Problemi in psichiatria 4408 - Casa Di Cura "Park Villa Napoleon"

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Problemi in psichiatria 4408 - Casa Di Cura "Park Villa Napoleon"
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Problemi
in psichiatria
L’invecchiamento e l’attaccamento
ai luoghi 5 La mediazione culturale
nel dialogo istituzionale 33
Come te l’aggià rice?
Il modo squisitamente umano di
“comunicare” al di là del “verbale” 45
La casa della follia 59 Note di uno
psichiatra, navigatore nel mare
degli uomini 63
4408
PROBLEMI IN PSICHIATRIA N. 44 GENNAIO 2008
Problemi
in psichiatria
Il fine è l’uomo, il principio la terra
Direttore Responsabile
Umberto Dinelli
5.
P. Nadin
L’invecchiamento e l’attaccamento ai luoghi
Comitato di Redazione
Presidenti
Umberto Dinelli
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Coeditori
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Gianni Moriani
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Comitato Scientifico
Eugenio Aguglia
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Gianluigi Gigli
Carlo Alberto Madrignani
Roberto Mutani
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Stefano Pallanti
Riccardo Torta
Consulenti Internazionali
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Irvin Feinberg - Davis, California
Raphaël Massarelli - Grenoble, Francia
Questo numero è stato curato da Irene Guerrini
e Guglielmo Mottola
I disegni sono di Paolo Giordani
33. S. Spensieri, L. Valentini
La mediazione culturale nel dialogo istituzionale
45. K. Aquino
Come te l’aggià rice?
Il modo squisitamente umano di “comunicare”
al di là del “verbale”
59. G. Bellavitis
La casa della follia
63. U. Dinelli
Note di uno psichiatra,
navigatore nel mare degli uomini
Rivista quadrimestrale anno 17° numero 44 - Gennaio 2008
Editore “Centro per lo studio dell’interazione Neuropsichiatria e Società”. Direzione, redazione, amministrazione: Mestre Galleria Medaglie d’Oro 5/9 - 30174 Mestre-Venezia Tel. 041.983630, Pisa Via Roma, 67 56100 Pisa Tel. 050.992658 Fax 050.835424, Preganziol Via Terraglio, 439 - 31022 Preganziol - Treviso
Tel. 0422.93215/6 Fax 0422.633545. Registrazione del Tribunale di Venezia n. 1058 del 25.06.1991.
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Problemi
in psichiatria
L’invecchiamento e l’attaccamento
ai luoghi 5 La mediazione culturale
nel dialogo istituzionale 33
Come te l’aggià rice?
Il modo squisitamente umano di
“comunicare” al di là del “verbale” 45
La casa della follia 59 Note di uno
psichiatra, navigatore nel mare
degli uomini 63
4408
PARKVILLA
VILLA NAPOLEO
NAPOLEONN
PARK
Casa
di cura
perlele malattie
malattie nervose
Casa
di cura
per
nervose
e l'abitazione psicosociale
e l’abilitazione
psicosociale
31022
PREGANZIOL (TV)
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93215/6
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Direttore
Direttore sanitario
sanitario Dott.
Dott. U.
U. Dinelli
Dinelli
Spec.
Spec. inin Psichiatria
Psichiatriaee
Neuropsichiatria infantile
Neuropsichiatria infantile
***
***
Neuropsichiatria
Neuropsichiatria
***
***
Laboratorio di analisi cliniche
Laboratorio di analisi cliniche
Monitoraggio farmacologico
Monitoraggio farmacologico
e tossicologico
e tossicologico
***
***
Laboratorio di psicologia
Laboratorio di psicologia
Attività espressiva
Attività espressiva
***
***
Animazione
Animazione
***
***
Servizi di: elettroencefalografia
Servizi di: elettroencefalografia
elettromiografia - radiologia
elettromiografia - radiologia
cardiologia - ginecologia
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L’invecchiamento
e l’attaccamento ai luoghi
P. Nadin
L’invecchiamento
Non è così semplice definire l’invecchiamento come fenomeno unitario,
uguale per tutti e non modificabile essendo in realtà soggetto all’influenza di molti fattori, differente da persona a persona e variabile nell’arco
del tempo.
Vari sono gli elementi che possiamo prendere in considerazione per tentare una definizione delle sue caratteristiche:
1) che cos’è: rappresenta la fase terminale della vita, in cui si verificano
molte perdite, fisiche e psicologiche, tempo di lunga decadenza, oppure è solo una parte di un processo di sviluppo che è cominciato con la
nascita.
2) quando inizia: coincide con il ritiro dal lavoro e dalla vita sociale, con
l’impossibilità di generare figli, con il pensionamento, oppure non è
individuabile un momento preciso e varia da persona a persona e cambia nel tempo.
3) come si manifesta: è un continuo succedersi di perdite, fisiche e psicologiche, che limitano il raggio d’azione, minano l’autonomia, portano
inevitabilmente a dipendere da qualcuno, oppure può anche essere un
periodo in cui oltre alle perdite, comunque prevalenti, esistono delle
acquisizioni, raggiunte grazie all’esperienza, che mitigano gli aspetti
negativi.
Ogni studioso interpreta l’invecchiamento evidenziandone un particolare
aspetto piuttosto che un altro a seconda della prospettiva adottata, più
centrata sulle perdite o più equilibrata, più attenta alle differenze individuali o meno.
La prospettiva per così dire più pessimista, quella del massimo adolescenziale, descriveva la vita come una parabola in cui il punto più alto veniva
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raggiunto ai 20-25 anni circa, periodo in cui le prestazioni del soggetto,
fisiche o psicologiche, raggiungevano il culmine, per poi cominciare un
declino inesorabile attraverso i vari stadi della vita, fino alla vecchiaia e
quindi alla morte.
Questa prospettiva, e tutte le altre ad essa simili, si concentra sugli aspetti
deficitari dell’invecchiamento, come periodo in cui si accumulano le perdite, aumentano le difficoltà, le limitazioni nelle semplici attività quotidiane:
è il periodo del ritiro dalla vita lavorativa e sociale, del pensionamento.
E’ difficile, in questo contesto, avere una visione positiva dell’invecchiamento, sembra una fase negativa di vita senza soddisfazioni, da evitare se
fosse possibile.
In fasi più recenti le teorie dell’invecchiamento hanno avuto un approccio
meno negativo verso questo periodo della vita, anche in base alle scoperte in varie discipline, evidenziando come in realtà sia sì una fase in cui si
verificano delle perdite ma come siano compresenti anche talune conquiste, dovute anche alla maggiore saggezza che contraddistingue questo
periodo.
Questo approccio più positivo nei riguardi dell’invecchiamento, viene sintetizzato nella prospettiva cosiddetta life-span o del ciclo di vita che immagina lo sviluppo come un processo che continua per tutta la vita con acquisizioni cumulative, basate sull’aumento delle esperienze, sia innovative,
basate sull’apprendimento di competenze nuove.
L’invecchiamento non viene più visto come un processo unitario, ma risulta determinato da vari fattori, sia di tipo biologico, sia di tipo psicologico
che sociale: le varie funzioni non scorrono, cioè non declinano, in modo
compatto, alcune decadono, altre mantengono il livello precedente o addirittura migliorano con l’esperienza, c’è quindi una certa plasticità intraindividuale (Baltes, Reese, 1986).
C’è anche una forte differenza interindividuale poiché sono molteplici i
fattori che condizionano lo sviluppo dell’invecchiamento, che possiamo
così riassumere:
1) cause biologiche;
2) cause ambientali (sia l’ambiente fisico, sia quello sociale e affettivo).
Oltre a questi due ordini di cause, e le loro possibili interazioni, è possibile suddividere le influenze in tre grandi categorie:
a) influenze dovute all’età (ad esempio le modificazioni del sistema nervoso e del proprio corpo), massime nell’infanzia, nell’adolescenza e nella
vecchiaia e meno importanti nell’età adulta.
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b) influenze dovuti agli eventi storici (riguardano gruppi sociali e generazionali all’interno di una certa cultura).
c) influenze non normative (che riguardano solo alcuni individui, attraverso le loro vicende biografiche personali, all’interno di una fascia d’età di
una popolazione; più influenti nei periodi in cui uno è più fragile, come
l’infanzia e la vecchiaia).
Le funzioni cognitive nell’invecchiamento
Uno degli aspetti più importanti delle recenti teorie o approcci sull’invecchiamento è stato quello di sottolineare l’esistenza di capacità latenti che
possono emergere tramite una maggiore consapevolezza da parte dell’anziano delle proprie risorse, di una più profonda conoscenza di tecniche di
gestione delle capacità stesse e della pratica di queste funzioni; ecco perché è utile evidenziare le caratteristiche di alcune funzioni cognitive in
relazione alle modificazioni che avvengono nell’invecchiamento, sottolineando ancora di più la presenza non solo di perdite ma anche conservazioni e talvolta miglioramenti o restituzioni delle proprie capacità.
In questo senso significativo risulta l’esempio della memoria, una delle
attività cognitive più influenzate dall’invecchiamento, sia nella realtà sia
nell’immaginario personale e collettivo.
Infatti è indubbio che le modificazioni del sistema nervoso nel corso dell’invecchiamento modifichino in maniera sostanziale le capacità mestiche
dell’individuo, soprattutto per alcuni tipi di memoria: risulta danneggiata
la memoria di lavoro, che ha il compito di conservare le informazioni ma
anche di trasformarle e integrarle per effettuare processi cognitivi più
complessi, e la memoria a lungo termine soprattutto nella componente
secondaria, quella usata nella vita quotidiana e per gli avvenimenti più
recenti, mentre risultano preservate la componente terziaria, che riguarda eventi remoti, e la memoria a breve termine o memoria primaria, che
trattiene l’informazione per pochi secondi e dà inizio all’elaborazione
(Baroni, 2003).
Come si vede è difficile definire la memoria come un fenomeno unitario,
perciò stabilirne il declino, la conservazione o il miglioramento in modo
unitario è altrettanto complicato.
Ma come prima sottolineato c’è molta approssimazione nel valutare le
capacità mnestiche dell’anziano sia personalmente che da parte degli altri:
da un lato perchè si ha una erronea visione unitaria della funzione stessa
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sia perché si sottovalutano le possibilità di migliorarne le prestazioni.
De Beni (1999) sottolinea proprio questo aspetto di una valutazione errata della funzione mnestica, per una carente metamemoria, cioè la conoscenza e il controllo del soggetto relativi al funzionamento, alle caratteristiche, alla capacità della memoria, propria e altrui. Alcuni elementi fondamentali della metamemoria sono:
1) percezione di efficienza del proprio sistema mestico, convinzioni e percezioni sulle proprie abilità;
2) conoscenza sulla memoria, cioè riguardo compiti, processi, strategie;
3) controllo del funzionamento mnestico, operazioni di monitoraggio, pianificazione, ecc…;
4) sfera emotivo-motivazionale, stato emotivo relativo alle conoscenze e
alle credenze circa il funzionamento mnestico.
L’ipotesi di una scarsa metamemoria da parte dell’anziano suppone che si
sentirà meno motivato, convinto di non poter contrastare il declino della
memoria e la sua prestazione ne sarà compromessa.
De Beni (1999) ricorda come per contrastare queste situazioni possano
servire dei training specifici per migliorare la metamemoria dell’anziano,
aumentando il suo grado di conoscenza del funzionamento della memoria,
la consapevolezza del suo controllo, una visione più positiva e meno stereotipata delle sue possibilità.
Sempre per dare una visione più variegata e complessa dell’invecchiamento si può dare uno sguardo ad un'altra funzione cognitiva che non declina
totalmente: l’attenzione.
Definita come la capacità del nostro sistema percettivo di selezionare tra le
varie informazioni quelle che ci interessano, non è un fenomeno unitario, ma
è costituito da varie tipologie che si comportano in modo diverso: ad esempio risultano deficitarie l’attenzione selettiva, o capacità di ignorare informazioni irrilevanti, l’attenzione divisa, o capacità di prestare attenzione a più
compiti contemporaneamente, l’attenzione sostenuta o funzione di vigilanza,
o capacità di mantenere l’attenzione su un compito per un considerevole
periodo di tempo e che decade soprattutto se il compito dura molto a lungo.
Una distinzione importante va posta tra processi automatici, che richiedono poche risorse cognitive e processi controllati, che richiedono un dispendio maggiore: l’anziano risulta deficitario in questi ultimi processi.
Complessivamente l’attenzione risulta in parte compromessa dall’invecchiamento soprattutto nei compiti più complessi per le carenze della memoria
di lavoro o per la difficoltà ad inibire l’informazione non rilevante.
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Anche la percezione, come primo sistema di elaborazione dell’informazione è uno delle funzioni considerate più deficitarie a causa dell’invecchiamento.
Indubbiamente ci sono dei deficit al sistema percettivo, soprattutto a livello periferico: basti pensare in questo senso alle diminuite capacità visive e
uditive.
Vari studi dimostrano che l’anziano presenta dei deficit a livello sensoriale, compensati però da una conservazione delle funzioni cognitive, soprattutto se in presenza di compiti semplici piuttosto che complessi, oppure in
quelli verosimili piuttosto che in quelli poco reali.
E’ stato dimostrato che in fondo, nell’invecchiamento non patologico, c’è
una conservazione delle funzioni percettive, con uguali risultati rispetto ai
giovani in varie prove, ma con una capacità più limitata; l’anziano, anche
per la difficoltà ad inibire l’informazione irrilevante, non riesce ad affrontare più cose contemporaneamente, deve focalizzarsi su un ambito più
ristretto (Cesa-Bianchi, Pravettoni, Cesa-Bianchi, 1999).
Anche questo conferma comunque la possibilità nell’invecchiamento di
conservare alcune funzioni, creando una fase di vita non necessariamente
deficitaria e triste.
Invecchiamento ed emozioni
Fino ad ora abbiamo analizzato le prestazioni dell’anziano tramite la valutazione delle sue capacità cognitive, trascurando un aspetto importante
della vita delle persone ovvero quello emotivo.
E’ indubbio che il fattore emotivo possa condizionare la nostra qualità
della vita, ancor di più quella di una persona che ha già dei motivi di sconforto per le perdite da un punto di vista fisico e i cambiamenti sociali che
l’avanzare dell’età comporta.
Purtroppo bisogna constatare che gli anziani hanno un pregiudizio sulle
emozioni connesse alla loro fascia d’età: attribuiscono emozioni negative
alle persone della propria età, più positive a se stessi.
Come già evidenziato, una erronea valutazione riguarda anche le proprie
capacità mnesiche, ampiamente sottovalutate; oltre a ciò bisogna comunque
considerare che la prestazione mnemonica dell’anziano è legata anche al
senso di rilassamento diffuso, al lasciarsi andare, a un atteggiamento depressivo generale che porta a una sottovalutazione delle proprie capacità e a un
senso di fatalismo e scarso controllo delle proprie prestazioni (Baroni, 1999a).
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Perciò l’importanza del fattore emotivo si manifesta in quanto in grado, da
un lato di migliorare o peggiorare le prestazioni cognitive, dall’altro di
determinare, a seconda del tono delle emozioni provate in generale, la
qualità della vita.
Partendo dalla definizione di emozione, che può essere spiegata come uno
stato psicologico caratterizzato da:
1) uno stato affettivo (di attrazione o ripulsa per un determinato oggetto o
evento);
2) un’attivazione fisiologica dell’organismo;
3) un’elaborazione cognitiva dello stimolo che provoca emozione;
4) una disposizione all’azione (Baroni, 2003);
è inevitabile domandarsi se i processi psicologici, fisici e sociali connessi
all’invecchiamento abbiano una qualche influenza sull’esperienza emotiva
dell’anziano.
Per quanto riguarda la componente fisiologica ci può essere un minor
arousal rispetto ai giovani in risposta ad un evento ma l’attivazione permane più a lungo soprattutto in caso di stress, quindi le risposte saranno
meno intense, anche in riferimento alla minor velocità dei processi cognitivi e alla minor predisposizione all’azione; cambiamenti più significativi
del sistema nervoso centrale possono essere più rilevanti per quanto concerne i cambiamenti di umore, un minor controllo dei desideri e delle
espressioni emozionali o, nei casi più gravi, determinare lo sviluppo di
disturbi emozionali.
E’ plausibile pensare che l’accumularsi di esperienze di vita e delle emozioni connesse contribuiscano a ridurre l’effetto sorpresa, quindi la reattività emotiva e di conseguenza quella fisiologica (Laicardi, Pezzuti, 2000).
In questa fase della vita, la tonalità emotiva è per lo più negativa e può
portare anche a stati depressivi, in parte legati ai deficit fisici che accompagnano l’invecchiamento, in parte agli avvenimenti che si verificano in
questo periodo, quali il pensionamento, le perdite di persone care, il ritiro dalla vita sociale, le reminiscenze di fasi di vita passate e più felici.
C’è da considerare anche che le emozioni sono collegate all’ambiente in
cui l’anziano vive per una serie di motivi.
L’anziano vive negativamente i deficit fisici connessi all’invecchiamento,
che evidenziano il suo stato di minore indipendenza e la conseguente
complementarietà con altre persone, una condizione simile a quella dei
bambini: ciò provoca sentimenti di rabbia, tristezza e depressione.
La dipendenza dell’anziano è aggravata anche da difficoltà ambientali
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quali la difficoltà nell’uso dei trasporti per la loro lontananza dalla propria
casa o per una progettazione che non tiene conto delle loro necessità, la
disponibilità dei servizi e la presenza di barriere architettoniche, per erronee valutazioni urbanistiche.
Invecchiamento e ambiente
Spesso siamo portati a tralasciare l’osservazione dell’ambiente circostante
perché in fondo sembra una cosa scontata, che non ci riguarda; in realtà
non è difficile notare che l’ambiente subisce la nostra presenza con le
modificazioni che vi apportiamo e noi subiamo la sua influenza per il semplice fatto che le nostre azioni si svolgono all’interno dei limiti che l’ambiente ci impone.
I temi più studiati dalla psicologia ambientale, disciplina che si occupa
della transazione uomo-ambiente, sono stati la percezione e la valutazione di edifici e paesaggi, la memoria di ambienti, i legami affettivi con i luoghi, la ricerca di un percorso, …; temi ancor più importanti se l’uomo sta
invecchiando.
Questo perché le complicanze legate all’invecchiamento diminuiscono le
capacità del soggetto anziano di gestire e di usufruire dell’ambiente, cioè
si riduce la sua competenza ambientale e aumenta proporzionalmente la
sua vulnerabilità, secondo la docility hypothesis di Lawton (1985).
Lo studio del rapporto tra invecchiamento e ambiente è diventato nel
tempo sempre più importante a causa di un rilevante cambiamento a livello sociale, ovvero un aumento considerevole della popolazione anziana per
un insieme di fattori tra cui una diminuzione delle nascite, una minore
mortalità per le migliorate condizioni di vita, lavorative e sanitarie.
L’aumento dell’aspettativa di vita è così rilevante che molti studiosi hanno
sentito la necessità di suddividere l’invecchiamento in più stadi: quello degli
young-hold (giovani vecchi) la cui età va dai 65 ai 75 anni che mantengono
un alto livello di mobilità, di attività, disponibili a nuove esperienze e quello degli old-old (vecchi anziani) con un età maggiore di 75 anni, maggiormente limitati nella salute e nelle attività quotidiane (Baroni, 2003).
Esiste anche una differenza di genere per quanto riguarda l’invecchiamento, ovvero una maggiore presenza femminile, cosa che comporta dei
problemi perché le donne anziane sono spesso vedove e talvolta con problemi economici non possedendo molte di loro un reddito essendo state
casalinghe: l’aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro è
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una conquista relativamente recente i cui effetti si vedranno più avanti.
Altri fattori sociali influiscono sulla qualità dell’invecchiamento; gli anziani spesso si trovano ad affrontare una società profondamente diversa da
quella della loro gioventù: una società basata più sull’industria che sull’agricoltura, su una maggiore mobilità, una dimensione delle famiglie
notevolmente ridotta, una maggiore presenza delle donne nel mondo del
lavoro.
Tra tutti questi elementi nuovi per un anziano ritengo utile sottolineare
come l’allontanamento dalla famiglia dei figli abbia rappresentato una
doppia problematica nel senso di un minore supporto per l’anziano, da
parte dei familiari, nell’affrontare le difficoltà di gestione dell’ambiente di
casa a causa delle sue limitazioni fisiche, e nella perdita di un ruolo sociale importante, quello di poter trasmettere insegnamenti e consigli tramite
la vicinanza alle nuove generazioni e la possibilità di ricevere così un contributo al miglioramento della propria autostima, e al mantenimento della
continuità nel senso di sé.
Non sono fattori da trascurare anche elementi di frustrazione dovuti alla
coabitazione e alla subalternità.
Lo studio del rapporto invecchiamento-ambiente deve prevedere da un
lato i cambiamenti della persona legati all’avanzare dell’età di cui si è già
parlato, dei cambiamenti ambientali, lo spostamento dalla propria casa ad
un'altra, ad una istituzione, al passaggio tra istituzioni, al decadimento
della propria casa, ai cambiamenti del quartiere, ecc.. e ai fattori che interessano simultaneamente i cambiamenti personali e ambientali, le transazioni persona-ambiente, strettamente collegate a fattori personali come le
competenze e a fattori ambientali come le pressioni, secondo il modello
ecologico di Lawton (Lawton, 1985 e Carp 1987).
Un modello importante per descrivere il rapporto uomo-ambiente è quello della complementarietà-congruenza di Carp che pone in relazione i
bisogni dell’individuo, la sua competenza ambientale e le risorse e gli ostacoli presenti nell’ambiente.
Nella parte sinistra, quella dei predittori, in basso troviamo le variabili
personali rilevanti per la soddisfazione dei bisogni primari (quelli legati
alla sopravvivenza) e le risorse ambientali che li possono soddisfare o gli
ostacoli che ne impediscono il raggiungimento; nella parte alta troviamo i
bisogni secondari (psicologici come il bisogno di socializzazione o di autostima) e le risorse ambientali che li possono soddisfare (Carp, 1987 e
Baroni, 1998).
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PREDITTORI
Variabili personali
rilevanti per l’ambiente
bisogni psicologici
tratti di personalità
stile di vita
età
Congruenza (similarità)
Attributi dell’ambiente
rilevanti
per le variabili personali
Variabili personali
rilevanti per la soppravvivenza:
competenza
Congruenza (complementarietà)
MODIFICATORI
RISULTATI
Risorse/mancanza di risorse
dipendenti dallo status
Senso di competenza
personale
Atteggiamento
verso la salute
Percettivi:
soddisfazione ambientale
Comportamentali:
differenze individuali
Sostegno sociale
Benessere
soddisfazione
Stile di coping
Eventi della vita
Vita/morte
indipendenza
Risorse ambientali/barriere
per le attività
di soppravvivenza
Fig.1 Modello della complementarietà/congruenza di Carp. Fonte: Baroni [1998]
Nel primo caso (bisogni primari) la congruenza tra bisogni soggettivi e
risorse ambientali è data dalla complementarietà, poiché al calare della
competenza individuale deve corrispondere un aumento delle risorse
ambientali; nel secondo caso (bisogni secondari) la congruenza è data
dalla similarità tra bisogni psicologici e risposte ambientali (Baroni, 1998).
Nella parte destra del modello, quella dei risultati, si trovano i possibili
esiti della presenza o assenza di congruenza, cioè la soddisfazione ambientale, il benessere psicologico, ecc…; ma la parte più interessante è quella
centrale in cui si trovano i modificatori, cioè i fattori fisici, psicologici,
sociali che influenzano il rapporto tra competenze del soggetto e risorse
ed ostacoli ambientali e possibili esiti, positivi o negativi.
Un altro approccio importante in questo ambito può essere espresso dalla
dialettica tra autonomia e supporto, il desiderio di emancipazione, di
libertà da un luogo e, la sensazione e talvolta il bisogno di avere un
ambiente facilitante che ci sostiene nelle attività quotidiane; in realtà è
una costante del rapporto tra uomo-ambiente ma acquista una rilevanza
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maggiore in una età in cui per le limitazioni che si presentano la persona
può sentire minata la sua autonomia che può peraltro essere accentuata
dalle difficoltà ambientali (Lawton, 1985).
L’anziano vive in una società in cui l’autonomia è un valore, perciò è
importante che abbia, nell’ambiente in cui vive, la percezione di essere
autonomo, di non pesare per le sua condizione di anziano; costruire un
ambiente, anche in senso sociale, che favorisca la percezione di autonomia, aiuti la persona a mantenere un senso di controllo sulla sua esistenza, elemento importante per il suo benessere psicofisico e la sua autostima, risulta quindi essere un obbiettivo importante.
Sempre in relazione alla dialettica tra autonomia e supporto e alla docility hypothesis possiamo pensare che al diminuire della competenza, assai
frequente nell’anziano, si evidenzi la reattività del soggetto alle pressioni
ambientali (basti pensare alle reazioni alle situazioni di trasferimento
involontario); si mostra invece la proattività, elemento positivo di stimolo per un anziano, quando la persona cerca di cambiare sé stessa o quando crea un ambiente per facilitare un comportamento desiderato (basti
pensare all’anticipazione del trasferimento in una casa di riposo)
(Lawton, 1985).
E’ quindi auspicabile pensare, per un invecchiamento di successo, il passaggio, per l’anziano, da un atteggiamento reattivo alle difficoltà ambientali, ad uno proattivo, cioè dalla passività all’attività, così da sostenere il
suo senso di partecipazione nella gestione e nel controllo dell’ambiente.
Nelle occasioni di cambiamento ambientale, o meglio di ristrutturazione
ambientale, nel senso di un suo modellamento ai propri bisogni, si verificheranno sia un processo di modificazione comportamentale, di adeguamento alla realtà, ma anche uno cognitivo; infatti la lunga frequentazione
con un ambiente determina la formazione di strutture cognitive per la
conoscenza, la gestione, la fruibilità di quel luogo, che dovranno essere
dismesse o integrate da quelle nuove, riguardanti l’ambiente modificato.
Prendendo in esame alcune esperienze tipiche della vita anziana Lawton
dimostra come un cambiamento ambientale interessi sia fattori comportamentali che cognitivi.
La casa condivisa, una forma di convivenza tra anziani e di gestione condivisa, può essere un alternativa per molte persone che non riescono più ad
essere completamente autonome, anche finanziariamente, ma comporta
una serie di modificazioni dei propri comportamenti, perché limita in parte
la privacy e lo spazio a disposizione ma fornisce anche un supporto pratico
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con la condivisione dei compiti quotidiani, una mutua assistenza e consente all’anziano di mantenere la sua autonomia all’esterno della casa in cui
può sentirsi ancora vivo; ma comporta anche una revisione totale dei propri parametri cognitivi, sia per quanto riguarda la gestione mentale dei propri spazi sia per la condivisione degli spazi comuni con gli altri (Lawton,
1985); una prova stimolante ma assai difficile per un anziano che deve stravolgere anche i legami affettivi verso il proprio ambiente quotidiano.
Un altro esempio di cambiamento riguarda lo spostamento tra istituzioni,
cioè quando l’anziano si sposta o viene spostato da un istituto ad un altro,
magari per una sopravvenuta non-autosufficienza; anche in questo caso si
verifica una perdita di controllo del proprio ambiente e molti soggetti
manifestano un restringimento nell’uso degli spazi, spesso limitato alla
loro camera da letto, anche se le porte rimangono aperte, un gesto di
disponibilità al mantenimento della socialità: questo atteggiamento di
limitazione dello spazio da un lato manifesta l’ansietà per il cambiamento
ma da un altro punto di vista è anche un modo per aumentare il senso del
controllo del proprio spazio abituale (Lawton, 1985).
In questo caso lo shock emotivo può essere minore per il fatto che l’anziano ha già provato la difficoltà di sradicarsi dal proprio ambiente, nel
primo passaggio dalla casa all’istituzione; il cambiamento successivo
potrebbe essere altrettanto doloroso nel caso in cui, nel frattempo, l’anziano sia riuscito ad instaurare un forte legame affettivo nei confronti
della prima istituzione.
Talvolta l’anziano, con qualche leggera limitazione fisica rimane comunque nella propria abitazione, nell’impossibilità di cambiare profondamente l’ambiente in cui vive, perciò è obbligato a trovare delle modalità per
una migliore gestione dello spazio: piccoli accorgimenti come la creazione di un punto di riferimento, ad esempio il soggiorno oppure la camera
da letto, che dà un forte senso di controllo sul resto della casa, o tramite
la disposizione della sedia per lo più di fronte alla porta o alla finestra per
controllare chi entra o arriva, così da mantenere il controllo dell’ambiente; in fin dei conti questi accorgimenti testimoniano un comportamento
proattivo da parte dell’anziano, per annullare i risultati della disabilità e
per la ricerca dell’autonomia (Lawton, 1985); in questo caso l’anziano è
comunque confortato dalla possibilità di rimanere a casa e di conservare il
legame affettivo verso di essa e quindi un senso di continuità.
L’anziano che vive da solo in casa, che sia autonomo o con una disabilità, è
un evenienza piuttosto frequente soprattutto perché non vive più in casa
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con i figli; non essendo sempre possibile aiutare l’anziano assicurando un
servizio di cura a domicilio, si crea una situazione in cui ci si trova spesso
a gestire da soli una casa grande, che frequentemente necessita di lavori di
restauro o ristrutturazione in accordo alle sopraggiunte nuove esigenze del
proprietario, in condizioni fisiche e mentali non sempre ottimali.
Al di là degli aspetti pratici, l’anziano difficilmente si muove dalla propria
casa anche per un forte legame affettivo verso la propria residenza che a
fatica può essere sostituito; la casa in cui l’anziano vive, è una house diventata home, cioè un luogo fisico impregnato di significati, espressi tramite
fenomeni di personalizzazione dello spazio (Tognoli, 1987).
La casa, da qui in poi intesa come home, è un insieme di sentimenti, situazioni, eventi significativi che offrono una grande centralità nella vita di un
individuo, favoriscono il suo senso di radicamento e l’attaccamento al
luogo; ciò avviene soprattutto dopo una lunga residenza, fenomeno assai
frequente in un anziano che può aver speso anche la sua intera vita nello
stesso luogo (Tognoli, 1987).
La casa non è solo il luogo in cui una persona vive le sue attività quotidiane, è anche il simbolo della continuità, a maggior ragione se è stata l’abitazione dei propri genitori o dei nonni e sarà anche la casa dei figli, espressa anche attraverso il passaggio generazionale di vari oggetti che testimoniano l’appartenenza ad un ambiente e ad una storia; fornisce inoltre un
senso di privacy, di sicurezza, di rifugio, il contesto per le relazioni familiari e sociali creando una connessione stretta con il quartiere.
La casa favorisce il senso di continuità in due modi: sia direttamente nel
caso in cui l’anziano continua a vivere nella sua abitazione, la continuità è
pratica ma anche simbolica per quanto riguarda i significati e gli eventi
significativi ad essa connessi, sia indirettamente quando l’anziano conserva comunque, anche senza abitarla, il legame affettivo verso di essa e, tramite la reminiscenza, i ricordi di vita che sono correlati.
Se una casa rappresenta così tanto per la vita di una persona, ciò vale ancora di più per un anziano che ha trascorso molto tempo in quell’ambiente;
può risultare quindi problematico lo spostamento, magari involontario, in
un altro luogo soprattutto se in una casa di riposo, poiché mette in crisi
non solo l’insieme delle abitudini connesse alla vita nella casa ma va ad
intaccare l’insieme di significati che la vita in quel luogo esprime, avendo
un effetto negativo sulla propria identità e autostima.
Proprio in questa direzione si è mosso uno studio italiano che ha indagato le differenze sul concetto di sé e sull’autostima tra anziani che
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vivono nelle loro case e quelli che sono istituzionalizzati, trovando che:
1) le autodescrizioni negative sono più frequenti tra gli istituzionalizzati;
2) la permanenza in casa consente all’anziano di mantenere i propri ruoli
sociali, l’istituzione limita i contatti con le altre persone;
3) gli istituzionalizzati riferiscono più frequentemente del loro sé fisico,
ma non in misura significativamente maggiore rispetto a quelli rimasti
a casa;
4) non c’è un maggiore numero di resoconti riguardo le proprie abitudini
o attività a favore dei non-istituzionalizzati (Antonelli, Rubini, Fassone,
2000).
Il potere della casa di mantenere una certa qualità della vita, avviene
soprattutto attraverso due aspetti: il mantenimento del senso di controllo
sull’ambiente e la possibilità di mantenere i legami sociali e affettivi. Nelle
autodescrizioni si riscontra una maggiore proporzione di attributi psicologici per chi vive a casa, probabilmente perché gli istituzionalizzati dipendono fortemente dallo staff e quindi sono poco incoraggiati a esprimere la
propria individualità: si raccontano meno in termini di unicità della persona, essendo più coinvolti in un contesto sociale da cui in parte dipendono,
e sottolineano maggiormente gli aspetti ambientali; coloro che rimangono
in casa dimostrano, perché più liberi di scegliere, un maggiore interesse a
stabilire relazioni con altre persone ed esprimono più frequentemente le
proprie opinioni o credenze; complessivamente lo studio dimostra come
gli istituzionalizzati abbiano un concetto di sé più negativo e una minore
autostima (Antonelli, Rubini, Fassone, 2000).
Dato che la casa di riposo risulta essere una destinazione abbastanza frequente per gli anziani, può essere interessante indagare quali fattori
siano predittivi di un buono o cattivo adattamento all’ambiente. Lo spostamento in un’altra abitazione, quartiere o casa di riposo comporta alcuni problemi:
1) una minaccia allo spazio personale dell’individuo, che ha la funzione di
garantire la protezione e la comunicazione;
2) la socializzazione forzata, con ospiti e familiari;
3) la mancanza di controllo sulle proprie attività;
4) problemi di densità e sovraffollamento;
5) rottura dell’attaccamento al luogo e delle relazioni familiari, amicali e
di vicinato;
6) presenza di altri fattori di stress, vedovanza, insorgenza malattie
(Baroni, Getrevi, 2002).
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Tramite un colloquio di ricerca, si sono individuati alcuni elementi predittivi di adattamento:
1) soddisfazione residenziale:
2) elementi fisici: spazi di privacy, possibilità di personalizzazione, aspetti
estetici, attaccamento agli oggetti;
3) elementi sociali: amicizie, attività ricreative, visite;
4) valutazione personale della struttura: valutazione generale, del funzionamento, immagine sociale;
5) senso di autonomia:
a) senso di controllo (prevedibilità del trasferimento, libertà di scelta
nella gestione di sé stesso);
b) senso di autoefficacia (libertà di scelta e di utilità verso gli altri);
6) supporto ambientale:
a) senso di sicurezza;
b) facilitazioni per l’orientamento;
c) comfort (sentirsi a casa propria);
7) salute:
a) autopercezione (del proprio stato di salute);
b) esperienze pregresse (di ricovero o residenza in altre strutture)
(Baroni, Getrevi, 2002).
Lo studio evidenzia come oltre a fattori sociali e personali siano importanti anche fattori estetici; approfondimenti successivi dovranno confermare
questi dati e approfondire gli elementi con la maggiore capacità di predire l’adattamento dell’anziano all’ambiente.
Invecchiamento ed attaccamento ai luoghi
Come evidenziato precedentemente, negli anziani può essere forte il
legame ad un luogo e se ciò da un lato, nel caso in cui sia un attaccamento positivo, può essere un valido supporto per contrastare i sentimenti
negativi che accompagnano la vecchiaia, da un altro punto di vista può
essere un peso nei casi in cui l’anziano debba trasferirsi in un altro posto,
provocando sentimenti dolorosi simili a quelli per la perdita di una persona cara.
Poiché fino ad ora l’anziano è stato osservato in una prospettiva di lifespan, lo stesso atteggiamento verrà riservato all’analisi dell’attaccamento
al luogo.
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In una ottica di sviluppo che dura tutta la vita, è utile vedere come si sviluppa l’attaccamento ad un luogo durante l’infanzia, considerando che
l’attaccamento ai luoghi si modifica insieme al livello di autonomia fisica e
psicologica dell’individuo (Baroni, Getrevi, 2002).
La teoria dell’attaccamento mostra come il bambino sviluppi questo sentimento verso la persona che si prende cura di lui mentre cerca di esplorare l’ambiente circostante; il bambino vive quindi una dualità tra la ricerca del contatto con la persona che gli fornisce un senso di piacere e sicurezza e l’esplorazione del mondo esterno.
Queste relazioni avvengono comunque sempre all’interno di un ambiente, perciò è possibile immaginare che oltre allo sviluppo dell’attaccamento a figure importanti per il bambino, si sviluppino anche dei sentimenti
verso i luoghi in cui questa ed altre relazioni si instaurano.
Usando quindi la prospettiva dell’arco di vita, si può sostenere che la crescita della propria autonomia psicologica, sia in un certo qual modo connessa anche ad una emancipazione ambientale.
Come il bambino si trova ad affrontare l’alternarsi del desiderio di vicinanza e di separazione dalle figure di riferimento, in eguale misura sviluppa
la stessa alternanza verso alcuni luoghi che egli considera importanti per
la propria esistenza.
E’ facile osservare come ogni fase di vita, in cui si manifesti un’emancipazione dalle figure di riferimento, ad esempio dall’infanzia all’adolescenza,
veda parallelamente un allontanamento dalla casa e l’esplorazione sempre
più estesa dell’ambiente esterno (Chawla, 1992).
In psicoanalisi non sempre la relazione con il luogo è stata analizzata, se
non in pochi casi, per iniziativa di alcuni studiosi.
Schactel per esempio ha cercato di analizzare come due modalità di rapportarsi al mondo possano dar vita a due diverse tipologie di attaccamento al luogo: suppone che nel passaggio dall’infanzia alla maturità la persona passi da una modalità autocentrica o di percezione centrata su di sé, in
cui le sensazioni positive e negative sono fuse e gli oggetti sono conosciuti solo in base al loro valore o uso per noi, ad una forma allocentrica o percezione centrata sugli altri in cui la persona si apre all’oggetto e alla scoperta delle sue caratteristiche.
In riferimento ad un luogo si può dire, nel primo caso che può essere
apprezzato per la sua familiarità, per un senso di fusione con esso, così
come di comfort e utilità o, nel secondo caso, per l’emozione di scoprire
ciò che quel luogo ci permette di esperire (Chawla, 1992).
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L’alternarsi delle fasi della vita coincide con la prevalenza di una tipologia
di attaccamento ad un luogo rispetto ad un’altra.
Searles invece pensa che uno sviluppo sano comporti il passaggio da un
senso di unicità con il mondo ad una crescente e significativa relazione
con esso; in fondo lo stesso passaggio che il bambino compie dalla fusione
con la madre alla separazione da essa.
Descrive quattro stadi nella relazione dell’uomo con il mondo, da una differenziazione tra sé e il mondo dell’infanzia, a un senso di identità forte
sviluppato tramite le interazioni con il mondo del periodo di metà infanzia, all’ambivalenza tra la sfida al mondo e la ricerca di intimità dell’adolescenza, alla relazione adulta e matura di aperto interesse e ricerca di
significati nel mondo circostante (Chawla, 1992).
Anche Erikson, spostando l’attenzione dalle fasi psicosessuali di Freud a
quelle psicosociali, individua l’importanza del mondo fisico nello stabilire
relazioni sociali.
Osservare l’attaccamento al luogo in infanzia può essere fatto o sottolineando il modo in cui contribuisce alla qualità attuale della vita del bambino o per gli effetti che produce a distanza di anni dall’infanzia; nel secondo caso si può indagare sia tramite dei resoconti personali, delle autobiografie ambientali, che tramite la memoria e la nostalgia che ci mostrano la
forza di quell’ attaccamento (Chawla, 1992).
Nonostante la memoria possa distorcere i ricordi, rappresenta il modo più
semplice per indagare i significati personali che quel luogo ha rivestito per
la persona, soprattutto perché centrale per l’identità di sé e il senso di continuità.
Da alcune indagini sulle memorie ambientali Chawla è risalito a quattro
forme di attaccamento:
1) affetto: semplice affetto per un luogo associato all’amore della famiglia
e alla sicurezza;
2) trascendenza: un senso di intima relazione con la natura, con il mondo
esterno, simile alla fusione infantile;
3) ambivalenza: ad esempio verso il luogo d’origine in cui può esserci una
situazione di ingiustizia o stigmatizzazione;
4) idealizzazione: collegata alla ricerca di una identità, tipica dell’adolescenza, comporta l’investimento di un luogo reale o immaginato di valori religiosi, nazionali, razziali.
Se invece si vuole indagare l’effetto attuale di un luogo sulla vita di un
bambino, bisogna cercare di conoscere le sue preferenze, ad esempio
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tramite l’uso di mappe comportamentali e l’analisi dei luoghi favoriti.
L’uso di questi metodi comporta alcuni problemi: nel caso delle mappe
comportamentali si trascurano ad esempio tutti i luoghi interni o nascosti a vantaggio degli spazi pubblici, vengono oscurate le esperienze solitarie, così importanti nelle autobiografie, non si separano le scelte volontarie di un luogo da quelle obbligate; ci raccontano solo la vita pubblica
di un bambino; a ciò si può ovviare mostrando delle fotografie dall’alto
della propria località e farsi descrivere, come fosse una mappa, i luoghi
frequentati di solito; è un sistema meno oggettivo ma permette di conoscere le preferenze del soggetto, anche riguardo i luoghi interni
(Chawla, 1992).
Il sistema di analisi dei luoghi favoriti è composto di interviste, racconti, e
visite guidate dai bambini, e riesce a registrare le valutazioni spontanee
dei bambini; entrambi i metodi sembrano evidenziare più le risorse disponibili che quelle desiderate, e in ogni caso mostrano i luoghi preferiti o di
maggiore frequentazione e non l’attaccamento al luogo.
Il presupposto dell’autore è che l’attaccamento aumenti nel tempo e
riguarda per lo più luoghi frequentati con frequenza o verso i quali c’è una
preferenza perché danno soddisfazione; perciò l’uso frequente e soddisfacente di un luogo rafforzerà l’attaccamento al luogo stesso (Chawla, 1992).
I luoghi preferiti cambiano a seconda della fase di vita, le case degli amici
fino ai sei anni, un maggiore coinvolgimento del quartiere a metà infanzia,
un’ambivalenza tra la propria stanza e i luoghi più frequentati nell’adolescenza; entrambi i metodi sottolineano comunque la centralità della casa
e dei dintorni.
Questa lunga valutazione dell’attaccamento al luogo nell’infanzia ha senso
nel momento in cui consideriamo l’attaccamento nell’ottica dell’arco di
vita, quindi come un processo che nasce, cresce e si trasforma fino ad
assumere una certa configurazione nell’ultima fase della vita e perché,
come si è già visto, il rapporto uomo-ambiente assume caratteristiche
simili nell’infanzia e nella vecchiaia; si può quindi analizzare l’attaccamento al luogo nell’ultima fase della vita cercando di vedere quali sono le differenze con le altre fasi e quali sono le affinità.
Innanzitutto si possono evidenziare gli elementi per cui l’attaccamento
risulta particolarmente significativo per gli anziani:
1) i sentimenti riguardo le proprie esperienze nei luoghi risultano essere
una parte importante dei ricordi del proprio corso di vita; il ricordo di
attaccamenti a luoghi del passato aiuta a organizzare un collegamento
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con i luoghi attuali favorendo il mantenimento di un senso di continuità e sostenendo l’identità minacciata dai cambiamenti connessi all’età;
2) l’attaccamento ad un luogo aiuta a rinforzare il sé, l’immagine di sé,
soprattutto nei confronti della valutazione sociale negativa dell’invecchiamento;
3) l’attaccamento è anche un modo per rappresentare l’indipendenza e
una competenza ancora viva (Rubinstein e Parmelee, 1992).
E’ evidente come l’attaccamento ad un luogo possa avere una funzione
rilevante per l’anziano nel mantenere viva una parte di sé attraverso ricordi di esperienze passate, favorire elementi di attività verso l’ambiente e
quindi un miglioramento del senso di sé e dell’autostima spesso compromessa nell’ultima fase della vita; più che l’ambiente è il legame affettivo
con esso che sembra avere caratteristiche supportive.
Bisogna anche sottolineare la dinamica con cui si formano gli attaccamenti ai luoghi nella vecchiaia, che evidenzia tre aspetti principali:
a) prima di tutto bisogna evidenziare il fatto che le persone incontrano
degli spazi e non dei luoghi; solo se in quegli spazi la persona spende
un tempo significativo, attraverso esperienze dirette e indirette, quegli
spazi si arricchiranno di significati e diventeranno dei luoghi; bisogna
considerare che ogni luogo implica anche il concetto di tempo, ad esso
connesso, perciò l’attaccamento ad un luogo è anche un attaccamento
ad un tempo preciso, ad una fase della propria vita; per l’anziano l’ambiente diventa quindi anche un modo per raccontare la propria vita;
b) l’occupazione, il possesso di un luogo non necessariamente implicano
l’attaccamento ad esso ma solo nel caso in cui quello sia il luogo nel
quale il soggetto sperimenta un legame anche in relazione ad eventi
significativi per la propria vita e per la propria identità; l’attaccamento
nasce quindi non solo in base alle caratteristiche del luogo ma anche
per quelle del soggetto e per le significative relazioni che li uniscono;
c) se si parla di sviluppo nell’arco di vita bisogna considerare con la stessa
ottica anche l’attaccamento al luogo; non può essere concepito come un
fenomeno statico ma legato anch’esso al fluttuare della vita: ogni persona, e ancora di più un anziano, sperimenta le varie forme che assume
quell’attaccamento, ne verifica di nuove e la loro compresenza con le
precedenti. (Rubinstein e Parmelee, 1992).
Questi autori hanno delineato un modello per capire l’attaccamento ai
luoghi in tarda età, individuando tre elementi fortemente interconnessi;
questi elementi possono essere esaminati attraverso due dimensioni, quel-
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la collettiva, che si orienta verso il contesto socioculturale, le norme, le
regole, i ruoli; quella individuale che include le credenze, le attitudini e le
esperienze di ognuno.
I tre elementi sono:
1) il comportamento geografico: cioè il mondo geografico di vita, lo spazio
in cui una persona vive: a livello collettivo corrisponde allo spazio, a
livello individuale è il luogo, inteso come spazio pieno di significato;
2) l’identità: il senso di sé nel mondo circostante, che si sviluppa in base
alle esperienze del corso della vita: a livello collettivo è il corso della
vita come costrutto culturale, definito anche in base alle norme culturali, a livello individuale inteso come corso della vita definito individualmente, cioè una storia personale di vita;
3) l’interdipendenza: si riferisce al modo in cui un soggetto si inserisce
nelle dinamiche delle relazioni interpersonali: a livello collettivo significa l’insieme delle norme, valori culturali riguardanti le relazioni interpersonali, a livello individuale corrisponde all’insieme delle relazioni
interpersonali; l’uso dello spazio, del contesto ambientale può supportare o meno tale dialettica tra autonomia ed integrazione (Rubinstein e
Parmelee, 1992).
Si può dire quindi che l’attaccamento al luogo da parte degli anziani si basi
sulla interrelazione tra aspetti ambientali, identitari e socio-relazionali.
Questi tre elementi sono fortemente interconnessi, perciò il processo di
attaccamento al luogo può essere analizzato anche nei termini delle interrelazioni tra questi elementi: ad esempio il corso della vita definito normativamente dalle norme culturali ha a che fare con i ruoli che la persona
occupa socialmente ma anche con lo spazio geografico in cui esplica i suoi
comportamenti; un evento importante come il pensionamento, un cambiamento di ruoli definito anche socialmente, viene spesso a coincidere
con una modificazione nell’uso dello spazio, ad esempio una minore attività fuori dalla casa.
Allo stesso modo si trova una forte relazione tra lo spazio, il luogo e l’identità personale, basti pensare a come le esperienze personali, che concorrono a definire la nostra identità siano anche fondamentali nel determinare la trasformazione da spazio a luogo; anche i luoghi e le esperienze personali che in essi si verificano sono importanti per definire la nostra identità (Rubinstein e Parmelee, 1992).
L’interdipendenza è, nei suoi aspetti collettivi e individuali, importante
per capire l’attaccamento al luogo nell’anziano, perché da una parte l’an-
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ziano si trova a fronteggiare un’ostilità o un pregiudizio sociale negativo
riguardo le sue capacità e una sensazione di esclusione dalla vita sociale a
causa dei cambiamenti connessi all’invecchiamento, fisici, sociali o psicologici e quindi, in risposta a ciò, il tentativo di rimanere inseriti nel contesto ambientale sia esso fisico che sociale; d’altra parte l’anziano cerca un
autonomia individuale che lo aiuti a confermare parti della propria identità, anche nella capacità autonoma di gestione dello spazio; il desiderio di
inclusione sociale si fonde con il senso di inclusione nel luogo, nel quartiere dove avvengono la maggior parte delle relazioni sociali; l’attaccamento al luogo è quindi anche l’attaccamento ad un contesto sociale in cui
l’anziano cerca gli elementi di espressione della propria identità in modo
tale da preservare un senso personale di continuità.
Come già precedentemente evidenziato, l’anziano nel tentativo di definire la propria identità si trova in mezzo alla dialettica tra definizione individuale o collettiva; anche nell’attaccamento al luogo il bilanciamento tra
istanze individuali e collettive porta alla formazione di legami verso luoghi
a differenti livelli di scala, ognuno dei quali esprime una diversa connotazione, più individuale o più collettiva; in questo senso possono essere individuate tre tipologie di luoghi:
a) a livello di quartiere, esempio di territorio secondario, punto intermedio e di incontro tra istanze soggettive e collettive, l’anziano manifesta
un forte attaccamento verso il luogo e le persone ad esso legate, in una
transizione da un ruolo di abitante di quartiere collettivamente definito, quando in età precedenti partecipava maggiormente alla vita di relazione, ad un ruolo più individuale, in sintonia con la minore partecipazione alla vita sociale;
b) la casa, esempio di territorio primario, luogo definito individualmente,
dai residenti e meno da aspetti collettivi, riveste un ruolo prioritario in
ogni fase di vita, ancor di più in età avanzata quando diventa a volte
l’unico luogo di vita per un anziano; il legame a questa età è molto forte
perché la casa è il luogo principale delle attività dell’anziano, il punto di
riferimento della propria esistenza: anche le relazioni sociali riguarderanno persone che si trovano nelle vicinanze della casa;
c) le istituzioni, come territorio pubblico, ad esempio le case di riposo,
sono definite solamente in modo collettivo, inibiscono l’espressione
delle varie individualità, sono dei non-luoghi, spazi neutri, impersonali;
un modo per cercare di limitarne gli effetti negativi sui residenti è quello di consentire la personalizzazione di alcuni spazi, in maniera tale da
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consentire un qualche legame con il passato dei residenti; se la funzione evolutiva degli attaccamenti affettivi a luoghi è quella di simbolizzare le transizioni del corso della vita, le istituzioni per anziani spesso simbolizzano il declino dell’anziano, la sua emarginazione, il ritiro dalla
società attiva e nascondono le capacità residuali, la resilienza, le aspirazioni, i desideri concernenti quest’ultima parte della vita (Rubinstein e
Parmelee, 1992).
Essendo spesso negativo l’impatto delle istituzioni sulla qualità della vita
degli anziani, sul loro benessere psicofisico, è auspicabile, per limitarlo, lo
sviluppo di un attaccamento al luogo perché è in grado di sostenere l’identità delle persone tramite un loro maggiore coinvolgimento nella vita
sociale di quell’ ambiente, fornisce un senso di sicurezza, è connesso alla
soddisfazione residenziale, favorisce la formazione di forti legami sociali,
che agiscono sullo stato di salute, ammortizzando l’impatto negativo dello
stress dovuto al trasferimento dalla propria abitazione.
Prendendo ad esempio alcune case di riposo si è visto che alcuni accorgimenti nella distribuzione degli spazi, quali la vicinanza delle unità residenziali al centro della struttura in cui si svolgono le principali attività, che
consente una maggiore coinvolgimento nelle vita sociale dell’istituzione,
la vicinanza agli ambienti esterni che favorisce un maggiore senso di libertà, e distanze funzionali brevi, quelle necessarie all’incontro con altre persone, si favorisce la formazione dell’attaccamento al luogo e di forti legami sociali (Sugihara e Evans, 2000).
E’ quindi importante cercare di studiare quali elementi ambientali possono favorire o inibire l’interazione sociale e l’attaccamento al luogo sia per
quanto riguarda la costruzione di abitazioni o di quartieri, sia nel caso di
case di riposo o di istituzioni per anziani, per cercare di impedire da un
lato l’esclusione sociale, dall’altro per favorire la crescita di un legame
affettivo con i luoghi, così da sostenere emotivamente l’anziano.
Conoscere in anticipo la nuova residenza, poter personalizzare il proprio
ambiente ed essere coinvolti nella gestione del tempo e delle attività, attenua le conseguenze del trasferimento e favorisce la formazione dell’attaccamento al nuovo luogo.
In conclusione, riassumendo i vari contributi, possiamo sottolineare come
sia importante per un anziano, a causa dei cambiamenti fisici psicologici e
sociali connessi all’invecchiamento, che minano la propria identità e l’autostima, trovare in sé stesso e anche tramite i legami con i luoghi in cui
vive e in cui interagisce, quel senso di continuità che la vita gli toglie; poi-
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ché il legame affettivo con un luogo si forma anche in base ai significati
che ad esso sono connessi, derivanti dalle relazioni sociali che in quell’ambiente si sono formate, il mantenimento di un legame positivo con un
luogo, anche attraverso il ricordo, è anche il modo per mantenere la continuità tra fasi di vita diverse.
Anche se l’attaccamento può nascere verso qualunque luogo sembra che
per l’anziano il quartiere e la casa siano i luoghi che possono assolvere il
compito prima espresso; poiché le limitazioni fisiche spesso riducono la
vita sociale nel quartiere, sembra che il luogo privilegiato verso cui formare un legame di attaccamento sia la casa, in cui l’anziano si sente al sicuro,
a proprio agio, una parte di sé, in cui ritrova il proprio passato; gli anziani
stessi sembrano percepire che i cambiamenti della vita, fisici o sociali che
siano, intesi come transizioni, hanno un effetto sulla percezione e sulla
gestione del rapporto con la loro casa (Sixsmith e Sixsmith, 1991).
Questo non deve indurre a trascurare la formazione di legami affettivi con
luoghi diversi dalla casa che rimane comunque il luogo d’elezione per la formazione di un forte attaccamento; può essere interessante studiare in futuro, soprattutto per gli anziani che mantengono una certa attività fuori dalle
mura domestiche, l’importanza affettiva che possono assumere i luoghi
d’incontro con coetanei in cui condividere i propri hobby, la casa dei nipoti, luoghi in cui si svolgono attività lavorative, ricreative e di tempo libero.
Vista l’importanza che l’attaccamento al luogo può avere per l’anziano, è
auspicabile che in futuro venga dedicata una maggiore attenzione a questa tematica soprattutto considerandone gli effetti positivi sulla qualità
della vita di una fascia di popolazione in costante aumento.
Conclusioni
Dopo le esposizioni precedenti è inevitabile cercare di trarre alcune conclusioni personali sul materiale presente in letteratura e tentare di fare
un’analisi degli sviluppi futuri sul tema.
Nella prima parte è stata trattata la tematica del rapporto affettivo tra una
persona ed un luogo, usando la definizione di attaccamento ai luoghi, ipotizzando così un parallelo con la teoria dell’attaccamento alle persone.
Dalla letteratura sembra emergere la conferma dell’esistenza di legami
affettivi con luoghi importanti per la persona soprattutto da un punto di
vista sociale, confermando in questo l’approccio della psicologia ambientale che vede l’ambiente socio-fisico come l’unità di analisi.
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Il legame si sviluppa non solo per le caratteristiche estetiche del luogo ma
per i significati che una persona vi attribuisce e per le interazioni sociali
che in esso si sviluppano; tale legame si esprime anche attraverso l’uso che
viene fatto di quel luogo.
Questi legami affettivi possono essere rivolti verso varie tipologie di luoghi: la casa, il quartiere, la città, la nazione, ecc…; in ogni caso un aspetto
rilevante per la formazione di un legame con il luogo consiste in una lunga
presenza o residenzialità, durante la quale si formeranno quelle interazioni sociali che definiscono quel luogo.
Una lunga residenzialità non basta a formare un forte legame; possono
risultare significativi luoghi in cui si è vissuto relativamente poco tempo
ma sono collegati ad eventi o fasi importanti della vita: il matrimonio,
l’università, il lavoro.
E’ necessaria anche una valutazione positiva di quel luogo, una sensazione di benessere e sicurezza derivante dalla vicinanza, un senso di appartenenza, e, di conseguenza, l’inevitabile tristezza associata all’allontanamento, temporaneo o duraturo.
Risulta da vari lavori, come il luogo possa essere una componente importante nei processi di formazione della propria identità, sia perché l’ambiente diventa lo sfondo delle relazioni con gli altri, sia perché secondo
alcuni autori, alcune parti di sé vengono esplicitate meglio più da un luogo
che da un altro, cioè esistono parti della propria identità che si legano a
particolari luoghi.
Cercare di definire questi legami con il termine attaccamento, tracciando
un parallelo con la teoria dell’attaccamento alle persone, può diventare in
parte velleitario poiché risulta evidente che la profondità dei legami personali, la capacità di previsione di legami futuri in base ai primi attaccamenti, l’unicità della figura, sono elementi non riscontrabili se non in
parte, nel legame con un luogo.
D’altronde si riscontrano sentimenti di appartenenza, benessere, gioia per
la vicinanza ad un luogo e la tristezza per la separazione, in questo simili
con le esperienze del bambino.
Sembra quindi necessaria una migliore definizione dei legami affettivi con
i luoghi, sia nel caso in cui si voglia continuare ad usare il termine di attaccamento o nel caso in cui si voglia trovare un termine unificante di maggiore condivisione.
Nella prima ipotesi confrontando gli elementi che accomunano i due tipi
di attaccamenti e quelli che li dividono o cercando di sviluppare una forma
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autonoma di attaccamento al luogo; nel secondo caso bisognerà individuare un insieme di caratteristiche comuni ai vari tentativi unificanti come il
senso del luogo, l’identità residenziale, l’attaccamento alla comunità.
In ogni caso, in assenza di nuove definizioni, si sente l’esigenza di trovare un sistema di misura generale dell’attaccamento al luogo, diversamente dagli strumenti di misurazione attuali che si interessano di specifici
contesti, come la casa, il quartiere, la comunità, che riesca ad evidenziare la profondità dei legami che la persona sviluppa verso un luogo, qualunque esso sia.
La capacità di osservare e misurare tali sentimenti risulta ancora più rilevante nel caso degli anziani che vivendo una fase di vita piena di cambiamenti spesso negativi, possono legarsi ancora di più ad alcuni luoghi anche
per trovare, mantenendo con essi un forte legame, un senso di continuità
che talvolta nella loro vita viene a mancare.
Una continuità che può essere conservata rimanendo nel luogo connesso
al legame o, nel caso in cui l’anziano sia costretto a lasciarlo, attraverso il
ricordo; gli effetti negativi della rottura di un attaccamento, soprattutto
del senso di continuità, possono essere compensati dalla formazione di un
nuovo legame.
Legarsi affettivamente ad un luogo garantisce, a mio parere, all’anziano la
possibilità di sentirsi vivo, di provare emozioni piacevoli o che comunque
incitano la persona ad attivarsi: è plausibile pensare che il sentirsi legato
ad un luogo spinga l’anziano a impossessarsi di quel luogo, contribuendo
fattivamente alla sua gestione, alla personalizzazione, favorendo quindi il
formarsi di un senso di controllo, di autonomia, così importante per una
persona che si trova ad affrontare esperienze di dipendenza da un
ambiente o da persone.
D’altro canto è evidente come nelle situazioni in cui l’anziano si sente
estraniato, non legato ad un luogo, come nel caso dello spostamento dall’abitazione alle case di riposo, agli istituti di ricovero, si verifichi una rottura dell’attaccamento al luogo e degli aspetti sociali connessi; la negazione della sua individualità dovuta all’impossibilità di poter gestire i propri
spazi, personalizzarli, modificarli, comporta la percezione di non controllo con conseguente disinvestimento dalle attività sociali della istituzione,
e un peggioramento dell’umore con sentimenti di tristezza e depressione,
con conseguenze per la qualità della vita e la salute; la creazione di nuove
interazioni e ruoli sociali servirà a favorire la formazione di un attaccamento al luogo.
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Sarà quindi importante tenere in considerazione in fase di progettazione
di spazi dedicati agli anziani, la possibilità di personalizzazioni da parte
degli utilizzatori, così da consentire un migliore rapporto con il luogo,
incentivare le relazioni sociali, mediante un’accorta disposizione degli
spazi che possa anche migliorare la soddisfazione residenziale e consentire lo sviluppo di un legame affettivo con il luogo, così da favorire la serenità dell’anziano, elemento importante anche per il suo trattamento nei
luoghi di cura.
Poiché spesso nell’invecchiamento risultano deficitari alcuni aspetti fisici
e cognitivi, diventerà ancora più importante cercare di mantenere positiva la componente affettiva anche conservando quei legami con i luoghi
che l’anziano ha sviluppato nel corso della propria esistenza, considerando come una situazione emotivo-motivazionale positiva sia importante nel
mantenere le funzioni cognitive residue o nel tentativo di migliorarle con
specifici training.
Per evidenziare la particolarità dell’anziano nel suo rapporto con l’ambiente è stato fatto un parallelo con i legami verso i luoghi che si sviluppano in infanzia, perché in fondo, anziani e bambini, sono due categorie di
persone che si somigliano nel loro rapporto con l’ambiente, soprattutto
per un certo grado di dipendenza.
Ritengo utile quindi che lo studio sull’attaccamento ai luoghi o di un altro
tipo di legame affettivo con un luogo, possa essere affrontato dapprima in
senso teorico e poi da un punto di vista empirico, nella duplice prospettiva dei bambini e degli anziani, cercando di osservare il fenomeno da un
punto di vista evolutivo, in un’ottica di ciclo di vita.
30
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33
La mediazione culturale
nel dialogo istituzionale
S. Spensieri, L. Valentini
«L'etnopsichiatria è quel pensiero psicologico
che accetta la sfida di vedersi modificato dagli
attaccamenti del paziente»
Nathan T. (2003)
Ismail, marocchino di ventotto anni, giunge in Italia per i soliti “motivi
di lavoro”: abbagliato dalla bella vita che conduce il “cugino italiano”
quando torna in Marocco, decide di partire anche lui, nonostante le perplessità del padre che lo vorrebbe a lavorare accanto a sé.
Il prestito di due amici gli permette di comperare il permesso turistico al
prezzo di seimila euro. Qualche mese dopo il suo arrivo in una città del
nord Italia, scontratosi con le reali difficoltà relative alle pratiche amministrative per la regolarizzazione e la ricerca del lavoro, Ismail entra in
contatto col vero mondo del cugino, spacciatore di alto livello, per il
quale inizia a lavorare come corriere.
Quando la situazione comincia a farsi troppo calda, Ismail si allontana
emigrando ancora, in un’altra regione, trasferendosi da amici del cugino
che lo assumono “in nero” come manovale. In occasione della sanatoria
per la regolarizzazione, chiede appoggio al datore di lavoro che, conoscendo i suoi trascorsi, domanda in cambio “polvere scontata”, oltre
all’autofinanziamento per i contributi lavorativi. Con queste premesse si
avvia la pratica di regolarizzazione di Ismail che al momento dell’arresto
per spaccio di eroina, possiede già la ricevuta della richiesta del
Permesso di Soggiorno (da ora PS). Terminato il processo, avvenuto dopo
undici mesi di detenzione, il ragazzo viene liberato seppur giudicato colpevole, avendo già scontato la pena imputata, senza foglio di espulsione
e con la condizionale per i sei mesi successivi. Il permesso di soggiorno
arriva il mese prima della sua scadenza (la durata era annuale) e la successiva richiesta di rinnovo è accettata. Dunque per una serie di fortuite
34
coincidenze temporali, nonostante il reato di spaccio, Ismail non avrà
ripercussioni rispetto al suo PS.
Conosciamo Ismail durante il periodo di detenzione, prendendo in considerazione il suo desiderio di poter seguire una cura in comunità terapeutica, anche se principalmente mosso dalle difficoltà sociali che si paventavano a causa del vuoto di amicizie e conoscenze successivo all’arresto.
Dal momento della scarcerazione, Ismail frequenta quotidianamente il
Ser.T., dormendo in spiaggia (fortunatamente è estate), seguendo con regolarità il programma di disintossicazione con Metadone e curando le pratiche
amministrative con l’educatore, che lo accompagna in un lavoro di affiancamento territoriale anche con l'obiettivo di rafforzare il legame affiliativo.
In questa fase i colloqui di Ismail avvengono in una situazione di gruppo
dove, oltre a lui, sono contemporaneamente presenti lo psichiatra, l’assistente sociale e l’educatore, sia per esplicitare meglio la collaborazione
tra i ruoli e le competenze professionali, sia per costruire un programma
di presa in carico multipla1, capace di muovere dalle stesse premesse.
Una strategia che permette di elaborare il progetto terapeutico con maggior coincidenza di intenti e significati, da parte di un’équipe che muove
da una condivisa rappresentazione del paziente; in questa prima fase, si
conferma il peso maggiore del deficit sociale, piuttosto che una reale
spinta “motivazionale” del ragazzo rispetto al proprio stato di tossicodipendenza.
D’altra parte il suo impegno a seguire le cure concordate, concretamente visibile nella precisione con cui frequenta l’ambulatorio, si rivela decisivo nel valutare la sua affidabilità anche in una situazione di estremo
disagio come quella descritta.
Finalmente, smaltita la lista d'attesa per la comunità terapeutica, il ragazzo
può entrare; eppure passano solo due settimane dal suo ingresso che Ismail
è già sulla porta, valige alla mano, pronto ad abbandonare la struttura. Ma
come? Dopo tutta la fatica che ha sopportato fino all'ingresso? Dopo tutti
gli sforzi da noi sostenuti per offrire ad un paziente extracomunitario2 quest’occasione d’oro? Il motivo è semplice e chiaro: il ragazzo ha un debito3 da
saldare e ora anche il padre ha un urgente bisogno di soldi, infatti entro tre
mesi se non corrisponderà gli affitti arretrati, sarà sfrattato.
1
2
3
Tagliagambe F.; Il Sé virtuale, Gli Argonauti, n. 105, XXVII
Una specificazione che in ambito clinico, sembra ormai essersi consolidata alla stregua di una categoria psicopatologica
Il debito consiste nei seimila euro prestatigli dagli amici per comprare il permesso turistico necessario all'ingresso in Italia,
ma in realtà la nozione di debito andrebbe indagata anche in relazione ai rapporti familiari e al posizionamento nella dimensione religiosa.
35
Il piano di Ismail è tanto logico quanto disarmante «nessuno potrà darmi
quei soldi in così poco tempo, quindi ho pensato di uscire, spacciare per
un mese, e poi rientrare in comunità senza più problemi».
Nessun deterrente funziona per dissuaderlo, né il rischio del carcere, né
il rischio dell’espulsione, né quello della ricaduta nell’uso di sostanze...
nulla pare riuscire a contrapporsi all’attuazione del suo piano.
Improvvisamente però, una nostra considerazione pare catturare la sua
attenzione, e ci chiede perplesso cosa intendiamo quando commentiamo
che “i soldi sporchi ricavati dallo spaccio non lo porteranno da nessuna
parte, anzi perseguiteranno lui e la sua famiglia!”
Forse abbiamo toccato un tema significativo, capace di suscitare qualche
dubbio al di la di ogni altra ragionevole intimidazione proposta. Gli chiediamo di tradurre in arabo quella parola e i soldi sporchi si trasformano
in soldi haram; ecco le parole giuste. Una traduzione speciale che non si
esaurisce in un semplice esercizio linguistico, ma impone una riflessione
poiché, con quel termine, Ismail proietta la discussione su un piano differente, convocando i suoi legami, collocandoli nel complesso sistema di
senso evocato da quella parola sacra.
Haram è un termine religioso che significa “il prezioso” e contemporaneamente, “l’illecito”, e si contrappone ad un’altra parola, halal, ciò che
è “lecito”, con cui condivide la dimensionalità che lega il discorso religioso a quello dell’appartenenza familiare.
Haram è infatti la posizione del peccatore secondo il precetto islamico,
colui che stando nell’illecito attiverà una sorta di maledizione, sackt, ad
opera della propria famiglia, che lo investirà provocandone la dis-afiliazione.
Al contrario, halal è la posizione lecita che rinsalderà i legami e l’appartenenza familiare attraverso il ritorno di una benedizione, r’da, procurando buona sorte e protezione.
Ciò che regola questo complesso sistema di vincoli, nel nostro caso, è la
natura dell’oggetto di scambio tra l’individuo e la sua famiglia. Se l’oggetto è di natura haram allora la famiglia, che a sua volta diverrà haram, ne
sarà inevitabilmente contaminata.
Ovviamente l’eroina è haram, così come i soldi provenienti dalla sua
vendita.
Svelato il meccanismo, ci chiediamo in quale dimensione collocare questa insolita organizzazione delle cose del mondo: nel registro del religioso, del medico o della credenza? Nel caso in cui decidessimo di conside-
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rarlo un discorso pertinente a quello della cura, poi, come potremmo
agire questi materiali?
L'interpretazione più diffusa tra gli operatori coinvolti nel progetto del
ragazzo, porta a leggere l’incertezza di Ismail come segnale di fragilità
emotiva, insicurezza e debolezza del Sé, di fronte alla logica del guadagno facile, del piacere e del vizio.
E’ un'interpretazione classica che si riferisce all’incostanza che molti
ragazzi tossicodipendenti mostrano nei confronti dei progetti terapeutici,
che spesso emerge e sembra confermarsi proprio nel momento in cui
rinunciamo ad interrogare il senso delle “cose” del paziente, rubandogliele per darne una lettura più colta, alla luce delle nostre teorie, prendendole e trasformandole attraverso le nostre pratiche.
Intraprendere un discorso clinico con Ismail sulle sue cose4 e a partire da
quelle, invece, aprirebbe un'indagine su un mondo a noi sconosciuto,
ribaltando completamente la prospettiva dalla quale illuminare comportamenti e accadimenti di questo ragazzo.
La posta in gioco adesso qual è? La cura di Ismail? La sua protezione dal
rischio? La credibilità di ciò che dice? L’affidabilità delle nostre teorie?
A ben guardare sembra che alla richiesta di individuare la comunità come
“luogo di cura” da cui ripartire, Ismail risponda con un’ulteriore e più
profonda domanda che, di fatto, interroga la nostra reale disponibilità a
costruire con lui lo spazio in cui incontrarsi.
Stiamo parlando dello spazio terapeutico auspicato dalla pratica etnopsichiatrica, ossia il luogo di mediazione culturale, laddove le cose5 dei diversi interlocutori, siano essi operatori o pazienti, possono essere negoziate
alla pari e trasformate reciprocamente, attraverso un'azione di riformulazione significativa e pertinente al discorso in atto.
Nel dispositivo della mediazione culturale etnoclinica, le cose possono essere rappresentate dalle parole, dai farmaci, dalle categorie eziologiche, dalle
indagini psico-diagnostiche, dagli esami strumentali, dal setting degli incontri medico-paziente, da tutti gli oggetti che entrano sulla scena clinica sia
quando portati dall'operatore sanitario sia se appartenenti al paziente.
4
Usiamo la nozione di cosa riferendoci all’interpretazione che ne da Tobie Nathan ('03): «per “cose” intendiamo oggetti, sostanze o
sistemi…creati da un gruppo e fabbricanti attorno a sé persone». La cosa per esistere ha bisogno di: 1) un gruppo ben strutturato che
la produca; 2) “reti complesse” che la mantengano; quindi la nozione di cosa ci rimanda ad un’altra questione fondamentale, “l’appartenenza”: l’appartenenza è lentamente strutturata attraverso delle “reti complesse di cose”.
6
«Il terapeuta è al servizio di una cosa ed essa offre un destino metamorfico all’umano, quello che Deleuze chiama il “divenire”. Il
paziente impara a conoscere la cosa, scopre l’avventura che gli viene proposta e acconsente ad impegnarvisi per due ragioni: perché vuole tentare la trasformazione. Il soggetto della psicoterapia, fino a ieri attivo e fatto agire a sua insaputa, diventa pertanto
uno scommettitore che si impegna in avventure intellettuali impossibili. Ecco il vero contratto terapeutico» (T. Nathan, ’03 – corsivo nostro).
37
In questa prospettiva, un discorso che si produce e si sviluppa a partire
dalle cose del paziente, e dunque dagli attaccamenti a cui esse rinviano,
si trasforma in un incontro non più orientato secondo l’expertise del
curante, ma nella logica in cui il paziente stesso esce dal ruolo di utente,
divenendo produttore e portatore di frammenti di saperi e materiali
necessari alla propria cura. Gli stessi sintomi, se indagati a partire dai
legami che li contestualizzano su sfondi particolari, siano essi culturali,
sociali, politici o economici, possono sviluppare il loro intrinseco potere
terapeutico.
La traduzione del termine “sporco” in “haram” dunque, ha contribuito a
delineare proprio quello spazio di pensiero che si configura come necessario alla realizzazione del luogo di mediazione.
Roberto Beneduce definisce la mediazione culturale etnoclinica uno spazio in cui è possibile pensare, dire e comunicare, laddove la traduzione
linguistica, la parola, mostra tutto il suo potenziale nel creare connessioni eteroclite, proprio a partire dal suo poter essere pensata.
Ismail, allora, ci parla di soldi haram alla luce dei preziosi legami che
questo termine sottende, obbligandoci ad interrogare l’intero progetto
che abbiamo formulato con lui, per riorientarlo affinché possa veramente essere pertinente alle sue problematiche, per come esse si rappresentano e si sviluppano all'interno del suo mondo particolare.
Non siamo ancora nel cuore del luogo di mediazione ma questo è il
momento decisivo per decidere se costruirlo o se scartarlo disidratando
quella parola, haram, frutto di una traduzione speciale il cui potere e il
cui destino, è ora nelle nostre mani.
Ismail ci sta chiedendo di lavorare a partire dal tema che si è svelato per
lui più significativo e pregnante: deve affrontare un debito irrinunciabile che riguarda non solo lo sfratto della famiglia, ma anche la trasgressione che arrivando in Italia, ha commesso nei confronti del veto posto
dal padre alla sua partenza; Ismail ora è un ragazzo haram e dunque
deviante sotto molti aspetti e riguardo a faccende decisamente più complesse di quelle penalmente ricosciute6, che ci obbliga a considerare altri
materiali umani.
Il piano da “spacciatore a termine”, è ora temporaneamente sospeso, si
sono aperte le trattative, si è avviata la negoziazione su ciò che può essere terapeutico, su ciò che rappresenta la cura.
6
Una considerazione che ci interroga anche rispetto al lavoro sulla legalità. Di quante devianze e rispetto a quali legalità possiamo
discutere?
38
Prendiamo tempo e riformuliamo il progetto con lui: Ismail si iscriverà
alla scuola superiore, avrà una borsa di studio per la quale percepirà un
minimo stipendio che, unito alla quota che la comunità passa a tutti gli
utenti, servirà a coprire le rate del debito del padre. Per i seimila euro del
visto si vedrà più avanti.
Il progetto costruito col ragazzo è ricco di significati, superando il soddisfacimento dell’imminente bisogno economico familiare, che rappresentano il presupposto per proiettare Ismail in un più ambizioso percorso,
capace di articolarsi anche rispetto alle proprie aspettative di vita: studiare e acquisire un titolo che possa farlo accedere ad un lavoro qualificato.
Questo è uno dei momenti decisivi della presa in carico del paziente che
inizia a mostrarci la vera ragnatela di vincoli nei quali è preso: la famiglia,
le aspettative proprie e del padre relative alla sua partenza, i debiti per il
visto, le questioni amministrative e penali che ne regolarizzano la presenza in Italia. Temi che scorgiamo e intrecciamo a partire dall'analisi delle
sue parole preziose, haram e halal, che si sono imposte come le fondamenta di un discorso clinico che stiamo ripensando in relazione alla complessità di questioni sino ad ora a noi sconosciute, sia nella loro struttura
che nel funzionamento.
La mediazione culturale etnoclinica che è lo strumento necessario e
imprescindibile della pratica etnopsichiatrica, lo immaginiamo come un
luogo oltre che una tecnica, uno spazio fisico e teorico, che si deve ogni
volta riallestire, organizzandolo e arredandolo usando le cose del paziente come materiali di prima scelta. E’ un dispositivo che cerca la complessificazione, anche attraverso il malinteso (soldi sporchi? Cosa vuoi dire?
Sporchi … perché? Come? Intendi dire sporchi come lo sto pensando
io?…), sollevando questioni che contribuisce a svelare e a costruire nella
prospettiva di una possibilità dell’essere.
La crescente consapevolezza di Ismail di essere co-progettatore del proprio percorso terapeutico, gli ha permesso via via di riconoscere lo spazio
clinico di mediazione un luogo halal in cui stare e, quindi, di vedere gli
operatori che lo popolavano con lui, delle persone buone a cui affiliarsi.
Operando una scelta di campo, egli ha confermato come la disponibilità
istituzionale se posta nei termini dell’ospitalità, possa risultare decisiva
nel ridurre quello spazio della “doppia assenza” (Sayad, '99) generato
dalla lontananza tra la famiglia di appartenenza e le istituzioni del paese
ospite, attraverso la partecipazione attiva nei processi di costruzione di
soggettività a rischio di deriva.
39
Uno spazio potenzialmente pericoloso, che A. Yahyaoui ('92) definisce
l'espace de manipolation, che può dilatarsi progressivamente, trasformandosi in un luogo dove incontrare nuove affiliazioni, dove mettere in atto
atteggiamenti narcisistici e onnipotenti, dove possono prendere forma la
devianza, la patologia, la sofferenza, la marginalizzazione e l’esclusione.
Alla luce di queste considerazioni, la nostra proposta si è riformulata su
diversi piani: sociale, farmacologico e psicoterapeutico.
Fondamentale è stata la proposta della borsa di studio, avanzata dall'assistente sociale che, oltre a dare una risposta immediata sul piano economico, ha avuto il più profondo significato di provocare la ri-affiliazione di
Ismail al lecito, all'halal, rappresentato sia dal riconoscimento istituzionale, sia dalla riconciliazione tra il suo progetto migratorio e il mandato
familiare. Ciò ha anche dilatato il tempo in cui abbiamo potuto negoziare col paziente gli altri aspetti pertinenti alla sua presa in carico, a partire dal senso della diagnosi di Tossicodipendenza, per completare la sua
collocazione nella dimensione halal.
Proprio quella scontata diagnosi su cui era chiamato a riflettere nel lavoro
in comunità, associata all’assunzione del farmaco “tossico” per eccellenza,
il Metadone, infatti lo mantenevano ancorato ad una quotidianità haram
praticata alla luce del suo uso di sostanze. Di fatto però, Ismail era “pulito”
dal giorno dell’arresto, ormai da circa quindici mesi, dunque bisognava
creare intorno a lui un clima speciale che lo “disintossicasse” dalla categoria haram della tossicodipendenza; un passaggio che si è concretizzato
attraverso una duplice manipolazione: farmacologica e psicologica.
Nel primo caso abbiamo sostituito il Metadone col Subutex (buprenorfina), da lui ritenuto più “pulito-hallal”, utilizzato da «quelli che ormai
hanno smesso da tempo», successivamente scalato con una certa rapidità; nel secondo caso, sospendendo i colloqui centrati sulla presa di
coscienza del proprio stato di tossicodipendenza. Tale procedura orientata alla consapevolezza narrativa, d'altra parte, non avrebbe fatto altro che
ricordargli di essere immerso in cose haram, sporcandolo e vincolandolo
ancora a qualcosa da cui invece cercava di affrancarsi.
Lo spostamento di Ismail nella dimensione halal, ha innescato la possibilità terapeutica attraverso un percorso riconosciuto anche da parte della
Questura di Genova, che gli ha rinnovato il permesso di soggiorno dopo
due anni di attesa, nonostante la pregressa carcerazione per spaccio (reato
ostativo al rilascio del permesso di soggiorno secondo la vigente normativa
in materia di immigrazione).
40
Un passaggio significativo per il senso conferito a tutta la fatica affrontata sia dal ragazzo, sia dagli operatori degli enti coinvolti, attraverso un
delicato lavoro di rete che si è dovuto mille volte riorientare attorno a
quell’asse originario, haram/halal, che l’ha in-formato a partire dal suo
ingresso in comunità.
La stretta collaborazione tra operatori di enti diversi ci ha permesso di
applicare il metodo della presa in carico multipla ad un livello inter-istituzionale, circoscrivendo così quello spazio di manipolazione in cui tutto
il progetto e non solo Ismail, avrebbe rischiato di naufragare. Ciò ha creato le premesse strutturali affinchè il lavoro potesse concentrarsi sulle
questioni più intime del ragazzo.
L'approccio etnopsichiatrico ha agito processualmente due livelli per
potersi realizzare: si è preoccupato di modellare l'architettura del luogo
di mediazione come premessa ad un lavoro più intimo sul particolare culturale di Ismail, sviluppatosi attraverso l'indagine significativa della parola, ed ha compreso le vicende sociali ed amministrative tra i materiali
pertinenti alla cura, valutandone l'impatto sullo stile di vita del ragazzo e
sulla qualità delle relazioni significative, familiari e amicali, che ne venivano coinvolte.
Parole speciali, evocative di legami vitali, ricche di un potenziale terapeutico che si è plasticizzato attraverso la reinterpretazione dei nostri metodi e strumenti di lavoro: la diagnosi e il farmaco da parte dello psichiatra
(che ha dovuto confrontarsi con considerazioni estranee a quelle strettamente farmacodinamiche), la borsa lavoro (attivata “a prescindere” dalle
garanzie temporali di astinenza dall'uso di sostanze) e tutta la costruzione della pratica amministrativa per la regolarizzazione, da parte delle
assistenti sociali (del Ser.T e della comunità terapeutica); la creazione di
un clima accogliente e non stigmatizzante da parte delle istituzioni coinvolte (non solo la comunità, ma anche il Comune che gli ha assegnato la
residenza, la scuola e gli insegnanti che l’hanno sostenuto in un percorso
didattico e di socializzazione, la Questura che ha dato un senso realmente esistenziale alla sua trasformazione).
L’atteggiamento com-prensivo che abbiamo operato tra il nostro apparato terapeutico e le sue rappresentazioni, rovesciando le premesse di
una modalità con cui solitamente si gestiscono questi incontri, è sfociato in un percorso clinico che dislocando il paziente e modificandone i
materiali anche corporei (attraverso l'uso del farmaco halal in luogo di
quello haram, per esempio), l’ha reso suscettibile di trattamento.
41
Considerare Ismail un non-tossicodipendente non ha significato negare il suo coinvolgimento con le droghe, ma ha rappresentato la premessa perché quel discorso potesse essere realmente affrontato, da
una posizione più halal inquadrandolo così da una prospettiva che l'ha
reso più avvicinabile. La droga in quanto cosa (nell'accezione di
Nathan), era di Ismail più di quanto lo fosse della Psichiatria o della
Medicina e il significato che aveva assunto nelle mani di quel ragazzo
non poteva essere presumibile solo da un discorso teorico, quanto
piuttosto dai modi e dai mondi in cui l'aveva usata, manipolata, venduta o abbandonata.
E’ ascoltando il paziente ancor prima che chiedendogli di affidarsi e
fidarsi, che viene concessa agli operatori la possibilità di accostarsi al suo
mondo, percorrendo una strada che si sviluppa bidirezionalmente in un
movimento di incessante incertezza tra l’operatore e il paziente, modificando entrambi.
Un’asimmetria quella tra “chi sa” e “chi soffre” che se mantenuta, avrebbe potuto disinnescare invece di attivarla, la leva terapeutica che avevamo individuato nelle parole di Ismail.
La resistenza, dei suoi operatori di riferimento, inizialmente travisati
come collusivi con quelle logiche esoticamente seduttive ma clinicamente impertinenti, almeno rispetto ai presupposti teorici e scientifici più
praticati, ha permesso invece di costruire il clima di fiducia, in cui ha
preso forma l'alleanza terapeutica, che ha anche reso possibile la nuova
affiliazione del ragazzo. Una resistenza dunque, che esprimeva la tenacia
necessaria a forzare quella classica logica interpretativa che vede il
paziente che abbandona o sospende le cure, come un dissidente, ma che
invece può essere recuperato in quanto mosso da una recalcitranza
(Nathan, 03) necessaria a imporre attivamente la propria presenza in
qualità di soggetto attivo.
La mediazione culturale etnoclinica appare ancora un luogo difficile da
raggiungere nei contesti di cura istituzionali, oltre che una tecnica clinica difficile da attuare, laddove la nostra pratica è ancora troppo agonizzante e soffocata sotto il peso di quei rapporti di potere tra saperi differenti, che certe politiche sociali e culturali non fanno che perpetuare e
rafforzare.
La possibile sovrapposizione di differenti interpretazioni nel conferire
significato a questa storia, rischierebbe di rimanere una speculazione
intellettuale se invece di porsi come arricchimento, fosse mirata a soste-
42
nere una teoria piuttosto che un’altra, senza considerare i veri materiali
scelti e usati in questo intervento. D'altra parte pensiamo che la complessità del discorso terapeutico possa riformularsi attraverso la pratica
di una “democrazia clinica” che sappia riconoscere proprio in quella
recalcitranza del paziente, lo spunto per intraprendere nuove avventure
terapeutiche.
Sostenere l’efficacia della tecnica utilizzata in questo caso, ci pare che
possa suggerire qualcosa a riguardo della presunzione di certi approcci
che invece, tendono ad arrogarsi una valenza sempre efficace, se non a
fronte di pazienti questa volta resistenti.
Allora dovremmo tentare di ripensare alcune nozioni che affollano i
nostri servizi: la collusione e la manipolazione come termini sempre invalidanti la cura, la narrazione e la memoria come processi sempre necessari alla cura, le fasi di corrosione dei rapporti di forza come tappe necessarie per avvicinarsi al mitico luogo della mediazione culturale.
A volte si ha la sensazione che nelle istituzioni, la mediazione culturale
esista più come uno spazio negato, da dover riconquistare ogni volta,
piuttosto che come uno spazio terapeutico dato e realmente praticabile.
43
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45
Come te lÕ aggià rice?
Il modo squisitamente umano di “comunicare”
al di là del “verbale”
K. Aquino
La tipica espressione partenopea del titolo, richiama l’ingegno dell’uomo
a provare a farsi capire oltre il “verbo”, laddove impossibilitato per lingua, cultura, menomazione ad usare le parole come mezzo espressivo e
comunicativo.
La comunicazione non verbale può essere affidata a colore, suono, corpo
segno1.
Il colore rappresenta un linguaggio ad arte traducibile nel non verbale
della tela, quello che potremo definire “messaggio ad arte”.
La trasposizione su tela, pietra, legno, ha radici lontane basti citare i geroglifici, le pitture murarie, tutte forme volte a tradurre sensazioni, emozioni, sentimenti che l’artista nell’atto creativo tende a sublimare e il fruitore
nel goderne il frutto mira ad elaborare e decodificare il messaggio.
Il suono: il non verbale con “ritmo” è rappresentato dalla musica veicolo
di comunicazione antico e per certi versi ancestrale, basti pensare che il
primo suono cui tutti siamo stati abituati è stato la voce materna, e, ancor
prima, il rumore del battito cardiaco, il suono del liquido amniotico.
Venendo al mondo la prima melodia per certi versi ansiolitica con cui
tutti siamo stati allevati è la ninnananna e così via fino all’età adulta quando la musica con le sue melodie fa da accompagnamento ai momenti più
significativi della nostra vita.
Colore, segno, suono, corpo trovano mirabile fusione in sua “maestà “il
linguaggio cinematografico.
Nel libro 'I vestiti nuovi del narratore' di Armando Fumagalli (Il Castoro)
si paragonano i processi cognitivi messi in opera da un lettore di libri con
quelli di uno spettatore di film.
1
Citazione tratta da www.psychomedia.it
46
Anche nel film, talora più che in un romanzo, esistono dei vuoti, del non
detto (o non mostrato) che lo spettatore deve riempire se vuole dare
senso alla storia.
Anzi, se un romanzo può avere pagine a disposizione per delineare la psicologia di un personaggio, il film deve talora limitarsi a un gesto, a una
fugace espressione del volto, a una battuta di dialogo.
Quindi lo spettatore pensa, ovvero, direi, dovrebbe pensare.
Come dice Fumagalli, “Le tecniche di scrittura drammaturgica insegnano sempre di più a lavorare come se dovessero emergere sullo schermo
solo le punte degli iceberg, e spesso si vede uno ma - se stiamo attenti si comprende dieci2”.
Altro linguaggio non verbale per eccellenza è quello fotografico.
Proviamo per un attimo a chiudere gli occhi e a pensare a tutti gli ambiti in cui ci capita di imbatterci in una fotografia…
In famiglia, nelle pubblicità, nello sport, nella moda, nel lavoro, nella
politica, nella scienza, ecc. Possiamo trovarla ovunque intorno a noi, è
uno dei mezzi di comunicazione più pervasivi che esistano. Se ci pensiamo un momento, la fotografia ha un valore enorme.
Si scatta per cogliere il momento irripetibile del tempo, oppure si
costruisce una situazione apposita per cogliere un’immagine che ci
appaga e per sottolineare la comunicazione che si ha in mente di dare.
Dal punto di vista estetico ed emotivo, invece, la lettura dell’immagine ci impone una riflessione sul modo in cui una fotografia sia stata
realizzata.
Questa si può definire una fase di stimolo, in cui, cioè, si cerca di porre
delle domande costruttive.
Ad esempio: “Qual’è il soggetto della foto?”, “Quali sono gli elementi
intorno al soggetto principale e che ruolo assumono?”, “Perché è stato
scelto questo taglio?”, “È stata usata luce naturale o artificiale? E che
ruolo ha nell’effetto globale della foto?”3
Il corpo in movimento può rappresentare un veicolo di comunicazione
affidato ad un ‘arte antica quale quella della danza…..
La danza4 è una sofisticata forma d'arte in grado di esprimere pensieri e
sentimenti umani attraverso il corpo inteso come strumento, in diversi
generi e culture.
2
3
4
cfr Umberto Eco “Pensare al cinema”, in l’Espresso consultabile su http://espresso.repubblica.it/dettaglio-archivio/642615
cfr Francesca Musetti, Ascoltare con gli occhi; in www.ilmediario.it
cfr. La comunicazione non verbale di Thomas A. Sebeok in Parol on line, quaderni d’arte ed epistemologia, accessibile altresì on
line al collegamento: http://www2.unibo.it/parol/articles/sebeok.html
47
Uno di questi generi è il balletto occidentale, che mescola dialoghi
gestuali delle mani e delle membra a fluidi movimenti del corpo, nonché
a una schiera di altri protocolli non verbali che rimandano l'uno all'altro:
la musica, i costumi, le luci, le maschere, la scenografia, le parrucche,
ecc. La danza e la musica di solito accompagnano le pantomime o gli
spettacoli muti. I clown muti o i mimi integrano i movimenti del corpo
con un adeguato make-up e con i costumi.
È IL MIO CORPO CHE PARLA!!!
Il non verbale per eccellenza: nel nostro immaginario ma non solo, è dato
da: gesti, segni, movimenti.
La comunicazione non verbale ha un’origine biologica (si può presumere
che si sia sviluppata per consentire la sopravvivenza) ed è mediata per lo
più dalle strutture cerebrali più antiche, quelle, per intendersi, che sottendono i comportamenti basilari di sopravvivenza, come la reazione di
fuga o di attacco, il comportamento aggressivo, quello copulatorio e quello di ricerca di cibo. La comunicazione non verbale è dunque innata.5
Veicolo privilegiato di espressione del nostro essere all’esterno,del nostro
apparire e presentarci, è l’abbigliamento.
L’abbigliamento comunica sempre qualcosa di noi; è quello che si trova
al confine tra noi e il resto mondo, è la “pelle” che separa il corpo da
quello che c’è all’esterno.
Scegliendo un abito scegliamo quello che vogliamo comunicare e quello che
“non” vogliamo comunicare di noi. Puntigliosità, rassegnazione, ribellione e
svogliatezza: sono modi di essere che i vestiti potrebbero trasmettere.6
Anche la scelta di accessori e profumi, usanze già ampiamente diffuse in
età ellenica e romanica, è assolutamente legata ad un voler dire qualcosa.
Questo fenomeno è più evidente nelle superstiti società tribali in cui l’abbigliamento ancora non prende il sopravvento sulla seminudità e in cui il
corpo stesso diventa un “vestito”.
Dalla testa ai piedi, ogni parte del corpo può essere oggetto di decorazioni più o meno durature.
Ad esempio gli antichi egizi elaboravano parrucche da indossare in occasioni speciali, proprio come la nobiltà francese che reputava la fastosità
5
6
cfr. Maura Santandrea “La comunicazione non verbale il linguaggio del corpo nella costruzione dell’intersoggettività” consultabile al seguente link: http://club.giovani.it/psicologica/item/la-comunicazione-non-verbale
cfr Germana Luisi in www.scriptamanent.net, anno IV, n. 28, febbraio 2006
48
della parrucca indice di status sociale elevato (la regina Maria Antonietta
possedeva una parrucca alta circa un metro da sfoggiare nelle serate di
gala e questo portò, per essere alla sua altezza, ad abbassare i sedili delle
carrozze e ad alzare le porte!).
Anche presso gli antichi romani erano in uso le chiome artificiali (fatte
con i capelli dei popoli vinti in battaglia) e quelle delle prostitute erano
riconoscibili in quanto tinte di giallo.
Il linguaggio del corpo fa riferimento all'espressione spontanea dell'emozione e dell'affettività e che è un sistema in gran parte inconscio. Esso
consiste in un complesso di regolazioni riflesse e automatiche del tono
muscolare, dell'atteggiamento posturale, della mimica facciale e gesticolatoria, della distanza personale e dell'uso dello spazio circostante e così
via, a partire dallo sguardo.
Lo sguardo permette a tutti di noi di capire le intenzioni di una persona;
in genere è intenso e sostenuto in situazioni amorose o di corteggiamento ma anche, al contrario, in situazioni di sfida, come nel cosiddetto
incontro “faccia a faccia”.
CHE MI VULISSI RICE?
Questa domanda sottende molta della lettura non verbale del nostro volto.
Quanta della nostra comunicazione passa, infatti, attraverso il nostro
volto ed i suoi gesti! Proviamo a leggerne qualcuno.
Le labbra serrate “chiudono ed escludono”; quelle aperte “sono disposte
ad ascoltare”. Non a caso la parola “alunno” significa “essere nutrito”e,
all’interno di qualche classe a scuola, durante l’avvincente spiegazione di
un docente, può capitare di sorprendere qualche studente a “bocca aperta” che “assapora” e “fagocita” basito gli insegnamenti del didatta!7
Le espressioni del viso, il broncio, la smorfia, inarcare le sopracciglia, il
pianto, aprire le narici, costituiscono un sistema di comunicazione potente e universale, prese separatamente o insieme. L'attività degli occhi,
come guardare e scambiare sguardi, può rivelarsi particolarmente efficace per comprendere una serie di comportamenti sociali nei vertebrati e
negli esseri umani. Sebbene i riflessi pupillari siano stati studiati fin dall'antichità, solo negli ultimi venti anni tali studi si sono evoluti in un
campo di ricerca molto vasto denominato pupillometria.8
7
8
cfr Maura Santandrea, op. già citata
Thomas A. Sebeok, op. già citata
49
Per i domatori di animali da circo, ad esempio, è sempre esistita una
tacita regola che prescrive di sorvegliare con attenzione i movimenti
pupillari degli animali a loro affidati, basti citare le tigri, per stabilire con
certezza le loro alterazioni d'umore. Gli orsi, al contrario delle tigri, si
dice siano “imprevedibili”, e quindi pericolosi, proprio perché la loro
pupilla non è un indicatore, e anche perché il loro muso inelastico è
incapace di “telegrafarci” un imminente attacco. In effetti, nelle relazioni interpersonali fra coppie di esseri umani, la dilatazione delle pupille
costituisce spesso un segnale non intenzionale diretto all'altra persona (o
ad un oggetto) che denota un interesse intenso, spesso carico di sfumature sessuali.
Messa così, la dimensione non verbale ha tutte le caratteristiche per non
passare inosservata.
Misure effettuate da alcuni studiosi sull'ammontare delle comunicazioni
che inviamo più o meno involontariamente dimostrano quanto realmente conti nei nostri scambi.
L'antropologo Albert Mehrabian ha stabilito che solamente il 7% di tutte
le informazioni che ci arrivano da un discorso passa attraverso le parole;
il restante, che è comunicazione non verbale, si divide in: 38% che ci perviene dal tono della voce e 55% che arriva dai segnali di mani, braccia,
gambe, piedi ecc.9
Armato di cronografo, il ricercatore Ray Louis Birdwhistell ha constatato che, mediamente, in una giornata non parliamo per più di
dieci, dodici minuti e che una frase media non dura più di dieci
secondi e mezzo.
Inoltre, sulla base delle sue valutazioni, ha poi stabilito che il 65% delle
interazioni da lui esaminate “prendeva la via del corpo”.10
Può essere interessante una valutazione sulla seguente situazione/tipo.
Immaginiamo di trovarci ad una festa presi in una conversazione con un
interlocutore meno interessante di un invitato che si trova altrove, tenderemo “con naturalezza” a portarci con il tronco verso il nostro interlocutore mentre i piedi saranno puntati in direzione della “nostra preda”...
Perché ci comportiamo così?
Questo succede perché la parte sinistra del nostro cervello, quella “più”
emozionale ha guidato il linguaggio non verbale verso il desiderio reale,
9
cfr. Valentina Ristori, “A scuola di comunicazione non verbale” consultabile al seguente link: http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=253&scat=255&arid=2068
cfr. Marco Pacori, “Il linguaggio del corpo” in http://www.linguaggiodelcorpo.it
10
50
essere cioè altrove facendo di conseguenza muovere il corpo verso tale
meta mentre la parte “razionale” ci richiama verso il nostro “dovere”:
dare attenzione all’interlocutore.
Questa modalità di collocare il nostro corpo nello spazio ci richiama alla
prossemica.
La prossemica11 è quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all'ambiente.
Il primo studioso a fare ricerche estensive in questo ambito è stato l'antropologo E.T. Hall il quale, al termine della seconda guerra mondiale,
venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture “nemiche”,
tedesca e giapponese a quella degli Stati Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e
senza incomprensioni.
Ruolo ed influenza importanti nel regolare tali modalità di disposizione
dei corpi nello spazio è svolto da fattori quali genere e cultura.
Pensiamo a quello che succede tra persone di diverso genere che si trovino a star vicine.
Se fra una femmina e un maschio che interagiscono c'è una reciproca attrazione, di solito fra i due si verifica anche un progressivo avvicinamento. In
alcune ricerche si è voluto vedere se questo sia dovuto prevalentemente alla
femmina, al maschio, oppure ad entrambi. Questi studi suggeriscono che in
casi del genere la riduzione della distanza è da attribuire ad una strategia di
avvicinamento messa in atto principalmente dalla femmina.12
Tutto ciò quasi a smentire la supremazia maschile nell’arte del corteggiamento consegnataci da un immaginario collettivo resistente nei secoli,
dal “vir” latino in poi.
In coppie di amici dello stesso sesso si registra un altro fenomeno interessante.
Mentre nelle femmine la vicinanza è proporzionale al grado di attrazione
reciproca, ovvero più ci si piace, più si sta vicine, nel caso dei maschi il
grado di amicizia non lo si può misurare con la distanza. Essi infatti interagiscono a distanze maggiori rispetto alle femmine e non scendono mai
al di sotto di una certa soglia, come invece fanno queste ultime.
A prescindere dal sesso, esiste una specie di zona protetta intorno ad
ognuno di noi – il cosiddetto uovo prossemico - che nessuno può inva11
12
cfr. Costa, M., Ricci Bitti, P.E. (2003). “Fra me e te. Messaggi dallo spazio personale”. Psicologia Contemporanea, 35-44.
ibidem
51
dere se non viene autorizzato da noi. Chi ci parla può quindi avvicinarsi fino ad un certo punto; se va oltre, proviamo una sensazione di fastidio, a meno che non si tratti di qualcuno con cui abbiamo una familiarità notevole. Poiché questa zona protetta è più estesa davanti a noi
che lateralmente, avvertiamo meno il fastidio se qualcuno ci si avvicina di lato.13
Alcuni individui hanno una modalità comunicativa un po’ invasiva: tendono ad avvicinarsi troppo e a toccare chi hanno di fronte (digitale).
Il canale digitale (ovvero toccare se stessi o gli altri) è una delle vie più
potenti in quanto coinvolge la sfera affettiva. Quando tocchiamo qualcuno tendiamo ad esercitare un ruolo con implicazioni affettive e questo
non sempre è possibile farlo, soprattutto con sconosciuti.
Il contatto fisico ha valore e valenze diverse, a seconda delle culture di
appartenenza può essere più o meno favorito all’interno di una società.
Tra i popoli arabi il contatto fisico è ben tollerato e investe numerosi
ambiti della loro quotidianità, basti pensare ai chiassosi suk, mercati caotici in cui un arabo si districa in modo sicuramente più disinvolto di un
occidentale non abituato ad un contatto fisico così marcato.
In culture ad alto “contatto” sensoriale, come in quelle mediterranee,
arabe e ispaniche, gli individui tendono ad utilizzare maggiormente
modalità sensoriali come l'olfatto e il tatto.
Gli individui appartenenti a queste culture fanno un più largo uso di profumi personali e nelle interazioni tendono a toccarsi con maggiore frequenza rispetto a persone appartenenti a culture a moderato “contatto”,
come quelle del Nord Europa o quella statunitense.
Lo spazio personale, inoltre, in queste ultime culture tende ad essere maggiore rispetto alle prime. Nelle popolazioni mediterranee, arabe ed ispaniche, gli individui tendono ad interagire più vicini tra di loro. La ben nota
conseguenza è che quando noi ci rechiamo presso popoli del Nord Europa
o negli Stati Uniti tendiamo ad attribuire loro freddezza ed ostilità.
Viceversa, quando individui di popolazioni nordiche o statunitensi arrivano nella nostra cultura tendono a sentirsi a disagio per l'eccessiva vicinanza con cui le altre persone si avvicinano nelle interazioni quotidiane.
Tra i giapponesi e altri popoli asiatici, come nel caso dei nepalesi, le
forme di saluto o le effusioni in pubblico che prevedano di toccare l’altra
persona non sono viste di buon occhio e quindi sono evitate.
13
Cfr.Muntu, “La comunicazione non verbale”, consultabile in http://muntu.altervista.org/percorsi/comunicazione/cnv.shtml
52
Se volessimo misurare tali distanze, le troveremo al di là delle differenze
culturali, pressappoco così:
Zona personale: 50-120 cm. è la zona in cui stringiamo le mani
Zona sociale: fino a 240 cm. è la zona dei rapporti di lavoro
Zona intima: 20-50 cm., si estende quanto il nostro avambraccio, vi consentiamo l’accesso solo alle persone con le quali abbiamo maggiore
familiarità; l’invasione di questa zona produce trasformazioni fisiologiche significative, quali l’aumento del ritmo cardiaco e dell’adrenalina
nel sangue
Zona pubblica da 240 cm. a 8 mt.: la zona dei relatori
Molta importanza assume non solo la distanza adottata ma anche la posizione assunta.
Posizione fianco a fianco: è collaborativa o confidenziale (due amici, ad
esempio)
Posizione di fronte: capo e dipendente
Posizione angolare: ideale per colloquiare
Le modalità comunicative non verbali nei rapporti intimi interpersonali
assumono significati e caratteristiche peculiari.
Pensiamo a due innamorati.
Quando sono insieme, assumono una postura identica, mimando gli stessi
gesti, come in una “danza” non verbale. Vi è una vera e propria sintonia.
Si tratta di riprodurre artificialmente un procedimento naturale.
Quando l’inconscio di un individuo è stimolato da quello del suo interlocutore, cerca di interessarlo assumendo la sua postura:
è come se gli dicesse: “sono simile a te!”.
Il meccanismo sottostante è definito ”rispecchiamento”14
GESTI: il non verbale per eccellenza
Esistono linguaggi interamente basati sui gesti delle mani come le lingue
di segni usate dai sordomuti, a lungo considerate lingue minori e di cui il
linguista americano William Stokoe ha mostrato invece la completezza,
che fanno un uso simbolico dei gesti.
Non tutti i gesti che facciamo sono espressamente simbolici.
Il più delle volte gesticoliamo durante il discorso, senza nemmeno badare
14
cfr “Empatia e Rispecchiamento” di Vincenzo Fanelli in www.vincenzofanelli.com
53
al movimento delle nostre mani. Sono questi i gesti illustratori, che cioè
servono ad illustrare, sottolineare, rafforzare quello che stiamo dicendo.
Vi sono gesti di automanipolazione, con i quali trasmettiamo involontariamente delle informazioni riguardanti la relazione.
Questi gesti possono esprimere interesse o rifiuto.
Sono segni di interesse diversi gesti che riguardano le bocca, come mordicchiare le labbra o una penna oppure lo spostamento di oggetti verso
se stessi.
Mentre l'accarezzarsi i capelli o la stimolazione del padiglione auricolare
svelano un interesse anche affettivo o sessuale.
Sono gesti di rifiuto lo sfregamento del naso, l'atto di spolverarsi l'abito e
l'allontanamento degli oggetti.
La tensione è invece espressa dal gesto di grattarsi, il più delle volte nella
zona del naso.15
LEGAME TRA “ARS GESTICOLATORIA” E “FLUENZA”VERBALE
Robert Krauss e Ezequiel Morsella della Columbia University di New
York16, hanno dimostrato che parlare fluentemente, in modo colorito, avere
la battuta pronta è legato all'espressività e alla quantità dei gesti che facciamo durante il dialogo e ne hanno individuato le basi neurologiche.
Si suppone da tempo che il linguaggio abbia avuto origine dai gesti e le
osservazioni sull'acquisizione della parola sembra avallare questa ipotesi;
solo in tempi recenti ci si è accorti che l'espressione verbale ha tutt'altro
che soppiantato i gesti e che proprio questi ultimi sono parte integrante
della facoltà di parlare con proprietà e scorrevolezza.
Una delle prime osservazioni al riguardo la si deve allo psicologo Bernard
Rimé dell'università di Louvain in Belgio che ha notato come quando nel
dire qualcosa si gesticoli, il movimento anticipa sempre la parola.
Un indagine in cui era stato impedito ai partecipanti di muoversi ha
dimostrato come l'eloquio diventi più povero, più “insipido”, l'articolazione delle parole appaia più stentata e aumentino gli errori di pronuncia.
Sempre nella stessa ricerca è stato messo in luce che numero e ostentazione nei gesti cambiano in relazione all'argomento di conversazione: sono
minori quando si ci riferisce a un concetto astratto; per contro, sono più
vivaci ed espressivi mentre si descrivono scene, azioni o oggetti concreti.
15
16
cfr. Muntu, opera citata
cfr. Marco Pacori - Tuttoscienze n. 958, La Stampa, anno 135, n. 16 - 17.01.2001
54
Se si devono illustrare gli aspetti spaziali di qualcosa e si è impossibilitati o inibiti ad usare dei gesti, il discorso risulta più impreciso e meno particolareggiato.
Interessante la tesi elaborata dall'equipe di neurologi dell'Università
Cattolica di Roma17, guidata da Gainotti: sulla base di osservazioni su individui che avevano subito danni cerebrali questi studiosi ritengono verosimile che quando apprendiamo il significato di un oggetto, lo archiviamo
nella memoria assieme alle azioni e alle contrazioni muscolari che compiamo usandolo o che eseguiamo per comprenderne il funzionamento.
Così, quando ci troviamo a richiamare a mente il suo nome, recuperiamo
in realtà l'intero complesso di informazioni ad esso legate. In altre parole, si attivano non solo l'area linguistica del cervello, ma anche quella
motoria e premotoria dove immagazziniamo le sequenze di azioni fra loro
coordinate.
Ci sono inoltre momenti in cui più di altri inviamo segnali “non verbali”
sono le situazioni che Goffman (1987) chiama “da palcoscenico”: comparire in pubblico, assumere un comportamento professionale, essere valutato da altri, trovarsi con persone più anziane o più importanti, essere
vestito in maniera diversa, oppure distinguersi in altro modo.
In tutte queste situazioni le persone possono sentirsi osservate piuttosto
che osservatrici, perciò fanno del loro meglio per manifestare gli aspetti
positivi della loro immagine del sé. Il modo in cui l’individuo si veste, si
atteggia etc. indica gli aspetti di sé che vuole siano recepiti dagli interlocutori oppure la modalità in cui vorrebbe essere giudicato dagli altri.
I ricercatori americani Friesen e Sorenson (1972) studiando e osservando le mani di uomini di cinque culture e di cinque continenti diversi sono
giunti alla conclusione che essi condividono, nonostante le differenze
culturali, gli stessi gesti di base, la stessa mimica.18
Esistono anche mimiche che appartengono solo ad alcuni popoli.
Una mimica molto singolare è stata studiata da Eibl-Eiblesfeldt19 presso
gli Eipo della Nuova Guinea, i quali quando provano una emozione fortemente piacevole si coprono il capo con entrambe le mani, come se si
trovassero in pericolo.
La mimica è stata interpretata piuttosto facilmente da Eibl-Eibesfeldt:
quando una cosa suscita il loro entusiasmo, gli Eipo dicono che «fa
17
ibidem
cfr. Maura Sanatndrea, opera già citata
Eibl-Eibesfeldt Irenäus - Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, edizione italiana a cura di Brizzi R.,
Scapini F., edizioni Bollati Boringhieri, 2001
18
19
55
paura»; di conseguenza esprimono l'emozione con la reazione che si
potrebbe avere di fronte a qualcosa di realmente pericoloso.
(È il caso di notare che il riferimento alla paura di fronte a situazioni
emozionanti si trova anche da noi nel linguaggio giovanile, anche se non
accompagnata da una mimica corrispondente. «Fa paura», «è da paura»
sono espressioni correnti per indicare qualcosa di sorprendente).
VERRIMMO E’ CI CAPÌ!!!!
Per evitare incidenti diplomatici ed equivoci gestuali può risultare utile
una carrellata dei gesti più comuni che si prestano ad interpretazioni differenti in diverse culture.
Ad esempio in Tunisia ed in molti altri paesi arabi unire il pollice a tutte
le dita della mano significa: “un attimo di pazienza”.
Nel napoletano significa esattamente l’opposto: “ti vuoi sbrigare, vuoi
arrivare al dunque?”.
La “pernacchia” che i francesi usano per dire semplicemente “non lo so”
o “che me ne importa” è un atto piuttosto sgradevole per un italiano.20
Le mani aperte con il palmo rivolto verso l'interlocutore corrispondono
ad un gesto offensivo in Grecia (il cosiddetto muza), mentre in Italia al
massimo potrebbero essere interpretate con il consiglio di fare con
calma.
Il fare la linguaccia è un gesto che si compie mostrando la lingua, che ha
il significato di un insulto. Ha lo stesso significato in tutto il mondo e trae
origine dall'infanzia, quando il bambino tira fuori la lingua ogni volta che
vuole rifiutare il cibo. Così il gesto si trasforma in un generale rifiuto e il
messaggio “non lo voglio” diventa poi “non ti voglio”.21
Nelle culture scandinave e in quelle medio ed estremo-orientali, il togliersi le scarpe è un gesto naturale, che indica relax o rispetto (vedi moschee).
Il gesto di ok compiuto con le dita della mano assume significati diversi
ad alcune latitudini, in Estremo Oriente, ad esempio, significa “ti sistemo
io per le feste...”, in Brasile: significa “grazie”, in Indonesia: “dopo di te”.
In Inghilterra le dita atteggiate a “v” significano “vittoria” se il dorso della
mano è rivolto verso chi parla; un insulto se il dorso della mano è rivolto
verso chi ascolta.
20
cfr. La comunicazione non verbale nell'insegnamento dell'italiano a stranieri in prospettiva interculturale
prof.ssa Pierangela Diadori (Università per stranieri di Siena) in http://www.neticon.net/fra-noi/giugno2001/communicazione.html
21
cfr. Maura Sanatndrea, opera già citata
56
È quindi buona norma utilizzare la gestualità simbolica soltanto nel proprio ambito culturale per non incorrere in spiacevoli equivoci.
A proposito dei partenopei finora abbondantemente citati non è un caso
che a Napoli regni una vera e propria supremazia dell’arte di gesticolare.
Molti dei gesti attualmente esistenti nei napoletani riconoscono antiche
origini.
Secondo uno studio di Morris l'influenza dei greci non è diminuita nel
corso di 2500 anni.
Ci sono ancora dei gesti di origine greca a Napoli; manifestazioni che
invece sono assenti a Roma.
I napoletani sono più “greci” in quanto la colonizzazione greca non
aggressiva, ha consentito l’assorbimento della cultura ellenica con
successo. 22
La cosa più sorprendente è che i partenopei sono orgogliosi dei loro
gesti e, dopo secoli di pratica, hanno affinato a tal punto la gestualità
delle mani, da trasformarla in una forma di arte decisamente espressiva,
in certi momenti addirittura elegante.
CONCLUSIONI
Per concludere questa carrellata sui gesti ed il loro significato più o meno
implicito può essere interessante prendere in prestito dalla geometria alcune figure e dalla psicologia analogica la loro interpretazione; essa, infatti,
ha individuato tre tipologie di classificazione per l'individuo:
Asta23, che riporta a una relazione conflittuale con il padre.
Triangolo, che suggerisce un rapporto conflittuale con la madre.
Cerchio, che testimonia l'alternanza di momenti di fiducia e di sfiducia
nei confronti di entrambi i genitori.
Per capire quale è la nostra tipologia di appartenenza è sufficiente osservare i gesti prevalenti come il tipo di stretta di mano (penetrativa, avvolgente a tenaglia), il modo di toccarsi sul viso con i polpastrelli delle dita
(stringere la guancia o il mento o con il dito indice puntato), l'atteggiamento usato nel discorso (il dito puntato e il braccio teso, le mani che
esprimono il segno dell'ok).
22
cfr. Desmond Morris “Linguaggio muto, l’uomo e gli altri animali” Di Renzo, Roma, 2004, Dialoghi scienza, pag. 96, cop.fle.,
dim. 140x210x8 mm, Isbn 88-8323-077-9
cfr. http://www.cidcnv.org/pagine/istituto/linguaggio_dei_segni.asp
23
57
Asta
Si riconduce analogicamente al simbolo "padre".
La funzione dell'asta è di colpire e ferire.
È pertanto un simbolismo di tipo penetrante, incisivo,
offensivo, autoritario.
Segni: tutto quello che ha come forma un'asta (alzare
un dito).
Comportamento: colpevolizzante, accusatorio, che
non offre soluzioni al problema.
Gesti: toccarsi con il dito a punta, penetrante, offensivo, incisivo.
Cerchio
È il referente analogico del simbolo "ego".
La funzione del cerchio è di avvolgere senza stringere.
Segni: tutto quello che ha come forma un cerchio
(come ad esempio il gesto "ok").
Comportamento: indicativo, che suggerisce soluzioni
al problema.
Gesti: toccarsi a forma di cerchio.
Triangolo
È il referente analogico del simbolo "madre".
La funzione del triangolo è di proteggere.
Segni: tutto quello che ha come forma triangolare.
Comportamento: protettivo, che suggerisce soluzioni
al problema.
Gesti: toccare con la mano, carezzare.
58
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO
1. Costa, M., Ricci Bitti, P.E. (2003). Fra me e te. Messaggi dallo spazio personale. Psicologia
Contemporanea, 35-44.
2. Eibl-Eibesfeldt Irenäus. Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento,
edizione italiana a cura di Brizzi R., Scapini F., edizioni Bollati Boringhieri, 2001
3. Empatia e Rispecchiamento di Vincenzo Fanelli in www.Vincenzofanelli.com
4. Germana Luisi in www.scriptamanent.net, anno IV, n. 28, febbraio 2006
5. La comunicazione non verbale di Thomas A. Sebeok in Parol on line,quaderni d’arte ed epistemologia, accessibile altresì on line al collegamento http://www2.unibo.it/parol/articles/sebeok.htm
6. La comunicazione non verbale nell'insegnamento dell'italiano a stranieri in prospettiva interculturale di prof.ssa Pierangela Diadori (Università per stranieri di Siena) in http://www.neticon.net/fra-noi/giugno2001/communicazione.html
7. Desmond Morris “Linguaggio muto, l’uomo e gli altri animali” Di Renzo, Roma, 2004,
Dialoghi scienza, pag. 96, cop.fle., dim. 140x210x8 mm, Isbn 88-8323-077-9
8. Francesca Musetti, Ascoltare con gli occhi; in www.ilmediario.it
9. Marco Pacori - Tuttoscienze n. 958, La Stampa, anno 135, n. 16 - 17.01.2001
10. Valentina Ristori, “A scuola di comunicazione non verbale” consultabile al seguente link:
http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=253&scat=255&arid=2068
11. Maura Santandrea “La comunicazione non verbale il linguaggio del corpo nella costruzione
dell’intersoggettività” consultabile al seguente link:
http://club.giovani.it/psicologica/item/la-comunicazione-non-verbale
12. http://espresso.repubblica.it/dettaglio-archivio/642615
13. http://muntu.altervista.org/percorsi/comunicazione/cnv.shtml
14. http://www.cidcnv.org/pagine/istituto/linguaggio_dei_segni.asp
15. http://www.linguaggiodelcorpo.it/
16. www.psychomedia.it
59
La casa della follia
G. Bellavitis
La tipologia architettonica dei reparti manicomiali, asilari o di custodia
ha un significato se noi assumiamo che esista una possibilità di intervento professionale per gli architetti nella manipolazione degli spazi che servono alla terapia e in particolare alla malattia psichiatrica.
E’ noto che l’intervento degli architetti nel progettare spazi manicomiali
è stato molto vasto specialmente agli inizi del ’900 quando c’è stata la
grande proliferazione dei manicomi in Italia. A quel punto tutto il filone
di ricerche iniziato con la psichiatria francese, tedesca, inglese, austriaca,
ebbe molta influenza da noi, specialmente in Italia settentrionale e questa mole di esperienze e teorizzazioni si tradusse in talune formule spaziali, sia sul piano architettonico, sia sul piano urbanistico.
Mi sono occupato di questi problemi lavorando con Franco Basaglia
prima a Gorizia e poi a Trieste. Quello di Trieste appartiene al gruppo
di ospedali costruiti intorno al 1910, ma con una storia un po’ anomala
perché, essendo la città all’interno di un’area molto influenzata dall’amministrazione, dalla cultura e dalla burocrazia austriaca, l’ospedale
ha conosciuto una sua particolare gestazione con inserimenti successivi. I malati sono stati infatti trasferiti prima in una torre, poi altrove
finchè si è elaborato il progetto nel 1902 e si è costruito il corpo di fabbrica nel 1908.
L’ospedale psichiatrico di Trieste, il san Giovanni, esprimeva una tipologia urbanistica molto precisa, funzionale alla concezione manicomiale
positivista del 1910 e i criteri sono gli stessi che rinveniamo in tutte le
strutture manicomiali coeve. Vi è un grande asse centrale, un’ordinata,
che spacca la popolazione che vi è ospitata in due, maschi a destra e femmine a sinistra, come peraltro all’epoca succedeva a scuola e in chiesa, e
questa è la prima spaccatura fondamentale che proibisce ogni possibilità
di comunicazione all’interno del sistema custodialistico. Poi abbiamo
l’ascisse, cioè delle sequenze orizzontali di edifici destinati all’osservazione, ai semi agitati, agli agitati, ai sudici, ai tranquilli.
60
Questa tipologia urbanistica è interessante perché codifica e materializza
l’escalation del percorso della follia verso la morte: di fatto, e non casualmente, alla fine c’è sempre la chiesa e la cappella funeraria. L’asse che
serve alla separazione per genere è anche quella che ospita le strutture
deputate all’esercizio del potere, su questo asse sono collocati gli uffici
della direzione, i locali delle cucine e la cappella.
E’ ovvio che una tale tipologia urbanistica ha dei riferimenti vastissimi e ben precisi ispirandosi nei villaggi coloniali, nelle organizzazioni
penitenziarie e in altre strutture finalizzate al controllo e alla custodia. A Triste, nel 1910, una tale impostazione severa e geometrica fornisce alla struttura manicomiale una denotazione molto precisa e inequivocabile.
Gli edifici che sostanziano questo schema così rozzo ed elementare e
nello stesso tempo così funzionante ed efficace, esibiscono un concetto di
tipologia quale si è modificato ed evoluto durante i tempi e le culture.
La tipologia, infatti, è sempre esistita. Esisteva la tipologia della fattoria
romana, come delle carceri, del circo o del teatro; la tipologia medioevale, conventuale; la tipologia di casa di lavoro, di casa di pena, di casa in
serie, di casa a schiera. La tipologia è sempre stata il denominatore comune per il dialogo fra l’architetto e la società.
Un tale disegno ha subito una evoluzione finchè dopo l’Illuminismo
venne attribuita alla tipologia una funzione di correttivo sociale, una funzione di intervento comportamentistico che lo faceva somigliare ad una
macchina. Oggi è ormai d’uso corrente parlare di “machine a guerir”, di
“machin a habiter”, di “machin a vendre”. Tuttavia che la costruzione edificata diventasse una macchina non solo per il proprio funzionamento
interno ma anche perché induceva degli effetti coatti in chi la abitava,
questa è una conseguenza dell’ideologia illuministica che nel manicomio
si sostanzia in modo particolarmente efferato. Occorre ricordare che le
carceri c’erano sempre state, mentre il manicomio costituisce la grande
utopia dell’800 e del ’900.
Infatti, se noi analizziamo le tipologie esistenti al san Giovanni di Trieste
assistiamo ad una interessante diversità tra i padiglioni destinati all’accettazione o all’osservazione in cui il rapporto tra stanza e corridoio permette comunicazione e mobilità con le stanze del personale medico e paramedico che si affacciano nello stesso corridoio dei degenti, e quanto succede nei padiglioni degli “agitati” progettati apposta per disaggregare gli
spazi, separare le persone, contenerle e controllarle.
61
Forse uno psichiatra potrà spiegare meglio il risultato che si ottiene limitando gli spazi, i collegamenti, le aperture, le finestre e le porte ed elevando limitazioni e barriere. E’ evidente che dal punto di vista architettonico tali costruzioni non sono edifici ma strumenti per il controllo,
nonostante il potere manipolativo che la cultura del nascente Novecento
ha esercitato sul lessico architettonico.
I padiglioni del san Giovanni di Trieste progettati dall’architetto Braidotti
sono anche formalmente piacevoli e si rifanno ad una scuola olandese di
architettura e in qualche modo risentono dell’influenza e degli studi di
F.L.Wright; sono costituiti da tetti piani con degli aggetti armoniosi e
interessanti, si tratta cioè di edifici che a prima vista assumono l’aspetto
di un ben progettato villaggio con architetture semplici. Ma nel momento in cui li andiamo ad esaminare cercando di spezzare questo “macchinismo” che hanno all’interno per liberare l’uso e la fruizione degli spazi,
ci si rende conto che non ha più senso farlo e allora conviene che le strutture siano demolite perché il costo e il lavoro per trasformarle sarebbe
nettamente superiore al vantaggio conseguito.
Ora, dalla tipologia del singolo edificio il discorso si dilata alla tipologia
del complesso. Il complesso del san Giovanni ha una pendenza sull’asse
longitudinale di circa 900 metri e insiste su un’area quasi uguale a quella del quartiere Teresiano che costituisce una parte importante di Trieste.
Il fatto che questa istituzione, nata per accogliere 450 malati, avesse la
stessa estensione di uno dei maggiori quartieri urbani di Trieste, induceva subito ad operare un confronto, direi in termini di responsabilità
amministrativa, di uso civile dello spazio, di coerenza urbanistica fra le
parti della città: un confronto tra modi diversi di usare il territorio.
Anzitutto la capienza: il san Giovanni progettato per 450 degenti è arrivato ad accoglierne 1200 a cavallo degli anni ’60-’70 con una incredibile
sproporzione fra lo spazio progettato e quello utilizzato. Tuttavia se volessimo con un’opera di profonda trasformazione intervenire introducendo
servizi, locali comuni, ambulatori e altro, la recettività diventerebbe inferiore anche a quella prevista dal progetto e dalla realizzazione originaria.
Quando abbiamo avviato il nostro lavoro il primo consiglio è stato quello
di suggerire il trasferimento di parte della sovrabbondante popolazione
manicomiale del san Giovanni verso i centri territoriali che stavano sorgendo in città. Come per molte altre strutture manicomiali italiane anche
per il san Giovanni un ammodernamento e una riutilizzazione della struttura originaria diventavano assai problematici. La posizione collinare che
62
all’inizio era stata considerata un vantaggio perché assicurava l’isolamento finiva per ostacolare ogni tentativo di disaggregare la struttura disarticolandola nel territorio e nel frattempo i terreni circostanti avevano assistito, come tutte le periferie, ad un assedio di costruzioni disordinate e
prive di politica urbanistica.
Si arrivava alla conclusione che gli ospedali psichiatrici, all’origine creati
come colonie di campagna, erano stati nel tempo aggrediti dal tessuto
urbano e pertanto il rapporto tra edifici-spazio-verde veniva completamente sovvertito. Anziché avere una colonia agricola in mezzo al verde ci
trovavamo una colonia agricola in mezzo alla città. Si aggiungeva il paradosso che il san Giovanni non era una colonia agricola ma una specie di
zoo urbano.
Si aggiunga che gli ospedali psichiatrici sono gestiti da enti pubblici abituati alla macchinosità, alla vischiosità della burocrazia, alla dispersione
delle competenze e al rallentamento delle decisioni.
L’alternativa al san Giovanni, ma non solo al san Giovanni, era tra il sacrificare i malati o il far saltare tutto. Chi sostiene oggi che la legge 180 ha
scardinato la struttura manicomiale dimentica un po’ che la situazione
era arrivata per molte ragioni al limite di rottura e di autodissoluzione.
Avendo visto quale è l’altra faccia della medaglia, in termini di reclusione e di affollamento disumano, sono un fermo sostenitore di questa legge
nonostante tutte le sue carenze.
Ferrara,1980
63
Note di uno psichiatra,
navigatore nel mare
degli uomini
U. Dinelli
Ci sono delle condizioni della mente umana che ne sono strutturali e
quindi vi abitano “da sempre e per sempre” anche se con aspetti cangianti e mutevoli per cui si può sostenere che siano appartenenti alla mente
umana, cioè specie-specifiche. Tra le altre possiamo annoverare gli stati
mentali costituenti la speranza, il desiderio di felicità, di salute, di benessere e di attesa verso il loro raggiungimento.
Si possono considerare dei principi, come la legge di gravità che fa cadere i corpi con l’accelerazione di 9.8, domiciliati tuttavia non nelle cose ma
negli individui, quindi soggettivi e personali. Poi, a seconda della sollecitazione verso il vero, il giusto e il buono, quindi verso l’istanza etica, questi principi si aggiustano e si adattano ma rimangono tuttavia presenti
sotto tutti i cieli, in tutte le epoche, filosofie, religioni, ideologie, regimi
politici con pluralità e diversità tuttavia minuscole rispetto al fondamento antropologico dell’istanza del benessere e della felicità.
Potremo dire che è un principio di natura su cui la cultura ha costruito
interpretazioni, appropriazioni e anche suggestioni che, se sono da
rispettare, sono tuttavia anche da verificare, e rigorosamente.
La Carta costituzionale degli Stati Uniti d’America, e anche altre Carte
fondanti come quella italiana, hanno recepito il diritto soggettivo alla felicità. Pur riconoscendolo come diritto di natura a radicamento istintuale,
la felicità è una condizione di benessere caratterizzata dal piacere legato
alla realizzazione di una esigenza antropologica. Nella dinamica che va
dal desiderio alla sua realizzazione, la felicità rivela il proprio carattere
circostanziale e situazionale, cioè si storicizza legandosi al tempo e allo
spazio, diventa materia delle opere e dei giorni.
64
Anche se, proprio perché istanza e principio naturale, l’istinto alla felicità travalica il tempo e può rivolgersi al passato idealizzato e intenerito
dalla nostalgia del ricordo soddisfacente e inviolabile, oppure al futuro
come proiezione e sublimazione limite. A seconda dei casi ci si può spingere sconfinando nel rimpianto oppure nella rassegnazione, nella credenza e nel mito.
I poteri hanno sempre cercato di espropriare i diritti individuali ponendoli sotto tutela (abbiamo conosciuto così il corpo oggetto delle religioni,
il corpo oggetto degli stati, il corpo oggetto della collettività e delle
amministrazioni) approdando solo nella modernità ad una concezione del
corpo oggetto del soggetto e quindi ad un istinto di felicità comune, condiviso, antropologico con un alto tasso di soggettività.
La felicità può essere pensata o sentita: nel primo caso si può incontrare
un eccesso di razionalismo e di speculazione, di gaia scienza onnipotente
e capace di risolvere qualsiasi problema, nel secondo caso una esagerazione di attesismo e rinvio a tempi e dimensioni non misurabili, e quindi
a dimensioni metafisiche e di utopia.
Per Albert Einstein il vero è ciò che resiste alla prova dell’esperienza.
Ernst Bloch ha dedicato 1600 pagine ai suoi tre volumi intitolati “Il principio di speranza” su cui ha incardinato la propria costruzione filosofica
come su un principio di Archimede o di Newton.
Il principio di speranza che apre verso la felicità e ne costituisce la fase
di latenza è tuttavia confinante con il rischio dell’infatuazione ideologica
e utopica. Le grandi promesse sono andate affievolendosi ed esaurendosi e l’uomo conciliato con il mondo e con le risposte ultime sembra
improbabile e inarrivabile. Mentre un approdo raggiungibile sembra
essere l’uomo conciliato intanto con se stesso e con i suoi simili senza
ingessature e tutele. Occorre, cioè, rivolgersi prima di tutto all’uomo. La
soluzione dei problemi dell’uomo sta nell’uomo.
Il mestiere di lanciare continue ipotesi su un futuro magari remoto può
anche uccidere la speranza del presente: e questa è un diritto come quello alla felicità. Le dittature si sono sempre nutrite a questa greppia.
Mentre l’insistenza miope sull’immanenza e sul realismo può essere
anch’essa fuorviante senza l’illuminazione della ragione e della conoscenza.
La caduta degli idoli non è la caduta degli ideali. L’ideale è una misura
umana, l’idolo è al di fuori della misura umana. C’è una ricchezza di senso
nella realtà, una povertà di senso nell’utopia. La speranza sta in equilibrio
pronta ad essere raccolta nelle braccia della realtà e dell’esperienza.
65
In attesa, se ci crediamo, di redenzione e salvezza, l’uomo sapiens è un
vecchio di tre milioni di anni e di inganni, proteggiamo la salute, la felicità della salute.
I desideri conservano la speranza, stimolano le opere, favoriscono gli
appagamenti, rivestono un carattere dinamico e trasformativo, costruiscono felicità. Proviamo ad interrogarci se la sofferenza mentale è fatta di
desideri insoddisfatti o di mancanza di desideri. Più grave è la malattia e
più assente sarà il desiderio.
Sarà sempre buona cosa che prima si dia il reale, poi il possibile. E’ l’artigianale metodo induttivo: quindi non più deduttiva dipendenza da un
ordine necessario, ma affermazione e cultura del principio di felicità, di
benessere, di piacere, di bellezza. Ciò costituisce una disposizione etica
primaria in una concezione di libertà senza costrizione di alcuno su
alcuno.
Guai quando il reale, cioè l’uomo e la natura, diventano prodotti di scarto delle utopie.
Mettere le ali all’utopia, all’ideologia, alla metafisica significa zavorrare la
storia con il piombo. Le utopie con i loro fallimenti e la loro indimostrabilità ci riportano alla culla comune della realtà.
Nei radicalismi e nei fondamentalismi qualcosa manca “etwas fehlt” e
occorre ancora bagnarsi con umiltà e misura, coraggio e speranza nella
realtà non per adattarsi ma per intervenirci e risolverla. Latenza, enigma,
mistero non sono abitanti del “qui e ora”.
Si può dire che l’uomo come costruttore di cultura è un’invenzione
recente, che cerchiamo di curare quella malattia chiamata uomo, ma,
fuori di enfasi, vivere tutto sommato è facile e semplice, altrimenti la specie si sarebbe estinta.
Dare un senso e una ragione ultima alla vita è una pretesa difficile, e allora ritorniamo al “qui e ora”.
Anche la paradossale eternità laica “la vita è una sola”, “Vissuto una volta
si è vissuto per sempre” mostra la corda. Ricordiamoci che anche l’oscurità del presente è la miniera dalla quale si estrae il materiale per far
sfrecciare alto il palazzo che ci riporta alla luce. Servono anche i cocci, i
frammenti, gli scarti. L’uomo che spera è leggero di trascendenza anche
se non trascende.
Attenzione allora anche alla regressione, ai ritorni all’indietro, all’innocenza, al primitivo, al magico e al “meraviglioso” che non è più. E’ meglio
che albeggi il giorno piuttosto che una dottrina o un’utopia. Il Novecento,
66
il secolo dell’odio, ci insegna con lacrime e sangue che se la razionalità
non può essere onnipotente, non deve esserlo neanche l’utopia.
I lineamenti fondamentali di un mondo migliore con doni di speranza, di
benessere, di felicità possono uscire dalla borsa degli attrezzi di quanti
possiedono quella benedetta o maledetta scheggia di potere con cui
intervenire e agire. Solo allora si libera una eccellenza di senso.
Se è sbagliato essere ottimisti, è ancora peggio essere ingenui.
L’inferno, come somma del male e della sofferenza, è scomparso grazie
all’illuminismo che l’ha cancellato dalle menti come materia ingombrante.
La nostra esperienza resta insatura, inappagata, ma consapevole del divenire e della finitudine della nostra vita. Il futuro è immateriale ma è fatto
di quel che si teme e di quel che si spera, e la felicità fruibile sta nel presente e sarà inversamente proporzionale alla povertà, all’ignoranza, all’ingiustizia, alle libertà negate, alle malattie, ai bisogni.
Possiamo scendere ora sulla crosta terrestre, nella quotidianità di un
uomo, uno psichiatra che incontra ogni giorno infelicità, dolore morale
insostenibile, il divorzio dalla vita, la disperante certezza di precipitare
nel delirio, l’uscita di strada che si impadronisce della vita umana troppo
a digiuno di felicità e ostaggio delle paura.
Mi riferisco a croci sulla strada della felicità come la schizofrenia, la
depressione, le psicosi, il ritardo mentale, l’aggressività, le compulsioni,
le condotte anticonservative e comportamentali.
Croci per chi ne soffre, per le famiglie, per la società.
Scopriremo che una buona psichiatria figlia di una cultura della prevenzione e dell’ascolto, della competenza e dell’intervento, significa una società
con meno omicidi e suicidi, con meno violenza degli uomini sulle donne e
degli adulti sui minori, meno bullismo nella scuola e meno teppismo allo stadio, meno droga e meno alcol, meno intolleranza e minor imbarbarimento.
E allora apriamo insieme questa borsa degli attrezzi.
Il diritto del cittadino alla salute ed al benessere mentale è sancito dalla
Comunità Internazionale e assicurato con compiutezza crescente dagli
interventi con cui si è cercato di promuoverne l’attuazione aldilà delle
scuole e dottrine ridisegnando strutture, professioni e comportamenti
che costituiscano gli elementi incardinanti la metodologia psichiatrica
mirando alla qualità della prestazione che deve essere visibile e apprezzabile in termini di capacità di erogare salute, miglioramento, gestione e
guarigione clinica, insomma restituzione.
67
E’ esperienza quotidiana e diffusa che se l’applicazione dei modelli
gestionali non interviene nei segmenti cruciali della prevenzione, dell’esordio, dell’acuzie, finirà per determinarsi un infoltimento impressionante ed ingovernabile di psicopatologia protratta e cronica con costi
umani e sociali insostenibili.
Lo snodo strategico consiste infatti nel promuovere interventi precoci,
differenziati, individuali, trasformativi puntati sull’esordio psicopatologico svelandone le forme latenti o mascherate per evitare il rischio di una
disperante cronicità destinata a gravare insopportabilmente e per sempre
su Paziente, famiglia, società.
La malattia mentale è diventata uno dei più potenti fattori di disabilità e
la disabilità esaurisce la domanda e l’assorbimento di risorse.
La Conferenza Ministeriale Europea sulla salute mentale (Helsinki,
2005) ha evidenziato che ad Oslo il 10% dei Pazienti era fruitore del
75% delle risorse, nel Connecticut il 15% assorbiva il 70% delle risorse,
in Italia il 28% della cosiddetta grande utenza esaurisce il 70% delle
disponibilità confermando la distorsione indicata negli studi internazionali. Non è tollerabile che gli acuti di oggi si trasformino nei cronici di
domani. La lotta fondamentale alla cronicità consiste anzitutto nel non
caderci dentro.
Occorre riportare al centro del sistema il Paziente psichiatrico, il
Paziente-esigente, con la sua malattia e la sua famiglia e la necessità che
siano fornite qui ed ora risposte percepibili e praticabili nella direzione
di restituirgli miglioramento, salute, reinserimento.
E’ una sfida che si nutre di una cultura di servizio, che si senta parte e
non totalità, che ascolti e non predichi, che mostri capacità di produrre
esiti visibili pesabili e misurabili, che sia capace di seguire il processo ma
anche di costruire il prodotto.
Disposizione, quindi, sensibilità, passione, attenzione a risolvere i problemi e a non rinviarli, vigilanza sui malati itineranti, sulla dromopsichiatria
dei trasferimenti, della porta girevole, della trasformazione in trans-istituzionalizzazione di quella che doveva essere de-istituzionalizzazione.
Vigilanza puntata su violenza, aggressività, suicidi, Tso, contenzioni, contaminazioni giudiziarie e Opg, reazioni avverse, dispersioni e persi di
vista, esposizioni delle aree di rischio e criticità.
Una responsabilizzazione nei processi produttivi impronta necessariamente anche eticamente la responsabilizzazione nei processi diagnosticoterapeutici-decisionali (il vero, il giusto, il buono).
68
Allora le risorse saranno forbici meno divaricate rispetto ai bisogni e la
resilienza un vantaggio meno trascurato e sconosciuto.
L’appropriatezza degli interventi negli spazi giusti e per i tempi necessari si traduce in miglioramento certo degli esiti offrendo una prospettiva
nuova e incoraggiante alla gestione della psicopatologia e dell’handicap.
La salute ed il benessere mentale sono condizioni essenziali alla qualità
della vita e pertanto la loro promozione e difesa sono necessarie allo sviluppo e all’equilibrio della società.
Tale proposizione costituisce un sicuro investimento sul quale intervenire sviluppando programmi di sensibilizzazione e di informazione diffusi
e permanenti.
L’accesso alle cure è un diritto, favorire interventi appropriati con esiti
soddisfacenti e restituzione è un dovere.
Ogni mattina devo dimenticarmi di essere uno psichiatra con sulle spalle una storia di oscurantismo, roghi, illuminismo, positivismo, lazzaretti, campi di sterminio, manicomi, e cercare di essere saggio come ogni
uomo deve essere, abile come un artigiano, pratico e sapiente come uno
scienziato.
69
Problemi in psichiatria
1
L. Covolo
P. i. P.
P. i. P.
U. Dinelli
P. i. P.
U. Dinelli
2
P. i. P.
U. Dinelli
M. Polo
P. i. P.
D. Labozzetta
R. Milani G. Mottola
M. Mascolo
U. Dinelli
3
P. i. P.
G. Sogliani
U. Dinelli
F. De Pieri
P. i. P.
4
F. De Lorenzo
M. Cibin V. Zavan
U. Dinelli
5
P. i. P.
U. Dinelli
M. Mascolo
M. De Vanna M.L. Ronchese
Psichiatria e società
Il camice e le ortiche
Lettera ad una madre
Sorella morte
La scatola nera
Schizofrenia, appuntamento mancato con l'orologio
della vita
Salsominore
Credenze, sette, psicopatologia
Il razionale psichiatrico
La psichiatria divorzia
La psichiatria dell'8 settembre
Il fiore che uccide
Il tramonto sul cervello
Un’alternativa terapeutica nella patologia demenziale
Elogio della follia
Nessun dorma
Psichiatria amarcord
Il cervello ozioso
I passeri della società
La santa anoressia
Elogio della follia
Pietà l'è morta
La vigna del signore
Si nasce o si diventa?
Elogio della follia
Colpo di sole
L’età libera
Memoria e cognitività nel vecchio
Quando scende la notte
70
6
P. i. P.
U. Dinelli
F. De Grandis
Fumeria d’oppio
L’ombra schizofrenica
La parola alata
Elogio della follia
7
G. Moriani
P. i. P.
D. Goldoni G. Moriani
U. Dinelli
Il cervello alla sbarra
Scacco matto al neurone
Una mente per l’ecologia
Una ecologia per la mente
8
U. Dinelli
Un cuore in inverno
9
P. i. P.
E. Aguglia R. D'Aronco
U. Dinelli
E. Burgio
Cassonetto Italia
Trieste tra psicoanalisi, territorio e biologia molecolare
Fuori le prove, dottor Freud!
Lontano da qui, nostalgia mito modernità
10
P.Pietrini A.Gemignani M.Guazzelli
U. Dinelli
E. Burgio
Sulla lateralizzazione emisferica cerebrale
L’altra metà del cielo
Una deplorevole confusione di sentimenti
11
U. Dinelli G. Ronca
G. Tononi
M. Guazzelli
G. Ronca
P. Pietrini
A. Lattanzi
E. Burgio
M.L. Zardini
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Per un modello interpretativo della mente
Depressione: arcipelago o continente?
Le scienze di base nello sviluppo della psichiatria
La qualità
Sulla materia della mente
Immaginazione collettiva, contagio e “sistemi esperti”
Dall’ospedale alla famiglia: la psichiatria fatta in casa
12
A. Bertolino D.R. Weinberger
M. Guazzelli I. Guerrini G. Nelli
D. Mainardi
I. Guerrini G. Nelli G. Giovacchini
P. Panicucci
E. Ottavini A. Conte
Fisiopatologia della schizofrenia e sviluppo del cervello
L’alcolismo nella prospettiva psichiatrica
Dissonanza tra evoluzione biologica e culturale
Studio clinico biologico della familiarità nella
dipendenza
Il macrofago uno dei principali attori dell'omeostasi
71
E. Burgio
A. Gobetti
P. Sortino
13
A. De Bartolomeis
R. Massarelli A. Gemignani
M. Guazzelli
P. Pietrini M.L. Furey
G. Moriani
M. Galzigna
U. Dinelli
E. Burgio
E. Canger
14
E. Balaban
M. Guazzelli I. Guerrini
G. Giovacchini
M.C.E. Maschio M.Diomedi F.Placidi
M.Valente M.Zamagni G.L. Gigli
E. Mutani M. Zibetti
G. Moriani
P. Zoffoli
E. Falchi
15
A. Dani S. Berettini F. Scarpa
E. Panicucci
M. Guazzelli M.L. Monosi E. Ricciardi
M. De Vanna M. Carmignani E. Aguglia
C.A. Madrignani
M. Bertani
M. Sarà
U. Dinelli
R. Cammilleri
16
A. Berti
U. Dinelli P. De Marco S. Sartorelli
L. Palagini L. Giuntoli P. Panicucci
P. Ardito M. Guazzelli
L. Rizzi
Tristano, l’arvicola di prateria e “l’errore di Cartesio”
Scasso dei palistorti
La psichiatria da vicino
Plasticità neuronale ed espressione genica
Immagini della mente
Variante visiva della malattia di Alzheimer
Il sapere uncinato
Gli archivi della follia, utilità di un approccio storico
Le colonne d’Ercole
Vita d’artista
Epilessia non è follia
Un nuovo approccio allo studio dell’istinto
Ansia e depressione: punti o linea?
Il trattamento dell’insonnia con antidepressivi
Il fenomeno “kindling” dall’epilessia alla psicopatologia
Psichiatria e potere: il caso sovietico
Il nonsense: un mondo sospeso tra logos e caos
Condizionamento software sull’uomo
Follia e giustizia, l’O.P.G.
Intelligenze naturali, intelligenze artificiali
Etica e ricerca psicofarmacologica
Condotte suicidarie e disturbi mentali
Marginalia
Foucalt e la psicoanalisi
Interazione fra ambiente, citoplasma e genoma
L’anello mancante
Lo psichiatra e le streghe
Sessualità: compromesso tra perversione pulsionale e
norma culturale
Mortalità e attesa di vita come strumento di valutazione gestionale in psichiatria
Trattamento integrato della cronicità psichiatrica
La conoscenza del linguaggio
72
E. Burgio
P. Zoffoli
17
E. Rasore U. Menichini F. Giberti
I. Feinberg M. Guazzelli
Medici, guaritori e ciarlatani
I contraccolpi della deformità fisica
In tema di psichiatria e medicina di base
Modello neurobiologico delle allucinazioni e
del pensiero schizofrenico
E. Aguglia P. Peressutti A. Riolo
A. Battista F. Franza
P. i. P.
E. Burgio
C. Madrignani
I disturbi somatoformi, un approccio complesso
Burn-out e assistenza psichiatrica
La vita secondo Luc Montagnier
Sosia, nostro contemporaneo
De te fabula agitur
18
S.Pallanti L.Quercioli R.Di Rubbo M.Francardi
G.F. Azzone
M. De Vanna F. Bin R. Zaina
I. Almaric
P. Pellegrini M. Zirilli
E. Burgio
U. Dinelli
F. De Grandis
Studio sullo spettro ossessivo-compulsivo
L'etica medica tra scienza, morale e diritto
Psicopatologia e alcool, un inseguimento infinito
Il rasoio diagnostico nell’esordio psicotico
Clozapina e schizofrenia resistente
Il sogno di Jean Diaz
Nuovi saperi crescono
Pillole o parole
19
C.L. Bensch
R. Torta A. Cicolin R. Mutani
C. Di Clemente
U. Dinelli
C. Madrignani
E. Burgio
U. Dinelli
Etologia del gioco
Depressione e sclerosi multipla
Gli stadi del cambiamento nella dipendenza
La psichiatria dei castori
Fra il dire e il fare ovvero “la didattica”
L’incerta identità di Arthur Derwin
La bottega della psichiatria
20
D. Williams
R. Torta A. Cicolin R. Mutani
P. Pellegrini P. Gaibazzi
S. Regazzoni
M. Lejoyeux J. Adès
E. Burgio
U. Dinelli
C. Samonà
Il mio e il loro autismo
Sclerosi multipla: il problema cognitivo
Schizofrenia e sofferenza somatica
Jorge Luis Borges: l’io e l’altro
Il gioco d’azzardo patologico epidemiologia e
biologia
“Siamo tutti in pericolo”
Il cervello e la sua complessità
Fratelli
73
21
S. Pallanti L.Quercioli E. Sogaro
E. Massarelli A. Geminiani
A. Baita A. Pes B.Carpiniello
E. Rasore U. Menichini
U. Dinelli
G. Bernanos
Psico-pato-logia: il fenomeno del daydreaming
Dalla conoscenza alla comprensione della natura
Depressione e qualità soggettiva di vita
La realtà sociale del paziente psichiatrico
Il secolo della psicoanalisi
Diario di un curato di campagna
22
M. Guazzelli P. Panicucci
M. De Vanna
M. Schiavone
I. Gasquet
A. Jeanneau M. Rufo
E. Burgio
U. Dinelli
S. Vassalli
Benzodiazepine tra sospensione e ricaduta
La depressione al femminile
Etica e psichiatria/1
Epidemiologia dei disturbi depressivi
Clinica della depressione nell’adolescente
L'anno prossimo a Lourdes
Sindromi paucisintomatiche e sdifferenziazione cerebrale
Marco e Mattio
23
M. Giacometti
P. Dolso G.L. Gigli
E. Rasore U. Menechini M. Mollica
G. Sciaccaluga F. Gabrielli
M. Polo
E. Burgio
G. Moriani
S. Dionisio M. Guazzelli
P. McGrath
24
D. Susanetti
S. Pallanti L. Quercioli A. Pazzagli
I. Siri E. Badino C. Gambarino R. Torta
P. Pellegrini
G. Moriani
25
M. Guazzelli
G. Giovacchini M. Guazzelli
P. Pietrini
D. Susanetti
P.i.P.
S. Bertoli P. Pellegrini M. Gatti
M. Zirilli
Le emozioni tra cognitivismo e psicoanalisi
Ipersonnia e dintorni
Aspetti psicosomatici della voce
L’etnopsichiatria in Mozambico
Il senso della memoria
La via nazista al salutismo
Odore di sesamo
Follia
Il teatro tragico della mania
Ansia sociale, disturbi di personalità e clozapina
Psiconcologia oggi
Schizofrenia resistente: contributi psicodinamici
Autoingannarsi per sopravvivere?
Dieci inverni dieci primavere
Le basi biologiche del decadimento cognitivo
La mente e il giorno
L’arcipelago della spesa psichiatrica
Costi e redditi in schizofrenia
74
F. Moscato L. Luise U. Menichini E. Rasore
U. Dinelli
E. Burgio
F. Battaglia
S. Vassalli
L’approccio integrato al paziente psicotico
Dieci anni e un libro
In puntuale ritardo
Karl Jaspers
La notte della cometa
26
B. Luban-Plozza
C. Beltrame G. Moriani M. Polo
U. Dinelli
G.M. Raimondi
U. Dinelli
D. Orlandi
E. Da Rotterdam
Balint, tra psicoanalisi e medicina
I frutti puri impazziscono: etnopsichiatria e
dintorni
Tra Kant e Hegel, filogenesi della coscienza
Sulla psichiatria della scelta
La cultura del narcisismo
Elogio della follia
27
G. Pasqualotto
R. Polano
G.M. Raimondi
G. Collot
S. Voltolina
P. Pellegrini R. Baroni D. Pizzo
U. Dinelli
F. Dostoevskij
28
E. Gamba R. Torta
U. Dinelli
A. Giuffrida
S. Parpajola R. Vinciarelli C. Viti
U. Dinelli
R Baroni P. Pellegrini
F. Franza
S. Voltolina
29
P.i.P.
F. Ricciardi M.L. Furey E. Pani
M. Guazzelli P. Pietrini
R. Bonito Oliva
L. Orsi P. Mortara P. Caroppo C. Manzone
R. Mutani
U. Dinelli
Percorsi malinconici tra oriente ed occidente
Prove tecniche di psicoterapia di gruppo con
adolescenti
Oltre l’intelletto Kantiano
La struttura del linguaggio e la comunicazione
Della perduta Medea
Studio retrospettivo sugli utenti
Schizofrenia oggi
L’idiota
Anoressia santa e anoressia nervosa
La ferita della psichiatria
Il corpo pensante
Studio di riabilitazione applicata
Dal lavoro di gruppo al gruppo di lavoro
Studio clinico sulla fobia sociale
Del bambino che gioca
In memoria
Nuove metodologie di esplorazione del cervello
Il sonno della filosofia
Cervelletto e cognitività
Isteria, una bugia?
75
AA. VV.
G. Pontiggia
La febbre gialla
Nati due volte
30
S. Pellegrini
M. Giacometti
S. Martinuc U. Dinelli
D. Merigliano
M. Lovrecic
M. Guazzelli
U. Dinelli
La biologia molecolare nello studio della psicopatologia
Una malattia della volontà, l’abulia
La logica della scoperta scientifica
L’approccio costruttivista all'utilizzo del sogno
Le basi biologiche delle dipendenze
La psicoterapia della Crisi Emozionale
Gerald M. Edelman
31
M. Tocchet
M. Michieletto
A. Bani, M. Miniatti
La pagina
U. Dinelli
Strumenti mediatici e psicopatologia
Morfologia del disturbo dislessico
Suicidio: comunicazionee dissimulazione
Levar la mano su di sè
I maestri della mente, Jerri A. Fodore
32
D. Susanetti
G. Perugi, G. Tusini,
A. Nassimbeni, H.S. Akiskal
U. Dinelli
A. Manelli, F. Fermi
P. Pellegrini
U. Dinelli
G. Berto
Nuvole, tra immaginazione e malinconia
Spettro bipolare e sindromi cliniche associate
La contaminazione giudiziaria della psichiatria
Una storia di riabilitazione
Pet Therapy in psichiatria
I maestri della mente, Michael S. Gazzaniga
Il male oscuro
33
G. Minichiello
M. Giacometti
C. Forcolin
R. Roberti
S. Voltolina
U. Dinelli
G. Flaubert
Dal lazzaretto al manicomio: M. Foucault
Temperamento carattere personalità, un percorso storico
L’impatto del divorzio sui figli
Psichiatria, demenze e bioetica
Di chi ama e fa ciò che vuole
I maestri della mente, Irenaus Eibl-Eibesfeldt
Madame Bovary
34
F. Nicolai
P. Pellegrini
G. Minichiello
C. Viti, S. Parpajola, U. Dinelli
M. Clement, C. Verdot, R. Massarelli
Per un modello neurale del linguaggio
Qualità della vita, dei servizi, delle relazioni
Il dionisiaco giovanile
La linea d’ombra: credenze, superstizioni, esorcismi
L’attività fisica in detenzione
76
Anonimo
F. Battaglia
M. Guazzelli
35
C. Gentili, L. Palagini,
S. Pellegrini, M. Guazzelli
L. Roscioni
E. Ricciardi, C. Gentili,
N.V. Watson, P. Petrini
M. Guazzelli
G. Arina
S. Voltolina
L. Pirandello
Fondazione Ravasi
Di qua e di là del muro
Psicopatologia e fenomenologia jaspersiana
Viaggio nel cervello linguistico
Insonnia e depressione: evidenze per un nuovo
atteggiamento dello pschiatra
Utopia e cura: l’internamento manicomiale
Verso la comprensione delle differenze di genere
Cerami e la sindrome di Tourette
Il governo della follia
Di Leuconoe che ha perso i colori che ha
La signora Frolle il signor Ponza, suo genero
La carta delle direttive anticipate: prove tecniche di
testamento biologico
36
P. Bianco, U. Dinelli
F. Nicolai
A. Battista, U. Dinelli, F. Franza
Per uno statuto di qualità in psichiatria
Parlare e non dire. Dire e non parlare
Valutazione di esito e switching con antipsicotici
37
U. Dinelli
N. Sferco
A. Frasson
G. Bettetini
L. Rossi
QI: Quoziente di Intelligenza o Questione Intrigante
La malleabilità del Quoziente d’Intelligenza
Otto Kernberg: lettura critica
Dal neurone alla rete: i modi della comunicazione
Le componenti degli atteggiamenti interetnici
38
M.S. Angeletti
U. Dinelli
G. Del Puente, F. Pezzoni
Dichiarazione di un re
S. Voltolina
39
M. Cusinato
W. Colesso
M. Guazzelli, C. Gentili
R. Bonito Oliva
A. Frasson
Sintomi in cammino verso la schizofrenia
Il Gene agile
Ataque de nervios, uno studio transculturale
Storia dell’Hopital general (1662) alle origini della
cura morale
Di chi cammina con i piedi per terra e la testa per aria
Lo stato degli studi sull'alcolismo: la frattura tra
ricerca e clinica
La competenza relazionale dei soggetti alcolisti
Identità e riconoscimento: dalla psicologia alle
neuroscienze
Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli
Diagnosi e trattamento dell’alcolismo
La ragion di stato, lo stato che perde la ragione
77
40
M. Mazzonetto, U. Dinelli
P. Pellegrini
j. Attuil
U. Dinelli
S. Voltolina
Ritardo mentale e integrazione
La buona pratica in salute mentale
Il sistema psichiatrico italiano
Elogio alla critica
Di Ione che viene
41
F. Nicolai
A. Giavedoni, F. Molfino,
F. Zappoli Thyron
F. Aquino
U. Dinelli
A. Tabucchi
Noi e l’altro
Un eccesso di somiglianza: riflessioni su un gruppo
di pazienti bulimiche
Alcol e interessi economici: chi detta davvero le regole?
Psicopatologia e sacro
Voci
42-43
F. Agresta
F. Pellegrino
P. Nadin
F. Franza
Un irripetibile incontro culturale
Boris Luban-Plozza e le abilità emotive del medico
Il legame affettivo con i luoghi nella psicologia ambientale dell’invecchiamento
Un quadro osservazionale del trattamento a lungo
termine con aripiprazolo sulla sindrome metabolica
IONE
2a EDIZ
Problemi
in psichiatria
Il fine è l’uomo, il principio la terra
Hanno scritto questo numero
K. Aquino,
Medico, Casa di Cura “Villa dei Pini”, Avellino
G. Bellavitis,
Architetto, Venezia
U. Dinelli,
Direttore di “Problemi in psichiatria
P. Nadin,
Psicologo, facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Padova
S. Spensieri,
Psichiatra, Associazione Frantz Fanon (Torino),
Ser.T. ASL 4 Chiavarese (Ge)
L. Valentini,
Assistente Sociale, Comunità terapeutica “Un’Occasione”
(Sestri Levante - Ge)
4408
1. DENOMINAZIONE DELLA SPECIALITÀ SOLIAN 200 mg COMPRESSE - SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE 2. COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA Ogni compressa contiene: SOLIAN 200 mg
COMPRESSE Principio attivo: amisulpride 200 mg. Ogni compressa rivestita contiene: SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE Principio attivo: amisulpride 400 mg. Per gli eccipienti vedere sez. 6.1 3. FORMA FARMACEUTICA SOLIAN 200 mg COMPRESSE: 30 compresse divisibili dosate a 200 mg di principio attivo, per
uso orale. SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE: 30 compresse rivestite divisibili dosate a 400 mg di principio attivo, per uso orale. 4. INFORMAZIONI CLINICHE 4.1 Indicazioni terapeutiche Solian è indicato per il
trattamento dei disturbi psicotici acuti e cronici nei quali i sintomi positivi (come delirio, allucinazione, disturbi del
pensiero) e/o sintomi negativi (come appiattimento dell’affettività, ritiro emotivo e sociale) sono prevalenti, includendo pazienti caratterizzati da sintomi negativi predominanti. 4.2 Posologia e modo di somministrazione
Negli episodi psicotici acuti si raccomanda dosi comprese fra 400 e 800 mg/die. In alcuni pazienti la dose giornaliera può essere aumentata fino a 1200 mg/die. La sicurezza d’impiego di dosi superiori a 1200 mg/die non è
stata valutata in modo definitivo; tali dosaggi sono pertanto sconsigliati. Non è richiesto un incremento progressivo della dose all’inizio del trattamento con SOLIAN. Le dosi devono essere adattate secondo la risposta individuale. Nei pazienti con sintomi misti positivi e negativi, le dosi devono essere adattate per ottenere il
controllo ottimale dei sintomi positivi. La terapia di mantenimento deve essere stabilita individualmente sulla
base della dose minima efficace. In pazienti caratterizzati da sintomi negativi predominanti sono raccomandate dosi comprese tra 50 e 300 mg/die. Le dosi devono essere adattate secondo la risposta individuale.
Per dosi di SOLIAN superiori a 400 mg la somministrazione deve essere suddivisa in due assunzioni giornaliere.
Pazienti anziani: SOLIAN deve essere impiegato con particolare attenzione per il possibile rischio di ipotensione o sedazione. Solian è controindicato nei bambini fino alla pubertà, non essendone stata ancora accertata la sicurezza d’impiego. Insufficienza renale: l’amisulpride viene eliminata per via renale. Nell’insufficienza
renale il dosaggio deve essere ridotto alla metà in pazienti con clearance della creatinina compresa fra 30 e 60
ml/min e ad un terzo in pazienti con clearance della creatinina compresa tra 10 e 30 ml/min. Poichè non vi è esperienza in pazienti con insufficienza renale grave (clearance della creatinina inferiore a 10 ml/min) si raccomanda
particolare cautela in questi pazienti (vedere sez. 4.4). Insufficienza epatica: non dovrebbe essere necessaria
una riduzione del dosaggio dal momento che il farmaco viene scarsamente metabolizzato. 4.3 Controindicazioni
Ipersensibilità al principio attivo, o uno qualsiasi degli eccipienti ed a sostanze strettamente correlate. Concomitanza di tumori prolattino-dipendenti come ad esempio i prolattinomi dell’ipofisi e i tumori mammari. Feocromocitoma. Bambini fino alla pubertà. Gravidanza e allattamento. In donne in età fertile che non usino adeguati
mezzi contraccettivi. (vedere sez. 4.6). Associazione con i seguenti farmaci, per la possibile insorgenza di torsioni
di punta: - antiaritmici di classe Ia quali chinidina, disopiramide; - antiaritmici di classe III quali amiodarone, sotalolo; - altri farmaci quali bepridil, cisapride, sultopride, tioridazina, metadone e.v., eritromicina e.v., vincamina
e.v., halofantrina, pentamidina, sparfloxacina. Associazione con levodopa (Vedere sez. “Interazioni”). 4.4 Speciali
avvertenze e precauzioni per l’uso Come con altri farmaci neurolettici, può manifestarsi un insieme di sintomi
denominato sindrome neurolettica maligna, caratterizzata da ipertermia, rigidità muscolare, instabilità del sistema
autonomo e CPK elevata. In caso di ipertermia, in modo particolare quando le dosi giornaliere sono elevate, si
consiglia di sospendere la somministrazione di qualunque farmaco antipsicotico, compreso amisulpride. Amisulpride viene eliminato per via renale. In caso di insufficienza renale la dose deve essere ridotta o può essere
prescritto un trattamento intermittente (vedere sez. 4.2). Amisulpride può abbassare la soglia epilettogena. Pertanto i pazienti con anamnesi positiva per episodi epilettici dovranno essere controllati attentamente durante la
terapia con amisulpride. Come per tutti i farmaci neurolettici, amisulpride deve essere usato con particolare cautela nei pazienti anziani per il possibile rischio di ipotensione o sedazione. Come nel caso di altri dopamino-antagonisti, è richiesta particolare cautela nella prescrizione di Amisulpride in pazienti parkinsoniani, in quanto il
farmaco può causare un peggioramento della malattia. Amisulpride deve essere utilizzato soltanto quando il trattamento neurolettico non può essere evitato. La soluzione orale non deve essere bevuta in un liquido che contiene alcol. In pazienti trattati con alcuni antipsicotici atipici, fra cui amisulpride, è stata osservata iperglicemia.
Pertanto i pazienti con diagnosi certa di diabete mellito o con fattori di rischio per diabete dovranno essere sottoposti a un appropriato monitoraggio glicemico se in terapia con amisulpride . Eventi cerebrovascolari In studi
clinici randomizzati versus placebo condotti in una popolazione di pazienti anziani con demenza trattati con alcuni antipsicotici atipici è stato osservato un aumento di circa tre volte del rischio di eventi cerebrovascolari. Il
meccanismo di tale aumento del rischio non è noto. Non può essere escluso un aumento del rischio per altri antipsicotici o in altre popolazioni di pazienti. Solian deve essere usato con cautela in pazienti con fattori di rischio
per stroke. Prolungamento dell’intervallo QT Usare con cautela nei pazienti con malattie cardiovascolari o con
una storia familiare di prolungamento QT. Evitare una terapia concomitante con altri neurolettici. Amisulpride determina un prolungamento dose-dipendente dell’intervallo QT( vedere sez.4.8). È noto che questo effetto aumenta il rischio di aritmie ventricolari gravi, quali torsioni di punta. Prima della somministrazione e, se possibile,
in funzione dello stato clinico del paziente, si raccomanda il monitoraggio dei fattori che potrebbero favorire l’insorgenza di tale disturbo del ritmo, quali ad esempio: - bradicardia inferiore a 55 battiti al minuto; - squilibrio elettrolitico, in particolare ipokaliemia; - intervallo QT prolungato congenito o acquisito; - trattamento in corso con
farmaci in grado di indurre marcata bradicardia (<55 bpm), ipokaliemia, diminuzione della conduzione intracardiaca o prolungamento dell’intervallo QTc (vedere sez. 4.5). SOLIAN compresse e SOLIAN compresse rivestite
contengono lattosio; non sono quindi adatte per i soggetti con deficit di lattasi, galattosemia o sindrome
da malassorbimento di glucosio/galattosio. 4.5 Interazioni con altri medicinali ed altre forme di interazione Quando i neurolettici sono somministrati in concomitanza con farmaci che prolungano il QT il rischio di insorgenza di aritmie cardiache aumenta. Associazioni controindicate Farmaci in grado di provocare torsioni di
punta: - antiaritmici di classe Ia, quali chinidina, disopiramide; - antiaritmici di classe III, quali amiodarone, sotalolo; - altri farmaci quali bepridil, cisapride, sultopride, tioridazina, metadone e.v., eritromicina e.v. vincamina e.v.,
halofantrina, pentamidina, sparfloxacina. Levodopa: antagonismo reciproco degli effetti tra levodopa e neurolettici. Non somministare in concomitanza con farmaci che determinano alterazioni degli elettroliti, come ad
esempio farmaci che provocano ipokalemia quali diuretici ipokalemici, lassativi stimolanti, amfotericina B e.v., glicocorticoidi, tetracosactidi. Associazioni sconsigliate Amisulpride, può aumentare gli effetti centrali dell’alcol.
Farmaci che aumentano il rischio di torsioni di punta o possono prolungare il QT: - farmaci che inducono bradicardia: beta-bloccanti, bloccanti del canale del calcio quali diltiazem e verapamil, clonidina, guanfacina; digitalici; - neurolettici quali pimozide, aloperidolo, antidepressivi imipraminici, litio. Associazioni da considerare con
attenzione: - Farmaci depressivi del SNC compresi narcotici, anestetici, analgesici, sedativi anti-istaminici H1, barbiturici, benzodiazepine e altri farmaci ansiolitici, clonidina e derivati; - Farmaci anti-ipertensivi e altri preparati
ipotensivi. 4.6 Gravidanza e allattamento Gravidanza Negli animali, l’amisulpride non ha evidenziato una tossicità diretta sulla funzione riproduttiva. È stato osservato un calo di fertilità legato agli effetti farmacologici del
farmaco (effetto mediato dalla prolattina). Non sono stati o:servati effetti teratogeni. I dati clinici di esposizione
al farmaco in gravidanza sono molto limitati. Pertanto l’innocuità di amisulpride durante la gravidanza non è stata
accertata nella specie umana. L’uso in gravidanza non è raccomandato a meno che il beneficio atteso giustifichi i rischi potenziali. Se amisulpride è somministrato durante la gravidanza il neonato può manifestare effetti indesiderati da farmaco; un appropriato monitoraggio deve quindi essere preso in considerazione Allattamento Non
è noto se amisulpride venga escreto nel latte materno; pertanto l’uso durante l’allattamento al seno è controindicato. 4.7 Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari Anche quando impiegato secondo
quanto raccomandato, SOLIAN può causare sonnolenza e quindi compromette la capacità di guidare autoveicoli o di utilizzare macchinari. 4.8 Effetti indesiderati Gli effetti collaterali sono stati ordinati in classi di frequenze,
utilizzando la seguente convenzione: molto comuni (> 1/10); comuni ( > 1/100; < 1/10); non comuni (> 1/1000; <
1/100); rari ( > 1/10.000; < 1/1.000); molto rari (< 1/10.000); frequenza non nota ( non può essere stimata in base
ai dati disponibili). Dati da Studi Clinici I seguenti effetti collaterali sono stati osservati in studi clinici controllati.
Si deve notare come in alcuni casi può essere difficile distinguere gli eventi avversi dai sintomi della sottostante
malattia. Disturbi Sistema Nervoso Molto comuni: Possono comparire sintomi extrapiramidali come: tremore, rigidità, ipocinesi, ipersalivazione, acatisia, discinesia. Questi sintomi sono generalmente lievi ai dosaggi ottimali
e parzialmente reversibili con la somministrazione di farmaci antiparkinson, anche senza la sospensione di amisulpride. L’incidenza di sintomi extrapiramidali, correlata alla dose, rimane estremamente bassa nel trattamento
di pazienti con sintomi negativi predominanti, a dosi comprese fra 50 e 300 mg/die. Comuni: Può comparire distonia acuta (torcicollo spasmodico, crisi oculogire, trisma), che è reversibile con la somministrazione di un farmaco antiparkinson, anche senza sospendere la terapia con amisulpride. Sonnolenza. Non Comuni: È stata
riportata discinesia tardiva caratterizzata da movimenti ritmici involontari prevalentemente a carico della lingua
e/o del viso, solitamente in seguito a somministrazione protratta di SOLIAN. Il trattamento con farmaci antiparkinson è inefficace o può indurre l’aggravamento dei sintomi. Convulsioni. Disturbi Psichiatrici Comuni: Insonnia, ansia, agitazione, anomalie dell’orgasmo. Disturbi Gastrointestinali Comuni: stipsi, nausea, vomito, secchezza
delle fauci, dispepsia. Disturbi Endocrini Comuni: Amisulpride causa un aumento dei livelli di prolattina plasmatica reversibili dopo la sospensione del farmaco. Tale aumento può essere associato alla comparsa di galattorrea, amenorrea, ginecomastia, mastodinia e disfunzione erettile. Disturbi Metabolici e Nutrizionali Non comuni:
Iperglicemia (vedere se. 4.4). Disturbi Cardiovascolari Comuni: ipotensione. Non Comuni: bradicardia e palpitazione. Esami di laboratorio e antropometrici Comuni: aumento di peso. Non Comuni: innalzamento degli enzimi
epatici soprattutto transaminasi. Disturbi Sistema Immunitario Non Comuni: Reazioni allergiche. Dati da postmarketing Le seguenti reazioni avverse sono state riportate solo come segnalazioni spontanee: Disturbi del Sistema Nervoso: frequenza non Nota: Sindrome Neurolettica Maligna (vedere sez. 4.4). Disturbi Cardiaci: sono stati
osservati con Solian o altri farmaci della stessa classe: - casi rari di prolungamento del QT, aritmie ventricolari
come torsione di punta, tachicardia ventricolare, fibrillazione ventricolare ed arresto cardiaco; - casi molto rari di
morte improvvisa. 4.9 Sovradosaggio L’esperienza di casi di sovradosaggio con amisulpride è limitata. Sono stati
riportati sintomi da accentuazione dei noti effetti farmacologici del farmaco quali sonnolenza o sedazione, coma,
ipotensione e sintomi extrapiramidali. In caso di sovradosaggio acuto occorre considerare la possibilità di assunzione di più farmaci. Dal momento che amisulpride è scarsamente dializzabile, per eliminare il farmaco l’emodialisi non è utile. Non esiste un antidoto specifico per amisulpride; pertanto devono essere istituite misure di
sostegno adeguate e si raccomanda una supervisione attenta delle funzioni vitali: continuo monitoraggio cardiaco
(rischio prolungamento intervallo QT) fino a quando il paziente non si sia stabilizzato. In caso si manifestino gravi
sintomi extrapiramidali somministrare farmaci anticolinergici. 5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE 5.1 Proprietà
farmacodinamiche Categoria farmacoterapeutica: Psicolettici, benzamidi - Codice ATC: N05AL05 L’amisulpride si lega selettivamente con elevata affinità ai sottotipi di recettori dopaminergici umani D2/D3, mentre è
priva di affinità per i sottotipi di recettori D1, D4 e D5. Diversamente dai neurolettici classici e atipici, l’amisulpride
non possiede alcuna affinità per i recettori serotoninergici, alfa-adrenergici, H1-istaminergici e colinergici. Inoltre
non si lega ai siti sigma. Nell’animale, a dosi elevate, l’amisulpride blocca preferenzialmente i recettori D2 postsinaptici situati nelle strutture limbiche rispetto a quelli situati nel corpo striato. A differenza dei neurolettici classici, non induce catalessi e non determina ipersensibilità dei recettori D2 anche dopo trattamenti ripetuti. A basse
dosi blocca preferenzialmente i recettori pre-sinaptici D1/D2, determinando il rilascio di dopamina, responsabile
degli effetti disinibenti del farmaco. Questo profilo farmacologico atipico può spiegare l’effetto antipsicotico dell’amisulpride alle dosi maggiori, attraverso il blocco dei recettori dopaminergici post sinaptici e la sua efficacia
contro i sintomi negativi, alle dosi minori, attraverso il blocco dei recettori dopaminergici pre sinaptici. Inoltre, la
ridotta tendenza dell’amisulpride ad indurre effetti collaterali extrapiramidali può essere correlata alla sua preferenziale attività limbica. Negli studi clinici con inclusione di pazienti schizofrenici con esacerbazioni acute, SOLIAN ha migliorato significativamente i sintomi secondari negativi così come i sintomi affettivi quali l’umore
depresso ed il rallentamento. 5.2 Proprietà farmacocinetiche Nell’uomo, l’amisulpride presenta due picchi di
assorbimento: il primo che viene raggiunto rapidamente ad un’ora dalla dose e il secondo nel giro di 3-4 ore
dalla somministrazione. Le concentrazioni plasmatiche sono rispettivamente di 39±3 e di 54±4 ng/ml dopo una
dose di 50 mg. Il volume di distribuzione è di 5.8 l/kg; poichè il legame con le proteine plasmatiche è basso (16%)
eventuali interazioni con altri farmaci sono improbabili. La biodisponibilità assoluta è del 48%. L’amisulpride
viene debolmente metabolizzata; sono stati identificati due metaboliti inattivi, che corrispondono circa al 4% della
dose. Dopo somministrazione di dosi ripetute non vi è accumulo di amisulpride e le proprietà farmacocinetiche
del prodotto restano invariate. L’emivita di eliminazione dell’amisulpride, dopo una somministrazione orale, è di
circa 12 ore. L’amisulpride viene escreta per via renale come farmaco immodificato. Il 50% di una dose somministrata per via endovenosa viene escreto per via urinaria; il 90% di questa viene eliminato nelle prime 24 ore. La
clearance renale è nell’ordine di 20l/h o 330ml/min. Un pasto ricco di carboidrati (con la parte liquida pari al 68%)
diminuisce significativamente le AUC, il Tmax e la Cmax dell’amisulpride, mentre, dopo un pasto ad alto contenuto
di grassi non è stata osservata nessuna variazione dei parametri cinetici sopra descritti. Comunque il significato
di queste evidenze nell’uso clinico di routine non è noto. Insufficienza epatica: dato che il farmaco viene scarsamente metabolizzato non dovrebbe essere necessaria una riduzione del dosaggio nei pazienti con insufficienza epatica. Insufficienza renale: l’emivita di eliminazione è immodificata nei pazienti con insufficienza renale
ma la clearance sistemica si riduce da 2.5 a 3 volte. Nell’insufficienza renale lieve l’AUC dell’amisulpride aumenta
2 volte, mentre un aumento di 10 volte si osserva nell’insufficienza renale moderata (vedere sez. 4.2). L’esperienza
è comunque limitata e non vi sono dati a dosi superiori a 50 mg. L’amisulpride viene scarsamente dializzata. Alcuni dati di farmacocinetica nei pazienti anziani (> 65 anni) mostrano un aumento del 10-30% della Cmax, del T1/2
e dell’AUC dopo una singola dose di 50 mg. Non sono disponibili dati dopo dosi ripetute. 5.3 Dati preclinici di
sicurezza Una valutazione globale degli studi di tollerabilità indica che l’amisulpride non comporta rischi generali, organo-specifici, teratogeni, mutageni o cancerogeni. Le variazioni osservate nei ratti e nei cani a dosi inferiori alla massima dose tollerata sono frutto di effetti farmacologici o prive di rilevante significato tossicologico,
alle condizioni testate. Le dosi massime tollerate nel ratto (200 mg/Kg/die) e nel cane (120 mg/kg/die) sono
espresse come AUC, rispettivamente 2 e 7 volte maggiori dei dosaggi massimi raccomandati nell’uomo. Nessun rischio carcinogenico rilevante per l’uomo é stato identificato nel topo (fino a 120 mg/Kg/die) e nel ratto
(fino a 240 mg/Kg/die) considerando che il dosaggio somministrato nel ratto corrisponde a 1,5 - 4,5 volte l’AUC
attesa per l’uomo. Gli studi riproduttivi condotti nel ratto, nel coniglio e nel topo non mostrano alcun potenziale
teratogeno. 6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE 6.1 Elenco degli eccipienti SOLIAN 200 mg COMPRESSE:
Eccipienti: carbossimetilamido sodico (tipo A), lattosio monoidrato, cellulosa microcristallina, ipromellosa, magnesio stearato. SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE Eccipienti: amido sodio glicolato (tipo A), lattosio
monoidrato, cellulosa microcristallina, ipromellosio, magnesio stearato. Rivestimento della compressa: ipromellosio, cellulosa microcristallina, polyoxyl stearato 40, titanio diossido (E171). 6.2 Incompatibilità Non nota. 6.3
Validità Compresse e compresse rivestite: 3 anni. 6.4 Speciali precauzioni per la conservazione Compresse
e compresse rivestite: Nessuna particolare precauzione per la conservazione. Conservare a temperatura ambiente. 6.5 Natura e contenuto del contenitore Astuccio da 30 compresse in blister bianco opaco PVC/All. 7.
TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO sanofi-aventis S.p.A. – Viale L. Bodio,
37/B - Milano. 8. NUMERO DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO SOLIAN 200 mg
COMPRESSE: AIC n° 033462021 - SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE: AIC n° 033462045 9. DATA DI
PRIMA AUTORIZZAZIONE/RINNOVO DELL’AUTORIZZAZIONE SOLIAN 200 mg COMPRESSE Dicembre
1999/ Rinnovo Dicembre 2004; SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE Gennaio 2000 / Rinnovo Dicembre
2004 10. DATA DI REVISIONE DEL TESTO: Giugno 2007. Prezzo SOLIAN 200 mg COMPRESSE - 36.16;
SOLIAN 400 mg COMPRESSE RIVESTITE - 72.26
Classe di rimborsabilità: A. Regime di dispensazione: RR.