Le tecniche di fusione del bronzo nel passaggio

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Le tecniche di fusione del bronzo nel passaggio
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LE TECNICHE DI FUSIONE DEL BRONZO
DALLA PROTOSTORIA ALL’ETA’ CLASSICA
di Mauro Cesaretto
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Il fatto che civiltà totalmente differenti per cultura, territorio e grado
di sviluppo siano approdate parallelamente alla medesima tecnica di lavorazione del metallo, pur trovandosi a distanze per allora
“insormontabili”, evidenzia che si tratta di un metodo molto intuitivo,
quasi “obbligato” naturalmente dalle caratteristiche fisiche e meccaniche di questi materiali.
L’intuizione che fece nascere e mettere in pratica il procedimento per
ottenere oggetti nei metalli più usati nella protostoria, (rame, bronzo,
ottone, oro, argento e per ultimo il ferro) è dovuto, probabilmente ad un
errore che si verificò durante le cotture delle ceramiche, nei relativi forni, poi la curiosità, l’attenzione, l‘intuito e l’intelligenza dell’uomo fecero il resto.
È ormai convinzione comune che per le prime fusioni vennero utilizzati stampi aperti (ad una sola valva), in argilla refrattaria, ottenendo così
oggetti bidimensionali,con una faccia piatta, l’artigiano avrebbe poi dovuto lavorare molto tempo per dargli una forma ben definita, tutto questo
processo post-fusione, richiedeva un tempo molto lungo, per le numerose
ricotture del metallo ed un conseguente spreco dello stesso.
Successivamente le valve divennero due e simmetriche, con queste si ottenevano manufatti tridimensionali, dove il lato destro era eguale o simile
a quello sinistro, il lavoro del fabbro era inferiore e minore era la perdita
di metallo.
Queste matrici erano fatte in pietre che avevano precise caratteristiche,
dovevano avere una buona lavorabilità, una notevole resistenza agli
shock termici e una discreta reperibilità, come l’arenaria.
Questa ulteriore innovazione permetteva il riuso di tali stampi, per molte fusioni, la cui tecnologia e metodologia saranno descritte più avanti.
Ma se con questo metodo si potevano produrre asce, pugnali, spade,
punte di frecce, zappe e picconi, non si riusciva certamente ad ottenere
oggetti metallici più elaborati preziosi, come gioielli e piccole statuette,
finimenti per animali, accessori per la casa e la vita quotidiana e per far
conoscere il proprio status.
Considerando che alle necessità primarie veniva dedicato minor tempo,
l’uomo iniziò a “guardarsi intorno”, sentì la necessità di circondarsi di
oggetti anche futili e superflui purché belli, ovviamente sempre secondo
l’estetica e i canoni del tempo.
Accertato che da necessità nasce virtù, il nostro antenato elaborò una
tecnica ancora più precisa e raffinata di fusione, che durò quasi inalterata
nel tempo fino addirittura al 1907, quando un ingegnoso dentista pensò di
applicarla e modernizzarla per la produzione di protesi odontotecniche.
Questa tecnica viene chiamata, fusione a cera persa o microfusione.
Il procedimento che permette di ottenere oggetti raffinatissimi in metallo
è antichissimo.
I rinvenimenti avvenuti in Mesopotamia, Egitto e Grecia testimoniano la
sua conoscenza fin da tempi lontanissimi da noi.
(*) - Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo.
Gruppo Archeologico di Villadose
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Indubbiamente i Celti furono tra i più eccelsi cultori ed esecutori di tale
arte già dal VII sec. a.C. come testimoniano innumerevoli reperti.
Venne e viene utilizzata soprattutto per la produzione di gioielli e monili
in metalli preziosi, proprio per l’estrema ricercatezza del risultato finale.
La tecnica di fusione a cera persa consiste nel costruire manualmente un
modello in cera, al quale viene applicato, sempre in cera, una sorta di
cono, che servirà a facilitare il versamento del metallo fuso; all’estremità
opposta dell’oggetto vengono applicati sempre in cera dei bastoncini, che
permetteranno la fuoriuscita dell’aria e dei gas evitando così bolle ed imperfezioni di fusione.
Il tutto veniva ricoperto da un leggero strato di barbottina (argilla molto
depurata e fine) e poi , come una cipolla, si applicavano strati su strati di
argilla refrattaria con granulometria crescente.
La circonferenza maggiore del cono in cera doveva trovarsi sullo stesso
piano dei due o più bastoncelli.
Lasciata seccare da una a più settimane, proporzionalmente alla grandezza dell’oggetto da fondere e quindi alla massa di argilla, veniva rovesciata ed avvicinata al focolaio ottenendo così lo scioglimento e lo
svuotamento conseguente della cera e un consolidamento dell’argilla; nel
frattempo il crogiolo con dentro il metallo era pronto per essere versato,
si rigirava il pane di argilla, e si colava il metallo fuso che prendeva il
posto dell’oggetto in cera.
Un ulteriore perfezionamento avvenne con il desiderio o la necessità di
creare statue anche di grandi dimensioni, quindi, la fusione descritta precedentemente era ovviamente antieconomica, perché vi era un uso eccessivo di metallo, perciò estremamente costosa e troppo pesante, probabilmente una statura così eseguita avrebbe collassato su se stessa.
Pensarono quindi, di creare una forma interna in argilla molto simile a
quanto l’artista voleva ottenere, veniva successivamente ricoperta di
cera, lavorata accuratamente dallo scultore e poi il procedimento per la
fusione era grossomodo uguale.
Queste nuove tecniche diedero maggiore impulso all’arte dei metalli, ma
l’operatore metallurgico, il fabbro, il fonditore e l’orafo mantennero comunque quelle caratteristiche iniziatiche, religiose e imbevute di mistero
che hanno rappresentato per un lungo lasso di tempo in tutte le culture e
civiltà questo lavoro quasi alchemico.
Queste conoscenze, unite ad una discreta manualità e sommata alla necessità di eseguire nel laboratorio del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo
riproduzioni di manufatti per il nuovo allestimento, anche di oggetti inerenti le tecniche di fusione del bronzo e le sinergie scaturite dall’allora
nascente collaborazione ed amicizia con Vittorio Brizzi e l’Associazione
da lui presieduta, Paleoworking, ci stimolarono la curiosità e ci allettò
l’idea di provare e ricostruire tutto il processo indispensabile alla fusione
del bronzo.
Iniziammo così a raccogliere i dati e le informazioni tecnologiche (anche se poche e frammentarie) e le materie prime necessarie e come
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logica conseguenza provammo se effettivamente eravamo in grado, con
le tecniche e i metodi preistorici, a portare a temperatura di fusione il
bronzo (1180°), di colarlo in uno stampo per ottenerne un oggetto in
bronzo.
La strada fu punteggiata da alterne vicende, non sempre e non tutte positive ma tutte utilissime per migliorare, correggere e perfezionare il procedimento stesso.
Il risultato di questa nostra ricerca teorica e pratica insieme, ci ha indotto ad una standardizzazione che ci ha dato buoni risultati che descrivo qui di seguito.
Il focolaio viene scavato nella nuda terra ed ha una forma quasi ovale,
di circa 60 cm x 40 cm ed una profondità che va da 10cm a 30 cm, rivestito di un impasto di argilla con sabbia e chamotte ed un circolo di pietre tutte attorno.
Il fuoco viene mantenuto costantemente attivo con carbone. La
carbonella non sempre funziona.
Il crogiuolo è stato fatto con argilla impastata a chamotte e sabbia per
renderlo refrattario è costruito con un apposito incastro per le pinze (in
legno, bagnate con acqua al momento di usarle) che serviranno per manovrarlo e per ruotarlo al momento della colata del bronzo fuso.
Il mantice è uno strumento fondamentale ed essenziale per riuscire a
portare la temperatura di un normale fuoco da campo (600° 700°) a
1180° temperatura necessaria alla fusione del bronzo.
Il mantice è stato costruito in pelle, a doppia sacca, da azionare alternativamente per innalzare la temperatura del fuoco. La tecnica e il ritmo
per manovrare il mantice è estremamente faticosa. Il ritmo deve essere
costante, il flusso continuo e posso garantire che manovrarlo per un’ora
o poco più richiede forza, resistenza ed allenamento.
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Le due sacche sono dotate di valvole e di raccordi in pelle, che confluiscono in una “Y” di sambuco svuotato a cui è collegato un secondo raccordo in pelle che va a unirsi ad un ugello a “L” fatto della stessa argilla refrattaria, il quale agisce direttamente sulla brace posta sopra al
bronzo nel crogiolo.
La matrice è bivalve simmetrica, in arenaria, scavata con scalpelli in
bronzo per darle la forma in negativo dell’oggetto. Vengono praticati dei
fori passanti per fermare le due metà con perni di legno e delle scanalature di sfiato per la fuoriuscita dell’aria durante la colata del bronzo.
La matrice rimane aperta ai bordi bel focolaio con le superfici scavate
verso il fuoco. Quando il bronzo arriva ad una densità pastosa, tipo miele, le due valve vengono unite, inseriti i perni di legno e legate con strisce di pelle bagnata e viene sistemata più vicina possibile ai carboni ardenti.
Dopo che il bronzo ha raggiunto lo stato liquido viene mantenuto tale
per un paio di minuti, il crogiolo viene afferrato con le pinze di legno, liberato del carbone che lo ricopre e portato sulla matrice riscaldata. Le
impurità che rimangono a galleggiare sul bronzo fuso non preoccupano
assolutamente dissociabili; si cola il metallo liquido dentro la matrice e
dopo una diecina di minuti si possono aprire le due metà, viene preso il
manufatto, immerso nell’acqua e quindi inizierà la lavorazione finale,
sempre e comunque utilizzando strumenti presumibilmente“del tempo”.
Tutto questo è, speriamo, solo l’inizio di quello che il Museo del Grandi Fiumi può e potrà offrire nel tempo, sia come archeologia sperimentale che come didattica ad una sempre più vasta utenza.