Marocco - TOAssociati
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Marocco – Ora come un tempo di A. Battaglini, da Viaggiando Nell’Africa più bella, misteriosa e vicina. Due ore di volo dall'Italia per tuffarsi in un medioevo di souk, di medine, di vecchi con i carichi d'erba sul capo, di cedri intagliati, di asini usati ancora come mezzi di trasporto, di tappeti annodati dagli artigiani. Un mondo islamico con i suoi enigmi; le antiche kasba; le tribù; il deserto; Marrakech; le botteghe di Fès; le città imperiali e il mare blu cartolina di Agadir sono tutti i tesori da scoprire. Dalle cime screziate dell'Alto Atlante alle dune rosate del Tafilalet, dagli ksar nascosti nei palmeti alle kasba di sabbia, dalle metafisiche architetture di Meknes alle voci arcane di Marrakech, dalle mezzalune di rena bianca del Rif e della costa atlantica ai souk bruegeliani di Fès, ovunque il Marocco incanta e sorprende. Perché, con la sua luce penetrante cara a Matisse e Delacroix, è il Paese naturalmente più vario, polifonico e misterioso dell'Africa settentrionale. A solo due ore di volo dall'Italia è un tuffo in un medioevo disegnato da labirintiche medine dove spazi sacri e luoghi profani convivono in simbiosi e tracciato da strade polverose dove trotterellano con impegno piccoli asini su cui gli uomini siedono di traverso, tamburellando con i talloni i fianchi dei loro dimessi destrieri. È l'incontro con un passato berbero e arabo, lontano dalla logica occidentale, dove l'artigianato martellante dei coloratissimi souk, sempre protetti da mura d'argilla, sprigiona il pudore millenario di una gestualità costante e immutabile che annoda tappeti, intaglia il cedro, tinge i tessuti e batte il rame. Un mondo islamico che fa ufficialmente da cerniera tra Africa ed Europa, ma non svela i suoi enigmi. Cosa raccontano e dicono le antenne satellitari e paraboliche, che oggi verticalizzano i dedali dei souk assieme ai minareti delle mederse piastrellate di verde, di rosso e di blu, ai conciatori di Fès, ai tintori di Marrakech abilmente esaltati e "sfruttati" dagli stilisti europei come Yves Saint Laurent o Carla Sozzani che hanno investito in Marocco, e ai lattonieri di Meknes? Forse chi sono i cannonieri del campionato italiano trasmesso dalla RAI, forse i giochi politici per entrare nell'Euro con i tempi di Maastricht. Ma se decantare ai turisti italiani le prodezze di Baggio serve a qualche ragazzo per ricevere pochi dirahm in elemosina, ai più conoscere i palinsesti stranieri non qualifica l'esistenza comunque scandita dai rigorosi ritmi coranici e dalla invocata fortuna della baraka e delle mani di Fatma. E ospitare per mesi e mesi le troupe di "Il vento e il leone", "L'uomo che volle farsi re", "I gioielli del Nilo" o "Il tè nel deserto" ha forse cambiato lo stile di vita dei berberi di Ait-Benhaddou? Gli abitanti di questo magico sito protetto dall'Unesco, che dall'alto sembra una pedina di un domino di sabbia e di paglia abbandonato in fretta nel deserto da titani convocati altrove per qualche urgente missione, camminano ancora con i loro carichi d'erba o di legno sul capo, hanno i denti ingialliti dal tè alla menta, calzano haik neri come la pece, jellabe arancioni o verde erba e caffettani. Ora come un tempo. Ait-Benhaddou giace sulla strada che collega Marrakech a Ouarzazate attraversando la catena innevata dell'Alto Atlante e una serie di villaggi costituiti da piccole case in pietra dal tetto piatto in terra battuta sui quali il granoturco si indora al sole. È una strada panoramica, mozzafiato (scusate il vocabolo ormai strausato, ma qui ha davvero ancora un senso di attonita meraviglia), disseminata anche di antiche kasba e vecchi granai-fortezza, magazzini indispensabili alla tribù Glaoua, i signori dell'Atlante che per secoli l'hanno popolata. Tra le tante kasba, Telouèt occupa una posizione strategica perché era un passaggio obbligato per le carovane dirette dalla valle del Dra a Marrakech. La costruzione semiabbandonata ma abbellita all'interno con grande sfarzo da Hadj Thami el-Glaoui, da sola merita il viaggio. Inaspettati, infatti, una volta di fronte alle rovine esterne scandite da alte muraglie sbrecciate e fiancheggiate da bastioni quadrati corrosi dal vento, sono i decori interni di ispirazione andalusa: l'harem e la sala di ricevimento sono dei pizzi di pietra, di stucco e di zellj (azulejos), mentre i soffitti di legno dipinto, come le porte arabescate a nido d'ape nel XIX secolo, richiamano i migliori lavori geometrico floreali conservati oggi solo nella meridionale regione iberica. I muqarnas in gesso finemente scolpiti nei festoni, in un gioco infinito di luci e di ombre, evocano una dimensione di profondità e di spazio davvero magici: l'occhio rimbalza continuamente di cesello in cesello senza soste, per perdersi sulla pelle vibrante che riveste armoniosamente anche le colonne, addolcite dalla lieve e opaca luminosità delle maioliche. Solo la medersa (scuola e biblioteca coranica) di Sale a Rabat è altrettanto bella ma in un contesto, quello della medina, cittadino e perciò meno sorprendente. A Teluèt imperano soltanto le capre zittite dal vento e solitari contadini che girovagano a dorso di mulo tra montagne bruciate. Le voci di Marrakech sono lontane, anche se il patrimonio orale dell'umanità gridato nella piazza di Jema-el-Fna risuona per giorni e giorni nelle orecchie dei profani. Nella memoria i discorsi uditi a Marrakech si intrecciano, le leggende orecchiate da comici e cantastorie si irrobustiscono, l'universo di robivecchi e venditori d'acqua, di dottori di scienze infuse, di ladruncoli, di picari e di trafficanti che animano sul far della sera il cuore di Marrakech si mescola ampliando le facoltà immaginative. Il viaggio in Marocco, nell'epoca digitale e cibernetica, va oltre il virtuale profumo vagabondo che avvolge la Kutubbya, il grande minareto che tutela a Marrakech l'esistenza affannosa dei vivi, che aleggia nei bazar dei souk, che delizia nei giardini del celebre hotel La Mamounia e che impregna le matasse di lana tinta appese nei vicoli del quartiere dei tintori. La verità è che, contrariamente ai suggerimenti di molte guide turistiche che invitano a salire in una delle terrazze dei caffè affacciati alla piazza più celebre del paese, la Jema-el-Fna appunto, Marrakech non si deve vedere, ci si deve vivere dentro. Una visione d'insieme (in quale altro posto le palme si stagliano contro cime spruzzate di neve?) per quanto suggestiva non può che restare fredda. Il bagno di folla deve essere tenace quanto insistenti sono i funamboli e i ragazzini che si offrono di accompagnare i turisti nei souk. Perché i labirintici mercati non hanno perso al pari della piazza, dove gli autobus di turisti si arenano come cetacei, il disordine e la confusione che da sempre li caratterizzano. Per americani o gringos, per italiani o spagnoli, per berberi o arabi sono comunque un po' falsi e un po' autentici come i venditori dalle parole allusive, dalle metafore traditrici, dai prezzi senza ne capo ne coda. È un caos che stordisce ma, quando non c'è, manca. A Meknes, che ricorda nella metafisica delle imponenti muraglie e delle silenziose architetture imperiali certe tele di De Chirico, si apprezza la calma, ma nella medina il pensiero ritorna alle accatastate botteghe della vicina Fès, muscoloso universo commerciale e levantino del Marocco più antico. Perché il cromatismo e l'odore del quartiere Chouara, bucato dalle vasche dei conciatori ricolme di tinture naturali, non abbandonano i sensi per ore e ore. Quello delle città imperiali è un Marocco dove la logica della vecchia cultura occidentale perde i suoi mezzi comprensivi e gira in tondo, in cortocircuito, nella pretesa di voler spiegare razionalmente i dedali medioevali e i cubi e prismi surrealistici e pigiati delle varie medine, la tenacia delle sue guide rapaci, o i segni astratti e islamici scolpiti nelle mederse e nelle moschee. Il Marocco che emerge dal suo passato vive e interroga il presente e il futuro a suo modo, islamico e poco integralista per fortuna. Se c'è violenza giovanile difatti è figlia dell'ansia disoccupazionale ma non tanto dell'intolleranza. Nel 1987 il Paese ha chiesto di entrare nella comunità europea perché solo 14 chilometri di stretto lo separano dalla Spagna;sta subendo un processo di democratizzazione, è in parte dotato di strutture moderne. Ma ricerca una propria modernità senza negare i suoi valori ancestrali e la sua autenticità. Ha una memoria troppo vasta e troppo importante per subire passivamente le influenze europee. Ed è una memoria multiculturale (berbera, araba, ebraica) di passioni, di finzioni e di illusioni più legate forse all'incertezza del remoto che alle presunte certezze tecnologiche ostentate dal modello occidentale. Perciò il Marocco ha diretto le sue antenne, pur satellitari, anche sul passato, almohade, merinide, almoravide o sceriffiano che fosse. Pure i suoi contrasti naturalistici, l'ampiezza degli altopiani nel Medio Atlante ora verdissimi ora aridi, la ricchezza lussureggiante dei sughereti e dei cedreti del Rif, i deserti inquietanti di dune semoventi di Erg Chebbi, le cascate di Ouzoud e le gole di Todrha conferiscono diversità, complessità (e fascino) al Paese. L'unica zona di facile e banale "lettura" è infatti quella balneare di Agadir, la sola dotata di grandi strutture alberghiere che rivaleggiano con quelle un po' asettiche oggi emergenti nella Tunisia più turistica. Il porto peschereccio, il più importante del Marocco, ricorda i tempi in cui i contrabbandieri portoghesi infestavano le sue acque e la Kasbah, posta sulla collina che domina l'ampia rada di Agadir, è assediata dai romantici visitatori che vi accedono per guardare il tramonto. Gli stessi che ammirano le donne in blu della vicina Taroudannt, piccola città ribelle dell'entroterra, che affollano il casino di Palm Bay e che si riversano sulle tiepide spiagge di Tamarhakht e Tarhazoute bordate di pini e tamarindi. Il mare è blu intenso, da cartolina. Il Marocco è anche questo.