Destra. Come ha messo in crisi la sinistra

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Destra. Come ha messo in crisi la sinistra
Centro Studi Repubblica Sociale Italiana
Destra. Come ha messo in crisi la sinistra
Inviato da Redazione
venerdì 22 agosto 2008
Ultimo aggiornamento domenica 24 agosto 2008
Gabriele Romagnoli, Destra. Come ha messo in crisi la sinistra. Dopo le vittorie in italia e in Inghilterra. Un nazionalismo
strano che affida la difesa del Paese a chi vuole smembrarlo. Si vuole tenere Alitalia in mani nazionali quasi Spinetta
fosse come Zidane, in «La Repubblica», 13 maggio 2008, p. 41.  C’è stato un momento divinatorio, in cui il futuro
imminente dell’Italia è apparso chiaro a chiunque avesse occhi per vederlo. Era il luglio del 2006, la Nazionale aveva
appena vinto i Mondiali di calcio e i trionfatori sfilavano ai Fori Imperiali, vestiti di scuro, sul tetto di un autobus. Li
accompagnavano una folla immensa e uno striscione con la scritta: "Fieri di essere italiani". A un certo punto apparivano,
dalle parti dell’eroico portiere Buffon, simboli inequivocabilmente nazisti. "Forse non se ne è accorto", commentò
sospesa tra ipocrisia e superficialità la giovane Giorgia Meloni, attualmente ministro in quota Alleanza Nazionale. Quello
di cui era necessario accorgersi era che tutta la scenografia della celebrazione, l’evento stesso che il destino aveva
partorito recava i crismi della storia in fieri, conteneva gli elementi del Dna, del paradossale Dna della destra italiana che
si avviava, di lì a due anni, a una vittoria paragonabile a quella ottenuta dai calciatori nel lugubre, hitleriano, stadio di
Berlino.
Primo elemento: il nazionalismo. "Fieri di essere italiani" si proclamavano a decine di migliaia, soprattutto giovani.
Un’intera generazione si è andata riappropriando di una caratteristica che non solo i padri, ma i fratelli maggiori avevano
rinnegato, perfino con disdegno. Globalisti, localisti, ma patriottici mai. Da qualche anno covava invece una rinascita del
sentimento nazionale, celebrata con la rabbia e l’orgoglio del pamphlet di Oriana Fallaci, sublimata nell’ammirazione per
modo di affrontare la morte di Fabrizio Quattrocchi, giustiziato in Iraq. L alimentava la paura e il disprezzo per l’altro,
l’usurpatore del presunto diritto a godere della posizione migliore, fosse l’odiato francese che vinceva le finali o il
maghrebino che attecchiva nella provincia settentrionale (entità mirabilmente fuse nella figura, infine umiliata, di Zinedine
Zidane). Un nazionalismo ingenuo e contraddittorio, al punto da finire per demandare la difesa contro lo straniero a un
partito, la Lega, che contemporaneamente teorizzava il superamento dell’Italia. Un feticcio, ma a larga
diffusione.Secondo elemento: il carro dei vincitori. Tutti su, insieme con Buffon, non importa se si è accorto di portare la
svastica: è campione del mondo. La destra ha cominciato a vincere quando è stata predetta vincente. Ha allargato il
consenso quanto più questa predizione si è rafforzata. Viviamo in tempi di incertezze, morali prima ancora che
economiche: si corre ai ripari forti. Viviamo, ancor più, in un epoca che propone un infinità di sfide, illumina chi le supera
e oscura chi non ce la fa. Il mondo dello spettacolo, ormai fuso con quello reale, proclama con scadenze sempre più
ravvicinate vincitori e vinti.Gli uni restano in gara, gli altri scompaiono nella botola. Vincere è percepito, a distanza di
decenni, nuovamente come un imperativo, ma per sopravvivere.Il Moretti di Caro diario che proclamava, anche lui fiero a
suo modo: «Voglio restare minoranza», giacché se diventi maggioranza qualcosa hai sbagliato è un modello da
irridere. Come lo è il Vecchioni di :«Vincere significa accettare e questo, lo dovessi mai fare, tu questo non me lo
perdonare». Di nuovo spinge verso destra un misto di entusiasmo e paura.Terzo elemento: il superamento della legalità .
I ragazzi sul tetto dell’autobus e del mondo erano, due mesi prima, alle soglie della squalifica. Travolti a vario titolo nelle
nefandezze del calcio italiano. I più rappresentativi di loro (Cannavaro e, inevitabilmente, Buffon) erano sotto accusa. Si
era parlato addirittura di lasciarli a casa, di sostituire l’intera Nazionale con una rosa di ragazzi, in segno di simbolica
rinascita. Scampati all’abisso, avevano trovato risalendone le motivazioni per vincere. E la vittoria aveva cancellato ogni
passato, assolto tutti. C’è, nella destra italiana, lo stesso percorso autoassolutorio. Vincendo si emenda da ogni colpa. In
un paradosso superiore a ogni altro ha ceduto ad altri la propria bandiera legalitaria. Ha sospinto a sinistra personaggi
che antropologicamente e idealmente le appartengono (Di Pietro), indotto a mutuarne i metodi altri che le sono estranei
(Cofferati).Nell’abbraccio tutt’altro che mortale, anzi rigenerante e salvifico, con Berlusconi ha perduto le proprie
caratteristiche. Un purista come Pietrangelo Buttafuoco diceva anni fa in una intervista al settimanale Diario: «Un tempo
il missino lo riconoscevi, nel condominio, quartiere, paese, per la sua rispettabilità , la pignoleria nell’applicare la legge, per
come era inflessibile». Ora, pur di conquistare il potere, la destra ha acquisito la predisposizione nazionale e la
berlusconiana necessità di venire a patti con la legge: gabbandola, aggirandola, se non resta altra via modificandola. Era
difficile riconoscersi negli uomini tutti d un pezzo, molto più facile riconoscersi in questi, inclini se non al perdono, almeno
al condono.E veniamo qui al quarto elemento: l’identificazione. Antropologicamente gli esponenti politici della destra sono
molto più vicini all’italiano medio. Lo sono intellettualmente, e non è un giudizio di valore, del tipo scolastico. È questa un
epoca di grande complessità . Di fronte alla complessità la sinistra reagisce da sempre con la pretesa di spiegarla, in scala
1 a 1, cadendo in un pozzo borgesiano. La destra reagisce tentando di semplificarla. Noam Chomsky contro Ronald
Reagan, Toni Negri contro Ignazio La Russa, non c’è partita: è Ucraina-Italia. Piuttosto che un modulo poco
comprensibile e per nulla ottimista, meglio le ricette semplici, il linguaggio forte. I giornali della destra italiana hanno stili
di titolazione all’incrocio tra quelli sportivi e (ennesimo paradosso) quelli storici della sinistra extra-parlamentare. Gli
esponenti politici si adeguano, con successo: il pubblico capisce i propri interlocutori, si sente più vicino a loro, anche
umanamente. Da una parte i cupi, i secchioni, i monogami a vita.Dall’altra i nottambuli con le amanti vallette e i figli in
arrivo da una donna che non è la moglie. È un paradosso avere una destra che rispolvera l’identità cristiana e celebra il
Family Day mentre vive paganamente e fa la fortuna degli avvocati divorzisti? Non più di quanto lo sia una destra che,
infischiandosene dei diritti umani e dei trascorsi comunisti (altrove considerati marchio d’infamia), fa affari con Putin ed
evita di pronunciarsi sul Tibet per non infastidire la Cina. In questa contraddittorietà l’elettorato, il popolo, la curva del
Circo Massimo non rileva un elemento negativo, anzi: ci si adagia riconoscendosi. Si può dunque proseguire nell’abiura,
abdicando a ogni elemento storico. "Meno Stato, più mercato" dovrebbe essere una regola doro della destra, ma nella
vicenda Alitalia quella italiana fa esattamente l’opposto, cercando di salvare a spese dello Stato (con prestiti ponte, con
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l’idea di comprarsela tramite le Ferrovie) un’azienda bocciata dal mercato.Perché? Perché ama l’Italia, la sua ba
sua compagnia di bandiera, perché non finisca in mano agli odiati francesi, manco Spinetta fosse Zidane, venuto a
prenderci a testate. Si chiude il cerchio, tornando al frainteso nazionalismo, alla fierezza di essere italiani in una notte
destate, a questa versione di destra che per i giovani è una scelta di appartenenza a qualcosa di vincente come lo fu
quella Nazionale, per gli impauriti (che sono tanti) una via d’uscita più immediata, per quelli che non capiscono il presente
una spiegazione più facile e apparentemente efficace. Per tutti qualcosa, o meglio ancora qualcuno più vicino: nella
condotta, nei ragionamenti e nelle aspettative. Non è il facile folclore dei giornali stranieri, non è TelePredappio, è
qualcosa di molto più profondo, contraddittorio e duraturo. È l’immagine del Paese, reale e non spettacolare. Chi la
giudica distorta sta guardando da troppo tempo lo specchio invece di quel che ci si riflette.Â
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