Vita cristiana come vita teologale

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Vita cristiana come vita teologale
LA VITA CRISTIANA COME VITA TEOLOGALE
Partecipe della natura divina, il cristiano vive la vita stessa di Dio. Esistenza
cristiana, infatti, non significa relazione formale a Dio, secondo un rapporto di
religione puramente intenzionale, affettivo ed esterno, per quanto convinto e
globalizzante. Relazione di comunione profonda, di inerenza divina: «Noi siamo
nel vero Dio e nel suo Figlio Gesù Cristo» (lGv 5,20). Per il dono dello Spirito: «Da
questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del
suo Spirito» (lGv 4,13; 3,24). Sicché l'umano è assunto ed elevato dal divino e la
vita dell'uomo è vita teologale: vita divina.
1. SGUARDO STORICO – SALVIFICO.
Rendere partecipe l'uomo della propria vita, fa parte del disegno eterno di Dio: di
elezione alla santità e di predestinazione alla figliolanza in Cristo (cfr. Ef 1,3-6).
Tale disegno dirige e muove tutta la storia della salvezza: della creazione e della
redenzione.
Dio, dando la vita all'uomo, lo costituisce nello stato di grazia originale come
comunione dialogica con lui. L'uomo riceve la vita in pienezza da Dio e vi corrisponde con amore accogliente e fedele.
Per cui l'uomo vive dell'autocomunicazione rivelante e vivificante di Dio
e la sua vita è lode e gloria a Dio. Vita di comunione, la vita teologale è al punto
d'incontro del dono di Dio e della libertà di accoglienza e fedeltà dell'uomo. Ciò
significa che questi può chiudersi in una libertà di rifiuto - infedeltà. Allora fa
l'esperienza del peccato come libertà di egoismo-orgoglio con cui l'uomo si
chiude al dono di Dio, centrandosi su se stesso: «Sarete come Dio» (Gn 3,5). È
la fine della partecipazione della vita divina. L'uomo, pur conservando la indefettibile «immagine di Dio» (Gn 1,27) in sé, perde la vita teologale. La condizione di peccato — la vita «sotto il peccato» (Gal 3,22; cfr. Rm 3,9; 6,20) — è
l'antitesi della vita teologale.
Ma Dio non abbandona l'uomo nel peccato e, fedele al suo disegno
eterno, realizza il progetto redentore — in diversi modi significato e promesso
nell'antica alleanza — di rigenerazione della vita divina nell'uomo.
Questa rigenerazione è la giustificazione del peccatore realizzata da Dio
in Cristo, «nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione
dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7). Pertanto, l'uomo è
riconciliato con Dio (cfr. Rm 5,10): il peccato, che impedisce la comunione di
vita, è vinto per «l'opera di giustizia» di Cristo che si riversa sull'uomo come
«giustificazione che dà la vita» (Rm 5,18). Così, l'evento oggettivo della redenzione diventa soggettivo nella vita di ogni uomo che vi si apre in una libertà di
ascolto del kerigma e di accoglienza della charis: in una libertà di fedeltà allo Spirito, che è parola e grazia.
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2. VITA NUOVA IN CRISTO.
Il dono di Dio in Cristo per opera dello Spirito investe globalmente e innovativamente tutto l'essere e l'esistere della persona. È una «vita nuova» (Rm 6,4)
come elevazione soprannaturale dell'essere naturale umano e conversione ontologica dell'uomo vecchio e carnale. È l'essere nuovo emergente dalla Pasqua di
Cristo in noi, come evento ontologico - morale di morte e risurrezione, ossia di
«spogliazione dell'uomo vecchio» e «rivestimento dell'uomo nuovo che si rinnova» (Col 3,9-10; cfr. Ef 4,22-23). Il che avviene per l'azione vivificante
dello «Spirito di Dio che abita in noi» (Rm 8,9), il quale con l'uomo carnale
(sarkikòs), che coltiva i «desideri» della carne, in uomo spirituale (pneumatikòs),
che coltiva i «desideri» dello Spirito (cfr. Rm 8,1-17).
Attraverso il segno dell'acqua, lo Spirito opera efficacemente la rigenerazione battesimale come partecipazione alla vita del Risorto: «Per mezzo del
battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo
fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
Questa vita nuova è alimentata e fecondata dall'eucaristia come sacramento della vita in Cristo e per Cristo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue... dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me
e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv
6,54-57).
Essenzialmente “tutti i sacramenti” sono i segni efficaci della vita nuova
in Cristo, che lo Spirito opera in noi: secondo la significatività propria di ciascuno, in relazione alla situazione esistenziale in cui ogni sacramento viene posto
e ricevuto. In particolare, la cresima, come sacramento di confermazione crismale della novità di vita battesimale ed eucaristica; la penitenza come sua riattivazione e rilancio riconciliatore; l'ordine sacro e il matrimonio come sua qualificazione in un particolare stato di vita: ministeriale - sacerdotale per il primo,
coniugale - familiare per il secondo; l'unzione degli infermi come accoglimento
nel suo dinamismo innovatore della vita sofferente - terminale.
3. VITA ETERNA.
Vita nuova in Cristo per l'azione rigenerante dello Spirito “inabitante”, la vita
teologale è vita etema. Non certamente nel senso di vita dopo la morte, ma nel
significato giovanneo di vita divina partecipata nel tempo all'uomo che accoglie il
Figlio e la sua parola (cfr. Gv 3,36; 4,14; 5,24; 6,40.47.54) e che Gesù invoca
come dono del Padre ai suoi (cfr. Gv 17,2). «Questa è la vita eterna: conoscere te,
l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Non si tratta
di una conoscenza speculativa di Dio e di Gesù Cristo, ma della conoscenza
propriamente biblica, la quale esprime una relazione esistenziale, una esperienza
concreta: Conoscere qualcuno significa entrare in relazione personale con lui.
La vita eterna è un conoscere comunionale: una comunicazione di vita
profondamente rivelativa. Conoscenza di reciproca inerenza: «Io sono nel Padre
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e voi in me e io in voi» (Gv 14,20). Cristo, infatti, rivela ai suoi il nome del Padre
— «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome» (Gv 17,6.26)1 — non per dare
un'idea concettuale di Dio, ma per comunicare l'amore di Dio: «Perché l'amore
con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26).
Il cristiano, dunque, conosce Dio nel modo dell'amore con cui Cristo
conosce il Padre. E questa conoscenza amante è vita eterna: partecipazione alla
pienezza di vita che è in Dio. Per questa partecipazione Cristo ha condiviso la
condizione umana: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
La vita eterna è già la condizione presente dell'essere e dell'esistere cristiano, come partecipazione alla pienezza di vita di Dio che si offre a noi
nell'umanità sacramentale del Cristo. Ciò, da una parte, mette in luce l'integralità
del dono divino che investe interamente l'uomo: Dio si comunica pienamente e
l'uomo è coinvolto totalmente; il dono di Dio non si giustappone all'umano —
quasi che; esso cominci dove finisce questo — ma lo assume in una dinamica di
elevazione soprannaturale; né si sminuisce in esso.
D'altra parte, nelle condizioni spazio – temporali in cui la vita divina si
offre all'uomo, la pienezza di Dio non può annullare il limite umano e rifulgere in
tutto il suo splendore. Per cui l'uomo ne vivrà sempre una partecipazione tensionale verso il compimento escatologico. La vita divina si offre tutta all'uomo, si
offre come vita eterna. Ma in forma “aurorale”, “primaziale”: come inizio anticipatore, in tensione verso la sua completa manifestazione e attuazione in Dio,
oltre ogni limite umano, oltre l'ultimo limite che è la morte. Per cui questa vita
resta «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Come tale conosce il momento della
kenosi, come esperienza della debolezza, dell'abbandono, della tentazione, della
sofferenza, della morte: nell'eone presente porta la forma crucis. Essa sarà manifesta
e gloriosa solo alla parusia: «Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora
anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).
4. VITA TRINITARIA.
Partecipazione alla vita di Dio in Cristo per lo Spirito, la vita teologale è vita trinitaria. Essa è ontologica conformazione a Cristo, di cui il cristiano condivide la
dignità filiale: filius in Filio. Di fatto, «Dio mandò il suo Figlio... perché ricevessimo
l'adozione a figli» (Gal 4,4-5; cfr. Ef 1,5). Quest'adozione filiale è opera in noi
dello Spirito del Figlio che, costituendoci figli, ci rapporta a Dio come a nostro
Padre: «Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori
lo Spirito del Figlio suo che grida: "Abbà, Padre!" ».
Per il dono ri-creatore dello Spirito il cristiano è dunque in rapporto con
Dio nella stessa relazione filiale di Cristo con il Padre: Cristo come figlio unigenito, coeterno al Padre; il cristiano come figlio adottivo ed erede. E questa è
II nome in senso biblico non è un’identificazione formale ‐ convenzionale ma so‐
stanziale ‐ costitutiva: esso significa realmente la persona, il suo essere proprio. Per cui far conoscere il nome è manifestare‐comunicare la persona. 1
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comunione trinitaria: comunione con Cristo, il cui Spirito ci conforma a lui e ci
attesta la nostra dignità filiale (Rm 8,16); e comunione con il Padre che effonde in
noi lo Spirito del suo amore (Rm 5,5), chiamandoci e abilitandoci alla stessa risposta d'amore del Figlio.
5. ECCLESIALITÀ.
La comunione con Dio in Cristo per lo Spirito avviene nella Chiesa e per la
Chiesa. La Chiesa — popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito — è il
sacramento della vita trinitaria Ora, la vita divina dei suoi figli fa la vita santa della Chiesa, che risplende così come universale sacramento di salvezza.
C'è dunque una duplice inerenza ecclesiale della vita teologale. Una
inerenza causativa da parte della Chiesa, per cui il cristiano attinge la vita divina
alla teologalità della Chiesa: vita divina che non è originata dalla semplice virtù di
religione quale individuale rapporto con Dio, ma dalla comunione ecclesiale
quale partecipazione all'economia di grazia della Chiesa. E una inerenza attestatrice da parte del cristiano, per cui questi è membro attivo della Chiesa: non si dà
un vissuto teologale extraecclesiale, ma solo e sempre all'interno dell'Ecclesia,
quale sua espressione partecipatrice. La Chiesa vive nei suoi membri, che genera
alla vita di Dio. La vita divina non conosce dunque individualismi, privatismi e
intimismi di sorta
Espressione dell'economia di grazia della Chiesa, la vita divina irradia
attraverso i suoi membri ad intra e ad extra della Chiesa. Essa si fa testimonianza
ecclesiale: missione, annuncio, evangelizzazione, apostolato. La vita teologale è
accoglienza ecclesiale della luce divina che ci fa ontologicamente luminosi, per
diventare un'irradiazione, uno specchio della gloria di Dio, come risplende sul
volto di Cristo. Vita teologale è essere e diventare, in Cristo e come Cristo,
splendore della gloria di Dio.
6. SANTIFICAZIONE.
Trasformato dallo Spirito in un'immagine sempre più perfetta di Dio nel Cristo,
il cristiano riflette nella sua vita la santità di Dio: «di gloria in gloria».
La santità cristiana, prima ancora che un compito e uno scopo, è un
dono e uno stato: santità per grazia, santificazione (cfr. 1Cor 1,2; 6,11; 1Ts 5,23;
Eb 10,10.14). Essa è il modo di essere propriamente cristiano realizzato dalla
grazia santificante. Questa non è appannaggio di uno stato elitario di vita cristiana, quasi un privilegio connesso a vocazioni speciali nella Chiesa; perché la
vita divina per i cristiani è una e indivisibile, e il battesimo è una santificazione ex
opere operato antecedente ogni determinazione e opzione ex opere operantis.
Disconoscere la santità come identità costitutiva e dinamizzante della
vita cristiana, di ogni vita cristiana, significa privarla del suo spessore teologale e
fare del fatto cristiano un eccedente formale dell'umano che non identifica
profondamente e non impegna integralmente. Donde la doppia identità cristiana
nel passato, matrice della doppia morale: dei chiamati alla perfezione e dei
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chiamati semplicemente alla salvezza; e il cristianesimo marginale oggi di tanti
che si dicono cristiani senza essere e sentirsi intensamente e interamente coinvolti. “Risignificare”, invece, la vita cristiana come vita teologale è ritrovare la
santità di Dio come principio costitutivo e dinamico: profondamente caratterizzante il nostro essere cristiano per prescindere minimamente da essa, ed esistentivamente ritmantesi alla nostra vita di debolezza e di peccato per dichiararne
l'impossibilità.
In sintesi, la vita cristiana come vita teologale è partecipazione alla vita
divina, donata da Dio all'uomo nella creazione, perduta con il peccato e ri-creata
per l'opera giustificatrice di Cristo e rigenerante dello Spirito. L'uomo la riceve e
la vive come vita nuova per partecipazione sacramentale alla Pasqua di Cristo;
vita eterna, quale inizio anticipatore della pienezza di Dio; vita trinitaria, come
comunione d'amore filiale con il Padre nel Figlio per lo Spirito.
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LA VITA TEOLOGALE COME ESISTENZA
DI FEDE, CARITA’, SPERANZA
1. FONDAZIONE BIBLICA.
Questa specificità di fede – carità - speranza è un'autocoscienza originaria e
permanente della vita cristiana, a partire dalla Chiesa apostolica con la sua autorevole certificazione.
È significativo che il primo scritto neotestamentario — la prima lettera ai
Tessalonicesi — si apra con un encomio attestatore, da parte di Paolo, della vita
cristiana della comunità di Tessalonica come vita di fede, carità e speranza:
«Rendiamo grazie a Dio sempre per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, avendo incessantemente presente davanti a Dio e nostro Padre l'opera
della vostra f e d e , la fatica della vostra c a r i t à e la fermezza della vostra
s p e r a n z a nel Signore nostro Gesù Cristo» (1,2-3). È da notare qui come fede,
carità e speranza non vengano nominate di per sé quasi a mo' di formule, ma
entrano nel discorso già in vista di ciò in cui esse rispettivamente si realizzano.
Più avanti, l'apostolo ripropone la triade caratterizzante la vita cristiana mediandola dal simbolismo dell'armatura che riveste il sedato: «Noi che siamo del
giorno, siamo sobri, rivestiti con la corazza della f e d e della c a r i t à e avendo
come elmo la s p e r a n z a della salvezza» (5,8).
Nella prima lettera ai Corinzi l'apostolo celebra la carità come «la via
migliore di tutte» (12,31), e da cui prende senso e valore ogni carisma nella
chiesa. Ma non senza la fede e la speranza, cui la carità è intimamente connessa:
«Adesso rimane la f e d e , la s p e r a n z a , la c a r i t à , q u e s t e t r e c o s e
soltanto; ma la più grande di esse è la carità» (13,13). L’ordine fede – carità speranza mette in luce l'indirizzo escatologia della fede - carità, che è dato appunto dalla speranza.
Questi sono i testi caratterizzati dalla compresenza terminológicamente
esplicita della triade teologale. Ma il significato espresso va oltre la sua designazione e composizione lessicale. Attraversa tutto il messaggio neotestamentario,
come annunzio, appello e attestazione di fede, carità e speranza, fino a diventarne la decisiva chiave ermeneutica. Riandiamo, tra gli altri, agli scritti giovannei: emblematicamente alla preghiera di Gesù nel capitolo 17 del quarto
vangelo, dove la vita teologale è compresa come vita eterna, partecipata da Gesù
ai suoi e da questi vissuta come fede: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini
che mi hai dato... Ed essi hanno conosciuto... e creduto» (vv. 6.8); carità: «Io ho
fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale
mi hai amato sia in essi» (v. 26); e speranza: «La gloria che tu hai dato a me, io l'ho
data a loro... Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano dove sono io,
perché contemplino la mia gloria» (vv. 22.24). La rivelazione donante del «nome»
di Dio suscita la fede, comunica la carità e apre alla speranza.
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2. QUADRO STORICO.
Questa coscienza neotestamentaria ha suscitato e indirizzato la tradizione ecclesiale che lungo i secoli ha preso corpo specialmente nella teologia e nel magistero. Anzitutto il kerigma post-apostolico. Nei primi Padri la continuità con
l'insegnamento degli apostoli è esplicita. Come in san Policarpo che, facendo
riferimento all'insegnamento di Paolo ai Filippesi, addita loro lo sviluppo della
vita cristiana come un progredire nella fede – carità – speranza. Sant'Agostino,
interrogandosi sull'essenza della vita cristiana, da ultimo la trova nel culto di Dio.
La vita cristiana è bonus Dei cultus, il quale prende forma e consistenza nella triade
teologale. Fede, carità e speranza sono espressioni di un'esistenza accolta come
grazia e corrisposta come lode e gratitudine a Dio. San Tommaso sviluppa in
modo ampio e sistematico nella Summa Theologiae la riflessione sulle virtù teologali: nella prima e terza parte in modo diffuso, nella seconda in modo particolare
e specificamente etico. Egli argomenta essenzialmente a partire dalla destinazione del cristiano a una felicità trascendente la felicità naturale, dischiusa in lui
dalla partecipazione alla vita divina e per il cui raggiungimento non bastano le
sole possibilità umane.
Il concilio di Trento ha connesso il dono della fede, della carità e della
speranza alla giustificazione del peccatore, quale rigenerazione della vita divina
nell'uomo. Pur evidenziando senza soluzione di continuità la rilevanza essenziale
per la vita cristiana della fede, carità e speranza, la teologia è andata gradualmente
perdendo la loro originaria dimensione misterico - personalista. Da espressioni
dinamiche dell'essere in Cristo, per sacramentale - ontologica conformazione a
lui, sono diventate via via delle qualità della grazia che informano le funzioni
umane come potenze soprannaturali: habitus per modum potentiae.
3. LA QUALITÀ DI VIRTÙ.
La fede, la carità e la speranza costituiscono e definiscono la vita cristiana in
qualità di virtù: abiti della vita teologale.
Le virtù sono attitudini operative, mediatrici della densità assiologica
dell'essere nel dinamismo esistenziale dell'agire. Come tali ineriscono fondamentalmente all'essere: sono modi dell'essere, che ne assumono ed esprimono le
esigenze dinamiche. Sono dunque la stessa persona automanifestantesi nell'azione. Non atti della persona ma la persona in atto. E neppure norme direttive
dell'agire ma la coscienza assiologica e normativa dell'essere che informa e
muove eticamente la libertà. È l'essere automanifestantesi come dover - essere.
Tale riconoscimento - assunzione avviene per conformazione della nostra libertà alla libertà di fede, carità e speranza di Cristo in noi, operata dall'azione sacramentale dello Spirito. Sicché la libertà è abilitata al dover - essere secondo Dio in Cristo e quest'abilitazione definisce come virtù i tre modi di essere
fondamentali della vita cristiana. La virtù è una disposizione permanente e dinamica
della libertà al bene.
Disposizione. La virtù non è un atto, né una somma di atti. È un atteggiamento: inclinazione e polarizzazione di tutta la libertà; la sua plasmazione ad
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opera del bene - valore (oggetto) che la specifica. Come tale è un atteggiamento
costitutivo della persona. E la libertà morale - libertà per il bene-valore - diventata stile di vita.
Permanente. La virtù è caratterizzata da stabilità, continuità e immediatezza
nell'intenzione operativa del bene-valore. Sicché questo diventa habitus: un modo
di essere della persona che si esprime fedelmente nell'azione. Abito, non abitudine: essendo questa di natura essenzialmente psicosomatica, l'abito di natura
etico-spirituale.
Dinamica. La virtù è una fonte interiore di azione, un potenziale etico che
induce all'azione. Essa facilita la ragion pratica e il volere morale nell'intenzione
attuativa del bene-valore. E un dinamismo di liberazione - libertà che dispone
agevolmente al bene.
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LA FEDE DEL CRISTIANO
1. DAL «COGITO» AL «CREDO»: LA SPECIFICITÀ NOETICA DELLA
FEDE.
L'essere umano è essere autocosciente. Un essere che nella sua libertà assume se stesso, la
realtà a lui solidale e si fa domanda di sé: coscienza. Questa è la forma specificamente
umana del vedere.
In questo trascendimento conoscitivo la coscienza coglie e afferma la sua trascendenza. Dire coscienza è dire l'essere cosciente, l'essere specificamente e unicamente
tale: l'essere umano, quale essere che si eleva sul mondo, nel modo in cui il conoscente si
eleva sul conosciuto. Egli è coscienza veritativa integrale e indivisibile di sé: coscienza che
riflette sulle implicazioni ultime dell'esistere umano, che sono implicazioni non solo
dell'esserci ma anche e irrinunciabilmente del dover - essere, dell'essere - con, dell''essere - verso.
Per una coscienza in pienezza e in profondità, irriducibile a una intelligibilità marginale e
fenomenica del reale, occorre il passaggio dal cogito al credo: dalla logica dell'evidenza alla
logica della partecipazione
Il passaggio dal cogito al credo è un atto di libertà: l'atto con cui la coscienza si eleva alle possibilità noetiche dell'inverificabile. Atto non necessitato
da alcuna evidenza astringente del cogito: implicante in questo trascendimento lo
stesso cogito. Atto libero, non arbitrario e immotivato, perché esigito dalla realizzazione in pienezza della tensione veritativa umana: l'atto di fede è il compimento della libertà. Così come atto di libertà è quello inverso di una coscienza
che si immanentizza sul cogito, chiudendosi alle possibilità metaempiriche
dell'essere e dell'esistere umano.
Nell'affidamento fiducioso del «credo» si sviluppa un conoscere per via
comunicativa che mi rende partecipe della vita dell'altro; del suo pensare, sapere,
comprendere e volere; del modo in cui egli si vede e vede il mondo delle cose e
degli uomini. È il conoscere eminente e inglobante dell'amore: tantum cognoscitur
quantum diligitur. A prescindere dalla comunione fiduciale, ogni enunciato diventerebbe arbitrario e fideistico: sussisterebbe come asserto isolato, sospeso nel
vuoto, erratico e immotivato e perciò in - credibile. Certo, sussiste un problema
di credibilità concernente l'attendibilità di colui a cui si crede. Nel senso che non
si può credere inopinatamente: si deve sapere in chi si ripone la propria fiducia.
La credibilità è condizione e presupposto della fede. Ciò implica che si deve
raggiungere un grado di conoscenza necessaria e sufficiente di credibilità, che
consenta di affidarsi in modo responsabile.
La fede in Dio è sempre e indivisibilmente, secondo la classica e significativa formulazione, «credere Deum, Deo, in Deum»: espressione rispettivamente
del momento conoscitivo - confessionale, del motivo fondante e della dinamica
interpersonale della fede. Fede è professare Dio (credere Deum) sul fondamento
della sua testimonianza (credere Deo), riconosciuta e accolta in una relazione di
adesione fiduciosa (credere in Deum).
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2. IL DIALOGO TEOLOGALE DELLA FEDE.
I presupposti antropologici costituiscono la piattaforma esperienziale umana di
fecondazione e maturazione della fede teologale/soprannaturale. Fede per grazia, questa non solo non prescinde dall'umano - come invece ha sostenuto K.
Barth in polemica con la teologia liberale - ma lo riconosce e assume come
contesto e momento imprescindibile del suo dinamismo sopraelevante.
L'uomo, infatti, è il destinatario della verità-grazia, il partner di Dio che
chiama al dialogo della fede. Un dono è tale non solo perché donato ma anche
perché accolto, e la parola è tale non solo perché rivolta ma anche perché recepita. Non c'è fede senza l'iniziativa donante di Dio. Ma non c'è neanche fuori
della risposta accogliente dell'uomo. La fede è al punto d'incontro della grazia (di
Dio) e della libertà (dell'uomo). E il «luogo» in cui Dio incontra l'uomo e questi si
lascia incontrare da Dio e gli corrisponde. Essa ha pertanto un'insopprimibile
valenza antropologica che la grazia non nega ma permea, assume ed eleva alle
possibilità teologali della comunione divina.
Non si tratta di un'antropologia parallela o dicotomica, ma profondamente inerente alla teologalità della fede; ritmando ed esprimendo questa la dinamica dell'alleanza e della comunione con cui Dio unisce a sé l'uomo. In tal
modo l'uomo comprende la fede - dono - iniziativa - di - Dio come evento proprio: non qualcosa da prendere a «scatola chiusa», un atto fideistico; ma un evento
coinvolgente tutto l'uomo in una libertà di invocazione, adesione e fedeltà con
cui egli ascolta e risponde alla parola di Dio.
Sono così poste le possibilità di Dio (della grazia e della rivelazione)
senza non solo decurtare l'uomo (in quella libertà per altro da Dio stesso donata),
ma in relazione privilegiata all'uomo, destinatario unico della parola creatrice e
salvifica divina. È in rapporto all'uomo che Dio si fa parola - grazia e si rivela, e
l'uomo lo riconosce come Deus prò nobìs. Nel prò nobis Dio rivela il se ipsum, altrimenti inconoscibile. Riconoscendo se stesso nel prò nobis di Dio, l'uomo conosce Dio. Lo conosce, così, non alla maniera delle teodicee filosofiche, intente a
scandagliare l'in sé di Dio, ma della rivelazione biblica, quale elezione-vocazione
dell'uomo all'alleanza creatrice e salvifica divina. In questa alleanza l'uomo si
ritrova destinatario di una parola-grazia inverante il mistero del suo essere in
rapporto all'essere donante di Dio: riconoscendo se stesso nella luce della parola
- grazia, l'uomo conosce Dio.
Lo conosce nel modo in cui Dio si è dato a conoscere attraverso i segni vettori della sua parola: segni - eventi mediante cui l'uomo si rapporta a Dio. Da
ultimo e massimamente attraverso la Parola - Verbo eterno di Dio, fattasi evento
storico in Gesù di Nazareth.
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ABBIAMO CREDUTO ALLA CARITA’
La carità designa non primariamente la virtù del cristiano ma l'essere di Dio; non
essenzialmente la prassi morale ma la vita divina: «Dio è carità» (lGv 4,8.16).
L'ontologia divina dell'agape precede l'etica cristiana della carità. Come tale riveste un primato fondativo rispetto a questa. La carità etica attinge la teologalità
alla carità fontale divina. La virtù e il comandamento dell'amore irradiano
dall'agape ontologica trinitaria, di cui il cristiano è reso partecipe per il dono
sacramentale dello Spirito.
1. L'EVENTO RIVELATORE DELLA CARITÀ TRINITARIA.
Gesù è il rivelatore del volto amorevole di Dio. In lui il mistero di Dio si svela
come mistero d'amore sussistente ed effusivo. Si svela non in un sistema di
concetti ma nella forma della storia: per il suo farsi evento nelle vicende degli
uomini, che la fede riconosce, accoglie e narra. La fede conosce Dio guardando
Gesù Cristo: l'Amore crocifisso. Essa diventa in Giovanni sguardo puntato sul
Crocifisso: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; cfr.
19,35-37). Espressione che richiama quella di Luca: «Tutte le folle che erano
accorse a questo spettacolo... se ne tornavano percuotendosi il petto» (Le 23,49).
La croce è lo «spettacolo» da contemplare per conoscere e convertirsi all'amore:
«Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi» (lGv
3,16).
Diacronicamente tutta l'esistenza di Gesù e sincrónicamente la croce e la
risurrezione esprimono l'evento come storia trinitaria dell'amore. Gesù vive la
propria vita come relazione di Figlio al Padre nella comunione dello Spirito
Santo.
2. L'ONTOLOGIA TRINITARIA DELLA CARITÀ.
Raccontando il vangelo della carità, la fede percepisce il mistero di Dio: «Dio è
carità» (lGv 4,8.16). La verità economica, cioè storico - salvifica, dell'evento è via
alla verità immanente, e perciò inverificabile e indeducibile, del mistero. La carità
- evento di Gesù, che ha nella Pasqua l'ora del compimento, è epifania dell'essere
- carità di Dio: la storia trinitaria è l'estasi nel tempo dell'ontologia trinitaria della
carità. Perché Dio è carità in se stesso, essenzialmente, si rivela economicamente,
funzionalmente come carità. E perché Dio si rivela e offre all'uomo, questi può
riconoscerlo e professarlo nel suo «in sé»: dalla carità economica alla carità immanente.
La storia del Padre, del Figlio e dello Spirito, nell'unità indivisa del loro
essere e operare, ci rivela che Dio nella sua vita intima è amore. Egli non è l'Io
assoluto ripiegato e chiuso in se stesso, occupato nella contemplazione della
propria perfezione. Egli è in se stesso apertura: trabocco d'amore che suscita
relazione. «Amor extasim facit». E l'estasi dell'Amante nell’Amato e insieme
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nell’Amore donato e unificante. L’amore è trinitario.
3. RADICE INTRATRINITARIA DELLA CARITÀ CREATRICE E SALVIFICA.
L'amore che Dio è in se stesso, nel suo essere trinitario, è la condizione di possibilità creativa e redentiva dell'uomo e del mondo a lui solidale. Perché Dio è in
se stesso carità, può farsi carità oltre se stesso: estasi extratrinitaria d'amore. Sono
effettivamente le relazioni d'amore intratrinitario a rendere possibile il costituirsi
di relazioni d'amore tra Dio e le sue creature.
Nella sua libertà, Dio può aprirsi nella carità all'altro da sé: altro nella
natura, di diversa sostanza. Il Padre può amare il Figlio oltre il Figlio, in un
trabocco di carità che chiama all'esistenza nuove creature. L'amore generativo
del Figlio diventa creativo dell'uomo: amore che dona la vita. L'amore paterno si
fa creatore: agape che pone in essere chi ancora non è, costituendolo, nel Figlio,
figlio del suo amore. La kenosi eterna dell'amore, quest'alienazione o trascendimento immanente del Padre nel Figlio, costituisce la radice intratrinitaria del
suo manifestarsi ad extra, del suo entrare creativamente e redentivamente nella
vicenda storica umana. Il dialogo eterno dell'amore donante del Padre e accogliente del Figlio è il fondamento immanente della comunicazione di sé assolutamente libera e gratuita che Dio realizza creando il mondo e inviando il proprio
Figlio fra gli uomini. La recettività accogliente del Figlio, «per mezzo del quale e
in vista del quale tutto è stato creato» (Col 1,16) e «per opera del quale abbiamo la
redenzione» (Col 1,14; cfr. Ef 1,7), consente l'accoglienza dell'amore che prende
corpo nella creazione dell'uomo e nella vita nuova: mediante il Figlio il Padre si fa
grazia per noi. La vita di Gesù è la testimonianza di questo mistero della grazia
divina. Egli è accoglienza creativamente e redentivamente mediatrice dell'amore
divino.
È nello Spirito che avviene il trascendimento dell'amore del Padre e del
Figlio. Lo Spirito è in se stesso il «terzo» e il «noi» dell'amore, in cui si compie il
dialogo intratrinitario della carità paterna e filiale. E nello stesso Spirito che avviene il trabocco d'amore extratrinitario del Padre per il Figlio. Egli è il dono
dell'amore e il vincolo della comunione, in cui il Padre e il Figlio sono amanti e
uniti nell'amore: in cui il Padre mediante il Figlio si fa dono effusivo e comunione
compartecipativa d'amore.
Lo Spirito è colui nel quale non solo si compie la per1Coresi dell'amore
trinitario, ma anche colui che, in quanto personale sovrabbondanza dell'amore
reciproco del Padre e del Figlio, presiede alle esteriori manifestazioni di tale
amore... Potremmo dire che lo Spirito è il principio personale nel quale la comunione del Padre e del Figlio si compie e si espande comunicandosi in orizzonti di pienezza sempre nuovi e illimitati. Nella per1Coresi trinitaria lo Spirito è
in persona l'amore di Dio che si comunica.
L'amore, eternamente procedente dal Padre al Figlio nello Spirito, s'effonde dal Padre per il Figlio nello Spirito agli uomini. E la libertà ontologica
dell'amore trinitario che si fa fedeltà creatrice e redentrice d'amore. Eventi
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d'amore “autoeffondentesi”, la creazione e la redenzione non hanno altra ragione al di fuori dell'amore e altra logica al di fuori dell'ontologia trinitaria
dell'amore. La storia della salvezza ritma nel tempo il mistero eterno dell'amore,
così rivelandolo; ma al tempo stesso inverando se stessa nel suo radicamento
ultimo che è l'indeducibile e libertà dell'Amore eternamente amante.
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DARE RAGIONE DELLA SPERANZA
«Una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione»
(Ef 4,4). La vita cristiana è essenzialmente vocazione, meglio con - vocazione,
alla speranza: chiamata alla «speranza della gloria» (Rm 5,2), alla «speranza della
salvezza» (1Ts 5,8), alla «speranza della vita eterna» (Tt 1,2). Espressioni tutte
della speranza più grande: la speranza del futuro di Dio in Cristo per noi.
La natura vocazionale mette in luce da una parte la teologalità della
speranza come rivelazione e grazia (contro ogni monismo della prestazione e
pianificazione umana), dall'altra la sua eticità come opzione di libertà e fedeltà
(contro ogni addebito di passività e di rassegnazione). Nel dialogo vocazionale
della speranza il cristiano professa la fede come l'offerta di senso umanamente
più realizzante e attesta la carità come l'impegno più motivato e convincente.
Vogliamo qui analizzare questa vocazione alla speranza, che ne mette in luce
l'essenza teologale, tracciando la relazione trascendente dalla speranza dell'uomo
al Dio della speranza, esaminando la speranza di Gesù che ne è il modello e il
primo testimone, indicando e delineando il fondamento e l'oggetto della speranza in Cristo, evidenziando il coinvolgimento sociale, cosmico e storico della
speranza.
1. DALLA SPERANZA DELL'UOMO AL DIO DELLA SPERANZA.
L'uomo è un essere di speranza proteso alla pienezza trascendente del
proprio essere. L'essere umano infatti si comprende assai meno come esserci che
come dover - essere: essere verso, essere trascendente. C'è un'inquietudine ontologica, umanamente insuperabile, che muove irresistibilmente la libertà verso
una condizione umana sottratta a tutti i limiti e contrassegnata dalla pienezza.
Questa tensione trascendente è la speranza dell'uomo.
È una speranza che la libertà vive come invocazione, ricorso assoluto,
attesa di Dio. Per se stessa bisognevole di essere assunta e confermata dalla
grazia: dall'atto con cui Dio si muove incontro, si fa salvezza dell'uomo.
Nel dono salvifico di Dio — nel prò nobis di Dio — è la speranza
dell'uomo: la certezza della sua riuscita, la sicurezza del compimento. E per
questo che la speranza trascendente è speranza della fede: non speranza programmazione o previsione ma speranza rivelazione e grazia. E la fede che annuncia il prò nobis di Dio nell'evento di Gesù: evento compimento delle attese
messianiche e incoativo e prognostico della pienezza escatologica.
Tutto l'Antico Testamento è narrazione dell'attesa di Dio. Esso si fa voce
dell'inquietudine - ricorso - invocazione dell'uomo: «Dal profondo a te grido, o
Signore: Signore, ascolta la mia voce» (Sal 129,1). E una voce profetica, che
esprime non solo anelito e tensione ma altresì certezza che muove l'uomo, nella
storia, all'incontro con Dio: lo incammina verso la «pienezza del tempo» (Gal
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4,4) come l'ora dell'adempimento salvifico.
E l'esodo della speranza messianica verso la terra promessa del regno di
Dio che si offre all'uomo nell'evento di Gesù. In lui e per lui «il tempo è compiuto
e il regno di Dio è vicino» (Me 1,15): «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Le
17,21).
Il regno di Dio è la possibilità radicalmente e indeducibilmente nuova
che Dio offre all'uomo per la sua salvezza: è la possibilità stessa della libertà e
della vita di Dio che in Gesù si fanno disponibili per l'uomo. Esso irrompe in
modo esistenziale nel regno dell'uomo, coinvolgendolo in una tensione dialettica
e trascendente al regno dei cieli: il regno di Dio nella sua ulteriorità metastorica.
Questa tensione è messa in movimento dall'evento di Gesù: dal suo annuncio e
dalla sua vita.
Dal suo annuncio del regno, come il già presente e operante della salvezza,
ma nel non - ancora della pienezza. Il regno è l'inizio anticipatore e prognostico
dell'eschaton, in tensione/cammino verso il compimento ultimo e definitivo. Per
cui il regno è insieme cominciato e proteso verso il pleroma: il regno di Dio sta
avvenendo.
Dalla sua vita, come attestazione pasquale della piena riuscita dell'uomo.
In Gesù l'attesa dell'uomo è veramente colmata, perché sulla croce la lotta umana
tra la vita e la morte si è risolta con la vittoria ultima della vita. Ora ciò che nella
Pasqua si è compiuto in modo pieno e definitivo per l'umanità di Gesù, si compie
come evento anticipatore, prefigurativo e “primiziale” per ogni uomo. La risurrezione di Gesù è evento - promessa per l'umanità. Non la speranza veterotestamentaria o meramente umana dell'attesa di Dio, ma la speranza del destino
di Cristo per ogni uomo.
Non la speranza dell'uomo che si protende invincibilmente verso Dio,
riponendo in lui la sua fiducia fondamentale. Ma il «Dio della speranza» (Rm
15,13) che in Cristo si offre all'uomo come salvezza: risurrezione e vita. In Cristo
Dio si fa speranza dell'uomo, il quale non attende semplicemente un segno di Dio, un
tempo messianico. Questo segno è stato già dato, questo tempo è già venuto: si è
significativamente compiuto nella Pasqua di Cristo. L'uomo lo riconosce e accoglie nella fede come la verità che chiama alla speranza. È la speranza che ciò
che è avvenuto e si è compiuto in Cristo è già cominciato nell'umanità e nel
mondo e va verso il compimento.
Perciò la speranza cristiana non è una pura attesa: l'aspettazione di un
evento tutto da venire. Ma l'affermazione di un già avvenuto che si pone come
verità-promessa di un non - ancora. È una memoria profetica: memoria della vittoria
pasquale di Cristo sul male e sulla morte, anticipazione incoativa e prognostica
del destino dell'uomo in Cristo. La speranza cristiana è l'affermazione di questo
destino di risurrezione e di vita per l'uomo e per il mondo.
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2. GESÙ, IL TESTIMONE DELLA SPERANZA.
Gesù è il testimone della speranza. Il cristiano ne attinge a lui la forma e lo stile.
Egli c'insegna cos'è una vita secondo speranza: un'esistenza che non ripone in sé
o nelle proprie prestazioni la fiducia fondamentale, ma in Dio e nella sua grazia.
Gesù è il figlio di Dio che si fa figlio dell'uomo, assumendo la condizione
umana in tutta la precarietà di sofferenza, di limite e di morte, fino a nascondere
la divinità nella sua umanità. Ora questa umanità non cede né alla tentazione né
alla prova, perché sostenuta e animata dalla speranza in Dio. La sua estrema
debolezza, la sua rinunzia a ogni apparato e attrattiva di potenza sono il segno
della speranza più grande.
Ma è soprattutto l'esperienza-limite della passione e della morte, in tutta
la loro carica di tentazione e di prova, la testimonianza più alta della speranza.
Assumendo la morte in tutta la sua drammaticità - in ciò che essa ha di paura,
tedio, lotta interiore, solitudine, impotenza e tristezza - Gesù la vive come il
momento culminante e decisivo del suo essere per Dio: si abbandona totalmente
al Padre nell'atto dell'amore - obbedienza - fiducia - fedeltà più grande: in una
parola, della speranza assoluta. Gesù vive la morte come il momento della decisione ultima per Dio: dell'offerta della vita. Gesù non subisce, malgrado tutto,
la morte ma l'assume come un dare la vita: come supremo atto d'amore.
Questa relazione vivente e vitale col Padre - che la morte in croce scuote
profondamente ma non infrange, anzi intensifica e rinsalda - scandisce e costituisce la speranza di Gesù. Non si tratta di un cieco od ostinato ottimismo, ma
della fede-fiducia in Dio, come «colui che poteva liberarlo dalla morte» (Eb 5,7).
Egli infatti è «il Dio che dà la vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non
sono» (Rm 4,17). In questo esodo da sé e abbandono al Dio della creatio ex nihilo
e della resurrectio mortuorum, a colui cioè che può rendere possibile l'umanamente
impossibile, Gesù vive e attesta la sua speranza come la sfida più alta a ogni
rassegnazione e fatalità umana.
La morte, vissuta nella speranza del Dio della vita, sfocia per Gesù nella
vita stessa di Dio. La risurrezione, come vittoria pasquale della vita sulla morte, è
la risposta di Dio alla speranza di Gesù. È il compimento della speranza: dono
dell'amore salvifico del Padre alla speranza del Figlio. La Pasqua è questo incontro: il compimento più alto della speranza più grande.
La speranza è per Gesù il modo di vivere la vita fino alla morte nella
comunione con il Dio della vita. E una comunione più forte della morte, che
questa non può rompere perché sostenuta e cementata dallo Spirito di Dio che
l'afferma oltre la morte, come morte della morte, cioè come risurrezione. L'abbandono totale e incondizionato a Dio, nella comunione d'amore che non teme
la debolezza e non cede alla tentazione, fa di Gesù il testimone della speranza. È una
speranza che si afferma non ai margini dell'umano o in un vissuto metaumano,
ma in una dimensione d'incarnazione, quale spogliazione della divinità e assunzione dell'umanità nella forma del servo umiliato fino alla morte in croce (cfr. Fil
2,7-8). È una speranza che attraversa tutta l'esistenza di Gesù, come il modo
nuovo di affrontare e non cedere, affidandosi al Dio più forte di ogni male.
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Per il cristiano è una testimonianza che suscita la sequela e l'imitazione.
Egli vive la speranza come fiducia (Gal 5,5), perseveranza (Rm 8,25), pazienza
(Rm 5,3), vigilanza (lTs 5,6), coraggio (Ef 3,12). Atteggiamenti tutti indotti e
sostenuti dalla forza del possibile suscitati dalla speranza della fede: «Tutto posso in
colui che mi dà forza» (Fil 4,13). È la professione della speranza nel Dio della
risurrezione di Gesù dai morti, che sostiene e muove tutta la vita cristiana.
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CONCLUSIONE
Fede, carità e speranza esprimono in unità distinta la vita cristiana. Dopo aver
analizzato la specificità di ognuna, occorre recuperarne l'indivisibile unità. «Rimane la fede, la speranza e la carità» (1Cor 13,13a): formano insieme il permanente della vita cristiana, ciò in cui questa si esprime, perché ne è essenzialmente
e dinamicamente costituita. La vita cristiana è vita di carità, per la fede, nella speranza.
La vita cristiana è vita di carità, perché consiste nella carità di Dio: questa è
la sostanza teologale dell'esistere cristiano. Teologalità è comunione agapica
trinitaria, che muove agapicamente tutto il vissuto cristiano; non è un attributo
(accidens) della virtù di religione: è la compartecipazione alla sostanza della vita di
Dio. E questa sostanza è carità. Non è l'amore dell'uomo, benedetto da Dio, ma
l'amore di Dio che si fa karis di santificazione (ontologica) e di santità (etica) nel
cristiano. E per questo che, echeggiando Paolo, abbiamo potuto dire che la carità
è il tutto della vita cristiana, e che senza la carità non si è niente e non ha valore
niente.
Vita di carità per la fede, perché è la fede a introdurre nel mistero dell'amore creatore e redentore di Dio, ad annodare la comunione dell'uomo con Dio.
La fede è il permanente offrirsi rivelatore e redentore della grazia alla libertà
riconoscente dell'uomo, o anche la fedeltà accogliente dell'uomo della verità evento di salvezza di Dio. Senza dialogo teologale della fede non si dà comunione agapica trinitaria. E nella luce veritativa della fede che Dio è carità per nei
e noi siamo in relazione salvifica con Dio. E la fedeltà della fede, che quella luce
suscita attraentemente in noi, diventa comunione vivente di carità. Questa costituisce e definisce la vita teologale a partire dalla fede: in luce e libertà di fede.
D'altra parte, la fede stessa porta con sé una dinamica di carità, consistendo in
una relazione veritativa a Dio non teoretica ma interpersonale. Sicché la fede è
l'epi-gnosi teologale della carità: l'intelligenza amante del mistero dell'amore di
Dio. Carità della fede, dunque, e fede vivente nella carità.
Vita di carità, per la fede, nella speranza, perché la partecipazione alla vita
divina porta, nella storia e nel mondo, la forma incoativa e primiziale non ultima
e definitiva. Come tale è in tensione escatologica alla pienezza dell'agape senza
ombre né limiti. La speranza dà alla carità della fede la forma itinerante della
storia: del cammino integratore di tutte le solidarietà verso il pieno svelamento e
compimento in Dio. Il kopos della carità (cfr. lTs 1,3) non è uno sforzo titanico di
umanizzazione del mondo, ma la fatica dell'amore generata e sostenuta dalla
speranza: dal futuro di Dio aperto nella storia dalla Pasqua di Cristo. La carità
della fede è sotto la promessa della speranza: la profezia dell'indefettibile futuro
di Dio, malgrado tutte le deficienze, le precarietà e gli insuccessi umani. La carità
vive di questa promessa, come vive della verità della fede; l'assume identificandosi: carità-promessa: pro - missìo: missione d'amore originata, sostenuta e
finalizzata dall'amore infallibile di Dio.
«Ma la più grande è la carità» (1Cor 13,13). Fede e speranza convergono
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nella carità. La carità è la sostanza della vita teologale: questa è carità per partecipazione all'essere - carità di Dio. Ma la carità vive della verità della fede:
«Camminiamo nella fede e non ancora nella visione» (2Cor 5,7); e della promessa
della speranza: «Se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,25). La fede è il senso della carità, la speranza ne è la profezia.
La carità nell'uomo ha bisogno della significazione prolettica della fede - speranza. In Dio no. La vita di Dio, in sé, è solo carità: pienezza luminosa di carità,
senza ombre né diastasi. Nell'uomo, invece, la vita divina è carità con fede e
speranza: è consegna nella fede e nella speranza all'amore di Dio; carità che
supera il limite e lo scarto, propri dell'umano, con l'affidamento della fede e
l'abbandono della speranza ai segni efficaci dell'amore di Dio.
La partecipazione alla carità di Dio nel cristiano è comunione agapica di
fede e di speranza: amore che percepisce e corrisponde all'insondabile e incommensurabile autodonarsi di Dio nell'adesione illuminante della fede, e al non
- ancora della pienezza nell'attesa fiduciosa e perseverante della speranza. Ma
quando dalla forma itinerante del mondo e della storia la partecipazione alla vita
divina assumerà la forma della pienezza escatologica, la fede e la speranza saranno assorbite dalla carità: diventeranno visione luminosa e beatitudine sussistente di carità (cfr. 1Cor 13,12). La comunione con Dio non sarà ormai più nel
credito fiduciale della fede e nell'attesa paziente della speranza, ma nella perfetta
coincidenza della carità di Dio «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Allora la vita teologale nell'uomo sarà semplicemente carità, pienezza di carità, come Dio è carità.
E per questo che l'essenza della vita cristiana nell'eone presente —
«adesso» — è la triade indivisa di fede, speranza, carità: «Adesso rimane la fede, la
speranza e la carità» (1Cor 13,13a). «Ma la più grande di queste è la carità» (1Cor
13,13b), perché Dio è carità e la vita cristiana, come vita teologale, è partecipazione alla carità di Dio. Consiste dunque nella carità: è carità per la fede nella
speranza. Sicché c'è una convergenza della fede e della speranza nella carità: sono
modalità del vissuto agapico nell'oggi del mondo e della storia; interamente assorbite però dall'agape della comunione beatifica e gloriosa. In questa la triade si
risolve nella sola carità, che è la pienezza contemplativa e partecipativa dell'amore di Dio. Fede e speranza entrano nel «per sempre» della carità — «la carità
non avrà mai fine» (1Cor 13,8) — che è il «per sempre» della vita agapica divina,
come condizione di perfetta coincidenza di essere e amore.
Affermare che l'etica cristiana è etica teologale, è centrarne lo snodo fondativo e normativo. Questo centro nodale è la vita di Dio partecipata a noi per
Cristo, nello Spirito: costitutiva della persona come libertà di fede - carità speranza. Questa è il soggetto della vita morale: profondamente motivato perché
assiologicamente conformato nel suo essere, da cui la norma affiora come dover
essere.
Questo significa che la vita morale non può essere intesa dicotomicamente o anche solo parallelamente alla vita spirituale. Ciò ha comportato la migrazione della vita teologale tutta nell'ascetica e la divisione delle
competenze sulle virtù teologali tra morale e spiritualità. Questa se ne occupava
come vie di ascesi dell'anima a Dio; la morale, invece, come doveri di vita cristia-
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na, nella varietà degli obblighi comportati e concretamente determinati dai
peccati che li disattendono.
Lo slittamento sul piano normativo delle virtù teologali era contestuale
allo sradicamento misterico della morale cristiana: questa inaridiva le sue radici
trinitarie, cristologiche, pneumatologiche e la sua fontalità liturgico - sacramentale, perdendo così di spessore e consistenza metaetica. Il diritto naturale diventava il suo referente primo e decisivo. La teologalità apparteneva all'ascetica.
E questa o era settorializzata, perché per lo più rivolta a vocazioni e stati di vita
particolari nella Chiesa; o era intesa aggiuntivamente alla morale. L'etica, invece,
che concerneva e obbligava tutti, rimaneva essenzialmente estranea all'economia
teologale. Questa la toccava solo tangenzialmente, come referente estrinseco
all'agire e richiamo a conferma di argomentazioni eminentemente di diritto naturale.
Recuperare la teologalità alla vita morale è risignificare tutta l'etica cristiana nella sua dinamica assiale. Non si tratta di sottrarla alla spiritualità, ma di
stabilire una condivisione dialogica tra vita spirituale e vita morale, così che la
morale riassume spessore misterico e la spiritualità si carica di esigenza. Una morale integralmente ricompresa e sistematicamente riproposta come dinamica
assiale di fede - carità - speranza è quell'etica della persona simultaneamente rispondente alle esigenze di una fondazione interiore al soggetto agente del dovere
morale e di una specificazione profondamente caratterizzante della morale cristiana.
L'etica normativa — come anche la pastorale, la catechesi, l'omiletica, la pedagogia morale — vi trovano e attingono il referente logico e assiologico d'ogni
mediazione formativa alla vita morale.
Vivere ed evangelizzare la morale come la «fedeltà della carità per la fede,
nella speranza» è trovare e offrire profondi e coinvolgenti motivi all'agire. E qui
la radicalità fondativa della vita in Cristo e secondo lo Spirito, che risignifica innovativamente tutta la legge naturale e motiva esigentemente la radicalità normativa evangelica. Altrimenti questa si volontarizza precettisticamente (sia pure di
una precettività cristonoma) e finisce nella facoltatività del supererogatorio; e la
legge morale - naturale e i suoi adempimenti restano marginali all'economia
salvifica: semplicemente delle condizioni meritorie.
Vivere in fede, carità e speranza è esprimere il proprio essere di grazia
nell'agire. E questo è il personalismo etico cristiano. Insieme le tre virtù fanno la
persona morale: costituiscono la coscienza che il cristiano ha di sé e strutturano
la libertà con cui decide di sé. Ogni atteggiamento e atto etico cristiano esprime la
fedeltà teologale della «carità per la fede nella speranza» e partecipa del «per
sempre» della carità.
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