La paura della verità alimenta il terrore,Il nirvana
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La paura della verità alimenta il terrore,Il nirvana
Tutto il potere ai manager Nel linguaggio del corpo la posizione con le braccia conserte esprime un atteggiamento negativo o difensivo, una barriera tra se stessi e il nostro interlocutore che noi tutti percepiamo con un senso di disagio. Eppure, come si può notare su tutti i quotidiani che scrivono di economia e finanza i manager sono spesso fotografati in questa posa, anche sorridenti. Sono finiti i tempi in cui gli operai davanti alle fabbriche incrociavano le braccia per sottolineare la loro indisponibilità verso il padrone. Manager! Chi è costui? Per i latini, dalla cui lingua deriva il termine inglese, manu agere era un’espressione che significava ‘condurre con la mano’ o anche ‘guidare una bestia stando davanti a lei’. Oggi il termine è diffuso in tutto il mondo e sta ad indicare un dirigente con responsabilità del processo e capace di gestire le risorse per conseguire determinati obiettivi. Se nell’ambito strettamente operativo della fabbrica o della azienda la funzione del manager è chiara, dal punto di vista del diritto la questione si complica perché la funzione è definita come l’attività svolta da un soggetto non nel proprio interesse ma nell’interesse altrui, un interesse che può essere privato come nel caso di un consiglio di amministrazione di un’azienda, o pubblico come nel caso di un ente pubblico o un governo in rappresentanza dei cittadini. Subentra infatti il concetto di “interesse” che supera la necessità oggettiva puramente tecnico-operativa reintroducendo il soggetto con la sua volontà. Nella civiltà dominata dalla Tecnica, più che i mezzi e il fine conta la funzione, il processo, secondo il quale i mezzi sono considerati neutrali e quindi tutti utilizzabili per conseguire il fine, che diventa tutto ciò che può essere conseguito: il risultato. La ragione di Stato diventa la ragione della Tecnica e l’economia il pensiero dominante. La prospettiva è unica e totalizzante: ogni lavoratore diventa un funzionario del sistema che opera al suo interno con gradi di libertà proporzionali al ruolo. La società tende a diventare il luogo del mercato, entità neutrale senza più ideologie, nella misura in cui diventa l’estensione di un’azienda nella quale non si lavora più per un padrone, ma per un’organizzazione complessa dove la figura dell’imprenditore si scambia con quello dell’amministratore delegato. L’esaltazione della funzione del manager, nella misura in cui l’intervento degli uomini del fare crea l’aspettativa della soluzione dei problemi, è l’indicatore del decadimento del valore della politica nella società della Tecnica, in cui lo Stato viene concepito come un’azienda e il Comune come un condominio. In questo dominio la figura del manager da una parte si sostituisce al padrone, la cui proprietà familiare o societaria rimane appartata sullo sfondo, dall’altra al leader politico, la cui visione del mondo diventa inconsistente. Nella nostra società globalizzata e dominata dal mercato i manager sono l’edizione moderna dei “capitani di ventura”, i comandanti di una compagnia privata di mercenari dette per l’appunto “compagnie di ventura”. E non è un caso che il loro successo politico si stia affermando particolarmente nel nostro paese, la cui tradizione di assoldare capitani di ventura coi loro mercenari, le compagnie di ventura che oggi si chiamerebbero squadre, risale al medioevo. Quella figura del manager a mezzo busto che con le braccia conserte ci guarda dalla foto non vuole essere soltanto la figura salvifica dell’uomo del fare, ma rappresenta il funzionario della Tecnica che ci dice sorridendo: “È l’economia bellezza e tu cittadino non puoi farci niente”. L’ascolto degli altri secondo i Gesuiti Il Papa della Chiesa Cattolica parla per il bene dell’umanità e in particolare per gli umili e gli oppressi. Tuttavia per la politica di Papa Francesco non basta il successo popolare, al gesuita s’impone di seguire il ministero della “cura delle anime”: occorre che ci si educhi e ci si convinca. Alle esternazioni del Pontefice segue dunque la letteratura di appoggio dei suoi esegeti, per esempio la recente opera di Adriano Prosperi “La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento” . Il saggio si pone come fine quello di sfatare alcuni luoghi comuni sull’ordine dei gesuiti rivalutandone la storia e la capacità di dialogo piuttosto che l’azione di proselitismo. L’autore del saggio così difende l’argomento: “«Un tratto che distingue l’ ordine fondato da Ignazio è l’ apertura senza limiti al diverso religioso» e subito dopo prosegue con l’osservazione «E soprattutto la disponibilità a percepire nei comportamenti una religiosità diffusa, anche se non espressamente manifesta” portando ad esempio quel “Francesco Saverio che approdato in Giappone disse agli studenti universitari europei: correte perché qui si tratta di rivelare a questo popolo che sono cristiani anche se non lo sanno”. Se di apertura e dialogo si trattava certo non era tolleranza. D’altra parte, se l’apertura e il dialogo era rivolto ad oriente, come se quelle popolazioni induiste e buddiste da millenni si trovassero in uno stato selvaggio sul piano religioso, la tolleranza era già stata mostrata nei confronti degli evangelici protestanti: “Intendiamoci: erano tempi di guerra di religione e anche i gesuiti dovettero trafficare pesantemente contro i nemici eretici”. Già, lavoro pesante per i gesuiti usati per combattere i protestanti che erano i nemici eretici , dal momento che non v’erano dubbi su chi fosse detentore della verità. Una verità sulla quale allora si giustificava l’esercizio del potere, tanto spirituale che temporale, ed oggi la ricostruzione storica giustificazionista. E così continua “l’ apertura senza limiti al diverso religioso”: “Ma al fondo rimase questa convinzione che sulla base di precetti morali semplici ci si poteva incontrare. Bisognava ascoltare gli altri. E, come diceva Ignazio, bisognava “entrare con l’ altro e uscire con se stesso”: un motto che evoca il rituale della lotta giapponese, una cedevolezza apparente che ti permette di abbracciare il tuo interlocutore per portarlo dalla tua parte»”. A me rimane invece la convinzione, avvaloratami dalle argomentazioni usate nel saggio, che il proselitismo è sempre stata la principale funzione di quest’ordine (i cui ministeri erano la cura delle anime, le opere di carità e l’attività educativa) e che, come ogni potere totalitario apprenderà da allora, i gesuiti «Seppero riconoscere il tesoro nascosto nella plasticità delle giovani e spesso giovanissime intelligenze, intercettando il bisogno di sapere che proveniva da tutta la società. Fu l’ asso calato da Ignazio nel secolo che scopriva la scuola». Alla fin fine, la rivalutazione dei gesuiti in questo saggio passa attraverso la figura cinematografica nota come il “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, essendo i Gesuiti il volto buono, mentre all’Inquisizione rimane quello cattivo. La paura della verità alimenta il terrore Se il terrorismo non va confuso con la crisi migratoria, è altrettanto vero che la pulsione xenofoba strisciante in Europa non è razzista e non va confusa con la crisi della democrazia. I contriti democratici dovrebbero piuttosto considerare l’ondata xenofoba anch’essa come un’espressione della volontà popolare a cui amano richiamarsi. Oggi siamo di nuovo in lutto per altre vittime di attentati jihadisti a Bruxelles, nemmeno il tempo di rincuorarsi dai precedenti con la cattura di un responsabile al Bathaclan. La paura dilaga e nemmeno più ci si può abbandonare all’adagio rassegnato de “l’ordine regna, ma non governa” perché il terrorismo c’è ed incalza con una velocità del proselitismo jihadista tra giovani europei (cosiddetti “homegrown mujahidin”) che è uguale, se non superiore, a quella della crescita del sentimento xenofobo. Ma cosa temere di più: l’azione sanguinaria e spettacolare compiuta da Salah Abdeslam a Parigi o la copertura silenziosa del suo autore per quattro mesi nel quartiere Molenbeek di Bruxelles? La stupidità giornalettistica si agita di fronte a tali eventi descrivendoli attraverso titoli e commenti dai toni della cronaca nera, stile a loro più familiare: a quando un terrorista jiahdista, magari pentito, intervistato a “Porta a Porta”? Anche da ciò si capisce cosa significa “società dello spettacolo”, dove la paura di fronte a tali eventi altro non è che la proiezione della nostra passività, ipocritamente ammantata di principi democratici e ostentata dal politicamente corretto. Passività nostra di singoli cittadini, ma anche degli Stati e dei Governi. È singolare l’asimmetria che si osserva tra le valutazioni dell’Europa rispetto alle sue crisi. l’Europa infatti non esiste come entità politica quando si tratta di decidere sulla finanza, sulla politica fiscale, per affrontare l’immigrazione o agire contro lo Stato Islamico, ma esiste quando è oggetto degli attentati terroristici, quasi fosse un unico corpo: “Is, guerra all’Europa” titolano i quotidiani. Lucio Caracciolo nel suo articolo “La crisi migratoria rivela chi siamo veramente” apparso su La Repubblica del 29/1/2016 non si capacitava di come la Svezia, paese di indubbia solidità civile e di tradizione politica socialdemocratica, possa essere giunta alla decisione di espellere 80 mila migranti dopo aver sostenuto una politica modello di accoglienza . Da questa decisione per l’espulsione l’analista trae la preoccupazione circa l’instaurarsi in tutta l’Europa di un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali che tendono ad uscire dal controllo: intervento militare contro lo Stato Islamico- azioni terroristiche dello Stato Islamico in Europa – reazione xenofoba delle popolazioni europee. Il titolo dell’articolo di Caracciolo parafrasa la ben nota verità secondo la quale nello stato di emergenza, di fronte ad un reale pericolo, uno stato di limite, noi riveliamo la nostra vera natura. L’istinto di conservazione tende a prevalere sulla educazione civile rendendo quell’esposizione al limite un test del grado di civiltà raggiunto. Ed è per superare questo test che nella specie umana si è evoluta per oltre due milioni di anni la cultura come una forza più efficace della natura stessa. Tuttavia, come insegnano le leggi della fisica, il progresso della cultura, ovvero della civiltà di un popolo, è uno equilibrio instabile: tanto più alto è il livello raggiunto tanto maggiore sarà l’energia necessaria per mantenerlo e basta poco per farlo ricadere a livelli più bassi. Terrorismo, emergenza, livello di civiltà sono esemplificazioni del concetto di limite che descrive nella progressività degli eventi l’avvicinarsi ad una data situazione ed anche la logica ci aiuta a comprendere tale situazione quando dimostra che la coerenza di un sistema è tale proprio perché non può essere dimostrata. Dove sta la democrazia in tutto questo? Sarebbe stato meglio mantenere i dittatori al potere piuttosto che inneggiare alle “primavere arabe”? Alla fin fine, la questione che gli ultimi quindici anni hanno posto e che ci occuperà per il prossimo futuro è se si può praticare la democrazia quando la si deve difendere dagli attacchi che ne minacciano l’esistenza ? Il fatto è che si sono confusi i principi con i valori, la volontà con il potere, con il modo di governare, più in generale la libertà con il laissez faire, laissez passer. In una delle tante chiacchierate lascive che si svolgono in televisione i presenti si arrovellavano sugli effetti nefasti per la nostra vita quotidiana e per l’economia dovuta alle limitazioni al turismo per la paura indotta dal terrorismo, sforzandosi di rassicurare gli spettatori: “non rinunciate a viaggiare perché fa parte della nostra cultura … e poi si crea un danno all’economia di quei paesi che vivono sul turismo…”. La coscienza delle ultime due generazioni europee è stata intorpidita da una condizione di benessere artificiale e irresponsabile scambiandola per la “pace” quando in realtà si trattava di “pacificazione”, di sottomissione al pensiero unico dell’economia . Il “pacifismo” peloso inneggia al laicismo, all’armonia e solidarietà tra i popoli dimenticando i sacrifici dei padri, rifiutando di conoscere che quei principi e i valori democratici attraverso i quali si aspira a realizzarli sono costati sangue a centinaia di milioni di persone delle generazioni precedenti: rivolte di schiavi e oppressi, guerre di liberazione, rivoluzioni sociali, guerre per l’unità nazionale ed anche guerre mondiali. In particolare, proprio quei principi universali di libertà, eguaglianza e fraternità che oggi si invocano ogni volta che l’altra parte del mondo rivela la propria arretratezza culturale si sono prima diffusi con la cultura dell’Illuminismo e poi imposti con la violenza della Rivoluzione Francese (per non parlare delle guerre con le quali Napoleone intese esportare la “democrazia” in Europa). Tornando al presente, noi dobbiamo temere il fenomeno che è stato denotato come “ondata xenofoba”, che in varie forme e intensità avanza in sempre più numerosi paesi europei, non tanto perché esso possa far riemergere sentimenti razzisti, quanto perché quel fenomeno rivela la malattia senile delle nostre democrazie, ovvero la nostra incapacità a rinunciare sia pure in stati di emergenza ai nostri previlegi per difendere i nostri principi e valori. Questa è la vera asimmetria della guerra in atto: l’opinione contraria ad ogni forma di violenza diffusa tra i cittadini europei di fronte al fanatismo religioso di uomini che cercano la morte usando se stessi come un’arma. Una battuta del film “Il ponte delle spie” ci aiuta a comprendere lo stato d’animo e il livello culturale con cui milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti tragici del mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa a cui aggrapparmi. La verità non mi interessa”. Il nirvana artificiale Un luogo comune vuole che la tecnologia abbia cambiato il nostro modo di lavorare e di vivere. È una evidenza che nasconde però ben altra verità. Una verità che si manifesta oggi anche attraverso il nuovo linguaggio del luogo comune, quello della pubblicità. Una campagna pubblicitaria di un importante operatore telefonico nazionale descrivendo le meraviglie dell’evoluzione nelle telecomunicazioni parla di un universo di comunicazioni illimitato, di una tv unificata, per concludere dicendo: “Le nuove tecnologie ti stanno danno la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?”. Fantastico e aggiungerei terrificante, vengono i brividi alla schiena. Pensiero unico, partito della nazione e ora anche una sorta di unica televisione iper tecnologica al di sopra di tutte le televisioni, tutto per liberarci dall’angosciosa responsabilità di fare una scelta. Un nirvana artificiale. Anche in questo messaggio, anzi proprio in questo tipo di messaggio che si rivolge a tutti, si può riconoscere che sta avvenendo una mutazione nelle teste delle persone che porta al pensiero unico. Non si tratta più di offrire una variabilità di merci lasciando al consumatore l’illusione di scegliere, esiste infatti un sovraccarico di questa offerta, una fatica da stimolo che genera un’angoscia insopportabile all’atto della risposta: che auto acquisto, che film guardo, come investo i miei soldi, che candidato sindaco voto, qual è lo smartphone migliore, qual è il tonno più buono … Di fronte alla crisi del mercato che mi abbandona nello stato del “voglio ma non posso”, di fronte alle sollecitazioni partecipative della democrazia dei sondaggi l’accumularsi delle occasioni di operare una scelta mi scoprono senza strumenti e senza criteri e mi fanno percepire il peso sempre meno sopportabile della responsabilità, la capacità di dare risposte. La libertà non è più il “lasciatemi in pace” per poter “fare ciò che voglio” perché la crisi economica, il terrorismo, il cambiamento climatico, la competizione globale incombono su tutto e su tutti. Il nuovo intendimento della libertà sarà dunque quello di risparmiarci l’onere di dover scegliere esonerandoci dalla responsabilità, individuale e collettiva. Non sarà più una dittatura illiberale impostami con la costrizione, ma una forma di democrazia prodotta dal pensiero unico che recuperando l’atavico istinto dell’appartenenza offrirà la sicurezza in cambio di una semplice adesione. Una democrazia plebiscitaria in chiave tecnologica il cui algoritmo ci porterà all’unica scelta possibile, quella binaria tra il sì e il no. Forse di questo si tratta negli appelli sottoscritti in questi anni dai più famosi scienziati contro i pericoli dell’intelligenza artificiale. Di fronte alla crescente e minacciosa complessità del mondo sarò io stesso a richiedere questo nuovo “welfare state”. La verità esce così dalla prospettiva del pensiero. Una battuta del film “Il ponte delle spie” ci aiuta a capire lo stato d’animo e il livello culturale con cui milioni di persone affrontano oggi gli accadimenti tragici del mondo: “Dimmi che non sei in pericolo, dammi qualcosa a cui aggrapparmi. La verità non mi interessa”. Fare o non fare questo è il problema La vignetta di Massimo Bucchi accompagnata dalla battuta “per una giustizia rapida e più efficiente aboliremo quanti più reati possibili” fa sorridere amaramente perché afferma una verità indicibile. Non solo una verità sullo stato della giustizia nel nostro paese e sulla politica che l’amministra, ma una verità sulla mentalità diffusa a tutti i livelli di pensiero ormai diventata metastasi del pensiero unico in tutti gli ambiti dell’operatività: la logica imperante del primato del risultato, che prevale sui principi e finisce con invertire la relazione tra causa ed effetto. Troviamo un esempio di questa logica in un articolo del 20/01/2016 sempre su La Repubblica dove si tratta dell’aumento del numero dei corsi universitari a numero chiuso e si esprime la preoccupazione di andare verso una università per pochi, questa volta non tanto per il costo delle rette quanto per l’aumentata selezione all’ingresso. Sull’argomento viene pubblicata anche un’intervista al Prorettore alla didattica dell’Università Bicocca di Milano, in cui la verità sul fenomeno in argomento viene distribuita tra le domande e le risposte come fosse un copione teatrale, provocando un effetto a dir poco surreale: “Diminuisce il numero dei professori, aumenta quello delle aspiranti matricole. Quindi bisogna mettere un freno alla continua crescita“?, chiede il giornalista, “Proprio così” risponde il prorettore che più oltre prosegue “In Italia c’è un grosso problema legato agli abbandoni. L’idea di porre un freno a questo ha portato al numero programmato. Molti studenti infatti lasciavano gli studi perché non seguiti dai professori., i quali non potevano seguire tutti perché le classi erano grandi. Uno spreco di capitale umano enorme, se ci pensa“. E il giornalista incalza: “ Quindi con la selezione all’ingresso diminuiscono gli studentesche lasciano l’università?” ottenendo per risposta “Si. L’abbiamo sperimentato direttamente (…) Funziona perché diventa una selezione di qualità e gli studenti che si iscrivono sono più motivati”. Qui ci fermiamo perché c’è abbastanza materiale per una riflessione. La logica che traspare da queste poche battute ricorda la supplyside economy, tanto di moda nei primi anni ottanta col nome di Reaganomics, ovvero l’idea contrapposta a quella keynesiana secondo la quale sarebbe l’offerta a stimolare la crescita economica. Se a questa teoria macroeconomica si affianca poi il rigore sul pareggio dei bilanci che tanto ha condizionato l’economia europea di questi ultimi cinque anni, otterremmo il quadro di riferimento concettuale all’interno del quale si colloca la necessità del numero chiuso nelle università. In tutti questi anni la politica, parafrasando concetti mutuati dalla pratica privatistica aziendale, ci ha presentato programmi di riforma giuridica, economica e sociale sostenendo la necessità nel settore pubblico, caratterizzato da una cultura amministrativa fondata su procedure farraginose, costose e inconcludenti, verso una cultura gestionale fondata sui risultati. Di qui la critica alla burocrazia inefficiente e l’esaltazione della produttività e della concretezza in nome dell’efficacia. La figura osannata dello “uomo del fare” interpreta bene questa ideologia, nella misura in cui riassume nella personalità del leader politico o del manager che si presta alla politica i due aspetti che caratterizzerebbero il nuovo riformismo. Da un lato, la solitudine dell’uomo messo a capo della situazione in crisi che risolve i problemi superando le resistenze di un potere reso inefficiente dalla necessità di essere condiviso, dall’altro viene meno l’attenzione al come si fanno le cose per far prevalere quello che si è fatto e ottenuto, ovvero il risultato. Questo modo di pensare applicato, come si fa ormai su larga scala nel mondo, alla ricerca scientifica ha effetti devastanti. Condizionare la ricerca considerando i risultati, magari da ottenere a breve termine, come variabile indipendente induce inevitabilmente, attraverso il controllo degli investimenti, una limitazione della creatività con il restringimento del campo di ricerca, con ciò contraddicendo lo spirito stesso della ricerca, che al contrario deve essere libera, come libero dovrebbe essere il pensiero, e non necessariamente finalizzata a risultati immediati e concreti. Sappiamo che di molte delle più rivoluzionarie scoperte scientifiche o matematiche non si sapeva che farsene appena prodotte. In altre parole, l’esigenza dell’economia-pensiero unico, per non parlare della finanza, ha imposto ad ogni attività l’immediato conseguimento di una utilità, identificando così la cultura con la tecnologia. Il trionfo del principio del a cosa serve? Il passo dalla ricerca scientifica all’istruzione e alla formazione è evidentemente breve. Riprendendo l’argomento iniziale circa la “utilità” del numero chiuso/programmato all’università vi è da chiedersi perché volendo pure agire sul lato dell’offerta non si preferisca adottare politiche più aperte volte a stimolare l’aumento della domanda di cultura, a potenziare l’università ovvero ampliare l’universo dei giovani sul quale agire sì con criteri selettivi fondati sulle capacità ma al fine di ottenere il massimo possibile dei risultati. L’enorme spreco di capitale umano, di cui si rammarica il prorettore citato, professore di psicologia, sarebbe così arginato, dal momento che guardando al futuro di un Paese che continua ad avere un basso tasso di laureati nella fascia d’età giovanile bisogna comprendere che se con la cultura forse non si mangia, certamente d’ignoranza si muore. Per un errore commesso durante la cancellazione dei “commenti spam” sono stati cancellati involontariamente tutti i commenti agli articoli. Spero di poterli recuperare. L’Amministratore del sito. Je suis soldat “Guerra totale all’Isis” è il nuovo grido di battaglia consolatorio dopo l’11 settembre di Parigi. Quale che sia il livello d’intervento che si deciderà prossimamente di attuare in Medio Oriente, quello che ormai appare a tutti è l’asimmetria di questa guerra. Non si tratta di un esercito regolare che si contrappone ad un altro esercito regolare come avvenuto in Iraq o a dei guerriglieri come avvenuto in Vietnam. Nè si tratta di un comune campo di battaglia: dai vasti territori desertici del Medio Oriente e Nord Africa alle popolate città metropolitane europee. Il fatto è che si è realizzata da tempo una radicale trasformazione nella concezione stessa delle armi in uso nella nuova guerra in atto. Sebbene i terroristi usino ancora le armi convenzionali, la loro vera è più temibile arma è l’uomo stesso: lo jihadista col giubbotto esplosivo che si fa esplodere in mezzo ad una folla o che spara con un fucile mitragliatore contro un gruppo di persone in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della vita quotidiana di una città europea nella rivendicata consapevolezza di morire. L’intelligence lo sa da sempre ed ora tutti lo scrivono sui quotidiani che queste azioni sono scarsamente prevedibili e quando si manifestano sono assai poco contenibili nei danni che vogliono provocare. Questa asimmetria nella concezione delle armi corrisponde poi ad una concezione della vita altrettanto diversa tra le parti: noi tutti, non importa se laici o religiosi, sosteniamo la “sacralità” della vita di ogni persona e per questo ci dichiariamo anche contrari alla pena di morte e siamo tolleranti. I così detti integralisti islamici non esitano invece con le esecuzioni capitali esemplari, magistralmente diffuse con le tecniche mediatiche, e del martirio ne fanno un valore supremo. L’asimmetria è anche descrivibile in termini di efficienza: da una parte si usano soldati super addestrati che utilizzano armi sofisticate, complesse e costosissime, sebbene dal potenziale distruttivo devastante, mirando a obiettivi identificati e precisi, dall’altra abbiamo terroristi poco addestrati militarmente ma totalmente indottrinati “religiosamente”che usano se stessi e con poco esplosivo e qualche arma basilare di facile reperibilità seminano morte indiscriminata. A questa forma di combattimento non è opponibile come alternativa il raid aereo, sebbene questo rimanga necessario a livello strategico, né ha senso correlare tra loro bombardamenti e attentati per identificare, per esempio, i bombardamenti aerei francesi in Iraq come la causa della strage di Parigi. L’autonominato Califfo del sedicente Stato Islamico (sembra che Daesh sia il termine da preferire perché più politicamente corretto) non ha bisogno dei bombardamenti aerei per giustificare le azioni terroristiche in Europa perché questa fa parte della sua strategia di base. Se per incanto gli jihadisti combattenti in MO e Nord Africa (le cui stime vanno da 20.000 a 200.000 unità a secondo della fonte d’informazione) sparissero oggi tutti improvvisamente, compreso il loro capo Abu Bakr al-Baghdadi, parte degli stimati 15.500 foreign fighters o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi” che vagano tra MO e Europa rimarrebbero un pericolo per molti anni ancora. Vuoi per vendetta, per disperazione o per coerenza paranoica molti di loro infatti uscirebbero allo scoperto seminando morte con tanti attentati quanti sono loro numericamente, mentre altri rimarrebbero dormienti tra noi covando frustrazione e rancore in attesa di una prossima occasione. Questa considerazione ci porta alla domanda cruciale : che fare? Le analisi e i commenti prevalenti, da qualunque punto di vista ideologico, convergono sostanzialmente su due soluzioni: intensificare l’intelligence e intensificare l’intervento armato in MO, droni e bombardamenti, con la variante di armare i gruppi “alleati” o “alleabili” locali o intervenire direttamente sul terreno, come in Iraq e in Afghanistan. A tutti appare chiaro il significato di “bombardamenti”, intervento che desta in alcuni la disapprovazione per i probabili effetti collaterali, o il significato del “intervento sul territorio”, che fa paura per le vittime tra i soldati che inevitabilmente genererebbe (vedi scelta Usa in questi ultimi anni dell’uso intensificato dei droni). Meno chiaro invece appare il significato dell’intelligence, perché entriamo nel campo dello spionaggio, del controspionaggio e dei servizi segreti, locuzione quest’ultima diventata sinonimo di poteri occulti e causa di tutti i mali del mondo. Quando apprendiamo dai media il numero di terroristi esistenti che ogni agenzia rivela, magari accompagnato da nomi e cognomi, quando dopo ogni attentato veniamo a sapere che alcuni di quei terroristi uccisi o catturati erano conosciuti dalle polizie dei vari Stati, abbiamo la sensazione che i “servizi segreti”, a parte la mancanza di un loro reale coordinamento europeo, abbiano una conoscenza del fenomeno più ampia di quella utilizzata per intervenire in termini di prevenzione o anche di repressione. Non sono in grado di entrare nei particolari per mancanza di informazione e di conoscenze tecniche sul problema, tuttavia quanto è dato di conoscere è sufficiente per comprendere, se lo vogliamo, che questa è e sarà in buona parte una “guerra coperta”, fatta con sistemi e metodi non convenzionali che l'”opinione pubblica”, quella stessa che inorridita dalle atrocità compiute dai terroristi reclama sempre maggiore intransigenza, non sarebbe disposta ad accettare se li conoscesse, in nome del diritto. In altre parole, rinunciando ad essere “politicamente corretto”, intendo affermare che questi individui, “foreign fighters” o “lupi solitari” o “jihadisti bianchi”, costituiranno una minaccia per tutta la loro esistenza e quindi andrebbero neutralizzati. Per quello che so, il modello di riferimento dovrebbe essere quello del Mossad, servizio segreto israeliano, i cui metodi e risultati (cattura di Eichmann, operazione “Collera di Dio”, operazione Entebbe, ecc) appaiono oggi quelli più efficaci per sconfiggere il nuovo nemico. Tuttavia, per combattere con efficacia la nuova guerra non basta adottare i metodi dei servizi segreti israeliani, perché io penso che comunque non basti l’intervento militare e poliziesco, occorre che tutto un popolo eserciti una vigilanza attiva con una coesione sociale forte, la coesione che fa di una popolazione un popolo. E ancora può valere qui il modello israeliano, questa volta in chiave civile. Dalla costituzione dello Stato di Israele (qui non interessano le questioni politiche e religiose) il suo popolo ha dovuto adattarsi in un territorio ostile pur volendo edificare e mantenere un sistema politico democratico. Nel 1990, a cavallo fra le due intifada che scoppiarono in quel paese, feci un viaggio in Israele e tra meraviglie storiche e naturali non mancai di notare alcuni aspetti della vita quotidiana che mi sorpresero molto e che a mio parere denotano la coesione sociale esistente tra quei cittadini. Notai per esempio che i tassisti di Gerusalemme montavano nelle loro auto un apparecchio ricetrasmettitore che li collegava in rete tra loro e con una centrale operativa. Il dispositivo, per altro diffuso anche tra altri privati cittadini, sfruttava la loro costante presenza sul territorio per esercitare una vigilanza attiva che potesse essere d’aiuto alle forze di polizia (e dell’esercito) al fine di prevenire attentati. Ciò che più mi aveva sorpreso era tuttavia constatare che ciò avveniva in un modo assolutamente normale, senza mostrare alcuna ansia o paura dovuta ad uno stato di emergenza che potesse interferire con lo svolgimento della vita quotidiana. Io non penso che nel nostro paese si possa nelle condizioni presenti proporre simili comportamenti (con buona pace di coloro che hanno voluto importare nelle istituzioni il whistleblowing da popoli con ben altra cultura), ma credo che quelli siano i comportamenti che dobbiamo apprendere al più presto. In questa prospettiva credo anche che sia stato un grave errore eliminare il servizio militare di leva e/o il servizio civile perché si è tolto ai giovani di tutto il paese, maschi e femmine naturalmente, l’unica possibilità di aggregarsi temporaneamente per educarsi alla cooperazione per un fine comune. Sono convinto che un servizio di leva ben organizzato su solide basi democratiche e fini umanitari (per favore non si confonda il mio appello con l’ignoranza leghista o con la nostalgia fascista), fatto in tutti i Paesi europei, che consentisse anche scambi tra come un Erasmus civile, fornirebbe ai giovani l’occasione di educare la propria naturale propensione all’avventura e arginerebbe per esempio il successo della propaganda aruolativa degli jihadisti, fenomeno che oggi tanto ci allarma. Ammettiamolo: gli jihadisti stanno ora vincendo, non tanto sul campo di battaglia (prima o poi anche loro saranno definitivamente sconfitti) quanto per gli effetti dirompenti sulla tenuta democratica dei popoli nei nostri paesi occidentali, quelli europei in particolare. Intorpiditi dal benessere e dal consumismo abbiamo generato in Europa due generazioni di giovani dalla coscienza modificata (chi scrive è nato nel 1948 ed è padre di tre giovani figli) che non hanno mantenuto la memoria del sacrificio delle generazioni precedenti nel conquistare ed affermare i principi della democrazia. Coloro che oggi insistono e giustamente nel ricordare i principi di libertà, uguaglianza e fraternità su cui si è fondata da oltre due secoli la civiltà occidentale a cui apparteniamo dimenticano tuttavia di ricordare che la Rivoluzione Francese è stato un bagno di sangue (colgo l’occasione per ricordare en passant che Napoleone è stato il primo a voler esportare in Europa la “democrazia”), che tutte le successive Rivoluzioni, Risorgimenti, Guerre d’Indipendenza, Resistenze e Lotte Operaie sono stati tutti bagni di sangue. Risvegliamo dunque almeno con onestà intellettuale le nostre coscienze assopite e riconosciamoci nei nostri principi universali al di sopra delle religioni e delle ideologie. È la nuova guerra, bellezza, e siamo chiamati a difendere la democrazia, non a praticarla. Siamo tutti soldati. L’estate del nostro scontento https://youtu.be/yGObGyV_9Q8 Quando iniziò il consumismo si diceva con ingenuità che la pubblicità fosse l’anima del commercio. Oggi nel capitalismo globalizzato e totalitario, potremmo aggiornare quello slogan affermando che la pubblicità rivela l’inconscio del capitalismo. E come avviene per l’inconscio che a volte rivela una verità attraverso i lapsus, così la pubblicità nella frenesia del marketing ci mostra il cinismo che sottende al sistema economico dal quale essa proviene. Il video di una pubblicità di maglieria, diffusa in questi giorni anche con fotografie su riviste e quotidiani, è ambientato in un paesaggio nordico limpido e leggermente ventoso. Vi si vedono pezzi di ghiaccio staccarsi da un ghiacciaio, sotto un cielo azzurro abitato da nuvole bianche come il ghiaccio, che scivolano sull’acqua corrente come di un ruscello, sullo sfondo montagne rocciose. In primo piano alcuni eleganti capi in lana appoggiati su nudi sassi. Sappiamo che la pubblicità deve vendere, ma non ci accorgiamo che essa lo fa con un paradosso dal momento che vende ciò di cui non parla e parla di ciò che non vende. E in questo caso di cosa parla per vendere maglioni? Il video evoca il clima primaverile del disgelo che annuncia dopo il freddo e il buio dell’inverno il ritorno della luce e del tepore dell’estate. Tuttavia, l’immagine del distacco di quei pezzi di ghiaccio suscita nella nostra coscienza l’effetto della dissolvenza incrociata con l’immagine dello scioglimento dei ghiacciai causato dal riscaldamento globale, i cui effetti catastrofici sono perturbanti e devono dunque essere allontanati inducendo il rassicurante effetto dell’eterno ritorno alla ciclicità delle stagioni. Una forma di comunicazione che si fonda sul principio del terrore: pensarci sempre, non parlarne mai. Si utilizza una paura, inconscia, per generare un bisogno ed offrire in compensazione una merce simbolica, evocando e allo stesso tempo allontanando dalla nostra coscienza la tragedia del cambiamento climatico che incombe sul pianeta. Il messaggio subliminale diventa: con il riscaldamento terreste andremo incontro ad una eterna primavera in cui non occorrerà più coprirsi con giacconi imbottiti ma potrà bastare un semplice maglione, purché di qualità. La rimozione del pericolo incombente non si manifesta solo con la negazione del fenomeno stesso del riscaldamento del pianeta a causa dell’inquinamento atmosferico prodotto dall’uomo (non è vero perché non mi piace, dicono gli inglesi), ma anche con la scarsa attenzione dei media verso i fenomeni che il cambiamneto climatico sta producendo in tutto il mondo. Siamo concentrati sul fenomeno della migrazione e sulle sue cause politiche o belliche o economiche che lo determinano, ma ancora consideriamo gli uragani e tifoni sempre più intensi e distruttivi come un fenomeno naturale, mentre non ci accorgiamo che già si manifestano da anni trasferimenti di abitanti dalle isole del pacifico o dai villaggi dell’Alaska (l’Artico si sta riscaldando con una velocità due volte superiore resto del mondo). Da tempo ormai si parla di “rifugiati per del cambiamento climatico” e già si trattano richieste di “asilo climatico” come recentemente avvenuto in Nuova Zelanda ponendo nuovi problemi di diritto internazionale. Come per i generali desiderati da Napoleone, anche per una campagna pubblicitaria conta molto essere fortunata, e questa lo è stata davvero fortunata, quanto meno in Italia dove una insolita “estate di san Martino” con temperature che arrivano ai 25 gradi sta regalando giornate splendide e calde che rendono tanto felice la gente facendola sentire nuovamente in vacanza e offrendo loro l’occasione per insperati week end, perché si sa: la vita è altrove. L’esodo senza profeta Clicca sulla foto Alla fin fine, l’uomo ha due modi per affrontare la realtà: per necessità o per volontà. Il primo lo spinge ad agire di fronte all’emergenza posta da un fenomeno non più evitabile con l’emotività che tale stato comporta. Con il secondo egli prevede l’insorgere dei fenomeni, con la ragione ne individua le cause e si predispone ad affrontarli. Ora, accade che nelle democrazie fondate sul consenso la coscienza delle maggioranze si formi prevalentemente sulla percezione, in particolare su ciò che viene fatto loro vedere come ben sanno i massmedia, mentre sarebbe auspicabile che si fondasse sulla conoscenza dei fatti e sull’uso della ragione per comprenderli. La rappresentazione mediatica dell’esodo migratorio via terra lungo le strade dal Medio oriente e dall’Africa ha superato quel valore di soglia percettivo al quale eravamo abituati dalle attraversate via mare, per diventare grazie alla comunicazione di massa un “fenomeno epocale”: dalla percezione di pacchetti di emigranti affollati su gommoni a quella di colonne di profughi che tentano di superare fili spinati e muri. Mentre le politiche degli Stati europei esitano per mancanza di visione e per opportunismo, la coscienza dei loro popoli si è rapidamente polarizzata tra “accoglienza” e “respingimento”, una dialettica in forma ideologica del conflitto vissuto inconsapevolmente tra la redenzione dal senso di colpa per la supremazia occidentale e la paura di nuove invasioni barbariche. Nello schieramento ideologico riconosciamo facilmente un “popolo di sinistra” che favorisce l’accoglienza e un “popolo di destra” che favorisce il respingimento, entrambi i due “popoli”sono mossi dallo stato d’animo di fronte all’emergenza e da questa spaventati invocano scelte politiche ad migrazionem, considerando la migrazione come una variabile indipendente dalla quale far derivare le scelte politiche, dimenticando o spesso ignorando le cause. Tra i tentativi di ragionare sul “fenomeno epocale” per risalire alle sue cause geopolitiche e quindi individuare ipotesi di soluzione su cui fondare l’azione politica, segnalo quello di Ernesto Galli della Loggia apparso il 31 agosto sul Corriere della Sera. L’autore individua quattro equilibri prossimi alla rottura (migratorio, demografico, climatico e lavorativo) che possono sopraffare le democrazie per concludere le sue argomentazioni con una nichilistica previsione da “tramonto dell’occidente”: “le nostre democrazie (…) si avvieranno a occhi bendati, come oggi stanno facendo, verso le tenebre del futuro”. Occorre tuttavia ancora un chiarimento sulle cause. Le variabili identificabili come causali e quindi rispetto alle quali il fenomeno migratorio deve essere considerato come variabile dipendente sono la demografia, il clima e la geopolitica. Il disposto combinato di questi tre fattori, nell’assetto economico esistente, rischia di fare del fenomeno migratorio la tempesta perfetta del XXI° secolo. Sulla demografia si sa abbastanza: la migrazione in corso che tanto sgomenta l’opinione pubblica europea rappresenta soltanto la colata lavica di quell’eruzione da tempo esplosa costituita dall’evoluzione demografica planetaria. Considerando, per esempio, solo due continenti, possiamo osservare che oggi l’Europa UE-28 con i suoi 505 milioni di abitanti è avviata al declino demografico (la non sostituibilità demografica) con un tasso di fertilità medio al 1,6 figli per donna (in Italia è 1,4), mentre il Continente africano conta già oggi oltre 1,1 miliardi di abitanti e le proiezioni lo assestano a 1,6 nel 2030 e al doppio entro il 2050. Quanto al fattore climatico, i rapporti annuali dello IPCC sono sempre più precisi ed allarmanti per quanto riguarda gli effetti catastrofici delle variazioni climatiche in atto: la temperatura media non dovrà aumentare più di 2 gradi entro questo secolo, pena il superamento del punto di non ritorno per un equilibrio sostenibile. Da ultimo la geopolitica. Le strategie messe in atto dalle attuali principali potenze quali gli USA, la Cina e la Russia dopo la caduta del Muro di Berlino sono tornate ad essere conflittuali in quanto aventi interessi economici e politici convergenti: il controllo a livello planetario delle risorse energetiche, minerarie, idriche e agricole. Ora, tutte queste cause possiedono una comune caratteristica, quella di essere prevalentemente di origine antropica e come tali può valere per esse la similitudine con la crescita di una popolazione batterica che trova il suo limite nelle dimensioni del supporto fisico dove avviene la coltura. Infatti, così come per i batteri anche per la specie umana esiste il limite costituto dalla finitezza del pianeta sul quale vive e si riproduce. Si esprime ciò con il concetto di sostenibilità, ma in realtà, sebbene noi non conosciamo quali siano le quantità accettabili per ognuna di esse, tuttavia avvertiamo la vicinanza del limite: una popolazione mondiale a fine secolo di quasi 12 miliardi di individui è sostenibile dal pianeta Terra? Una tale popolazione potrà abitare nelle città, circolare su auto, possedere elettrodomestici, utilizzare acqua e cibo nella stessa proporzione dei consumi attuali? Appare evidente che il problema, come la sua soluzione, non possa essere così impostato, perché la questione non risiede tanto nelle cause quanto piuttosto, per andare più alla radice delle cose, nel modo con cui quelle cause vengono gestite. E dal momento che le cause dei mali dell’uomo sono da ricercarsi nell’uomo, come già sosteneva Karl Marx, per il quale“essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso”, dovremmo spostare l’attenzione non tanto e non solo su ciò che l’uomo produce, ma sul modo con cui lo fa, quindi su quella forma economia, il modo di produzione capitalistico, che nasce in Europa a partire dal XI secolo consolidandosi nell’intero Mondo dopo il crollo del Muro di Berlino e del comunismo. Dopo la religione l’ economia si presenta oggi come la madre di tutte le ideologie, come principio e pensiero unico che domina su tutti i valori umani: l’universalismo del mercato come l’alfa e l’omega. Ma c’è una misura nelle cose e dunque anche nel capitalismo il cui limite è determinato dalle sue esternalità, dalla natura stessa. Sulle prime pagine dei testi di economia si legge che le “risorse sono scarse e i fini sono alternativi” e, dunque, è solo la volontà dell’uomo che può cambiare lo stato di cose presenti: ormai solo una rivoluzione potrà salvarci. La Grexit sulle scale di Escher Oggi ci si arrovella sul destino della Grecia, rea di aver vissuto, dopo la fine della dittatura dei colonnelli nel 1974 e l’entrata nell’UE nel 1981, al di sopra delle proprie reali disponibilità finanziarie ed economiche con il distratto beneplacito dei paesi europei: dentro o fuori dall’euro? dentro o fuori dall’Europa? Gli economisti si interrogano su cosa significhi uscire dalla moneta unica europea, calcolandone costi e benefici, mentre i politici riscoprono la sovranità nazionale, alcuni con l’afflato democratico per la sovranità popolare. Ma se l’uscita dall’euro è controversa, l’uscita dall’Europa cosa significa? Il fatto è che tutte le espressioni usate aventi la UE come soggetto sono petizioni di principio in quanto presuppongono l’esistenza di un’istituzione la cui esistenza dovrebbe invece essere dimostrata. A questa infondatezza logica si aggiunge quindi il paradosso dell’euro, presentato a partire dalla sua costituzione nel 1999 con entusiasmo quale fondamento dell’Europa e che con la crisi economica del 2008 ha mostrato al mondo la sua vulnerabilità : una moneta unica con una banca centrale, ma senza una tesoreria comune. Per tutti quegli anni i ministri delle finanze di turno negli Stati europei, in particolare dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, avevano dichiarato che non sarebbe stato permesso a nessuna istituzione finanziaria europea di fallire. Questa convinzione ha permesso alla Cancelliera Angela Merkel, sensibile all’indisponibilità dei tedeschi dopo la loro costosa riunificazione promossa da Helmut Kohl, di insistere sul fatto che la responsabilità di un eventuale fallimento sarebbe ricaduta sul singolo paese, separatamente dagli altri in ossequio al mercatismo, e non sulla collettività della UE. A partire dal 2008 scese la notte sull’Europa e l’incalzare della crisi economica, cui seguì inesorabilmente quella politica, oscurò il fallimento del tentativo di redigere cinque anni prima una Costituzione europea, sicché la UE si trovò ad affrontare ben cinque situazioni critiche: la Russia, l’Ucraina, la Grecia, l’immigrazione e, ultimo ma non meno importante, l’incombente referendum britannico sulla permanenza in Europa. Se consideriamo la politica estera europea, se ne ammettiamo l’esistenza, i fatti sono ancora più surreali: una UE che, dopo la caduta del muro di Berlino, non cerca di portare nella propria unione la Russia, che è di cultura europea, che però accetta e sostiene la candidatura della Turchia, che non è di cultura europea, e che dopo aver abbandonato definitivamente nel 2009 il progetto velleitario di una Costituzione per l’Europa ora spinge la Grecia, che è la culla della cultura europea, fuori dall’euro con il rischio di consegnarla nelle mani della Russia. Tutto questo mentre USA e Cina si fronteggiano, anche militarmente, nel centro Africa, nei mari orientali del continente asiatico e mentre la Nato dispiega ingenti forze militari nelle più grandi manovre finora eseguite ai confini con la Russia. Nello scenario internazionale così tratteggiato la domanda che ci poniamo, fatti i debiti mutamenti, è quella di un secolo fa: il Partenone brucia? In questi giorni che precedono il referendum voluto da Tzipras appare evidente la volontà da parte della Troika, in particolare la Germania, di voler trattare con un diverso governo greco guidato da un leader più affidabile e pare quasi che la Cancelliera Merkel abbia assunto il ruolo che fu di Catone il censore: Atene delenda est. Ma l’entrata in scena di Barak Obama coi suoi diretti rapporti con la Germania della Merkel, economicamente forse troppo legata alla Cina e alla Russia, dovrebbe avvertirci che sono in gioco ben altri destini che quello del popolo greco. Una possibile alleanza, sebbene di convenienza, della Grecia con la Russia, una volta che la Grecia uscisse dall’Euro, risulterebbe nello scacchiere europeo già compromesso dalla crisi in Ucraina e dalle mire espansionistiche di Putin strategicamente nefasta per la una nuova “Yalta” (incontri tra Obama e Xi Jinping previsti a settembre) che USA e Cina con le pretese della Russia intendono perseguire sul piano economico, finanziario e militare su scala planetaria. Cosa rimane di quel “pensare globalmente e agire localmente” che non molti anni fa voleva ispirare le visioni politiche, intese come visioni dell’interesse lontano? Sempre più frequentemente analisti e consulenti di fondazioni di alto rango mondiale parlano apertamente di un reale rischio di una Terza Guerra Mondiale, rischio ancora sotto controllo, come le demolizioni controllate degli edifici, tramite l’innesco e il controllo di conflitti locali su scala globale, mentre la rimozione della realtà domina l’informazione massmediatica, disorientata ed impaurita, impegnata ad inseguire le singole e locali manifestazioni di una crisi internazionale. Tutto questo richiama quell’allegoria dell’omino chinato in mezzo ad una strada a raccogliere una moneta da 5 cent, senza accorgersi che un Tir lo sta travolgendo. Tutto questo, se non viene al più presto considerato e trattato pubblicamente dalla politica di tutti i Paesi europei, ci sta drammaticamente portando alla condizione in cui si imporrà la necessità di difendere la democrazia, piuttosto che praticarla.