo che nel 1997 volò
in Svezia per ritirare il Premio
Nobel per la Letteratura che
sembrò (anche ad alcuni suoi
fan) troppo grande per un
giullare come lui. Tralasciando
le accuse di essere stato un
repubblichino negli ultimi
spettacoli (l’età passa per tutti)
Fo e Franca Rame sembrano
più Raimondo e Sandra in
Casa Vianello con che noia,
che barba. Ci spostiamo
nel campo della letteratura
che è, secondo il collettivo
redazionale, il più difficile da
affrontare. Un film lo sopporti,
una canzone la ascolti (anche
per caso), la
televisione prima
o poi ti capita
sotto gli occhi
ma un libro lo
scegli, lo annusi,
lo divori o lo odi,
lo ami o lo butti
nel cesso e non
c’è nessuno
che ti obbliga
e ti costringe
a prendere
quell’autore in
mano. Il discorso
va bene per
tutto ma con la letteratura
funziona particolarmente.
Chiunque avrebbe potuto
segnalare gli autori studiati
a scuola ma come fai a dire
che Dante era sopravvalutato
(anche se è bene sapere che
nella Divina Commedia entra
molta tradizione medievale
e non solo la sua inventiva),
oppure che Manzoni ha
scritto per quarant’anni lo
stesso romanzo mentre in
Russia e in Francia venivano
prodotti dei capolavori assoluti,
oppure che D’Annunzio era
un trombone? Infatti i nostri
cari amici non lo hanno
fatto e ci hanno segnalato
soprattutto due autori italiani
contemporanei (molto fighi
e molto televisivi): Andrea
continua
6
.it
CoolClub
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SUA MAESTA’ LA SOLIDARIETA’
È la nuova grande
«indulgenza» dell’uomo
occidentale. È il settimo
potere (dopo quello
legislativo, esecutivo,
giudiziario, dopo il giornalismo,
la televisione, la pubblicità),
la grande truffa ai danni
dei paesi in via di sviluppo,
il grande business. Il
volontariato, la solidarietà,
l’elemosina: purificano
la coscienza dell’uomo
occidentale; generando
sensi di colpa verso chi non
è solidale, spostano i termini
dei grandi problemi che
riguardano la forbice ricchipoveri dalla necessità di
interrompere lo sfruttamento
di Stati e multinazionali alla
creazione di una grande ed
effimera rete di solidarietà.
Ci convincono quindi che
sono i singoli cittadini, e non
gli Stati, a dovere intervenire.
Che gli sforzi encomiabili
di Medici senza frontiere
e delle altre ong sono
l’unico modo per trarre quei
Paesi fuori dal guado. Chi
è solidale non crede più
nello Stato e nella possibilità
che possa farsi carico dei
problemi legati a sviluppo
e povertà. Ho creduto nella
solidarietà finché non l’ho
vista corrompersi, diventare
elemosina e non avere più
niente a che vedere col
sentimento di fratellanza
dalla quale era nata. Ci
stiamo purificando nello
Tsunami. I popoli dell’est
asiatico ci saranno grati per
lungo tempo, ed è certo
che sapremo trarre profitto
dalla loro gratitudine. La
ricostruzione - in Iraq come
in Indonesia - è l’ideale, per
l’uomo solidale. «Stiamo
costruendo qualcosa per
voi», fanno sapere gli uomini
della solidarietà. Macché.
L’imperialismo, direbbe
Lenin, resta ancora la fase
suprema del capitalismo. E il
carburante della solidarietà
resta la cattiva coscienza
occidentale.
Antonio
De Carlo (due di due, di noi tre e prossimamente Quattro per
quattro) e Alessandro Baricco (Seta, City, Sety, Cita). Molte
preferenze anche per Isabelle Allende (de mienzu) con un
cognome troppo pesante per la leggerezza dei suoi scritti, Paulo
Coehlo e gran parte della letteratura sudamericana che c’è
sempre qualcosa di magico nella vita di ognuno di noi. Udite
udite una pazza scriteriata mi ha citato anche la Susanna Tamaro
(ti prego tienimi stretta al cuore tutta la notte). Tra i giovani
forse troppo considerati guru Giuseppe Culicchia (quello di Tutti
giù per terra), Enrico Brizzi (che mi sa è già uscito dal gruppo,
degli scrittori), Paolo Nori (quello che scrive come mangia,
non mangia tanto bene e quando mangia si sporca). Metto la
parola fine alla scrittura e passo con disinvoltura allo sport e in
particolare al calcio. Sopravvalutiamo senza problemi Alex Del
Piero, dalle polemiche sul doping e dall’infortunio il Pinturicchio
si è trasformato in un imbianchino, è da anni un campione da
ritrovare, e Antonio Cassano, uno dei massimi sopravvalutati della
storia del calcio. Settanta miliardi (nel 2001) per un ragazzo di 18
anni sembravano troppi. Il campioncino ha fatto vedere molte
cose e molte cassanate ma il calcio con queste cifre rischiava il
collasso e infatti è collassato. Senza parlare delle braccia tese di
Paolo Di Canio e delle rapine di Pippo Inzaghi. Tra gli allenatori
nello scorso decennio è stato sopravvalutato Arrigo Sacchi, che
avrà anche rivoluzionato il calcio ma lo ha fatto con Gullit e
Van Basten e con la nazionale è arrivato secondo ai mondiali
facendo il catenaccio, mentre tra gli attuali tecnici sembra
sovrastimato Roberto Mancini. Bacchettata sulla mano anche per
il pluricampione del mondo di Formula 1 Michael Schumacher: è
in Italia da una vita prima o poi imparerà una parola della nostra
bella lingua? Lo spazio è poco e i maestri tanti quindi passo
subito alla televisione dove spiccano in classifica i nomi di Simona
Ventura (tanto brava quanto povera nel vocabolario), Antonio
Ricci ed Ezio Greggio (ma andiamo andiamo), Fabio Fazio (se
è l’unica cosa di sinistra della tv italiana stiamo freschi) e molti
martiri della destra. Tra le schede troverete anche la solidarietà e,
Entrare nella storia della
musica con poco più di
un album all’attivo. Ad
essere cinici verrebbe da
dire: baciato dalla fortuna
nonostante la disgrazia.
Perché la morte deve
aver contribuito non poco
al processo di beatificazione
che rende sacri e intoccabili
agli occhi dei fan (e non solo).
Ma è davvero così capitale
l’opera di Jeff Buckley per la
storia del rock? Un ep e un
album, quel Grace benedetto
dai più come imprescindibile
opera degli anni ’90, se
vogliamo escludere tutta la
pletora di uscite postume
(spesso di rara bruttezza),
outtakes, registrazioni sparse,
live in ogni buco di culo del
mondo, in una “festosa” corsa
CON GRAZIA,
VOSTRO jeff
alla speculazione sulla pelle
del caro estinto. Quello di
Buckley è un cantautoratofolk a tratti sinfonico che
affonda le radici nei classici
dell’America fondendosi in
più di un’occasione con il
gospel e supportato da una
band dalle doti tecniche
non indifferenti. Le canzoni
di Grace vorrebbero però
avere un ampio respiro, ma
sono frenate dalle trame
sonore barocche dell’autore
che perdono spesso il
senso dell’orientamento,
smarrendosi in arzigogoli
che le rendono involute.
Francamente ricordiamo
con piacere solo Grace e il
lamento doloroso di So real.
Infine la voce, a cui Buckley
dà molto rilievo nell’economia
del pezzo, sebbene più
cristallina ricalca in maniera
alquanto evidente lo stile del
padre Tim, uno che forse, i
facili santificatori dovrebbero
riscoprire. Uno che sapeva
scrivere canzoni e che ha
scritto una pagina di storia
della musica.
Gianpiero Chionna
anche se molti si scandalizzeranno, tra i sopravvalutati dobbiamo
aggiungere anche alcuni esponenti religiosi. Non mi dilungo sui
santoni e sui curatori vado dritto versi i santi. In tema di solidarietà
ci è stato fatto il nome di Madre Teresa di Calcutta (beata a
tempo di record). Il giornalista Christopher Hitchens (anche nel
libro “La posizione del missionario”) racconta le contraddizioni
della suora e la sua scalata alla santità. E a proposito di nuovi
santi spendiamo una parola nei confronti dell’attuale pontefice
Papa Giovanni Paolo II (per il quale una scheda non basterebbe)
che ha fatto più santi e beati della precedente storia cattolica.
Santo da fiction e da merchandising è San Padre Pio da
Pietrelcina. Non ho nulla contro di lui (semmai era la chiesa che
ne pensava male prima di adottarlo) ma contro chi ha speculato
sulla sua figura. Stessa operazione provata a Copertino dove
però San Giuseppe non ha spiccato il volo. Dai santi veri torniamo
rapidamente ai santi della politica: ai nostri amici sembrano
sopravvalutati John Kennedy (che in fondo avviò la guerra
in Vietman e si intrattenne simpaticamente con la Monroe),
soprattutto perché idolatrato dalla sinistra che non c’è (tutta
sopravvalutata), e (ma non per colpa sua) Ernesto Che Guevara.
Partendo dall’argentino cubano l’ultima considerazione, quella
finale lo giuro a tutti, è proprio sulla ricaduta che i maestri hanno
sulla società. Non è sempre colpa loro se salgono in cattedra.
Non sempre è merito loro se diventano facce sulle magliette.
Insomma ognuno ha il maestro che si merita e quando ci si rende
conto che il maestro è un uomo o una donna come noi allora
iniziamo a criticarlo e a distruggerlo. Forse oggi ci siamo accorti
che quei maestri (in tutte le discipline) sono corrotti e corruttori
come la maggior parte di noi, che le nostre facce potrebbero
essere tranquillamente issate su bandiere o su felpe, che le nostre
parole e le nostre azioni sono pericolose come le loro. Dare
contro i maestri è un po’ darsi addosso. Insomma I sopravvalutati
siamo anche noi di CoolClub e le nostre firme. Insomma abbasso
i maestri e abbasso noi.
Pierpaolo
CoolClub
.it
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Disincanto
Ginevra Di Marco
On the Road
music factory
2005
di Francesco
Lefons
Deliranti analisi di
costruzioni moderne
Violle
Made in Globe
2004
di Osvaldo
libro del mese
secret
T.C.The
Boyle
migration
Mercury
rev
Doctor
Sex
V2 - 2004
Einaudi
Cogliere il continuo fluire delle cose, racchiuse in immagini, suoni e pensieri in
continua evoluzione, senza mai fermare il fervore della scoperta. La coscienza di non
sentirsi mai arrivati per avere la forza di ripartire da zero e rinascere ogni volta con
occhi nuovi e vogliosi per andare al di là del comune e rassicurante vedere.
Sembra che Ginevra Di Marco con Disincanto, l’ultimo splendido lavoro, voglia
lasciarsi cantare, rinascere con e nella musica, ribadire la bellezza di attingere da
più verità, con la sana freschezza di arrangiamenti fluidi e calorosi, espressione
pura di sensazioni e immagini che la Di Marco disegna con la voce. Disincanto,
che esce a cinque anni di distanza dall’ultimo lavoro Trama Tenue, risulta un buon
lavoro soprattutto perché appare un disco genuino, pura espressione, che segna
la maturazione di un’artista che sa emozionarsi, accompagnata da una sapienza
musicale, “disincantata”, libera da schemi melodici e compositivi troppo soffocanti
(il disco continua il sodalizio artistico con Max Gazzè).
Disincanto è, insomma, un disco che sa prenderti per mano e portarti a spasso, un
disco che di sicuro non lascia indifferenti e questo è il miglior complimento che si
possa fare a un’artista.
I Violle sono un pezzo di storia del salento rock. Da sempre poco inclini alle
definizioni e alle mode, i tre portano avanti da sempre un discorso assolutamente
personale. A voler scavare meticolosi qualche riferimento lo si trova pure ma
svanisce presto abbattuto da una dicotomia interna al gruppo, una precisa
ripartizione che sembra fargli intraprendere due strade che deviano e si
ricongiungono all’interno di questo Deliranti analisi di costruzioni moderne. Da un
lato la musica, dall’altra, le liriche. Unire parole con un peso specifico, per lo più in
italiano, a strutture musicali violentemente rock è un’operazione ad alto rischio. In
prima battuta per il rischio di apparire derivativi, in seconda e consequenziale per
la facilità con cui si può sembrare banali. In questo Violle sono abili ad aggirare
l’ostacolo, mantenendo musica e voce su piani collimanti ma mai perfettamente
coincidenti. Questo mette in evidenza trame strumentali a tratti noise, a tratti math,
a tratti psichedeliche dall’impatto potente e monolitico che creano tempesta
intorno a una voce che è libera espressione del sentire e quasi mai linea vocale
fine a se stessa. Molto carino infine il particolarissimo packaging con le splendide
foto dell’artista Franco G. Livera.
Era dal 2001 che aspettavamo un nuovo disco dei Mercury Rev. Donahue e soci ci
avevano lasciato con All is dream, sbalorditiva e orchestrale consacrazione di questa
band che già con album come Deserter’s songs e il precedente Boces si erano
candidati al titolo di nuovi pionieri della psichedelia. Oggi arriva The secret migration,
nuovo capitolo, nuovo viaggio musicale. Il territorio musicale dei Mercury Rev è un
caleidoscopio psichedelico in cui ormai da anni si muovono con estrema scioltezza
riuscendo album dopo album a descriverne nuovi colori e sfumature. Ogni loro album
è un piccolo evento per chi di musica si nutre. I più entusiasti sostengono addirittura
che i Mercury Rev hanno cominciato lì dove i Pink Floyd si sono fermati. Questo nuovo
album non tradisce assolutamente le aspettative di chi li ha sempre amati. Onirico
anche questo The secret migration nasconde perle di una bellezza talmente esotica
da non essere terrena. Sempre più su se è possibile, con un disco che più che una
“migrazione” sembra un’ascesi. La voce tagliente di Donahue sottile e sognante
funge quasi sempre da introduzione ad aperture che tra orchestrazioni, riverberoni
ed estreme dilatazioni riempiono tutto lo spazio disponibile e a volerla sbucciare,
una volta matura, ogni loro canzone è una continua sorpresa, una matrioska di note.
Sembra possiedano sempre la chiave per aprire porte che custodiscono il segreto
per una canzone perfetta (secret for a song brano di apertura del disco). Bellissimo il
ponte di Across Yer Ocean che cadenzata e armoniosa ci prepara a Diamonds che
con tanto di campane e marcetta intreccia carion, moog a una bellissima melodia
vocale. E più in là della romanticissima Black Forest (Loreley) le trame si infittiscono e
il ritmo aumenta con la bellissima doppietta Vermillion e In the Wilderness. In a Funny
Way sembra prendere in prestito l’attacco da Be my baby per continuare sul filo dei
sessanta. My love gronda sentimento sorretta da un piano e un arpeggio struggenti.
La corale Moving on prepara l’atterraggio che arriva morbido con Down poured
the heavens. Alla fine l’impressione è quella di un volo, magari sulle ali della farfalla
che campeggia in copertina. La bellezza di questo disco è arricchita anche dalla
produzione certosina di Dave Friedmann, tastierista della band. Una cosa è certa: i
Mercury Rev sono unici nel loro modo di fare musica, si potrebbe accusare di essere
un po’ eccessivi, barocchi forse nell’imbastire le loro trame ma alla fine di ogni loro
disco non cambieresti una singola nota, non vorresti finisse mai come il più bel sogno
che puoi fare, di quelli che sai non si avvereranno mai.
Osvaldo
8
CoolClub
.it
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
Strikes like lightning
Hellacopters
Universal
Solo sei brani ma
abbastanza per dimostrare
a tutti di saper maneggiare
il rock and roll con la
padronanza e l’esperienza
di chi sa mescolare hard
rock, punk e garage
creando un suono
riconoscibile che fa degli
svedesi una delle migliori
band sulla scena.
All Harm ends here
Early day miners
Talitres / Wide
Un disco dalle tinte cupe
e intimiste, dal vago
sapore anni 80, avvolge e
coinvolge questo All Harm
ends here che conferma
Dan Burton come uno dei
nuovi decadenti della
musica. Questo disco vi
porterà verso atmosfere
slo-core a tratti post e a
tratti folk.
Togheter we’re
heavy
Polyphonic spree
Hollywood – 2004
di Rakelman
Pressure Chief
Cake
Columbia – 2004
di Rakelman
Emoh
Lou Barlow
Domino - 2004
di Osvaldo
How To
Dismantle An
Atomic Bomb
U2
Universal – 2004
di Fabio Striani
9
I’m
Wide
Awake,
It’s
morning/Digital Ash in a
digital Um
Bright Eyes
Saddle Creek/ Wide
Due dischi usciti
contemporaneamente
sul mercato che hanno
conquistato primo e
secondo posto nelle
classifiche di Billboards. Pop
ispirato e supportato da
amici importanti per questi
due dischi carini come il bel
visino di Conor Oberst.
Silent Alarm
Bloc Party
Wichita
I Bloc Party sembrano aver
assorbito ed elaborato
il tema musicale di
band come i Gang of
Four. Compatti, potenti,
spingono forte riuscendo
a sperimentare soluzioni
diverse con cambi
repentini, incursioni noise,
stacchi e stop and go. La
produzione di Rich Costey
è un sigillo di garanzia.
Un arpeggio celestiale rotto da un’interferenza elettrica subito seguita da una
dolce melodia eseguita al piano e da una voce delicata ci introducono in questo
secondo splendido viaggio psichedelico dell’ensemble di Dallas, a metà tra il
cast di Jesus Christ Superstar e un coro battista (con tanto di camicioni), che
merita decisamente una posizione “celestiale” tra gli album più belli del 2004-2005.
Gioia di vivere e (attento Gianni) ottimismo sembrano essere le parole chiave
per entrare in quest’opera. Questi del gruppo, dietro l’aria da sempliciotti ancora
rivolti ai tempi della generazione chimica (fatto innegabile), ci propongono un
sound del tutto nuovo per i nostri tempi: cornamuse, trombe, arpe, fischietti, zufoli
e tutto quanto fa parte di un buon corredo musicale bucolico (coretti compresi) si
mescolano a frammenti di elettronica e ad un linguaggio decisamente indie per
generare un frullato di energia assolutamente affascinante. In questo viaggio tra
i suoni, impossibile scegliere quale “capitolo” musicale è più meritevole degli altri;
bisogna rilassarsi e lasciarsi andare, seguire il racconto e viverlo come un viaggio
del sole. Imperdibile il ricchissimo e coloratissimo sito ufficiale: www.thepolyphonics
pree.com
Quinto album per la band di Sacramento capitanata da John McCrea, questo Pressure
chief convince solo a metà, soprattutto se paragonato al suo predecessore, Comfort
eagle (2001). Qui, infatti, di nuovo c’è ben poco rispetto al passato; nonostante la
qualità compositiva del gruppo sia sempre sopra la media, quello che manca è un
pezzo (o più d’uno) che realmente “spacchi”, emerga, piaccia un ciccinin in più del
normale. Sonorità tipicamente “iu.es.ei”, che sanno d’oceano e di deserto (End of the
movie su tutte) accompagnano atmosfere che oscillano tra la malinconia romantica e
la gioia contenuta. Il resto è pop rock “gentile”, facilmente digeribile, involontariamente
lo-fi (almeno a quanto dicono loro stessi, con modestia più o meno falsa), condito con
una moderata spruzzata di rumorini elettronici alla Grandaddy (Waiting). Si segnalano
comunque Wheel, perfetta filastrocca rock con ritornello appiccicoso, No phone,
l’orecchiabilissimo singolo, e Take it all away, forse il pezzo forte su tutti. Guitar man è la
cover dei Bread. Sito ufficiale: www.cakemusic.com
Per chi non lo conosce Lou Barlow è uno che di cose ne ha fatte. Prima di tutto con i
Dinosaur Junior, poi con i Sebadoh, poi con folk implosion, sempre alla ricerca del suono
imperfetto, sempre manipolando la bassa fedeltà con maestria confezionando canzoni
agrodolci di una bellezza a metà tra pop e indie. Il suo debutto solista ci offre il lato
più intimista di questo indiscusso talento il cui merito confermato in questa manciata di
brani è quello di non essere mai banale nell’esprimersi nel modo più semplice e diretto
possibile. Il minimalismo a cui ci aveva abituato con i Folk Implosion diventa in questo
Emoh più raffinato, affidandosi ad arrangiamenti di archi, pianoforte e a strutture in cui
una chitarra acustica e una voce, bellissima e malinconicamente romantica, dipingono
atmosfere che niente hanno a che vedere con le mode del momento. Pur rimanendo
legato al suo stile inconfondibile Lou si permette alcune svisate più classiche, ammiccanti
il folk americano, il country per certi versi. Sicuramente non è tra le cose migliori partorite
in casa Barlow ma almeno due o tre episodi sono canzoni che tutti dovremmo ascoltare.
Il nuovo disco degli U2 suona molto rock anni ’80, dopo le esperienze più orientate verso
l’elettronica e il facile ascolto degli scorsi anni. Piacerà a chi ha ascoltato prove come
War, o The Unforgettable Fire, o The Joshua Tree, esperienze felici per un gruppo che,
dopo oltre vent’anni di carriera, è ai vertici delle classifiche di vendita . How To Dismantle
an atomic bomb sembra essere molto vicino ai temi di Unforgettable Fire, che provava
a raccontare gli effetti di una bomba atomica e i rischi di un’ulteriore guerra planetaria.
Il disco esprime già nel titolo l’intento di fornire una guida, quanto mai desiderabile per
chi (v. Stati Uniti) si trova ad essere disorientato. Le canzoni scelte per una maggiore
diffusione sono state finora Vertigo (singolo in cui “anche se l’anima non si vende, la
mente può vagare”) e Sometimes you can’t make it on your own, dedicata al padre
recentemente scomparso. Maestri che hanno ancora molto da imparare, questi U2:
take this heart, and make it break, questo disco si chiude così.
CoolClub
.it

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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
10
Call my name
Joe bataan
Vampi soul\
Goodfellas – 2005
di Postman Ultrachic
Italian bossanova
extravaganza
Filati pregiati
(m.o.d.a fashion )
di Luca
Italian playboys
Link quartet
Record kids 2004
di P.U.
Tekitoi
Rachid taha
Aniversal rec.
di Postman Ultrachic
Avere tra le mani questo autentico gioiello, due mesi prima della sua uscita ufficiale, mi
commuove spudoratamente. La Vampi soul inizia il 2005 nel migliore dei modi possibili,
con una produzione tutta propria (dopo un po’ di anni incentrati esclusivamente
sulla ricerca di materiale oscuro finito in naftalina), riuscendo a catturare il nome più
importante della scena latin soul funk mondiale. Di origine afrofilippina, Joe Bataan, dopo
20 anni di assenza, mette in piedi un album entusiasmante grazie anche all’apporto del
produttore e arrangiatore Daniel Callas. Call my name è un disco pieno di calore, una
vertigine di suoni latini, sapientemente miscelati con r&b, soul, funk, jazz. Il disco inizia con
il brano che dà il titolo al cd, un incontro tra Steve Wonder di Superstition, alcune partiture
vocali di Jimmy castor bunch e la sensibilità esotica di Joe Bataan. Chick a boom è un
pezzo pieno di pulsazioni funkstreets acide, con una carica micidiale, dove i riff chitarristici
vengono incastrati divinamente in una base ritmica irresistibile: ideale per qualsiasi
dancefloor. Disco consigliatissimo.
Filati Pregiati, elegantissima
e morbidissima selezione
curata da dj Robert
Passera, assembla con
un gusto sopraffino e una
pungente dolcezza le
migliori produzioni uscite
negli ultimi tre anni in
chiave bossanova lounge:
ideale per muovere 4
passi sulla moquette o
per accompagnare nuovi
gracili orgasmi. Molti i nomi
da tenere sottocchio da
Paul Derrek a Dynamic 4
sino a nomi già consolidati
come Montefiori Cocktail
o il vulcanico Sam Paglia
(qui presente con Room
26, una cover di Lalo
Schifrin; un pezzo super
lounge strappalacrime). A
proposito Sam, particolare
attenzione meritano due
ep usciti per la Cinedelic
records, a tiratura limitata
(500 copie). Il primo
Stripped girl è proprio
dell’hammondista, un
lavoro, reso più avvincente
dalla presenza di un
remix (versione dilata
coronarie di Pop Ensemble)
che dimostra come la
generazione cocktail
abbia ancora molto da
dire. Il secondo Ep è dei
Settebello Unlimited,
un progetto che vede
impegnati anche Checco
Montefiori e Doktor zoil
con Charango, un pezzo
frizzantissimo, tra le cose
latine migliori uscite negli
ultimi anni, con un energia
capace di muovere i
malleoli più ostici (non
è un caso che il pezzo
sia presente nella nuova
compilation curata da
Ursula 1000 Ursudelica, per
l’Eighteenth Street Lounge
, etichetta dei Thievery
Corporation).
Ottimo colpo per la Record kids, che è riuscita finalmente a far pubblicare per una
etichetta italiana uno dei gruppi più elettrizzanti e supercool del panorama hammond
groove ed acid jazz mondiale. I Link quartet giungono alla loro terza prova discografica,
mostrando maturità con composizioni fresche e godibili, difficilmente rintracciabili in tanti
gruppi italiani. Confermarsi dopo 2 album non è certamente facile, ma i Link Quartet
superano brillantemente questa prova. Il disco parte con una cover dei maestri della
library music, A.Hawkshaw & A.Parker dal titolo Move move move: una straordinaria
rielaborazione piena di hammond groove supersonico con un ritmo scoppiettante e
sublime. Il cd continua con una canzoncina pop Janine, delicatissima e sporca (che
farà piacere ai francofili), e con la sensualissima Portofino vespa rider. Insomma Italian
playboys è una incantevole tentazione stracarica di motivi accattivanti. Consigliato per
chi vuole raggiungere un elevato livello di appagamento psicofisico.
Giunto alla quinta fatica
come solista, Rachild Taha
ci regala un album dove
il filo conduttore prioritario
è un eclettismo genuino e
spontaneo. Rachid taha è
stato per un pò di tempo il
fulcro dei Carte de sejour
(permesso di soggiorno),
gruppo notissimo oltralpe,
soprattutto per la versione
arabizzata di uno dei pezzi
più famosi di Charles Trenet:
”Douce Franc”. Franco
algerino, che mal sopporta
la riduttiva, ma efficace
etichetta di “Rocker di
origine araba”. Tekitoi
presenta forti componenti
di musica tradizionale
nordafricana, intrisa di
elementi elettronici ed
industriali e una buona
dose di sano rock. Un
album che riesce senza
fatica a coniugare il
nord Africa con l’Europa.
Tra i pezzi più riusciti
c’è “tekitoi”, eccitante
ed esaltante dotato di
un’alta carica ipnotica;
“winta”, una dilatata
ballata agrodolce; ”shuf”,
deliziosa e ipnotica”;
“rock el casbah” un
omaggio a Joe Strummer
trasformandola in electro
algerin clash (il pezzo è
presente anche nella
compilazione dedicata a
strummer, della capitol,
con James Brown, Cheb
Mami, Asian Dub Fondation
etc). Un buon album per
iniziare il 2005, che mette
in evidenza come la forza
del rock sia ancora la
contaminazione.
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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
11
Falene
Giancarlo Onorato
Lilium - 2004
di Osvaldo
Andrea Chimenti
Vietato Morire
Santeria/
Audioglobe 2004
di Scipione
Pace e male
Têtes de bois
L’amore e la rivolta/il
Manifesto CD - 2004
di Valentina Cataldo
Falbo
Fausto Balbo
Snowdonia/
Audioglobe – 2005
di Davide
Castrignanò
Accogliamo sempre
con piacere dischi
come questo, dischi
che testimoniano
un rinnovamento
della musica italiana.
Giancarlo Onorato
insieme a pochi altri
alimenta il cantautorato
italiano con nuova linfa
e soluzioni che, restando
fedeli alla tradizione,
osano e spingono un po’
più in là il limite, gli schemi
che per anni hanno
trattenuto la nostra
musica ancorata a suoni
e schemi. Basta guardare
alle sue collaborazioni
all’interno del disco
(Paolo Benvegnù, Mario
Congiu) per capire in
quale landa sonora ci
muoviamo. È la canzone
d’autore, quella che
fa eco ad artisti come
Tenco e De Andrè, a
intridere i brani di Falene.
Un disco che non ha un
genere pilota ma che
si posa funzionalmente
su arrangiamenti
orchestrali o più rock
senza disturbare un senso
di continuità stilistica e di
umore che comunque il
disco conserva. Il testo e
la parola sempre in primo
piano intessono storie
che spesso incotrano
la poesia di Anna
Lamberti Bocconi che
coofirma alcune tracce.
Malinconico, notturno
come l’habitat della
falena, il nuovo album
di Giancarlo Onorato
conferma lo spessore di
uno dei più apprezzati
cantautori italiani.
Visto il successo di critica sembra quasi un dovere scrivere di questo particolare e
interessante lavoro solista di Andrea Chimenti, ex leader del gruppo rock Moda.
Invece è un piacere ascoltare e riascoltare Vietato Morire: undici poesie musicate
e sussurrate dal cantante che giunge alla sua quarta opera solista. Un cd che
parte piano, non da primo ascolto, che nulla cede alla commercializzazione
di suoni e sensazioni. Sembra difficile ma poi resta, penetra con le note e con
le parole scandite dalla voce roca di Chimenti. Prima della Cenere, Limpido, Il
gioco, Cuore di Carne, il momento del passo, Tra la terra e il cielo sono tutti episodi
diversamente interessanti che donano equilibrio al lavoro seppur in una atmosfera
di globale malinconia. Molte belle canzoni che, come spiega l’autore “sono
un po’ come le persone, ognuna è unica e irripetibile”. Le collaborazioni (più o
meno celebri) sono numerose: Matteo Buzzanca, Massimo Fantoni, Steve Jansen
(batteria) ad Alessandro Fiori e Enrico Gabrielli (violino e ance dei Mariposa), Gianni
Maroccolo e Patrizia Laquidara.
Sul retro del
corposo libretto che
accompagna i due
cd c’è scritto: “Pace
e male è uno scatto in
curva”. Ed è vero, non ci
sono parole migliori per
spiegare brevemente
la nuova, ultima
produzione dei Têtes de
bois. Proprio come lo
scatto in curva su una
bici, quello più difficile,
e il più importante
anche, questo lavoro è
altrettanto complicato
e fondamentale per la
carriera delle note teste
di legno. Complicato
perché quando te lo
trovi in mano non sai da
che parte iniziare, ci sono
canzoni e rivisitazioni,
ci sono gli ospiti e le
partecipazioni, c’è il
video, le tracce audio,
le interferenze vocali,
le radiocronache, le
previsioni del tempo,
i rumori. Ci sono le
poesie, le immagini, i
racconti, le foto che
fanno da contorno,
e poi non tanto da
contorno, forse, meglio,
da co-protagonisti
della loro bella musica.
È complicato perché
non puoi far altro che
pensare a quanto sia
stato difficile assemblare
il tutto in un lavoro che
non sia troppo e non
sia niente, ma che sia
completo al punto giusto.
Fondamentale, perché
dopo ben dieci anni di
attività e tre produzioni
all’attivo questo cd
rappresenta un gran
punto d’arrivo. O di una
nuova partenza. A cosa
è dedicato questo disco?
Agli anni ’60, alla lotta
politica, “agli amori che
nascono nonostante e
ovunque”, al coraggio,
“alla forza di partire, alla
fortuna di arrivare”, agli
scatti in curva.
Suoni e rumori, spesso a-ritmici, in un ‘taglia/cuci-copia/incolla’ di effetti acustici,
timbri e segnali manipolati, riprodotti, remiscelati e rigettati al fine di dare nuove
possibili movenze allo spazio sensitivo-musicale. Questo è “falbo”, nuovo lavoro
del piemontese Fausto Balbo per Snowdonia. Sono 9 raccolte di frammenti
sonanti tra anima e corpo, macchine e materia, ritmo e ossessione, vita e morte,
razionalità e inconscio; sempre alla ricerca di un percorso da intraprendere per poi
repentinamente interrompersi e calarsi schizofrenicamente su un nuovo ‘viadotto’
musicale. É ricerca, dite pure addio a velleitari fabbisogni di melodia; spesso è solo
sequenza di diapositive sonore che spaziano (e spiazzano) tra campionamenti,
sketch di filmati, frammenti di vita ed un riciclaggio inverosimile di sistemi e mezze
capaci di produrre suono. Non per tutti, chiaramente, ma non fa male sapere che
c’è e magari ascoltarlo. Alcune menzioni speciali: “Dubito” diverte, “Frammenti di
un incubo” ti centrifuga la psiche (da evitare se si torna a casa ubriachi); “a volte
i togni t’avvelenano” credo gliel’abbia suggerita ‘nu carcaluru’; “Crepuscolo”
ti trascina in un incubo fantasy-hardcore dai forti accenti anarko-epici prima di
lanciarsi nell’interessante “Scherzi da schermo” e nella psicotica “Insonne”.
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DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI DISCHI
12
13 piccoli singoli
radiofonici
Aidoru
Snowdonia/
Audioglobe - 2004
di Davide
Castrignanò
Zoo Psychology
Ex Models
cd French Kiss/
Lp Psychotica
di Gianpiero
Chionna
Cuckoo Boohoo
A Toy Orchestra
Urtovox – 2004
di Gianpiero
Chionna
Superwolf
Bonnie Prince
Billy & Matt
Sweeney
Domino/Drag
City – 2004
di Gianpiero
Chionna
La traccia iniziale a base di progressive-elettronico (deliziosa) depista decisamente
l’ascoltatore. I pezzi che seguono, infatti, procedono lungo percorso musicale con
venature decisamente diverse, farcite di melodia, armonia e atmosfera, seppur
mantenendosi su un campo pop-elettronico di fine (nuovo?) millennio. Nei vari “singoli
radiofonici” si avverte la speziatura del punk, da cui sembra gli Aidoru traggano origine,
la collaborazione con il teatro Valdoca, che emana influssi scenici in molte tracce (Io
guardo spesso il cielo), il riverbero dei testi della scrittrice Mariangela Gualtieri e della
voce di John De Leo (voce dei QuintoRigo) e Morena Tamborrino (attrice del teatro
Valdoca). Il risultato finale è un lavoro che non dispiace, ricco di spunti musicali piacevoli
ed interessanti, ma che, nella sua ricerca di nuove forme musicali, rischia di impelagarsi
in strade già ampiamente tracciate e che risentono forti influenze di quel post-rock
minimal-chic che va dai Sigur Ros agli Scisma. Le tracce migliori credo siano l’incalzante
post-rockettara “Phase-difference”, l’epica straziante “Fas 3 bis” e la eclettica “Ni-roku”,
anche se in quest’ultima, come per “Se dormi” e “Ossicine”, avrei sperato in una virata
psichedelica (come avviene nella quasi lancinante “Fas 3 bis”) ben più ampia (ahimè,
sono insaziabile!)). assolutamente interessante la rilettura del Preludio op.28 n.2 di Chopin,
“Angelo-gnomo, che sembra un divertente jingle cantato da menestrelli e il bizzarro e
surreale finale pop-swing di “Se la parola amore”.
Gli Ex Models sono un gruppo di enorme grandezza, cotinuatori della no wave (o now
(!)wave per i contemporanei...come vi pare) più estrema, provenienti tra l’altro da quella
New York che ha dato i natali al genere e che sicuramente ha fornito ai nostri un’ottimo
background. Ma gli Ex Models sono anche abili architetti di geometrie monolitiche,
quasi dalle parti di certo math rock più d’impatto (Dazzling Killmen? Passatemela
questa…), nonché giullari ironici e iconoclasti (e titoli come Fuck to the music ne
sono la testimonianza). Chitarre affilate e penetranti come un trapano nel cervello fin
dall’apertura di Fuck to the music, che travolgono ogni cosa come un rullo compressore
ma al contempo talmente taglienti da arrecare “danni” ben più devastanti; reiterazioni
spietate (Intro), voce chioccia alla Melt Banana in versione più “ragionata” e con un
testo da urlare al posto dei deliri vocali dei nipponici; accordi dissonanti e atonali alla
maniera della politica Skin Graft, sprazzi folli tribali (The password is pelican) e schizoidi in
stile Naked City (Rip this Joint) e schegge di delirio noise che spingono a calci in culo gli
Arab on Radar nei territori del grind. Di questi tempi un disco di rara bellezza.
Salutati come una delle
ultime rivelazioni dell’indie
italiano, i A.T.O., già
membri del gruppo post
punk Mesulid, licenziano
per Urtovox questo Cuckoo
Boohoo, in cui si possono
ritrovare tutti gli elementi
cardine del genere.
Aprono gli effetti sonori e le
onde radio dell’intro Radio
Tsunami e subito dopo
le prime note di “Peter
Pan Sindrome” fissano
le coordinate: tocchi di
pianoforte ed accordi
di chitarre acustiche
si alternano a sferzate
elettriche, in una miscela
che troppo spesso ricorda
le melodie degli Yuppie Flu
(“Peter Pan Syndrome” e
“Modern Lucky Man” sono
imbarazzanti, sembrano
quasi uscite da “Days
bifore the Day”); ma
ancora ballate romantiche
ed acustiche (“Hengie:
queen of the borderline”
o “Elephant Man” con
solo piano e voce o ancor
la lenta bellezza di “ 3
minutes older”), piccoli
accorgimenti di elettronica
(“Panic Attack #1”), e
un’altra grande ombra
che aleggia per il disco:
i Blondredhead (sentire
“Loco motive”). Certo
un buon disco, fresco e
malinconico allo stesso
tempo, compagno ideale
per un ritorno in auto dopo
aver ballato tutta la serata,
ma rimanendo intrappolati
alla lunga in questi schemi
che castrano l’originalità,
dubito che possano
diventare un punto di
riferimento per le waves
italiane.
L’ultimo dei crooner ,
Will Holdam, ci colpisce
ancora con questa
uscita in collaborazione
con Matt Sweeney,
frontman dei Chavez e
chitarrista degli Zwan di
Billy Corgan. A Sweeney
il non facile compito di
scrivere la musica per il
nuovo re del folk, mentre
Holdam si occupa dei
testi. Compito non facile
per Sweeney, si diceva,
perché non è da tutti
reggere il confronto con
il genio del suo collega.
Ma il buon Matt se la cava
egregiamente disegnando
un folk scarno e rurale
che si colloca a metà
strada degli ultimi lavori
di Holdam: tra l’attitudine
più roots di Easy down the
road e il romanticismo (e
non romanticume badate
bene!) di Masters and
everyone riprendendo
in buona parte proprio
da quest’ultimo la linea
melodica del cantato.
Minimale la struttura dei
pezzi con arpeggi di
chitarra elettrica e accenni
di fingerpicking, e qua e
la rintocchi di piatti, timidi
organetti, e assoli in delay
che riempiono i silenzi e
avvolgono le note sparute
e solo in casi più rari il folk
si tramuta in rock venando
di elettricità le chitarre.
E a chiudere la voce di
Holdam che pure discreta,
sovrasta i pezzi, incerta e
dalla sgraziata bellezza.
Non chiamatelo il Jhonny
Cash del 2000; Will Holdam
è Will Holdam; punto. Uno
degli ultimi raccontastorie,
depositari dei sentimenti di
tutti. Uno degli ultimi eroi.
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13
Paradiso
Metamorfosi
Progressivamente
- 2004
di Nicola Pace
Exposures
Dark Tranquillity
Century Media / Self
di Nicola Pace
Nigredo
Diary Of Dreams
Accession Records
- 2004
Erano trentuno anni che non si sentiva parlare dei Metamorfosi. Nel 2004, con
la collaborazione dell’etichetta romana Progressivamente, riprendono la loro
attività artistica con Paradiso. Le composizioni sono un compromesso fra musica
classica e rock, che incentrano il suono su voce, tastiere, basso e batteria con
l’aggiunta sporadica di chitarra acustica, e prendono spunto concettuale dai
versi della Divina Commedia (come nel 1973 con Inferno). L’opera rappresenta
la salita di Dante al mondo celeste e attraverso la voce teatrale del cantante
Jimmy Spilaterici ci racconta le sensazioni che il poeta prova nel vedere e sentire
la beatitudine di quelle stelle. Si parte con l’intro, in cui vengono recitati i versi
iniziali del Paradiso con in sottofondo un tappeto tastieristico etereo e cristallino,
per poi passare a Sfera di fuoco dove la scura natura dell’uomo è aggredita dalla
lucentezza paradisiaca dei raggi del fuoco. In Cielo di Marte il gruppo si scaglia
contro la Chiesa per le crociate e per lo spargimento di sangue innocente in
nome di Cristo. In Stelle fisse ed Empireo, ormai il viaggio è compiuto, dopo aver
condannato i potenti ed essere passati per tutte le stelle, i Metamorfosi insieme
a Dante arrivano al cospetto di Dio, rinascendo come nuovi uomini in un mondo
pieno di speranze. Paradiso è un’opera magnifica, perfetta, senza nessuna
sbavatura.
I Dark Tranquillity festeggiano i quindici anni di carriera con un doppio cd e un
dvd che vogliono rappresentare una retrospettiva del lavoro svolto in questo
lungo periodo. Si tratta di un vero e proprio regalo per i fan. Nel primo cd sono
presenti tracce rare appartenenti alle session di registrazione di diversi album
(Projector, Haven e Damage Done). Tutti brani ricchi di sfuriate chitarristiche ( in
pieno death-metal style), arpeggi melanconici, aperture melodiche di synth e
clean vocals struggenti e suggestive. Proseguendo nell’ascolto troviamo i due
brani di A Moonclad Reflection (EP del 1992) che ci riporta ad atmosfere più vicine
al deathmetal old school. In conclusione una chicca: la ristampa rimasterizzata di
Trail of life Decayed, demo del 1991, sintesi di estremismo sonoro, tipico dei primi
anni novanta. Il secondo cd è la registrazione di un concerto tenuto a Krakovia,
in Polonia, il 7 Ottobre 2002, da cui è stato prodotto anche un DVD. La scaletta
è interessante e contiene i maggiori successi tratti da tutti gli album escluso
Skydancer. Nel dvd (uscito per la stessa etichetta) oltre al concerto di Cracovia
sono presenti altri tre mini concerti (Atene, Parigi ed Essen), inoltre interviste, video
clip, biografia, discografia, foto gallery, art gallery.
A due anni dal loro ultimo lavoro I D.o.D. tornano con questa nuova monumentale
opera. Ho fra le mani il limited box ed. e vi assicuro che l’impatto è di grande
effetto: artwork e musica si fondono in un tutt’uno dando la dimensione di
questo lavoro. Il concept-album si snoda attraverso atmosfere intense, potenti,
malinconiche, a volte claustrofobiche sfiorando gli angoli più profondi dell’animo
di Adrian Hates (leader della band) e coinvolgendo sin da subito l’ascoltatore.
Apre l’eccezionale Dead Letter, e brano migliore non poteva essere per introdurre
a ciò che Nigredo è! Segue Giftraum che è il primo singolo tratto dall’album e
probabilmente anche la traccia meno valida, nonostante la melodia accattivante
e l’impatto da club-hit. Per il resto Nigredo è un lavoro oscuro, ricco di feeling
dove la voce di Hates domina; da segnalare Reign of Chaos, Charma Sleeper,
Portrait of a Cynic tra i migliori pezzi; con Psycho-logic e The Witching Hour, poi, la
band sembra non dimenticare del tutto l’attitudine dance-floor. Un disco di ottima
fattura in un momento di saturazione e superficialità del settore che, a mio giudizio,
allarga il confine per le prossime produzioni. Consigliato!
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Giulietto Chiesa
Vauro
Tutti i crimini
del Comunismo
Piemme 2004
di Pierpaolo
Federico Rampini
San Francisco
– Milano
Laterza – 2004
di Fulvio Totaro
librodeldelmese
mese
libro
T.C. Boyle
Doctor Sex
Einaudi
Il premier Silvio Berlusconi parla spesso, nelle sue filippiche formali e informali, del pericolo
scampato in Italia nel 1994. Quando decise di candidarsi, fondando il movimento di
Forza Italia, i comunisti avrebbero potuto prendere il potere mettendo in discussione la
democrazia del nostro paese. Una delle cose sottolineate spesso dall’uomo di Arcore e
dai suoi sono i crimini del comunismo. Il giornalista Giulietto Chiesa (quello con i baffi da
bolscevico) e il vignettista Vauro (quello comunista che illustra e impreziosisce il Manifesto)
tentano di analizzare questi crimini. La scelta ricade su dodici personaggi che hanno, come
dire, cambiato casacca allontanandosi progressivamente dalle idee comuniste e riformiste
e approdando nel fantastico modo del liberalismo di destra. Il padre di tutti i trasformisti è
sicuramente Giuliano Ferrara, ex PCI ed ex informatore della Cia (così dicono gli autori),
giornalista di varie testate (anche televisive) fino a diventare direttore della sua creatura “Il
foglio”, ministro del primo governo Berlusconi e molto altro. Tra gli altri ribaltonisti il giornalista
e padre d’arte Paolo Guzzanti, l’ex magistrato Tiziana Maiolo, l’ex presidente Rai Antonio
Baldassarre, l’ex maoista Aldo Brandirali, la giornalista Rosanna Cancellieri, il mago dei
sondaggi Gianni Pilo, l’ex direttore dell’Unità Renzo Foa, il comico Enrico Montesano, la
giornalista Maria Giovanna Maglie e gli intellettuali Ferdinando Adornato e Sandro Bondi.
Un volume divertente, irriverente e (per quelli di sinistra) deprimente.
Forse non esiste il paese delle meraviglie, ma c’è una famosa città della California che
sembra approssimarlo. Detta così è un po’ esagerata, ma l’immagine di San Francisco
che viene fuori dalle descrizioni di Federico Rampini, inviato di Repubblica, è quella
di una città modello: panorami mozzafiato, clima primaverile, senso civico, ricchezza
e tecnologia. Leggendo le pagine del diario di Rampini si scopre che esiste ancora
un’America progressista, civile e trasgressiva, severa e tollerante. Il libro è il racconto di
una delle città americane più all’avanguardia in tutti i campi e in tutti i sensi (talvolta,
sostiene l’autore, fino all’eccesso). A San Francisco sono nati il movimento per i diritti
civili negli anni Sessanta e Google; i computer e Critical Mass. È qui che le donne sono
al potere da un pezzo, è qui che sono stati celebrati i primi matrimoni fra gay degli Stati
Uniti. Attraversando la sua breve esperienza di giornalista, professore e cittadino, Rampini
ci racconta gli esami di guida, le lezioni universitarie, le regole di convivenza della città.
Sembra quasi un invito al viaggio. Si intravede una morale nel paragone continuo con
la città di Milano, presente anche nel titolo. Peccato per Rampini che il suo quotidiano
l’abbia appena trasferito nel nuovo ufficio di corrispondenza a Pechino. Forse lì non
troverà tutti i confort della West Coast.
David Foster Wallace è lo scrittore totale e massimalista per eccellenza. La sua prosa
è raccolta organica delle situazioni di vita più disparate, è folle viaggio nel cuore
di un’America erosa, moralmente bitume da dare in pasto a vacche sgozzate.
David Foster Wallace è talento spropositato, è il superamento dei limiti imposti alle
logiche contemporanee di produzione di intrecci, è finzione narrativa moltiplicata
all’ennesima potenza e sparata nelle vene a centottanta all’ora. La conferma
del suo talento smarginato viene dal suo ultimo testo, Oblio, otto superbi romanzi
brevi, un libro, cito la quarta di copertina, che ci mette davanti agli occhi il corpo
martoriato, eppure incredibilmente normale, della nostra società. Scrive il The New
York Times: “Wallace è uno dei grandi talenti della sua generazione: uno scrittore
capace di qualsiasi virtuosismo”. O, ancora, il San Francisco Chronicle: “David
Foster Wallace non è mai compiaciuto delle proprie capacità letterarie… Alza la
posta continuamente e quando la spunta il risultato è una prosa sorprendente e
visionaria”.
I titoli degli otto racconti, Mister Squishy, L’anima non è una fucina, Incarnazioni di
bambini bruciati, Un altro pioniere, Caro vecchio neon, La filosofia e lo specchio
della natura, Oblio, Il canale del dolore. Cito l’incipit di uno degli otto racconti. La
filosofia e lo specchio della natura comincia così: “Poi proprio quando venivo messo
in libertà alla fine del 1996 mia madre vinse una piccola causa per un prodotto
difettoso e si affrettò a usare il denaro del risarcimento per un intervento di chirurgia
plastica alle zampe di gallina che aveva intorno agli occhi. Solo che il chirurgo
plastico combinò un pasticcio e la muscolatura del viso assunse un’espressione che
la faceva sembrare sempre follemente spaventata. Saprete senz’altro che aria può
avere il viso di un individuo nella frazione di secondo che precede l’urlo. Adesso mia
madre era così”. Mister Squishy ha come tema centrale una merendina, e Wallace
riesce a parlarne per 80 pagine filate e ben fitte, L’anima non è una fucina racconta
la storia di una classe presa in ostaggio da un folle maestro, il quale sulla lavagna
incideva con il gesso la sua volontà di ammazzare tutti i suoi alunni, Il canale
del dolore si sofferma sulle capacità artistica di un uomo, il quale ha la fortuna
di produrre merda che assume le forme di opere d’arte. Da qui l’interessamento
massiccio e smodato dei mass media. Storie grottesche, surreali, raccapriccianti,
tanto più stomachevoli perché ritratto fedele della nostra società alla deriva (e non
mi sembra di esagerare).
Rossano Astremo
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Marco Archetti
Vent’anni che non
dormo
Feltrinelli
Febbraio 2005
Marco ha studiato
filosofia e ha smesso.
Ha lavorato nelle
toilette di un autogrill
e ha smesso. Ha
convissuto con una
ragazza e ha smesso.
Ha voluto una famiglia
e ha smesso di volerla.
Andrea D’Agostino
Mi mangiassero i grilli
Fernandel
Marzo 2005
Vinicio ha vent’anni,
è siciliano cresce coi
nonni. La nonna ha la
tendenza a chiudere
a chiave la porta
della cucina. Il nonno,
stanco dei digiuni
scappa di casa e si
rifugia da un cugino,
nell’Oltrepò pavese.
Wu Ming 1
New Thing,
Einaudi,
Stile Libero Big
di Rossano Astremo
Camilla Corsellini
La banda della Uno
Bianca. Fratelli di
sangue
Bevivino Editore
– 2004
di Pierpaolo
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Resistenza60
Fernandel
Febbraio 2005
Nel 2005 si celebra
il sessantesimo
anniversario
della Resistenza.
Un’antologia in cui
scrittori nati dopo il
1945 si confrontano
con i valori e con
il concetto di
Resistenza.
Porti a termine la lettura di un
romanzo scritto dal collettivo
Wu Ming (Q, 54, Asce di
Guerra) e senti attraversare
nel tuo corpo un surplus di
adrenalina che si attacca
alle pareti dello stomaco
generandoti dei giramenti di
testa che non sai spiegare.
Fai mente locale e ti rendi
conto che è una sensazione
che provi solamente quando
ascolti un cd dei Raw Power,
hardcore punk che devasta la
psiche, quando rivedi in loop
Jackie Brown di Tarantino,
o quando scopi (è solo
vaga immaginazione?) con
Giuliano Scabia
Le foreste sorelle
Einaudi
Febbraio 2005
È l’aurora di un nuovo
giorno: suor Gabriella
passeggia nella
campagna quando
viene risucchiata in un
letamaio e precipitata
nel “mondo oscuro”.
I suoi amici indagano
sulla sua scomparsa.
qualche ragazza di diciotto
anni tipo Martina Stella nel
film di Muccino (come cazzo
si chiama il film?), incontrata
in un pub e conquistata con
le tue menate sull’importanza
nella poesia di oggi della
performance, dell’unione tra il
declamare versi e l’incursione
di suoni. Poi ti capita tra le
mani New Thing di Wu Ming 1
e comprendi che tutte le tue
convinzioni sulla letteratura
e su quello che gravita
attorno necessitano di una
nuova taratura. New Thing
è ambientato a New York.
Primavera del ’67. Dopo le
morti violente di alcuni musicisti
dell’avanguardia jazz, la
vox populi afroamericana
diffonde la storia di uno
sfuggente assassino, il “Figlio
di Whiteman”. Quarant’anni
dopo, nell’America della “War
on Terror”, una compagnia
di reduci racconta la storia
della giovane cronista Sonia
Langmut, scomparsa poche
settimane dopo i fatti. Un
narrazione corale avvolgente
e piena di suspense. Un
romanzo necessario. Da fare
leggere agli accademici
boriosi rinsecchiti tra le pareti
caduche dei loro istituti.
Seppur a distanza di più di un decennio dalla famosa banda che insanguinò Bologna
e la costa romagnola ancora oggi quando mi chiedono “che macchina hai” e io
rispondo “una uno bianca” tutti fanno sorrisini ammiccanti fantasticando sulla presenza
nel portabagagli di una ungherese o rumena. Insomma “La banda della Uno Bianca”
di Camilla Corsellini (Bevivino editore) è un libro quanto mai di attualità. Dal 1987 e
dalle prime rapine ai caselli autostradali, dal tiro a segno sugli immigrati alle rapine in
banca, dalla strage del Pilastro (un quartiere di Bologna) agli assalti ai portavalori fino
ai misterioso arresto il volume racconta la inquietante e incredibile storia dei fratelli Savi.
Due poliziotti che trovano un pericoloso secondo lavoro. Omicidi e assalti misteriosi che
costano la vita a 24 innocenti (e una novantina di feriti). Rapine fallite per non curanza e
gente sparata alle spalle come in un tragico tiro al piattello. Sulla fine di questa tragica
avventura malavitosa aleggia anche il sospetto dei servizi segreti. Come dire il solito
mistero all’italiana. Questo è il primo volume di una nuova collana Wanted (il secondo
titolo è Fra Diavolo di Simone Greco) della giovane casa editrice milanese Bevivino.
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Marco Paolini
Teatro Civico (libro +
dvd)
Einaudi Stile Libero
– 2004
di Francesco Lefons
Gianfranco Nerozzi
Genia
Dario Flaccovio
Editore – 2004
di Bubu
A cura di Alessandra
Chiappano e Fabio
Minazzi
Anno Domini 1968.
L’immaginazione
che voleva il potere
Manni – 2004
di Pierpaolo
Adam Fawer
Improbable
Feltrinelli
2004
di Dario Goffredo
Quando il teatro esce
dal teatro per diventare
pungente realtà e si intreccia
con nodi della dimenticanza
di storie cancellate e di
vittime sepolte da strati di
tacita indifferenza, allora
trapela la luce di vita delle
parole che diventano fatti,
personaggi, situazioni o forse
solo azioni. Il teatro altro di
Marco Paolini è tutto questo
e “Teatro Civico”, (due DVD e
libro) è un ottimo contenitore
per apprezzarlo. Contenente
la registrazione di cinque
monologhi (cinque storie vere
di guerra, fame, velocità e
menzogne) realizzati in teatro
per la televisione pubblica
(Report su Raitre),
Teatro Civico racchiude in
se tutta la semplicità della
realtà di storie umane, vere,
raccontate con straordinaria
eleganza da Paolini, che
fonde
la
dimensione
intimistica del teatro con la
forza della denuncia tipica
del documentario.
I monologhi, scritti dall’attore
con
Andrea
Purgatori
e
Francesco
Piccolini,
sono cinque bombe ad
orologeria che scoppiano
nelle coscienze di chi assiste,
una carrellata di parole che
diventano immagini, parole
autentiche che riassorbono
tutto il significato dei loro
suoni, parole che rendono
inquieti, zittiscono le retoriche
dei se e dei forse, rendono
la realtà al suo legittimo
proprietario
e
svuotano
l’inventario della superficialità
per arrivare a grattare il fondo
della verità.
Un esorcista serial killer uccide con agghiacciante ferocia membri del clero che stanno
per recarsi al Convegno Eucaristico di Bologna presieduto dal Papa; una serie di efferati
omicidi paralleli; un virus che attacca le vie respiratorie e distrugge le menti e le anime; le
oscure manovre delle Opere Vigilanti, i servizi segreti vaticani; una sette segreta chiamata
Superiori Sconosciuti. Pezzi di un intricato mosaico la cui soluzione risiede nella mente di
un pericoloso assassino, il Conservatore, internato in un manicomio criminale. Su questi
misteri è chiamato ad indagare il capitano dei carabinieri Michele Santonero, un uomo
tormentato dai dubbi di fede e dal dolore per la sua compagna malata di cancro, cui
spetta il compito di ricomporre il mosaico e scoprire la natura dei Lamenti, i demoni
portatori di dolore di cui parla un antichissimo vangelo apocrifo. La trama, un sapiente
mix tra horror e thriller, è una sorta di moderna apocalisse in cui dolore e orrore dettano
legge. Leggere questo libro è come vedere un film horror anni settanta, comodamente
seduto davanti allo schermo a guardare Lucio Fulci o il primo Pupi Avati (La casa delle
finestre che ridono, da vedere assolutamente).
Chi è delicato di stomaco si astenga dalla lettura.
La salentina Manni propone
una interessante rilettura
dell’anno che cambiò (o
rovinò) l’Italia e il mondo.
“L’immaginazione
che
voleva il potere” attraverso
gli articoli introduttivi di Fabio
Minazzi (“Sul sessantotto e
sul suo significato storico”)
e Sergio Dalmasso (“Quegli
indimenticabili anni ’60”,
che consiglio a chi vuole
leggere un rapido ma
puntuale bignami di un
decennio) e le testimonianze
di alcuni personaggi di
quegli anni dona un quadro
abbastanza esaustivo (nel
limite di circa 130 pagine)
dell’anno
considerato
meraviglioso o orribile, a
seconda dei punti di vista.
I testimoni sono la folk
singer americana Joan
Baez (che lancia qualche
strale anche sull’attuale
politica “assistiamo alla
svalutazione di tutto ciò che
è cultura. Bush si gloria di
non leggere”), il leader del
movimento milanese Mario
Capanna, il giornalista e
direttore de l’Unità Furio
Colombo (che parla de
“L’America dei Kennedy
negli anni sessanta”), il
cantautore
Francesco
Guccini e la giornalista
turca Zeynep Oral. Molto
utili anche la cronologia e
la bibliografia (entrambe
su sessantotto e dintorni).
Il volume è una versione
ridotta del libro pubblicato
dalla rivista “Il protagora”.
Feltrinelli si lancia nel
mondo dei best sellers,
e lo fa in grande stile
presentando in anteprima
mondiale questo romanzo
d’esordio per un professore
di statistica americano.
E Improbable le carte
in regola per diventare
campione di vendite
ce le ha tutte: una
trama affascinante, un
protagonista con un buon
appeal, coprotagonisti
interessanti e variegati,
colpi di scena che si
susseguono a creare un
vortice di avvenimenti che
è quasi difficile seguire.
il filone è quello del thriller
classico alla Grisham e soci,
la storia si può riassumere
così: giovane studioso
di statistica, affetto da
epilessia e con il vizio
del gioco d’azzardo,
debitore della mafia
russa, si trova invischiato
in giro di spionaggio
e controspionaggio
internazionale, esperimenti
medici su cavie umane
e un dono inspiegabile di
premonizione.
C’è però qualche appunto
da fare. La trama presenta
qualche deja vu un po’
fastidioso se ci si fa caso.
La partita di poker iniziale,
la bisca tenuta dal mafioso
russo, lo stesso mafioso
russo, ricordano in modo
preoccupante un film di
qualche anno fa: Rounders
con Matt Damon. Certo
il libro poi si sviluppa
in maniera del tutto
autonoma, ma rimane un
po’ l’amaro in bocca.
Nel complesso un libro
piacevole da leggere
scritto decisamente bene.
Un’ottima opera prima.
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Massimo Carlotto
Niente, più niente al
mondo
Edizioni e/o – 2004
di Gazza
Javier Cercas
Il Movente
Guanda Editore - 2004
di Annalisa Serpilli
Giambattista Avellino
Il cono di luce del
futuro dell’evento
Instar Libri - 2004
di Bubu
Marco Pedone
GRI. Galvanoplastiche
Ramature Imola
Fernandel
di Dario Goffredo
I giornalisti spesso quando vogliono calcare la penna sull’incredulità provocata da una
notizia sconvolgente titolano “Una storia di ordinaria follia” (ripescando dal romanzo
di Bukowski, dai film di Marco Ferreri o Richard Shenkman) o “giorno di ordinaria follia”
(dal film di Joel Shumacher). Modi di dire per esprimere la sorpresa nei confronti di
una soluzione finale che spesso conduce all’uccisione di mogli, mariti, figli, suocere.
Eppure la spiegazione mentale (che all’apparenza non esiste) c’è quasi sempre:
storie difficili, esaurimenti e depressioni, infelicità e passati inconfessabili. “Niente, più
niente al mondo”, sottotitolo monologo per un delitto, di Massimo Carlotto racconta
una famiglia italiana che viene sconvolta da un delitto (appunto) inaspettato. Una
donna delusa dalla sua stessa vita, dal marito operaio (poi licenziato) a Torino e
dalla figlia che la madre vorrebbe velina o comunque nel giro che conta. La spesa
al discount, le difficoltà a tirare fino alla fine del mese, i figli da accontentare, la
televisione e i personaggi da reality, il viagra e un amore bloccato fanno da cornice
a una storia che si chiude tristemente. Un nuovo lavoro per uno degli scrittori italiani
più prolifici degli ultimi anni che passa con disinvoltura dai romanzi alla sceneggiatura
per cinema e teatro. Una racconto ironico e straziante di tutta la società italiana
dilaniata dal consumismo e abbagliata da modelli sbagliati.
È il secondo caso letterario per Javier Cercas dopo “Soldati a Salamina”. II titolo del
nuovo romanzo breve è “Il Movente”. È un meta-romanzo, o meglio un romanzo
che racconta se stesso. Il protagonista si chiama Alvaro, un avvocato col pallino
della letteratura. Appassionato di romanzi e poesie decide di scrivere un libro. Così
inizia la sua indagine tra gli inquilini del suo palazzo. Seduce la portinaia, apposta
registratori per spiare le conversazioni altrui e impara a giocare a scacchi. Tutto solo
per trovare spunti e situazioni reali da poter descrivere nel racconto. Il protagonista
diventa un deus ex machina delle vite dei suoi vicini di casa. Li mette alla prova,
li usa, li avvicina e li allontana come un burattinaio con le sue marionette. “Alvaro
prendeva seriamente il suo lavoro. Si alzava ogni giorno alle otto in punto”. Così
inizia e così si conclude questo racconto. La narrazione si confonde con l’evento
narrato e chi dovrebbe essere descritto descrive a sua volta. Realtà e finzione si
confondono. “Il flusso dell’ispirazione letteraria” e “il rigore del piano generale che
un’opera impone” sono gli assi su cui Alvaro costruisce la sua opera e sono i cardini
de “Il Movente” di Cercas. Nel romanzo che descrive se stesso, il racconto, spiega
l’autore, e ciò di cui parla Alvaro in realtà sono il libretto di cento pagine che il
lettore tiene in mano.
Acromatopsia: difetto della vista che impedisce di distinguere i colori e che causa
intolleranza alla luce. Per questo motivo un uomo solitario e misantropo, incapace di
intrattenere qualsiasi relazione con chiunque, accetta un posto di guardiano notturno
in una fabbrica ipertecnologica con il compito di sorvegliarla dal silenzio della sua
garitta attraverso le telecamere del circuito interno, registrando ogni movimento
sospetto. La regolarità assoluta che impone alle giornate, scandite dalla successione
sempre uguale delle immagini sui monitor di controllo, e la fuga dalla luce acuiscono
i suoi problemi. Poi qualcosa cambia; prima un’ombra irrompe nella sua vita e lo
spiazza, poi una donna sensuale ed enigmatica penetra nell’isolamento notturno
della fabbrica e rompe l’apatia emotiva del guardiano rendendolo complice
quasi inconsapevole di un duplice omicidio. L’uomo va in cerca di questa donna
inafferrabile, che compare e scompare a suo piacimento e gioca con lui al gatto
e al topo; ma seguendo piste improbabili e imponendosi di relazionarsi con gli altri
l’uomo riuscirà a scoprire chi, come e perché. Un buon esordio che la postfazione di
Giancarlo De Cataldo ci induce a leggere.
Piccole storie per un
piccolo paesino del
nostro meridione, al limite
tra la realtà e la pura
fantasia, come tutte le
storie che corrono di
bocca in bocca. Storie
legate a casalinghe
contarbbandiere dal
passato torbido e
misterioso, a case che non
si sa che cosa nascondano
perché chi lo sa non ne
parla, a mariti e amanti,
a lunghi viaggi e uomini
venuti da molto lontano.
E sopra a tutto e a tutti
l’ombra di un delitto.
Tutto questo, unito al
linguaggio frammisto di
italiano e dialetto salentino
fanno del libro un lungo
viaggio alla riscoperta
delle radici, lì dove il
contatto con la realtà
quasi si perde nel fumo
dei ricordi, delle dicerie,
di vecchie foto sbiadite e
ritrovate in soffitta.
L’autore, romano, ma di
origini salentine, compie
un’operazione linguistica
che ricorda un po’
Camilleri, un po’ Livio
Romano, per rimanere
a casa nostra, ma riesce
a mantenere un taglio
originale e a raccontare
storie che sembrano uscire
dalla bocca del nonno di
fronte al camino.
L’unica cosa che mi
chiedo, come al solito
quando leggo libri in cui
gli inserti dialettali sono
così forti, è come faccia a
leggerli chi questi dialetti
non gli conosce almeno
un po’.
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Alla luce del sole
Roberto Faenza
Mikado - 2005
di C. Michele Pierri
Alexander
Oliver Stone
Warner
Bros - 2005
di C. Michele Pierri
libro del mese
Ray
Taylor
Hackford
T.C.
Uip -Boyle
2005
Doctor Sex
Einaudi
La vera storia di don Giuseppe Puglisi, che nel 1990 fu chiamato dal vescovo di Palermo
perché si occupasse di una parrocchia nel quartiere Brancaccio di Palermo e che
in due anni riuscì a costruire un centro di accoglienza, attraverso il quale dare una
mano ad un sacco di ragazzini che vivevano di criminalità. Tre anni dopo il suo arrivo al
quartiere Brancaccio, il prete fu ucciso il giorno del suo compleanno, perché togliendo
i bambini dalle strade, li toglieva ai boss, che li sfruttavano per i loro loschi affari. Questa
la storia di un film che ha incontrato notevoli difficoltà e che tuttavia, nonostante una
certa approssimazione, è un prodotto ben accetto per le tematiche che affronta. Pino
Puglisi è un martire, e Faenza rende il suo martirio un atto di ribellione contro un ordine
precostituito apparentemente immutabile, ma anche una testimonianza di fede, grazie
anche all’intensa interpretazione di Luca Zingaretti. Il regista non ha alcuna indulgenza
per i cosiddetti uomini d’onore, che anzi vengono mostrati come uomini bestiali, portatori
solo di violenza. In definitiva non bisogna mai distogliere lo sguardo da un problema
sociale che ci riguarda tutti e che meriterebbe costantemente più attenzione.
La vita del mitico Alessandro Magno, vista dall’occhio affascinato e controcorrente di
Oliver Stone e mediata dagli studi dello specialista Robin Fox Lane, professore a Oxford.
Arriva finalmente in Europa e prova a rifarsi del flop statunitense questo peplum dalle tinte
chiaroscure che ci offre una nuova immagine del conquistatore, molto più “classica”
a partire dai tanto discussi accenni omosessuali. Persi nell’enfasi dell’onnipresente
colonna sonora di Vangelis, si muovono gli attori: Colin Farrell, promosso a star, offre ad
Alessandro la giusta carica spirituale; Val Kilmer è un Filippo orbo di un occhio feroce e
grezzo, Angelina Jolie è un Olimpia bellissima, esotica ed ambigua (anche se per metà
del film paradossalmente più giovane del figlio), mentre Anthony Hopkins finalmente
smette di fare se stesso per ricominciare a recitare nelle vesti di Tolomeo. Forse sarà per
i tempi limitati della produzione ( solo 94 giorni ), ma a differenza del Re Macedone, mai
sconfitto in battaglia, Stone perde invece la sua sfida cinematografica e non riesce a
raccontarci, forse come avrebbe voluto, il genio militare, la rivoluzionaria carica e la sfida
all’impossibile del suo protagonista. Grande, troppo grande anche per lui.
La vita di un uomo che ha cambiato la musica. Così si potrebbe riassumere Ray,
ultima fatica di Taylor Hackford, musicologo ed appassionato, prima ancora
che cineasta e ritrattista di talento. Girato con l’aiuto di Charles, che non ha
dovuto aspettare di morire per creare attorno a sé l’alone del mito, questo film
si presenta come un’opera senza dubbio limitata, come non può che essere
il racconto di una vita, ma certamente riuscita. Riuscita per tanti motivi, un po’
perché descrive alti e bassi di un’esistenza segnata da miseria ed eroina, un po’
perché non ha mai la pretesa di essere esaustivo e perbenista, cosa abbastanza
frequente. Tuttavia non riesce a scampare dalle grinfie di una certa accademia,
alla quale si concede di tanto in tanto e che rappresenta l’unica concessione
alla Universal, madrina monetaria del progetto. Inutile dire che le note più
azzeccate sono di sicuro quelle delle stesso Ray Charles, di una colonna sonora
eccezionale che contiene pezzi storici ed immortali, anch’essi diversi per periodo
e tematiche e scelti accuratamente. Di ottimo stampo anche l’interpretazione
del protagonista Jamie Foxx (Collateral), che si dimostra all’altezza del compito,
così come il resto del cast, e indossa i panni, la passione ed il sorriso di chi
seppe fondere il blues, il gospel, il jazz ed il rock’n roll in un’unica melodia
capace di infiammare un’intera nazione Difficile raccontare adeguatamente
(un altro dei limiti) una storia con forti salti temporali come questa, segnata
anche da grandi incontri come quello con Aretha Franklin e Quincy Jones e che
spazia dall’infanzia in Georgia alle leggi razziali e l’impegno politico. Ancora
più arduo disegnare con precisione scenografie che raccontino un’America
profondamente mutata negli anni. Detto ciò ci si può soffermare su quella che è
la vera essenza del film che riesce a trasmettere emozioni vere e che scampa
dal ripetere l’ennesimo lungometraggio musicale, evitando di lasciare quel brutto
sapore di “già visto”. Perché Ray si caratterizza per essere un’opera fatta col
cuore, depositaria del messaggio che lo stesso Charles con la sua presenza ci ha
lasciato. Un messaggio di passione ancora prima che di successo, di voglia e di
talento vero, messo al servizio degli altri attraverso la sua “missione”, malgrado
il suo handicap. In fondo anch’egli non ha mai smesso di ironizzare su quelli che
erano il suo compito e la sua attitudine. Ed è così che sarebbe bello ricordarlo,
come un uomo a cui in fondo la vita ha dato tutto, ma ha tolto la vista per
impedirgli di sbagliare strada.
Michele Pierri
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Ingannevole è il cuore più
di ogni cosa
Asia Argento
Tratto dal best-seller
autobiografico di J.T. Leroy,
è la storia di un’infanzia
rovesciata, vista dagli
occhi di un bambino,
Jeremiah, e di sua madre,
Sarah, una giovane
donna che si prostituisce
ai camionisti nel sud degli
Stati Uniti. In questi ambienti
Jeremiah impara e cresce.
The resurrection
Sun-Woo Jang
Ju, appassionato di videogiochi, seguendo il volo
di una farfalla, viene
catapultato in un gioco
tratto da “La piccola
fiammiferaia”. Il limite fra
realtà e gioco è sempre
più labile e il giovane si
ritrova innamorato della
fiammiferaia che dovrà
salvare, combattendo il
sistema.
Come
inguaiammo il
cinema italiano.
La vera storia di
Franco e Ciccio
(DVD)
Daniele Ciprì e
Franco Maresco
Lucky Red/
Istituto Luce
– 2004
di Pedroso
Un bacio appassionato
Ken Loach
di Dario Quarta
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36 Quai des orfevres
Olivier Marchal
Il capo della polizia di
Parigi, Robert Mancini ha
promesso ai suoi due più
stretti collaboratori, Leo
Vrinks e Denis Klein che chi
riuscirà a sgominare una
banda di malviventi che
semina il terrore a Parigi da
mesi, prenderà il suo posto
diventando il grande capo
del 36 Quai des Orfevres.
Il successo di pubblico
e l’insuccesso di critica
di Franco Franchi e
Ciccio Ingrassia è forse
tutto nella frase, un po’
maliconica e un po’
orgogliosa, di Franco
“nel 1964 girammo
insieme 17 film”. Più
che lungometraggi
erano fiction, più che
film erano recite con un
canovaccio. La carriera
dei due palermitani sin
dagli esordi in strada
e nei piccoli teatri da
avanspettacolo viene
ripercorsa da due
registi conterranei,
che per estrazione ed
Nicotina – La vita senza filtro
Hugo Rodriguez
L’azione si svolge in tempo
reale tra le 21,17 e le 22,50
di un giorno d’autunno.
Lolo è un hacker esperto,
ma un giorno commette
un errore. Scoppia così il
caos a Città del Messico,
le strade diventano un
campo di battaglia dove
cinque personaggi si
scontrano per trovare 20
diamanti scomparsi.
esiti cinematografici
sono quanto di più
lontano dalla coppia
di comici. Ciprì e
Maresco omaggiano
Franco e Ciccio con un
documentario godibile,
ricco di notizie e di
immagini di repertorio,
raccontano lati positivi (i
successi al cinema e in tv,
il sodalizio vincente) ma
anche quelli negativi (le
crisi, le divisioni, i problemi
economici). Una
particolare e doverosa
attenzione viene
riservata alla vicenda
giudiziaria che coinvolse
e sconvolse Franchi tirato
in ballo per questioni di
mafia e poi scarcerato.
Quella vicenda però lo
turbò profondamente
e fu sicuramente una
delle cause della morte
prematura nel 1992.
Una carriera che passa
da parodie come
l’Esorciccio, Ultimo
tango a Zagarolo, Il
bello, il brutto e il cretino
e Indovina chi viene a
merenda e si chiude
cinematograficamente
con la Giara di Pirandello
nel film Kaos dei fratelli
Taviani. Due validi comici
sacrificati sull’altare della
quantità.
Per essere in tema con il numero del giornale dovrei dire che il film del maestro Ken
Loach è davvero banale, scontato, una semplice (solo un po’ tormentata) storia
d’amore, condita da un paio di normali scene erotiche. Anche il titolo è irrilevante.
Ma da ex direttore, utilizzo quel poco di autorità rimastami per “non sparare” sul
maestro. È un Loach anomalo, “in amore”, in questo suo Un bacio appassionato.
Ma questo era già da tempo annunciato. Intanto, di mio, ho da dire che c’è una
scena di eros che mi ha particolarmente coinvolto nella vicenda amorosa tra il
bel pakistano Casim e la bionda irlandese Roisin. Attorno a loro il cuore del film; i
loro mondi, tormentati “per colpa” del loro amore. È una storia vera, in cui i vincoli
familiari, razziali, attanagliano l’uomo più che la donna; complicando un po’ le
dinamiche di coppia. Problemi di vita interrazziale a Glasgow, tutto qui. Ma... è
tutta qui la grandezza di Loach: quella di mettere tanta realtà in un film. Una realtà
meno amara di altre “sue”, senza vero disagio sociale e con un “solo caso difficile”:
l’amore. Un amore autentico, tra personaggi veri, che Loach ci fa vedere nella loro
autenticità, nella loro essenza ed essenzialità. Senza fronzoli, e addobbi vari.
Ogni giovedì
London Tavern – Lecce
Appuntamenti dal vivo
La musica dal vivo è protagonista nel
giovedì del London Tavern, English Wine
Pub di via dei Verardi a Lecce. Da qui
passano i migliori musicisti salentini tra jazz
e blues, rock e musica d’autore. Inizio ore
21.30. Ingresso gratuito. Info 347-1030913
Sabato 5 febbraio
Istanbul Café – Squinzano
Carnival Super Party
Il Carnevale arriva con la sua carica di
divertimento. All’Istanbul Café si balla
in maschera con le selezioni di Tobia
Lamare e Sonic The Tonic con una sfida
all’ultimo disco e all’ultima mascherina.
Ingresso con consumazione.
8 febbraio
Fondo Verri – Lecce
Pelle Sporca
11 febbraio
Istabul Cafè – Squinzano
Robert Passera
19 febbraio
Istabul Cafè – Squinzano
Postman Ultrachic
Al Fondo Verri di Lecce Rossano
Astremo presenta Pelle Sporca di Manila
Benedetto, nuova uscita della collana di
poesia Poet/Bar a cura di Mauro Marino
per la casa editrice Besa di Nardò. La
raccolta è introdotta da un saggio di
Lello Voce (nella foto).
L’Istanbul
Café
avvia
la
sua
programmazione dedicata alla musica
nera. Apre il Soul Club con un ospite
molto interessante. In consolle sarà infatti
il dj parmense Robert Passera. Ingresso
con consumazione
Il sabato dell’Istanbul Café ospita il re
salentino del lounge e dell’easy listening.
In consolle dj Postman Ultrachic e le
sue evoluzioni musicali. Ingresso con
consumazione.
17 febbraio
Aula Magna Ateneo - Lecce
Daniele Luttazzi
Unione degli Universitari e circolo Arci di
Lecce Zei presentano l’ultimo spettacolo
di Daniele Luttazzi Bollito Misto con
Mostarda, un viaggio satirico tra politica
e scottante attualità che non risparmia
davvero nessuno. Info 0832296060
Africa Unite
Omaggio a Bob Marley
Addis Abeba - Etiopia
6 febbraio 2005
di Michele Traversa
Africa Unite è il nome del Festival, voluto
dalla Bob Marley Foundation e dalla Rita
Marley Foundation con il concorso del
Governo Etiopico e dall´Africa Union in
rappresentanza di 53 paesi. L´evento si
8 febbraio
Chlorò – Calimera
Karate
Martedì grasso imperdibile al Chlorò
di Calimera. Sul palco gli statunitensi
Karate e i baresi Skills. A seguire selezione
musicale a cura dei dj CoolClub. Inizio del
concerto ore 22.30. Ingresso 10 euro.
18/19 febbraio
Cantieri Koreja - Lecce
Zavattini
22 febbraio
Candle - Lecce
Bassholes
Di scena uno spettacolo dedicato a
Cesare Zavattini, giornalista, scrittore,
pittore, sceneggiatore, considerato uno
dei fondatori del neorealismo. Sipario ore
20.45. Ingresso € 10,00 - Ridotto (under
25 over 60) € 7,00. Info: tel.0832.242000
[email protected]
Sul palco del Candle di Lecce saliranno
gli statunitensi BassHoles. Suono
infuocato ed irresistibile garage Rock n
Roll nella tradizionale formula chitarre
e batteria. Ingresso con consumazione.
Inizio fissato per le 22.30. Info 0832303707
– www.coolclub.i
terrà ad Addis Abeba, la “terra promessa”
di Bob, per tutto il mese di febbraio
2005 per celebrare il 60° anniversario
della sua nascita. Un mese ricco di
avvenimenti con un nutrito programma
di manifestazioni, mostre fotografiche,
di pittura, di artigianato e gastronomia,
conferenze, dibattiti e film festival, voluti
al fine di creare un dialogo sereno e
corretto per la promozione di reali soluzioni
politiche e sociali che possano portare
alla realizzazione del sogno che fu di Bob
Marley e non solo: un´AFRICA finalmente
UNITA. Momento clou delle celebrazioni:
un indimenticabile concerto che si terrà
nella piazza centrale “Maskel Square”
di Addis Abeba, il 6 febbraio 2005, nel
giorno del sessantesimo anniversario della
nascita di Robert Nesta Marley, occasione
in cui la salma del re del reggae verrà
trasferita dalla Jamaica alla sua amata
Africa. Info: www. africanexplorer.com;
www.bobmarley.com/africaunite;
www.oneloveafrica.it
24/27 febbraio
Lecce
L’arte di Pippo Delbono
4 marzo
Istanbul Café – Squinzano
Cesare Basile
5 marzo
Candle – Lecce
Giorgio Canali
Residenza artistica di quattro giorni con il
commediografo Pippo Delbono. In scena
Gente di Plastica, Barboni e Il tempo
degli assassini. Venerdì spazio al cinema
con Guerra. Info: 0832/242000.
“Gran Calavera Elettrica” è il titolo
del quarto capitolo solistico di Cesare
Basile ed il primo suo disco pubblicato
su etichetta Mescal. Ingresso con
consumazione. Inizio ore 22.30.
Info 0832/303707.
Il nuovo progetto del chitarrista ex Csi
Giorgio Canali, Rossofuoco, torna nel
Salento. L’appuntamento con il graffiante
rock della band è al Candle di Lecce.
Il giorno prima il gruppo sarà di scena al
circolo Arci Agorà di Bari.
martedì 1 febbraio - teatro
Servo di scena al Teatro Moderno
– Tricase (Le)
dal 3 al 5 febbraio - teatro
La bisbetica domata ai Cantieri Koreja
– Lecce
giovedì 3 febbraio - musica
Offside al Wallace Pub - Lecce
Blek Aut al Jack & Jill – Cutrofiano (Le)
Gianfranco Rizzo Soul Band al Soirèe Castrignano dei Greci (Le)
Nada e Massimo Zamboni al Politeama
di Bisceglie (Ba)
Diaframma e Cadabra a Gioia del
Colle
venerdì 4 febbraio - musica
Gilas Experience all’Estrò café Maglie(LE)
giovedì 10 febbraio- musica
SublimeFollia all’Heineken Green Stage
- Tricase
giovedì 10 febbraio – cinema
La mala education di Pedro Almodovar
al Cinema Elio - Calimera (Le)
Giovedì 10 febbraio - teatro
Sette contro Tebe, Teatro Schipa,
Gallipoli
venerdì 11 febbraio – musica
Gilas Experience al Transilvania Horror
Rock Cafè - Lecce
Dinamo Rock Caledonian pub - Lecce
sabato 12 febbraio – musica
Montecarlo Night all’Istanbul Squinzano (Le)
Franklin Delano all’Agorà – Bari
Dinamo Rock al Calaluna - Marina di
Andrano (LE)
Nada e Massimo Zamboni allo Zenzero
– Bari
Diaframma e Cadabra a Carovigno (Br)
Kalibandulu + Shapeka all’Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
venerdì 4 febbraio - teatro
Morte tua, vita mea al Teatro Illiria
– Poggiardo
sabato 5 febbraio – musica
Francesco Renga al PalaAndria di
Andria (Ba)
Martedì 8 febbraio – cinema
La vita che vorrei al Santalucia - Lecce
dal 9 al 12 febbraio -teatro
Molto rumore per nulla ai Cantieri
Koreja - lecce
domenica 13 febbraio – musica
Chiaroscuro a Tuglie
lunedì 14 Febbraio - teatro
Tartufo ovvero l’impostore, Teatro
Fasano, Taviano
Martedì 15 febbraio - cinema
Ferro 3 al Santalucia - Lecce
mercoledì 16 febbraio – musica
Andrea Pozza Trio (JazzLe) al Teatro
Paisiello - Lecce
Mercoledì 16 Febbraio – teatro
Nannarella, Teatro Elio, Calimera
Molto rumore per nulla, Teatro
Moderno, Maglie
giovedì 17 febbraio - musica
Blood Sugar all’Heineken Green Stage
- Tricase (LE)
Lisergica al Wallace - Lecce
Selezioni provinciali Arezzo Wave al
Candle - Lecce
giovedì 17 febbraio – cinema
Il segreto di Nora Drake di Mike Leigh al
Cinema Elio – Calimera (Le)
giovedì 17 Febbraio - teatro
Nannarella, Teatro Moderno, Tricase
Le follie del monsignore, Tetro
Fondazione Filigrana, Casarano
venerdì 18 febbraio – musica
Dinamo Rock al Phoenix - Zollino (Le)
Selezioni provinciali Arezzo Wave al
Candle - Lecce
Sabato 19 febbraio – musica
Gotan project Dj set feat. Philip Cohen
Solal allo Zenzero (Ba)
giovedì 24 febbraio – musica
Crusca al Jack’n Jill – Cutrofiano
Sergio Cammariere al Teatro Team (Ba)
giovedì 24 febbraio – cinema
2046 di Wong Kar-wai Cinema Elio
– Calimera (Le)
giovedì 24 Febbraio - teatro
La Mandragola, Teatro Fasano, Taviano
venerdì 25 febbraio - musica
Petra Magoni e Ferruccio Spinetti allo
Zenzero - Bari
Sergio Cammariere al Teatro Impero
– Brindisi
Soul Club all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
sabato 26 Febbraio - teatro
Tartufo ovvero l’impostore, Teatro Illiria,
Poggiardo
Sabato 26 febbraio - musica
Skapace all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
domenica 27 febbraio – musica
Talea a Tuglie
domenica 27 febbraio - teatro
Nati sotto contraria stella, Teatro
Fondazione Filigrana, Casarano
martedì 1 marzo - teatro
Tina fai presto, Teatro Elio, Calimera
Martedì 1 marzo – cinema
Camminando sull’acqua al Santalucia
- Lecce
Ripartono i corsi di Zei
Dal 14 febbraio parte nella nuova sede del circolo Arci Zei di Lecce un corso di Illustrazione e fumetto che durerà una settimana ed avrà
un carattere intensivo (circa 8 ore di lezione al giorno).
Oltre a questo corso sono previsti corsi di Capoeira, teatro, e altri ancora per proseguire il lavoro svolto da Zei lo scorso anno. Per
informazioni sul corso: [email protected]. Per informazioni sulle iscrizioni: [email protected]
CoolClub
.it
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CUI JIAN: IL
KEEP COOL.
PADRINO DEL
ROCK CINESE
Quella dell’estremo oriente è una realtà musicale che riusciamo
a malapena a percepire e che ovviamente non riusciamo a
comprendere (e non
solo a causa
della lingua), ma in
Cina da più
di vent’anni vive un
autentico
artista.
Sono passate più di
due
decadi
da quando nel 1983
Cui
Jian
(si
legge Zuè Jièn) ha fatto
ascoltare
il
rock alla sua nazione,
f a c e n d o
tremare i potenti spesso
costretti a dover
censurare la sua voce,
forte e dolorosa
allo stesso tempo. Nella
Cina dei primi
anni 80 era possibile
ascoltare
esclusivamente musica
popolare,
gli
album rock sotto il regime erano banditi e i ragazzi potevano entrarne
in possesso solo duplicando le cassette che gli studenti stranieri
portavano con loro.
Cui Jian ha cominciato la sua carriera suonando la tromba
nell’Orchestra Filarmonica di Pechino ma appena ascoltati i nastri di
“cattivi ragazzi” come Beatles, Rolling Stones e Police ha iniziato, ed è
stato il primo, a fare del rock. Ha cominciato così a suonare nei locali
pechinesi facendosi conoscere e apprezzare, e nel 1986 ha partecipato
all’Year of the World Peace Concert durante il quale eseguendo la sua
canzone tuttora più famosa
“Nothing
to
my Name” (non inganni il
nome inglese,
è tutta in mandarino), è
divenuto l’idolo
dei giovani cinesi. Oggi è
una
grande
star acclamata da milioni
di
persone
in tutta l’Asia orientale,
la sua è una
carriera costellata di grandi
traguardi:
concerti
alla
Knitting
Factory e al
Roskilde Festival , apparizioni
su MTV e CNN,
concerti con i Rolling Stones
e
i
Deep
Purple. Eppure lui stesso non
crede di aver
raggiunto l’apice: “ho molti
progetti, molte
cose ancora da fare”. In
effetti ad aprile
il quarantenne cantante
cinese è stato
ancora una volta in tournee
in
America
ed ha suonato su rinomati
palcoscenici
come il Fillmore di San Francisco e il Moore Theatre di Seattle. Cui Jian
attacca l’easy listening e propone un rock eclettico, i suoi album sono
molto diversi tra loro e all’interno di uno stesso cd ogni canzone segue
un proprio percorso musicale che va dal jazz allo ska, dalla fusion
all’hip hop all’elettronica non senza un tocco di musica popolare
cinese; esempio lampante di tale varietà è il suo quarto cd “The
power of the powerless”. Ogni album è fortemente voluto e studiato
in modo quasi maniacale per garantire la qualità della musica ma
anche dei testi, costantemente limati poiché come lui stesso asserisce:
“la musica non deve solo divertire ma anche occuparsi di cose
serie”. Questa attenzione ai particolari ha come risultato soli quattro
album in vent’anni di carriera. Alla
maniera dei più grandi Cui Jian
è un artista che si reinventa, che
cerca continuamente stimoli anche
fuori dal pop rock canonico, non
fa infatti mistero della sua attuale
passione per l’hip pop: “hip pop is
like a big wave”, mi ha confidato
durante un’intervista a Berlino.
Rock made in China, suona strano,
ma suona bene, ed è forse l’unico
risvolto positivo della tanto discussa
e discutibile globalizzazione.
Alfredo Borsetti
Nell’Impero Celeste
oltre
all’economia
cresce
anche la musica.
DAGLI STATI UNITI KARATE E
BASSHOLES
Rock, punk, folk, noise, elettronica, indie, lo-fi, beat sono gli
ingredienti fondamentali della prima edizione della rassegna
Keep Cool organizzata dalla Cooperativa CoolClub, con la
direzione artistica di Cesare Liaci. Cinque concerti per tentare,
con una programmazione interessante ma non eclatante,
di mettere al centro dell’attenzione progetti e artisti (lontani
dalla pizzica e dal reggae) che possono donare nuova linfa
ai musicisti (soprattutto quelli più giovani) che in questa terra
crescono. Un ritorno ai suoni più duri del garage e del punk,
senza disdegnare folk e sperimentazione per riportare la
calma in un mondo musicale che sembra impazzire dietro cifre
astronomiche e successi meteora. La rassegna internazionale,
dopo il prologo francese con Angle, Sylvain Chauveau e
Arca, prosegue martedì 8 febbraio al Chlorò di Calimera con
il concerto dei Karate. La storia dei Karate comincia a Boston
circa dieci anni fa, musicisti usciti freschi dal conservatorio jazz
mettono su questa band che in cinque album registrati negli
ultimi otto anni è riuscita a fondere generi e stagioni musicali
accostando a una grande padronanza tecnica un’eleganza
e un’intensità espressiva rare nell’ambiente alternative.
Capitanati dal cantante, chitarrista Geoff Farina arrivano al
loro primo album nel 96. Il disco omonimo ha già dentro tanto
di quello che i Karate avrebbero portato avanti e sviluppato
e anche tanto altro che la maturità gli avrebbe fatto mettere
da parte. Innanzitutto una struttura libera nella scrittura dei
brani, mai vincolata agli schemi classici della canzone che
sorprende all’ascolto, capace di prenderti alla sprovvista.
Poi c’è l’essenzialità di alcune tessiture strumentali asciutte e
precise, le grandi aperture, la voce inconfondibile di Geoff
che tante ne ha ispirate, una tendenza in linea di massima
emo ma anche altro, molto di più. Gli anni e i dischi passano. Il
97 è l’anno in cui la band raddrizza il tiro con un nuovo disco In
Place of Real Insight e in cui si riassetta la formazione passando
all’odierno trio. La vena più rock si ammorbidisce lasciando
intravedere sfumature più jazzy e lounge [Unsolved (2000),
Cancel/Sing (2002)]. Oggi questo Pockets. I toni si smorzano
ma si fanno allo stesso tempo più spessi. La chitarra di Farina
adesso corre tra i confini della melodia e si poggia leggera su
parole pesanti che mai come prima guardano ai contenuti.
Basso e batteria sono un orologio che scandisce uno di quei
dischi che non si fatica a definire “della maturità”. È qui che
tutto l’ascoltato, l’assorbito in anni di esperienza diventa
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CoolClub
.it
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utile, strumento espressivo
a 360° gradi. Conservando
le caratteristiche scalate in
minore o le aritmie perfette,
quel circolo vizioso che da
dispari torna pari i Karate
sfoderano un suono nuovo.
A tratti sembra di riconoscerli
(Concrete) ma poi ti sfuggono
(Water) in una semi bossa.
I chitarroni di un tempo
lasciano il posto a reverberi
a molla, a cadenze quasi
blues. Pockets dimostra come
si può essere pesanti senza
necessariamente
pestare
su corde e pedali e lo fa
semplicemente
in fondo, senza
tanti
orpelli.
Tow truck riesce
a condensare
spirito
easy,
istinto
Jazz
(sentite
le
scale di basso),
attitudine
rumoristica.
Una continua
fucina
di
spunti per una
nuova ricerca
musicale, forse
questo
sono
oggi i Karate. Se
vi aspettate un
disco rock forse
non rimarrete
pienamente
soddisfatti
ma se avete
orecchie
e
mente aperta
non potrete non rimanere
sorpresi.
La rassegna ospiterà ancora
un gruppo statunitense. Al
Candle di Lecce il 22 febbraio
spazio alla carica esplosiva
degli statunitensi BassHoles.
Suono infuocato ed irresistibile
garage Rock ‘n’ Roll nella
tradizionale formula chitarre
& batteria.
Osvaldo
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THE NEW YEAR OF COOLCLUB
Il primo numero del 2005 di
Coolclub.it. Il secondo numero
a colori e con più pagine. Un
argomento che richiama la
ribellione dei figli contro i nostri
padri. Un argomento che
mi trova d’accordo a metà.
D’accordo per la mia innata
e continua inclinazione alla
ribellione (non al ribellismo)
e non d’accordo per una
semplice constatazione
anagrafica. Di quale
generazione faccio parte io?
Non sono pochi i miei amici
con prole e quelli coniugati, di
cui faccio parte anch’io del
resto. Quindi sono o non sono
io stesso un rappresentante
della generazione dei padri?
Sono tra i più vecchi che
scrivono su queste pagine e
quindi probabilmente i miei
amici non condivideranno
queste considerazioni.
E un’altra cosa mi viene da
dire. Sì è vero faccio parte
della generazione dei padri.
Ma che generazione è la
mia?
L’hanno definita in tanti
modi, da generazione x
a generazione shampoo
eccetera. Ma in realtà sembra
essere una generazione
che sfugge a tutte le
definizioni, compresa quella di
generazione stessa.
Sui trentenni di oggi hanno
fatto un sacco di film, scritto
libri e romanzi, pubblicato
dati di sondaggi vari, ma
niente da fare, continua
a sfuggire un comune
denominatore. Tranne uno
forse: la mancanza di fiducia
e di prospettive. Quanti sono
i miei amici che sono sicuri
di percepire una pensione
quando sarà il momento?
Non più di tre o quattro.
Quanti sono quelli che
possono sperare di vedersi
concedere un mutuo per
l’acquisto di una casa? Non
più di tre o quattro. E quelli
che affrontano l’idea di fare
figli con serenità? Pochi,
anche loro.
Mio padre sta per andare
in pensione, è soddisfatto,
ha lavorato una vita per
arrivare a questo momento,
per avere la sicurezza di
potere affrontare gli anni a
venire con serenità. Lo invidio
molto, lo confesso. Invidio
le sue certezze conquistate
con la fatica. E odio la sua
generazione. Che ha fatto in
modo che la mia di certezze
non ne potesse avere,
decostruendo con leggi
e leggine decenni di lotte
sindacali e popolari, gettando
nel dimenticatoio pubblico
le notti in carcere, le morti di
chi ha lottato perché i nostri
padri, almeno loro, potessero
andare in pace in pensione.
E così si apre il 2005, che
speriamo sinceramente si
apra con dei segnali più
positivi rispetto a quelli con
cui si è chiuso il 2004. Ma, l’ho
già detto, geneticamente
mi manca l’ottimismo e la
fiducia e quindi, sinceramente
non credo che le cose
cambieranno, né per i
precari italiani come me, né
tanto mano per le sorti delle
popolazioni “svantaggiate”,
usando uno dei tanti
eufemismi che cancellano
le disparità e le asperità.
Eufemismi che servono a
dirci che va tutto bene, non
c’è nessun problema, come
direbbe Antonio Albanese.
Per noi il 2005 sarà un anno
importante. Alcune novità
già le conoscete, come il
giornale a colori e il nuovo
sito che vsitate sempre più
numerosi; altre novità ve le
abbiamo annunciate, come
la campagna associativa
a Coolclub, nella quale
abbiamo molta fiducia.
Da oggi è possibile
infatti diventare membri
dell’associazione culturale
CoolClub. Abbiamo pensato
a tutte le tasche e a tutti gli
amici. Con 10 euro avrete la
possibilità di ricevere questo
giornale comodamente a
casa vostra e di usufruire di
sconti per i nostri concerti.
Con 20 e 50 euro avrete
inoltre la nostra maglietta e
vari piccoli regali nel corso
dell’anno.
Speriamo che altre novità
arrivino ancora, speriamo che
qualcosa succeda in questo
Paese e in questo Sud e in
questa città.
Gli spazi per l’agibilità delle
nostre vite sono ancora ampi,
ci sono ancora dei margini
entro cui muoversi. Altri spazi
invece ci sono negati come
sempre. Non disperiamo,
prima o poi qualcuno si
accorgerà che a Lecce
e in provincia mancano
spazi pubblici per gli eventi
indipendenti.
dario