La paura della verità alimenta il terrore,Il nirvana

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La paura della verità alimenta il terrore,Il nirvana
Tutto il potere ai manager
Nel linguaggio del corpo la posizione con le braccia conserte
esprime un atteggiamento negativo o difensivo, una barriera tra se stessi e il nostro interlocutore che noi tutti
percepiamo con un senso di disagio. Eppure, come si può notare su tutti i quotidiani che scrivono di economia e finanza i
manager sono spesso fotografati in questa posa, anche sorridenti. Sono finiti i tempi in cui gli operai davanti alle fabbriche
incrociavano le braccia per sottolineare la loro indisponibilità verso il padrone.
Manager! Chi è costui? Per i latini, dalla cui lingua deriva il termine inglese, manu agere era un’espressione che significava
‘condurre con la mano’ o anche ‘guidare una bestia stando davanti a lei’. Oggi il termine è diffuso in tutto il mondo e sta ad
indicare un dirigente con responsabilità del processo e capace di gestire le risorse per conseguire determinati obiettivi. Se
nell’ambito strettamente operativo della fabbrica o della azienda la funzione del manager è chiara, dal punto di vista
del diritto la questione si complica perché la funzione è definita come l’attività svolta da un soggetto non nel proprio
interesse ma nell’interesse altrui, un interesse che può essere privato come nel caso di un consiglio di amministrazione di
un’azienda, o pubblico come nel caso di un ente pubblico o un governo in rappresentanza dei cittadini. Subentra infatti il
concetto di “interesse” che supera la necessità oggettiva puramente tecnico-operativa reintroducendo il soggetto con la sua
volontà.
Nella civiltà dominata dalla Tecnica, più che i mezzi e il fine conta la funzione, il processo, secondo il quale i mezzi sono
considerati neutrali e quindi tutti utilizzabili per conseguire il fine, che diventa tutto ciò che può essere conseguito: il
risultato. La ragione di Stato diventa la ragione della Tecnica e l’economia il pensiero dominante. La prospettiva è unica e
totalizzante: ogni lavoratore diventa un funzionario del sistema che opera al suo interno con gradi di libertà proporzionali al
ruolo. La società tende a diventare il luogo del mercato, entità neutrale senza più ideologie, nella misura in cui diventa
l’estensione di un’azienda nella quale non si lavora più per un padrone, ma per un’organizzazione complessa dove la figura
dell’imprenditore si scambia con quello dell’amministratore delegato.
L’esaltazione della funzione del manager, nella misura in cui l’intervento degli uomini del fare crea l’aspettativa della
soluzione dei problemi, è l’indicatore del decadimento del valore della politica nella società della Tecnica, in cui lo Stato
viene concepito come un’azienda e il Comune come un condominio. In questo dominio la figura del manager da una parte si
sostituisce al padrone, la cui proprietà familiare o societaria rimane appartata sullo sfondo, dall’altra al leader politico, la cui
visione del mondo diventa inconsistente. Nella nostra società globalizzata e dominata dal mercato i manager sono l’edizione
moderna dei “capitani di ventura”, i comandanti di una compagnia privata di mercenari dette per l’appunto “compagnie di
ventura”. E non è un caso che il loro successo politico si stia affermando particolarmente nel nostro paese, la cui tradizione
di assoldare capitani di ventura coi loro mercenari, le compagnie di ventura che oggi si chiamerebbero squadre, risale al
medioevo.
Quella figura del manager a mezzo busto che con le braccia conserte ci guarda dalla foto non vuole essere soltanto la figura
salvifica dell’uomo del fare, ma rappresenta il funzionario della Tecnica che ci dice sorridendo: “È l’economia bellezza e tu
cittadino non puoi farci niente”.
L’ascolto degli altri secondo i Gesuiti
Il Papa della Chiesa Cattolica parla per il bene
dell’umanità e in particolare per gli umili e gli oppressi.
Tuttavia per la politica di Papa Francesco non basta il
successo popolare, al gesuita s’impone di seguire il
ministero della “cura delle anime”: occorre che ci si
educhi e ci si convinca. Alle esternazioni del Pontefice
segue dunque la letteratura di appoggio dei suoi
esegeti, per esempio la recente opera di Adriano Prosperi
“La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e
Seicento” . Il saggio si pone come fine quello di sfatare alcuni luoghi comuni
sull’ordine dei gesuiti rivalutandone la storia e la capacità di dialogo piuttosto
che l’azione di proselitismo.
L’autore del saggio così difende l’argomento: “«Un tratto che distingue l’
ordine fondato da Ignazio è l’ apertura senza limiti al diverso
religioso» e subito dopo prosegue con l’osservazione «E soprattutto la
disponibilità a percepire nei comportamenti una religiosità diffusa, anche se
non espressamente manifesta” portando ad esempio quel “Francesco Saverio
che approdato in Giappone disse agli studenti universitari europei: correte
perché qui si tratta di rivelare a questo popolo che sono cristiani anche se non
lo sanno”. Se di apertura e dialogo si trattava certo non era tolleranza. D’altra
parte, se l’apertura e il dialogo era rivolto ad oriente, come se quelle
popolazioni induiste e buddiste da millenni si trovassero in uno stato selvaggio
sul piano religioso, la tolleranza era già stata mostrata nei confronti degli
evangelici protestanti: “Intendiamoci: erano tempi di guerra di religione e
anche i gesuiti dovettero trafficare pesantemente contro i nemici eretici”. Già,
lavoro pesante per i gesuiti usati per combattere i protestanti che erano i
nemici eretici , dal momento che non v’erano dubbi su chi fosse detentore della
verità. Una verità sulla quale allora si giustificava l’esercizio del potere, tanto
spirituale che temporale, ed oggi la ricostruzione storica giustificazionista. E
così continua “l’ apertura senza limiti al diverso religioso”: “Ma al fondo
rimase questa convinzione che sulla base di precetti morali semplici ci si
poteva incontrare. Bisognava ascoltare gli altri. E, come diceva Ignazio,
bisognava “entrare con l’ altro e uscire con se stesso”: un motto che evoca il
rituale della lotta giapponese, una cedevolezza apparente che ti permette di
abbracciare il tuo interlocutore per portarlo dalla tua parte»”.
A me rimane invece la convinzione, avvaloratami dalle argomentazioni usate
nel saggio, che il proselitismo è sempre stata la principale funzione di
quest’ordine (i cui ministeri erano la cura delle anime, le opere di carità e
l’attività educativa) e che, come ogni potere totalitario apprenderà da allora,
i gesuiti «Seppero riconoscere il tesoro nascosto nella plasticità delle giovani e
spesso giovanissime intelligenze, intercettando il bisogno di sapere che
proveniva da tutta la società. Fu l’ asso calato da Ignazio nel secolo che
scopriva la scuola».
Alla fin fine, la rivalutazione dei gesuiti in questo saggio passa attraverso la
figura cinematografica nota come il “poliziotto buono e poliziotto cattivo”,
essendo i Gesuiti il volto buono, mentre all’Inquisizione rimane quello cattivo.
La paura della verità alimenta il terrore
Se il terrorismo non va confuso con la
crisi migratoria, è altrettanto vero che la
pulsione xenofoba strisciante in Europa non è
razzista e non va confusa con la crisi della
democrazia. I contriti democratici dovrebbero
piuttosto considerare l’ondata xenofoba
anch’essa come un’espressione della volontà popolare a cui amano
richiamarsi.
Oggi siamo di nuovo in lutto per altre vittime di attentati jihadisti a
Bruxelles, nemmeno il tempo di rincuorarsi dai precedenti con la
cattura di un responsabile al Bathaclan. La paura dilaga
e nemmeno più ci si può abbandonare all’adagio rassegnato de
“l’ordine regna, ma non governa” perché il terrorismo c’è ed
incalza con una velocità del proselitismo jihadista tra giovani
europei (cosiddetti “homegrown mujahidin”) che è uguale, se non
superiore, a quella della crescita del sentimento xenofobo. Ma cosa
temere di più: l’azione sanguinaria e spettacolare compiuta
da Salah Abdeslam a Parigi o la copertura silenziosa del suo autore
per quattro mesi nel quartiere Molenbeek di Bruxelles? La stupidità
giornalettistica si agita di fronte a tali eventi descrivendoli
attraverso titoli e commenti dai toni della cronaca nera, stile a loro
più familiare: a quando un terrorista jiahdista, magari pentito,
intervistato a “Porta a Porta”? Anche da ciò si capisce cosa
significa “società dello spettacolo”, dove la paura di fronte a tali
eventi altro non è che la proiezione della nostra passività,
ipocritamente ammantata di principi democratici e ostentata
dal politicamente corretto. Passività nostra di singoli cittadini, ma
anche degli Stati e dei Governi. È singolare l’asimmetria che si
osserva tra le valutazioni dell’Europa rispetto alle sue crisi.
l’Europa infatti non esiste come entità politica quando si tratta di
decidere sulla finanza, sulla politica fiscale, per affrontare
l’immigrazione o agire contro lo Stato Islamico, ma esiste quando è
oggetto degli attentati terroristici, quasi fosse un unico corpo: “Is,
guerra all’Europa” titolano i quotidiani.
Lucio Caracciolo nel suo articolo “La crisi migratoria rivela chi
siamo veramente” apparso su La Repubblica del 29/1/2016 non si
capacitava di come la Svezia, paese di indubbia solidità civile e di
tradizione politica socialdemocratica, possa essere giunta alla
decisione di espellere 80 mila migranti dopo aver
sostenuto una politica modello di accoglienza . Da questa decisione
per l’espulsione l’analista trae la preoccupazione circa l’instaurarsi
in tutta l’Europa di un circuito perverso di azioni e reazioni
irrazionali che tendono ad uscire dal controllo: intervento militare
contro lo Stato Islamico- azioni terroristiche dello Stato Islamico in
Europa – reazione xenofoba delle popolazioni europee.
Il titolo dell’articolo di Caracciolo parafrasa la ben nota verità
secondo la quale nello stato di emergenza, di fronte ad un reale
pericolo, uno stato di limite, noi riveliamo la nostra vera natura.
L’istinto di conservazione tende a prevalere sulla educazione civile
rendendo quell’esposizione al limite un test del grado di civiltà
raggiunto. Ed è per superare questo test che nella specie umana si
è evoluta per oltre due milioni di anni la cultura come una forza
più efficace della natura stessa. Tuttavia, come insegnano le leggi
della fisica, il progresso della cultura, ovvero della civiltà di un
popolo, è uno equilibrio instabile: tanto più alto è il livello
raggiunto tanto maggiore sarà l’energia necessaria per mantenerlo
e basta poco per farlo ricadere a livelli più bassi. Terrorismo,
emergenza, livello di civiltà sono esemplificazioni del concetto di
limite che descrive nella progressività degli eventi l’avvicinarsi ad
una data situazione ed anche la logica ci aiuta a comprendere tale
situazione quando dimostra che la coerenza di un sistema è tale
proprio perché non può essere dimostrata.
Dove sta la democrazia in tutto questo? Sarebbe stato meglio
mantenere i dittatori al potere piuttosto che inneggiare alle
“primavere arabe”?
Alla fin fine, la questione che gli ultimi
quindici anni hanno posto e che ci occuperà per il prossimo futuro
è se si può praticare la democrazia quando la si deve difendere
dagli attacchi che ne minacciano l’esistenza ? Il fatto è che si sono
confusi i principi con i valori, la volontà con il potere, con il modo di
governare, più in generale la libertà con il laissez
faire, laissez passer. In una delle tante chiacchierate lascive che si
svolgono in televisione i presenti si arrovellavano sugli effetti
nefasti per la nostra vita quotidiana e per l’economia dovuta alle
limitazioni al turismo per la paura indotta dal terrorismo,
sforzandosi di rassicurare gli spettatori: “non rinunciate a
viaggiare perché fa parte della nostra cultura … e poi si crea un
danno all’economia di quei paesi che vivono sul turismo…”.
La coscienza delle ultime due generazioni europee è stata
intorpidita da una condizione di benessere artificiale e
irresponsabile scambiandola per la “pace” quando in realtà si
trattava di “pacificazione”, di sottomissione al pensiero unico
dell’economia . Il “pacifismo” peloso inneggia al laicismo,
all’armonia e solidarietà tra i popoli dimenticando i sacrifici dei
padri, rifiutando di conoscere che quei principi e i valori
democratici attraverso i quali si aspira a realizzarli sono costati
sangue a centinaia di milioni di persone delle generazioni
precedenti: rivolte di schiavi e oppressi, guerre di liberazione,
rivoluzioni sociali, guerre per l’unità nazionale ed anche guerre
mondiali. In particolare, proprio quei principi universali di libertà,
eguaglianza e fraternità che oggi si invocano ogni volta che l’altra
parte del mondo rivela la propria arretratezza culturale si sono
prima diffusi con la cultura dell’Illuminismo e poi imposti con la
violenza della Rivoluzione Francese (per non parlare delle guerre
con le quali Napoleone intese esportare la “democrazia” in
Europa).
Tornando al presente, noi dobbiamo temere il fenomeno che è
stato denotato come “ondata xenofoba”, che in varie forme e
intensità avanza in sempre più numerosi paesi europei, non tanto
perché esso possa far riemergere sentimenti razzisti,
quanto perché quel fenomeno rivela la malattia senile delle nostre
democrazie, ovvero la nostra incapacità a rinunciare sia pure in
stati di emergenza ai nostri previlegi per difendere i nostri principi
e valori. Questa è la vera asimmetria della guerra in atto:
l’opinione contraria ad ogni forma di violenza diffusa tra i cittadini
europei di fronte al fanatismo religioso di uomini che cercano
la morte usando se stessi come un’arma. Una battuta del film “Il
ponte delle spie” ci aiuta a comprendere lo stato d’animo e il livello
culturale con cui milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti
tragici del mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa
a cui aggrapparmi. La verità non mi interessa”.
Il nirvana artificiale
Un luogo comune vuole che la tecnologia abbia
cambiato il nostro modo di lavorare
e di
vivere. È una evidenza che nasconde però ben
altra verità. Una verità che si manifesta oggi
anche attraverso il nuovo linguaggio del luogo
comune, quello della pubblicità. Una
campagna pubblicitaria di un importante
operatore telefonico nazionale descrivendo le
meraviglie dell’evoluzione nelle telecomunicazioni parla di un universo di
comunicazioni illimitato, di una tv unificata, per concludere dicendo: “Le nuove
tecnologie ti stanno danno la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?”.
Fantastico e aggiungerei terrificante, vengono i brividi alla schiena.
Pensiero unico, partito della nazione e ora anche una sorta di unica televisione
iper tecnologica al di sopra di tutte le televisioni, tutto per liberarci
dall’angosciosa responsabilità di fare una scelta. Un nirvana artificiale. Anche
in questo messaggio, anzi proprio in questo tipo di messaggio che si rivolge a
tutti, si può riconoscere che sta avvenendo una mutazione nelle teste delle
persone che porta al pensiero unico. Non si tratta più di offrire una variabilità
di merci lasciando al consumatore l’illusione di scegliere, esiste infatti un
sovraccarico di questa offerta, una fatica da stimolo che genera un’angoscia
insopportabile all’atto della risposta: che auto acquisto, che film guardo, come
investo i miei soldi, che candidato sindaco voto, qual è lo smartphone migliore,
qual è il tonno più buono … Di fronte alla crisi del mercato che mi abbandona
nello stato del “voglio ma non posso”, di fronte alle
sollecitazioni partecipative della democrazia dei sondaggi l’accumularsi delle
occasioni di operare una scelta mi scoprono senza strumenti e senza criteri e
mi fanno percepire il peso sempre meno sopportabile della responsabilità, la
capacità di dare risposte.
La libertà non è più il “lasciatemi in pace” per poter “fare ciò che voglio”
perché la crisi economica, il terrorismo, il cambiamento climatico, la
competizione globale incombono su tutto e su tutti. Il nuovo intendimento
della libertà sarà dunque quello di risparmiarci l’onere di dover scegliere
esonerandoci dalla responsabilità, individuale e collettiva. Non sarà più una
dittatura illiberale impostami con la costrizione, ma una forma di democrazia
prodotta dal pensiero unico che recuperando l’atavico istinto dell’appartenenza
offrirà la sicurezza in cambio di una semplice adesione. Una democrazia
plebiscitaria in chiave tecnologica il cui algoritmo ci porterà all’unica scelta
possibile, quella binaria tra il sì e il no.
Forse di questo si tratta negli appelli sottoscritti in questi anni dai più famosi
scienziati contro i pericoli dell’intelligenza artificiale. Di fronte alla crescente e
minacciosa complessità del mondo sarò io stesso a richiedere questo nuovo
“welfare state”. La verità esce così dalla prospettiva del pensiero. Una battuta
del film “Il ponte delle spie” ci aiuta a capire lo stato d’animo e il livello
culturale con cui milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti tragici del
mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa a cui aggrapparmi. La
verità non mi interessa”.
Fare o non fare questo è il problema
La vignetta di Massimo Bucchi accompagnata
dalla battuta “per una giustizia rapida e più
efficiente aboliremo quanti più reati possibili” fa
sorridere amaramente perché afferma una verità
indicibile. Non solo una verità sullo stato della
giustizia nel nostro paese e sulla politica
che l’amministra, ma una verità sulla mentalità diffusa a tutti i
livelli di pensiero ormai diventata metastasi del pensiero unico in
tutti gli ambiti dell’operatività: la logica imperante del primato del
risultato, che prevale sui principi e finisce con invertire la relazione
tra causa ed effetto.
Troviamo un esempio di questa logica in un articolo del
20/01/2016 sempre su La Repubblica dove si tratta dell’aumento
del numero dei corsi universitari a numero chiuso e si esprime la
preoccupazione di andare verso una università per pochi, questa
volta non tanto per il costo delle rette quanto per l’aumentata
selezione all’ingresso. Sull’argomento viene pubblicata anche
un’intervista al Prorettore alla didattica dell’Università Bicocca di
Milano, in cui la verità sul fenomeno in argomento viene distribuita
tra le domande e le risposte come fosse un copione teatrale,
provocando un effetto a dir poco surreale: “Diminuisce il numero
dei professori, aumenta quello delle aspiranti matricole. Quindi
bisogna mettere un freno alla continua crescita“?, chiede il
giornalista, “Proprio così” risponde il prorettore che più oltre
prosegue “In Italia c’è un grosso problema legato agli abbandoni.
L’idea di porre un freno a questo ha portato al numero
programmato. Molti studenti infatti lasciavano gli studi perché non
seguiti dai professori., i quali non potevano seguire tutti perché le
classi erano grandi. Uno spreco di capitale umano enorme, se ci
pensa“. E il giornalista incalza: “ Quindi con la selezione
all’ingresso diminuiscono gli studentesche lasciano l’università?”
ottenendo per risposta “Si. L’abbiamo sperimentato direttamente
(…) Funziona perché diventa una selezione di qualità e gli studenti
che si iscrivono sono più motivati”. Qui ci fermiamo perché c’è
abbastanza materiale per una riflessione.
La logica che traspare da queste poche battute ricorda la supplyside economy, tanto di moda nei primi anni ottanta col nome
di Reaganomics, ovvero l’idea contrapposta a quella keynesiana
secondo la quale sarebbe l’offerta a stimolare la crescita
economica. Se a questa teoria macroeconomica si affianca poi il
rigore sul pareggio dei bilanci che tanto ha condizionato l’economia
europea di questi ultimi cinque anni, otterremmo il quadro di
riferimento concettuale all’interno del quale si colloca la necessità
del numero chiuso nelle università. In tutti questi anni la politica,
parafrasando concetti mutuati dalla pratica privatistica aziendale,
ci ha presentato programmi di riforma giuridica, economica e
sociale sostenendo la necessità nel settore pubblico, caratterizzato
da una cultura amministrativa fondata su procedure farraginose,
costose e inconcludenti, verso una cultura gestionale fondata sui
risultati. Di qui la critica alla burocrazia inefficiente e l’esaltazione
della produttività e della concretezza in nome dell’efficacia. La
figura osannata dello “uomo del fare” interpreta bene questa
ideologia, nella misura in cui riassume nella personalità del
leader politico o del manager che si presta alla politica i due
aspetti che caratterizzerebbero il nuovo riformismo. Da un lato, la
solitudine dell’uomo messo a capo della situazione in crisi che
risolve i problemi superando le resistenze di un potere reso
inefficiente dalla necessità di essere condiviso, dall’altro viene
meno l’attenzione al come si fanno le cose per far prevalere quello
che si è fatto e ottenuto, ovvero il risultato.
Questo modo di pensare applicato, come si fa ormai su larga scala
nel mondo, alla ricerca scientifica ha effetti devastanti.
Condizionare la ricerca considerando i risultati, magari da ottenere
a breve termine, come variabile indipendente induce
inevitabilmente, attraverso il controllo degli investimenti, una
limitazione della creatività con il restringimento del campo di
ricerca, con ciò contraddicendo lo spirito stesso della ricerca, che
al contrario deve essere libera, come libero dovrebbe essere il
pensiero, e non necessariamente finalizzata a risultati immediati e
concreti. Sappiamo che di molte delle più rivoluzionarie scoperte
scientifiche o matematiche non si sapeva che farsene appena
prodotte. In altre parole, l’esigenza dell’economia-pensiero unico,
per non parlare della finanza, ha imposto ad ogni attività
l’immediato conseguimento di una utilità, identificando così la
cultura con la tecnologia. Il trionfo del principio del a cosa serve?
Il passo dalla ricerca scientifica all’istruzione e alla formazione è
evidentemente breve. Riprendendo l’argomento iniziale circa la
“utilità” del numero chiuso/programmato all’università vi è da
chiedersi perché volendo pure agire sul lato dell’offerta non si
preferisca adottare politiche più aperte volte a stimolare l’aumento
della domanda di cultura, a potenziare l’università ovvero ampliare
l’universo dei giovani sul quale agire sì con criteri selettivi fondati
sulle capacità ma al fine di ottenere il massimo possibile dei
risultati. L’enorme spreco di capitale umano, di cui si rammarica il
prorettore citato, professore di psicologia, sarebbe così arginato,
dal momento che guardando al futuro di un Paese che continua ad
avere un basso tasso di laureati nella fascia d’età giovanile bisogna
comprendere che se con la cultura forse non si mangia, certamente
d’ignoranza si muore.
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Je suis soldat
“Guerra totale all’Isis” è il nuovo grido di
battaglia consolatorio dopo l’11
settembre di Parigi. Quale che sia il livello
d’intervento che si deciderà prossimamente di
attuare in Medio Oriente, quello che
ormai appare a tutti è l’asimmetria di questa
guerra. Non si tratta di un esercito regolare che
si contrappone ad un altro esercito regolare come
avvenuto in Iraq o a dei guerriglieri come avvenuto in Vietnam. Nè si tratta di
un comune campo di battaglia: dai vasti territori desertici del Medio Oriente e
Nord Africa alle popolate città metropolitane europee. Il fatto è che si è
realizzata da tempo una radicale trasformazione nella concezione stessa delle
armi in uso nella nuova guerra in atto. Sebbene i terroristi usino ancora le armi
convenzionali, la loro vera è più temibile arma è l’uomo stesso: lo jihadista col
giubbotto esplosivo che si fa esplodere in mezzo ad una folla o che spara con
un fucile mitragliatore contro un gruppo di persone in qualsiasi luogo e in
qualsiasi momento della vita quotidiana di una città europea nella rivendicata
consapevolezza di morire. L’intelligence lo sa da sempre ed ora tutti lo
scrivono sui quotidiani che queste azioni sono scarsamente prevedibili e
quando si manifestano sono assai poco contenibili nei danni che vogliono
provocare. Questa asimmetria nella concezione delle armi corrisponde poi ad
una concezione della vita altrettanto diversa tra le parti: noi tutti, non
importa se laici o religiosi, sosteniamo la “sacralità” della vita di ogni persona
e per questo ci dichiariamo anche contrari alla pena di morte e siamo
tolleranti. I così detti integralisti islamici non esitano invece con le esecuzioni
capitali esemplari, magistralmente diffuse con le tecniche mediatiche, e del
martirio ne fanno un valore supremo.
L’asimmetria è anche descrivibile in termini di efficienza: da una parte
si usano soldati super addestrati che utilizzano armi sofisticate, complesse e
costosissime, sebbene dal potenziale distruttivo devastante, mirando a obiettivi
identificati e precisi, dall’altra abbiamo terroristi poco addestrati
militarmente ma totalmente indottrinati “religiosamente”che usano se stessi e
con poco esplosivo e qualche arma basilare di facile reperibilità seminano
morte indiscriminata. A questa forma di combattimento non è opponibile come
alternativa il raid aereo, sebbene questo rimanga necessario a livello
strategico, né ha senso correlare tra loro bombardamenti e attentati per
identificare, per esempio, i bombardamenti aerei francesi in Iraq come la causa
della strage di Parigi. L’autonominato Califfo del sedicente Stato Islamico
(sembra che Daesh sia il termine da preferire perché più politicamente
corretto) non ha bisogno dei bombardamenti aerei per giustificare le azioni
terroristiche in Europa perché questa fa parte della sua strategia di base.
Se per incanto gli jihadisti combattenti in MO e Nord Africa (le cui stime vanno
da 20.000 a 200.000 unità a secondo della fonte d’informazione) sparissero
oggi tutti improvvisamente, compreso il loro capo Abu Bakr al-Baghdadi, parte
degli stimati 15.500 foreign fighters o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi”
che vagano tra MO e Europa rimarrebbero un pericolo per molti anni ancora.
Vuoi per vendetta, per disperazione o per coerenza paranoica molti di loro
infatti uscirebbero allo scoperto seminando morte con tanti attentati quanti
sono loro numericamente, mentre altri rimarrebbero dormienti tra noi covando
frustrazione e rancore in attesa di una prossima occasione. Questa
considerazione ci porta alla domanda cruciale : che fare? Le analisi e i
commenti prevalenti, da qualunque punto di vista ideologico, convergono
sostanzialmente su due soluzioni: intensificare l’intelligence e intensificare
l’intervento armato in MO, droni e bombardamenti, con la variante di armare i
gruppi “alleati” o “alleabili” locali o intervenire direttamente sul terreno, come
in Iraq e in Afghanistan. A tutti appare chiaro il significato di
“bombardamenti”, intervento che desta in alcuni la disapprovazione per i
probabili effetti collaterali, o il significato del “intervento sul territorio”, che fa
paura per le vittime tra i soldati che inevitabilmente genererebbe (vedi scelta
Usa in questi ultimi anni dell’uso intensificato dei droni). Meno chiaro invece
appare il significato dell’intelligence, perché entriamo nel campo dello
spionaggio, del controspionaggio e dei servizi segreti, locuzione quest’ultima
diventata sinonimo di poteri occulti e causa di tutti i mali del mondo.
Quando apprendiamo dai media il numero di terroristi esistenti che ogni
agenzia rivela, magari accompagnato da nomi e cognomi, quando dopo ogni
attentato veniamo a sapere che alcuni di quei terroristi uccisi o catturati erano
conosciuti dalle polizie dei vari Stati, abbiamo la sensazione che i “servizi
segreti”, a parte la mancanza di un loro reale coordinamento europeo, abbiano
una conoscenza del fenomeno più ampia di quella utilizzata per intervenire in
termini di prevenzione o anche di repressione. Non sono in grado di entrare
nei particolari per mancanza di informazione e di conoscenze tecniche sul
problema, tuttavia quanto è dato di conoscere è sufficiente per comprendere,
se lo vogliamo, che questa è e sarà in buona parte una “guerra coperta”,
fatta con sistemi e metodi non convenzionali che l'”opinione pubblica”, quella
stessa che inorridita dalle atrocità compiute dai terroristi reclama sempre
maggiore intransigenza, non sarebbe disposta ad accettare se li conoscesse, in
nome del diritto. In altre parole, rinunciando ad essere “politicamente
corretto”, intendo affermare che questi individui, “foreign fighters” o “lupi
solitari” o “jihadisti bianchi”, costituiranno una minaccia per tutta la loro
esistenza e quindi andrebbero neutralizzati. Per quello che so, il modello di
riferimento dovrebbe essere quello del Mossad, servizio segreto israeliano, i
cui metodi e risultati (cattura di Eichmann, operazione “Collera di Dio”,
operazione Entebbe, ecc) appaiono oggi quelli più efficaci per sconfiggere il
nuovo nemico.
Tuttavia, per combattere con efficacia la nuova guerra non basta adottare i
metodi dei servizi segreti israeliani, perché io penso che comunque non basti
l’intervento militare e poliziesco, occorre che tutto un popolo eserciti una
vigilanza attiva con una coesione sociale forte, la coesione che fa di una
popolazione un popolo. E ancora può valere qui il modello israeliano, questa
volta in chiave civile. Dalla costituzione dello Stato di Israele (qui non
interessano le questioni politiche e religiose) il suo popolo ha dovuto adattarsi
in un territorio ostile pur volendo edificare e mantenere un sistema politico
democratico. Nel 1990, a cavallo fra le due intifada che scoppiarono in quel
paese, feci un viaggio in Israele e tra meraviglie storiche e naturali non mancai
di notare alcuni aspetti della vita quotidiana che mi sorpresero molto e che a
mio parere denotano la coesione sociale esistente tra quei cittadini. Notai per
esempio che i tassisti di Gerusalemme montavano nelle loro auto un
apparecchio ricetrasmettitore che li collegava in rete tra loro e con una
centrale operativa. Il dispositivo, per altro diffuso anche tra altri privati
cittadini, sfruttava la loro costante presenza sul territorio per esercitare una
vigilanza attiva che potesse essere d’aiuto alle forze di polizia (e dell’esercito)
al fine di prevenire attentati. Ciò che più mi aveva sorpreso era tuttavia
constatare che ciò avveniva in un modo assolutamente normale, senza
mostrare alcuna ansia o paura dovuta ad uno stato di emergenza che potesse
interferire con lo svolgimento della vita quotidiana. Io non penso che nel nostro
paese si possa nelle condizioni presenti proporre simili comportamenti (con
buona pace di coloro che hanno voluto importare nelle istituzioni
il whistleblowing da popoli con ben altra cultura), ma credo che quelli siano i
comportamenti che dobbiamo apprendere al più presto. In questa prospettiva
credo anche che sia stato un grave errore eliminare il servizio militare di leva
e/o il servizio civile perché si è tolto ai giovani di tutto il paese, maschi e
femmine naturalmente, l’unica possibilità di aggregarsi temporaneamente per
educarsi alla cooperazione per un fine comune. Sono convinto che un servizio
di leva ben organizzato su solide basi democratiche e fini umanitari (per favore
non si confonda il mio appello con l’ignoranza leghista o con la nostalgia
fascista), fatto in tutti i Paesi europei, che consentisse anche scambi tra come
un Erasmus civile, fornirebbe ai giovani l’occasione di educare la propria
naturale propensione all’avventura e arginerebbe per esempio il successo
della propaganda aruolativa degli jihadisti, fenomeno che oggi tanto ci
allarma.
Ammettiamolo: gli jihadisti stanno ora vincendo, non tanto sul campo di
battaglia (prima o poi anche loro saranno definitivamente sconfitti) quanto per
gli effetti dirompenti sulla tenuta democratica dei popoli nei nostri paesi
occidentali, quelli europei in particolare. Intorpiditi dal benessere e dal
consumismo abbiamo generato in Europa due generazioni di giovani dalla
coscienza modificata (chi scrive è nato nel 1948 ed è padre di tre giovani figli)
che non hanno mantenuto la memoria del sacrificio delle generazioni
precedenti nel conquistare ed affermare i principi della democrazia. Coloro che
oggi insistono e giustamente nel ricordare i principi di libertà, uguaglianza e
fraternità su cui si è fondata da oltre due secoli la civiltà occidentale a cui
apparteniamo dimenticano tuttavia di ricordare che la Rivoluzione Francese è
stato un bagno di sangue (colgo l’occasione per ricordare en passant che
Napoleone è stato il primo a voler esportare in Europa la “democrazia”), che
tutte le successive Rivoluzioni, Risorgimenti, Guerre d’Indipendenza,
Resistenze e Lotte Operaie sono stati tutti bagni di sangue. Risvegliamo
dunque almeno con onestà intellettuale le nostre coscienze assopite e
riconosciamoci nei nostri principi universali al di sopra delle religioni e delle
ideologie. È la nuova guerra, bellezza, e siamo chiamati a difendere la
democrazia, non a praticarla. Siamo tutti soldati.
L’estate del nostro scontento
https://youtu.be/yGObGyV_9Q8
Quando iniziò il consumismo si diceva con ingenuità che la pubblicità fosse
l’anima del commercio. Oggi nel capitalismo globalizzato e totalitario,
potremmo aggiornare quello slogan
affermando che la pubblicità rivela l’inconscio del capitalismo. E come
avviene per l’inconscio che a volte rivela una verità attraverso i lapsus, così la
pubblicità nella frenesia del marketing ci mostra il cinismo che sottende al
sistema economico dal quale essa proviene.
Il video di una pubblicità di maglieria, diffusa in questi giorni anche con
fotografie su riviste e quotidiani, è ambientato in un paesaggio nordico limpido
e leggermente ventoso. Vi si vedono pezzi di ghiaccio staccarsi da un
ghiacciaio, sotto un cielo azzurro abitato da nuvole bianche come il ghiaccio,
che scivolano sull’acqua corrente come di un ruscello, sullo sfondo montagne
rocciose. In primo piano alcuni eleganti capi in lana appoggiati su nudi sassi.
Sappiamo che la pubblicità deve vendere, ma non ci accorgiamo che essa lo fa
con un paradosso dal momento che vende ciò di cui non parla e parla di ciò che
non vende. E in questo caso di cosa parla per vendere maglioni?
Il video evoca il clima primaverile del disgelo che annuncia dopo il freddo e il
buio dell’inverno il ritorno della luce e del tepore dell’estate. Tuttavia,
l’immagine del distacco di quei pezzi di ghiaccio suscita nella nostra coscienza
l’effetto della dissolvenza incrociata con l’immagine dello scioglimento dei
ghiacciai causato dal riscaldamento globale, i cui effetti catastrofici sono
perturbanti e devono dunque essere allontanati inducendo il rassicurante
effetto dell’eterno ritorno alla ciclicità delle stagioni. Una forma di
comunicazione che si fonda sul principio del terrore: pensarci sempre, non
parlarne mai. Si utilizza una paura, inconscia, per generare un bisogno ed
offrire in compensazione una merce simbolica, evocando e allo stesso
tempo allontanando dalla nostra coscienza la tragedia del cambiamento
climatico che incombe sul pianeta. Il messaggio subliminale diventa: con il
riscaldamento terreste andremo incontro ad una eterna primavera in cui non
occorrerà più coprirsi con giacconi imbottiti ma potrà bastare un semplice
maglione, purché di qualità.
La rimozione del pericolo incombente non si manifesta solo con la negazione
del fenomeno stesso del riscaldamento del pianeta a causa dell’inquinamento
atmosferico prodotto dall’uomo (non è vero perché non mi piace, dicono gli
inglesi), ma anche con la scarsa attenzione dei media verso i fenomeni che il
cambiamneto climatico sta producendo in tutto il mondo. Siamo concentrati sul
fenomeno della migrazione e sulle sue cause politiche o belliche o economiche
che lo determinano, ma ancora consideriamo gli uragani e tifoni sempre più
intensi e distruttivi come un fenomeno naturale, mentre non ci accorgiamo che
già si manifestano da anni trasferimenti di abitanti dalle isole del pacifico o dai
villaggi dell’Alaska (l’Artico si sta riscaldando con una velocità due volte
superiore resto del mondo). Da tempo ormai si parla di “rifugiati per del
cambiamento climatico” e già si trattano richieste di “asilo climatico” come
recentemente avvenuto in Nuova Zelanda ponendo nuovi problemi di diritto
internazionale.
Come per i generali desiderati da Napoleone, anche per una campagna
pubblicitaria conta molto essere fortunata, e questa lo è stata davvero
fortunata, quanto meno in Italia dove una insolita “estate di san Martino” con
temperature che arrivano ai 25 gradi sta regalando giornate splendide e calde
che rendono tanto felice la gente facendola sentire nuovamente in vacanza e
offrendo loro l’occasione per insperati week end, perché si sa: la vita è altrove.
L’esodo senza profeta
Clicca sulla foto
Alla fin fine, l’uomo ha due modi per affrontare la realtà: per necessità o
per volontà. Il primo lo spinge ad agire di fronte all’emergenza posta da un
fenomeno non più evitabile con l’emotività che tale stato comporta. Con il
secondo egli prevede l’insorgere dei fenomeni, con la ragione ne individua le
cause e si predispone ad affrontarli.
Ora, accade che nelle democrazie fondate sul consenso la coscienza delle
maggioranze si formi prevalentemente sulla percezione, in particolare su ciò
che viene fatto loro vedere come ben sanno i massmedia, mentre sarebbe
auspicabile che si fondasse sulla conoscenza dei fatti e sull’uso della ragione
per comprenderli. La rappresentazione mediatica dell’esodo migratorio via
terra lungo le strade dal Medio oriente e dall’Africa ha superato
quel valore di soglia percettivo al quale eravamo abituati dalle attraversate via
mare, per diventare grazie alla comunicazione di massa un “fenomeno
epocale”: dalla percezione di pacchetti di emigranti affollati su gommoni a
quella di colonne di profughi che tentano di superare fili spinati e muri.
Mentre le politiche degli Stati europei esitano per mancanza di visione e per
opportunismo, la coscienza dei loro popoli si è rapidamente polarizzata tra
“accoglienza” e “respingimento”, una dialettica in forma ideologica del
conflitto vissuto inconsapevolmente tra la redenzione dal senso di colpa per la
supremazia occidentale e la paura di nuove invasioni barbariche. Nello
schieramento ideologico riconosciamo facilmente un “popolo di sinistra” che
favorisce l’accoglienza e un “popolo di destra” che favorisce il respingimento,
entrambi i due “popoli”sono mossi dallo stato d’animo di fronte all’emergenza
e da questa spaventati invocano scelte politiche ad migrazionem, considerando
la migrazione come una variabile indipendente dalla quale far derivare le
scelte politiche, dimenticando o spesso ignorando le cause.
Tra i tentativi di ragionare sul “fenomeno epocale” per risalire alle sue cause
geopolitiche e quindi individuare ipotesi di soluzione su cui fondare l’azione
politica, segnalo quello di Ernesto Galli della Loggia apparso il 31
agosto sul Corriere della Sera. L’autore individua quattro equilibri prossimi
alla rottura (migratorio, demografico, climatico e lavorativo) che possono
sopraffare le democrazie per concludere le sue argomentazioni con una
nichilistica previsione da “tramonto dell’occidente”: “le nostre democrazie (…)
si avvieranno a occhi bendati, come oggi stanno facendo, verso le tenebre del
futuro”.
Occorre tuttavia ancora un chiarimento sulle cause. Le variabili identificabili
come causali e quindi rispetto alle quali il fenomeno migratorio deve essere
considerato come variabile dipendente sono la demografia, il clima e la
geopolitica. Il disposto combinato di questi tre fattori, nell’assetto economico
esistente, rischia di fare del fenomeno migratorio la tempesta perfetta del XXI°
secolo. Sulla demografia si sa abbastanza: la migrazione in corso che tanto
sgomenta l’opinione pubblica europea rappresenta soltanto la colata lavica di
quell’eruzione da tempo esplosa costituita dall’evoluzione demografica
planetaria. Considerando, per esempio, solo due continenti, possiamo
osservare che oggi l’Europa UE-28 con i suoi 505 milioni di abitanti è avviata al
declino demografico (la non sostituibilità demografica) con un tasso di fertilità
medio al 1,6 figli per donna (in Italia è 1,4), mentre il Continente africano
conta già oggi oltre 1,1 miliardi di abitanti e le proiezioni lo assestano a 1,6 nel
2030 e al doppio entro il 2050. Quanto al fattore climatico, i rapporti annuali
dello IPCC sono sempre più precisi ed allarmanti per quanto riguarda gli effetti
catastrofici delle variazioni climatiche in atto: la temperatura media non dovrà
aumentare più di 2 gradi entro questo secolo, pena il superamento del punto di
non ritorno per un equilibrio sostenibile. Da ultimo la geopolitica. Le strategie
messe in atto dalle attuali principali potenze quali gli USA, la Cina e la Russia
dopo la caduta del Muro di Berlino sono tornate ad essere conflittuali in quanto
aventi interessi economici e politici convergenti: il controllo a livello planetario
delle risorse energetiche, minerarie, idriche e agricole.
Ora, tutte queste cause possiedono una comune caratteristica, quella di essere
prevalentemente di origine antropica e come tali può valere per esse la
similitudine con la crescita di una popolazione batterica che trova il suo limite
nelle dimensioni del supporto fisico dove avviene la coltura. Infatti, così come
per i batteri anche per la specie umana esiste il limite costituto dalla finitezza
del pianeta sul quale vive e si riproduce. Si esprime ciò con il concetto di
sostenibilità, ma in realtà, sebbene noi non conosciamo quali siano le quantità
accettabili per ognuna di esse, tuttavia avvertiamo la vicinanza del limite: una
popolazione mondiale a fine secolo di quasi 12 miliardi di individui è
sostenibile dal pianeta Terra? Una tale popolazione potrà abitare nelle città,
circolare su auto, possedere elettrodomestici, utilizzare acqua e cibo nella
stessa proporzione dei consumi attuali? Appare evidente che il problema, come
la sua soluzione, non possa essere così impostato, perché la questione non
risiede tanto nelle cause quanto piuttosto, per andare più alla radice delle
cose, nel modo con cui quelle cause vengono gestite. E dal momento che le
cause dei mali dell’uomo sono da ricercarsi nell’uomo, come già sosteneva Karl
Marx, per il quale“essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la
radice, per l’uomo, è l’uomo stesso”, dovremmo spostare l’attenzione non tanto
e non solo su ciò che l’uomo produce, ma sul modo con cui lo fa, quindi su
quella forma economia, il modo di produzione capitalistico, che nasce in
Europa a partire dal XI secolo consolidandosi nell’intero Mondo dopo il crollo
del Muro di Berlino e del comunismo.
Dopo la religione l’ economia si presenta oggi come la madre di tutte le
ideologie, come principio e pensiero unico che domina su tutti i valori umani:
l’universalismo del mercato come l’alfa e l’omega. Ma c’è una misura nelle
cose e dunque anche nel capitalismo il cui limite è determinato dalle sue
esternalità, dalla natura stessa. Sulle prime pagine dei testi di economia si
legge che le “risorse sono scarse e i fini sono alternativi” e, dunque, è solo la
volontà dell’uomo che può cambiare lo stato di cose presenti: ormai solo una
rivoluzione potrà salvarci.
La Grexit sulle scale di Escher
Oggi ci si arrovella sul destino della Grecia,
rea di aver vissuto, dopo la fine della
dittatura dei colonnelli nel 1974 e l’entrata
nell’UE nel 1981, al di sopra delle proprie
reali disponibilità finanziarie ed economiche
con il distratto beneplacito dei paesi europei:
dentro o fuori dall’euro? dentro o fuori
dall’Europa? Gli economisti si interrogano su cosa significhi uscire dalla
moneta unica europea, calcolandone costi e benefici, mentre i politici
riscoprono la sovranità nazionale, alcuni con l’afflato democratico per la
sovranità popolare. Ma se l’uscita dall’euro è controversa, l’uscita dall’Europa
cosa significa?
Il fatto è che tutte le espressioni usate aventi la UE come soggetto sono
petizioni di principio in quanto presuppongono l’esistenza di un’istituzione la
cui esistenza dovrebbe invece essere dimostrata. A questa infondatezza logica
si aggiunge quindi il paradosso dell’euro, presentato a partire dalla sua
costituzione nel 1999 con entusiasmo quale fondamento dell’Europa e che con
la crisi economica del 2008 ha mostrato al mondo la sua vulnerabilità : una
moneta unica con una banca centrale, ma senza una tesoreria comune. Per
tutti quegli anni i ministri delle finanze di turno negli Stati europei, in
particolare dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, avevano
dichiarato che non sarebbe stato permesso a nessuna istituzione finanziaria
europea di fallire. Questa convinzione ha permesso alla Cancelliera Angela
Merkel, sensibile all’indisponibilità dei tedeschi dopo la loro costosa
riunificazione promossa da Helmut Kohl, di insistere sul fatto che la
responsabilità di un eventuale fallimento sarebbe ricaduta sul singolo paese,
separatamente dagli altri in ossequio al mercatismo, e non sulla collettività
della UE.
A partire dal 2008 scese la notte sull’Europa e l’incalzare della crisi
economica, cui seguì inesorabilmente quella politica, oscurò il fallimento del
tentativo di redigere cinque anni prima una Costituzione europea, sicché la UE
si trovò ad affrontare ben cinque situazioni critiche: la Russia, l’Ucraina, la
Grecia, l’immigrazione e, ultimo ma non meno importante, l’incombente
referendum britannico sulla permanenza in Europa. Se consideriamo
la politica estera europea, se ne ammettiamo l’esistenza, i fatti sono ancora
più surreali: una UE che, dopo la caduta del muro di Berlino, non cerca di
portare nella propria unione la Russia, che è di cultura europea, che però
accetta e sostiene la candidatura della Turchia, che non è di cultura europea, e
che dopo aver abbandonato definitivamente nel 2009 il progetto velleitario di
una Costituzione per l’Europa ora spinge la Grecia, che è la culla della cultura
europea, fuori dall’euro con il rischio di consegnarla nelle mani della
Russia. Tutto questo mentre USA e Cina si fronteggiano, anche militarmente,
nel centro Africa, nei mari orientali del continente asiatico e mentre la
Nato dispiega ingenti forze militari nelle più grandi manovre finora eseguite ai
confini con la Russia.
Nello scenario internazionale così tratteggiato la domanda che ci
poniamo, fatti i debiti mutamenti, è quella di un secolo fa: il Partenone brucia?
In questi giorni che precedono il referendum voluto da Tzipras appare evidente
la volontà da parte della Troika, in particolare la Germania, di voler trattare
con un diverso governo greco guidato da un leader più affidabile e pare quasi
che la Cancelliera Merkel abbia assunto il ruolo che fu di Catone il censore:
Atene delenda est.
Ma l’entrata in scena di Barak Obama coi suoi diretti rapporti con la Germania
della Merkel, economicamente forse troppo legata alla Cina e alla Russia,
dovrebbe avvertirci che sono in gioco ben altri destini che quello del popolo
greco. Una possibile alleanza, sebbene di convenienza, della Grecia con la
Russia, una volta che la Grecia uscisse dall’Euro, risulterebbe nello scacchiere
europeo già compromesso dalla crisi in Ucraina e dalle mire espansionistiche
di Putin strategicamente nefasta per la una nuova “Yalta” (incontri tra Obama
e Xi Jinping previsti a settembre) che USA e Cina con le pretese della Russia
intendono perseguire sul piano economico, finanziario e militare su scala
planetaria.
Cosa rimane di quel “pensare globalmente e agire localmente” che non molti
anni fa voleva ispirare le visioni politiche, intese come visioni dell’interesse
lontano? Sempre più frequentemente analisti e consulenti di fondazioni di alto
rango mondiale parlano apertamente di un reale rischio di una Terza Guerra
Mondiale, rischio ancora sotto controllo, come le demolizioni controllate degli
edifici, tramite l’innesco e il controllo di conflitti locali su scala globale, mentre
la rimozione della realtà domina l’informazione massmediatica, disorientata ed
impaurita, impegnata ad inseguire le singole e locali manifestazioni di una crisi
internazionale.
Tutto questo richiama quell’allegoria dell’omino chinato in mezzo ad una
strada a raccogliere una moneta da 5 cent, senza accorgersi che un Tir lo sta
travolgendo. Tutto questo, se non viene al più presto considerato e trattato
pubblicamente dalla politica di tutti i Paesi europei, ci sta drammaticamente
portando alla condizione in cui si imporrà la necessità di difendere la
democrazia, piuttosto che praticarla.