Migrazioni interne all`Africa subsahariana
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Migrazioni interne all`Africa subsahariana
Migrazioni interne all’Africa subsahariana Corrado Tornimbeni, Università di Bologna. Premessa. Il mio intervento è anomalo per due ragioni: - Non parlo di rifugiati e richiedenti asilo. - Parlo di migrazioni interne all’Africa, e specificamente all’Africa subsahariana, ossia geograficamente a sud dei paesi da cui tradizionalmente provengono gli immigrati in Europa e in Italia in particolare. Nonostante ciò, penso che uno sguardo alle migrazioni interne all’Africa subsahariana possa essere utile, in quanto le migrazioni internazionali e transcontinentali sono spesso l’ultimo stadio di processi migratori interni, e spesso ne riflettono anche le modalità e origini. Infine, vorrei sottolineare che lavorando principalmente in un contesto di ricerca universitaria non sono un cosiddetto “praticante” della cooperazione con il fenomeno immigratorio, e quindi anche ciò di cui parlo ne risentirà per forza; questo non significa che non porti un grande rispetto verso coloro che prendono in esame questo fenomeno partendo dalle proprie, e diverse dalle mie, esperienze di lavoro e confrontandosi quotidianamente con gli aspetti sociali appunto di questo fenomeno. Detto questo… Gli spostamenti sul territori di persone e intere popolazioni alla ricerca delle migliori opportunità di vita, in termini di risorse disponibili e condizioni ecologiche più favorevoli, hanno strutturato in epoca pre-coloniale i maggiori flussi migratori che hanno caratterizzato anche l’epoca coloniale. Le fonti di storia orale tramandata dagli anziani nelle campagne quasi sempre menzionano i movimenti migratori che hanno portato una data popolazione ad insediarsi in un certo luogo, giustificando così le relative rivendicazioni di autoctonia e le strutture di autorità che si sono generate nel tempo. Le dinamiche e i contrasti legati alle forme di potere si sono sempre intrecciate con le diverse modalità, forme e tempistiche del movimento ed insediamento delle persone sul territorio. La spartizione coloniale di fine ‘800 inizio ‘900 ha però drasticamente alterato il contesto in cui tali flussi si svolgevano, con l’applicazione di rigide forme di controlli sul movimento delle persone e la creazione di nuove occasioni di reddito, come l’economia monetaria dei centri urbani, industriali e minerari (es.: Sudafrica, Zambia e Zimbabwe), e le opportunità di commercio e profitto determinate dall’imposizioni di nuovi confini amministrativi tra realtà politiche ed economiche differenti. Si sono strutturati sistemi migratori spesso circolatori, in cui i migranti si recavano al luogo di lavoro per un certo periodo per guadagnare un salario monetario, e poi ritornavano al luogo di origine investendo nell’economia rurale del territorio. Le migrazioni post-coloniali hanno rappresentato fondamentalmente una continuazione di quelle d’epoca coloniale, con le maggiori dirette alle aree ricche di risorse ed ai centri urbani; ovviamente delle novità anche importanti sono sorte nel tempo, come l’aumento della migrazione femminile laddove in precedenza era quasi esclusivamente maschile, soprattutto se l’analisi della mobilità umana nel territori riesce a prendere in considerazione le specificità dei singoli contesti locali. Per tanti anni gli approcci impiegati per gli studi sulle migrazioni in Africa si sono basate su chiare dicotomie: ambiente rurale / ambiente urbano, economia di sussistenza / economia monetaria e capitalista, tradizione / modernità, e così via . In tempi più recenti tali dicotomie sono state notevolmente criticate, ad esempio attraverso l’introduzione di nuovi concetti quali “continuità culturale” e “diaspora”, e l’introduzione del termine “mobilità umana” invece di “migrazioni” è corrisposto anche all’esigenza di tale cambiamento nel focus degli studi sulle migrazioni: la mobilità umana implicherebbe molto di più che un semplice movimento territoriale da un punto A ad un punto B. Detto questo, è abbastanza chiaro però che è notevolmente difficile comprendere pienamente le caratteristiche che stanno alla base del fenomeno della mobilità umana in Africa sub-sahariana, sostanzialmente per un problema concettuale e di definizione, e per un problema di mancanza di dati quantitativi affidabili. Mobilità umana: Con questo termine più generale intende racchiudere una miriade di forme diverse di movimenti sul territorio che caratterizzano anche l’Africa sub-sahariana: spostamenti per viaggiare, esplorazioni, migrazioni per lavoro, spostamenti per turismo, il nomadismo, il pastoralismo, i rifugiati, i pellegrini e spostamenti per attività commerciali. In questo senso, si può dire che la mobilità umana è profondamente radicata nella storia e nella vita quotidiana delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana. Non è quindi un concetto di facile definizione ed identificazione, dal momento in cui per molto di coloro che la mobilità sul territorio è una parte essenziale della loro vita non è possibile identificare chiaramente un’area di residenza e/o origine; oppure, per molte di queste persone i confini - ossia quell’elemento così cruciale nella determinazione dello status di migrante - che hanno maggiore rilevanza non sono necessariamente quelli amministrativi tra uno stato ed un altro o tra una regione ed un’altra, ma possono essere semplicemente i confini tra aree socio-economiche differenti. Alcuni autori (es.: Kopytoff) hanno fatto ricorso, ad esempio, al concetto della “frontiera interna africana” per descrivere i processi di espansione delle società agricole che hanno caratterizzato la storia del continente. Anche per questi motivi, è generalmente preferibile il concetto di mobilità umana sul territorio a quello di migrazione. Considerare la mobilità umana interna al continente è una operazione essenziale per ogni tentativo di comprensione delle strutture politiche, economiche e sociali dell’Africa sub-sahariana oggi. Ad esempio, è assolutamente impensabile comprendere le forme di livelihood - mezzi e possibilità di accesso alle risorse per il proprio sostentamento e sviluppo - di larghi settori della popolazione africana senza prendere in considerazione le loro esperienze di mobilità sul territorio. Ed è anche per questo che gli studi sulla “mobilità umana”, più che quelli sulle “migrazioni”, rispondono meglio all’esigenza di abbandonare l’approccio che vede nelle migrazioni un momento di rottura nella vita sociale, o nel sistema sociale in generale, dei soggetti interessati. È chiaro infatti, come appena detto, che la maggior parte delle varie forme di mobilità umana sono parte integrante dei sistemi di vita, sostentamento e sviluppo delle persone in Africa sub-sahariana. In molte società del continente l’anomalia è “non essere mobile” piuttosto che il contrario. Spesso è proprio la sedentarietà, ossia la permanenza all’interno di determinati confini istituzionali o culturali, che può essere percepita come un atto di fuga dalle obbligazioni sociali di un individuo. Quindi, negli approcci oggi impiegati con al centro il concetto di mobilità umana, l’antico “processo di rottura” implicito nelle analisi sulle migrazioni viene quasi completamente ribaltato: attraverso la mobilità, il viaggio, vengono stabiliti, ribaditi, consolidati legami tra famiglie, società, popolazioni, viene fatta esperienza quotidiana della continuità; attraverso la mobilità tra più contesti culturali, viene “negoziata” la modernità e ne viene data forma nella vista sociale delle persone. L’idea in passato comunemente accettata che i migranti si muovessero spinti, obbligati, da fattori negativi - i cosiddetti push factors negativi -, non risulta quindi sempre applicabile; anzi, probabilmente nella grande maggioranza dei casi le persone si muovono per una propria scelta deliberata nella speranza di conseguire risorse e mezzi adatti ad un progresso nelle proprie condizioni sociali e di vita e in quelle della propria famiglia. (Ricerca SAMP: non diseredati ma .) Quanto detto comunque non esclude il fatto che vi siano forme di mobilità che implicano momenti di rottura, anche drammatica, nella società. È il caso ad esempio dei rifugiati, anche se non sempre è così . (Englund .). Le ricerche più recenti sulle migrazioni e la mobilità umana in Africa sub-sahariana ci mostrano un quadro assai complesso e sicuramente molto più differenziato di quanto ci era offerto in passato, dove i flussi migratori che venivano principalmente studiati riguardavano le migrazioni internazionali da uno stato ad un altro e le immigrazioni di popolazioni rurali nei centri urbani. I modelli di mobilità umana sul territorio sono ora in via di cambiamento: se i tradizionali flussi dai contesti rurali a quelli urbani stanno diminuendo, stanno aumentando i complessi flussi tra un contesto rurale ed un altro, e stanno decisamene incrementando dinamiche migratorie tra i centri urbani e le campagne, la cosiddetta “migrazione di ritorno”. Sono sicuramente cresciuti i flussi trans-continentali (es.: verso l’Europa), mentre a fronte probabilmente di una certa diminuzione della emigrazione internazionale per lavoro in Africa australe, sono cresciuti coloro identificati come rifugiati e soprattutto i cosiddetti “dislocati interni” ai singoli contesti nazionali. In generale, anche se sottostimata o perlomeno sotto-studiata in passato, la mobilità umana tra diversi contesti rurali è probabilmente la forma prevalente in Africa sub-sahariana. All’interno del continente africano vi è un numero altissimo di rifugiati, e il loro numero è cresciuto quasi costantemente negli ultimi decenni. Movimenti di rifugiati che possono essere dovuti a guerre tra stati in conflitto (ad es.: Corno d’Africa anni ’90 e 2000), alla dissoluzione di contesti statali (ad es.: Congo anni ’90 e 2000), conflittualità tra gruppi di popolazione che a volte si riconoscono in identità socio-politiche diverse come nel caso dei cosiddetti conflitti etnici (ad es.: Rwanda e Burundi anni ‘90), conflitti politico-civili senza necessariamente una connotazione etnica (ad es.: Angola e Mozambico negli anni ’80). Anche forme conflittuali di competizione locale per l’accesso a risorse naturali cruciali posso dar luogo a flussi più o meno grandi di rifugiati, e possono anche sfociare in conflitti di ordine nazionale e internazionale (es: Costa d’Avorio). Infine, cause ecologiche, come forme estreme di degrado ambientale, siccità e carestie, possono dar luogo ad ondate di rifugiati tra uno stato ed un altro, anche se il grado di impatto di tali “cause” ecologiche quasi sempre trascende la dimensione dell’evento “naturale” ed è accompagnato da fattori di natura eminentemente politica (es.: le ricorrenti siccità in Etiopia, anni ’70 e ’80). In questi casi, comunque, e purtroppo, è più difficile che chi è costretto a spostarsi da un territorio ad un altro abbia la propria condizione riconosciuta in quanto “rifugiato”; alcuni hanno tentato di promuovere il termine di “rifugiati ecologici”, ma non sembra una strada legalmente promettente. E’ per questo che i rifugiati sono spesso considerati quindi una categoria particolare – con una connotazione legale specifica – della più generale categoria dei migranti “forzati”, di cui la storia del continente è piena fin dall’epoca delle varie tratte schiavistiche, un fenomeno in crescita al giorno d’oggi per l’acuirsi dei fattori, soprattutto politici, che li originano. Infine, è importante sottolineare che la definizione di “rifugiati” esclude tutti coloro che spesso sono costretti a lasciare le proprie case ma che in genere non attraversano dei confini internazionali: costoro ricadono nella categoria dei “dislocati interni”, che nella pratica del diritto internazionale e della cooperazione internazionali per ragioni ovvie godono di un trattamento diverso rispetto ai rifugiati, ma che in genere passano attraverso le stesse sofferte esperienze di vita, oltre che probabilmente costituire il gruppo più numeroso di persone che in Africa sono in un qualche modo costrette a spostarsi sul territorio abbandonando le proprie case. Un aspetto importante e affrontato in vario modo dagli studiosi riguardo la mobilità umana in Africa, e soprattutto riguardo le migrazioni per lavoro verso le aree produttive e i centri urbani, è il rapporto di questi migranti con il contesto sociale ed economico dell’area di origine. L’assenza di una fondamentale parte della forza-lavoro impiegabile nell’economia agricola locale può essere un importante fattore di destabilizzazione e debolezza per quest’ultima. Storicamente, un modo tradizionale per affrontare questo problema è stata la cosiddetta “migrazione stagionale”, in cui i migranti, spesso uomini, si assentavano nella stagione non produttiva per il ciclo agricolo, per poi far ritorno sui campi durante la stagione produttiva. Un’altra modalità di svolgimento di questo rapporto è rappresentata dal flusso delle rimesse che i migranti possono inviare alla propria famiglia di origine per investire nella famiglia stessa e nella sua economia rurale. In certi contesti, i maggiori investimenti nell’economia agricola sono stati rappresentati proprio dalle rimesse degli emigranti. Tuttavia il fenomeno forse più importante degli ultimi decenni è di segno in un qualche modo opposto: soprattutto durante gli anni delle politiche di aggiustamento strutturale, la riduzione delle possibilità di impiego, la perdita di posti di lavoro, la diminuzione dei salari reali, e la concomitante ascesa nei prezzi dei beni primari e secondari ha fatto sì che il contesto rurale di origine del migrante, la propria famiglia di origine, ha assunto il ruolo di “rete di sicurezza sociale” del migrante in un periodo di grandi insicurezze e fluttuazioni economiche. In maniera crescente, i lavoratori migranti nelle aree urbane sono diventati dipendenti dalle proprie aree di origine come fonti di beni primari e a volte anche di soldi, in alcuni casi costituendo addirittura flussi monetari al contrario dalle campagne alle città. Un problema importante, forse il più rilevante, nello studio delle migrazioni interne in Africa sub-sahariana è sicuramente il fatto che non esistono dati quantitativi adeguati. Fin dall’epoca coloniale, le statistiche sulla popolazione, vuoi residente vuoi emigrante, nella maggior parte dei paesi africani sono da considerarsi poco affidabili, a causa dei pochi mezzi a disposizione, ma anche per le particolari caratteristiche della mobilità umana nel sub-continente. (es. votazioni per un distretto elettorale in Mozambico…). Ad esempio, difficilmente le statistiche sono mai riuscite a “catturare” le dimensioni delle migrazione per lavoro stagionale e circolatoria, soprattutto laddove si svolge in maniera autonoma e “illegale”. Oppure, le statistiche esistenti sono particolarmente deboli riguardo alla mobilità interna agli stati, che, abbiamo visto, forse è il fenomeno dalle dimensioni maggiori. Le statistiche esistenti comunque ci possono aiutare ad individuare le maggiori linee di tendenza, tracciando un quadro che a noi a volte rileva delle sorprese. Pensiamo ad esempio che si ritiene che nell’ultimo quarto del XX secolo il più grande numero di rifugiati si trovasse all’interno dell’Africa sub-sahariana: questo significa che paesi già alla prese con problemi drammatici di gestione dello stato nazione spesso si trovano a dover ospitare ondate di rifugiati molto maggiori di quelle che ospitiamo noi nei paesi europei, con conseguenze politiche e sociali di grande portata e a volte drammatiche (es.: rifugiati rwandesi in Congo). Una linea di tendenza importante e probabilmente più facilmente registrabile è quella relativa ai flussi migratori nei centri urbani, grazie alle statistiche sui tassi di urbanizzazione: ad esempio dagli anni ’60 agli anni ’90 del ‘900, la popolazione urbana africana è mediamente cresciuta del 325% (statistiche NU), in comparazione ad un tasso di urbanizzazione nel mondo del 132%. Altre linee di tendenza individuate sulla base delle statistiche esistenti ci danno l’idea delle dimensioni enormi del fenomeno della mobilità umana, o se volete del fenomeno migratorio in Africa sub-sahariana. Pensate ad esempio alla Costa d’Avorio, dove fino a pochi anni fa si riteneva che un quarto della popolazione totale del paese fosse nata in un altro stato della regione, dando luogo a conflittualità di grande portata e ad una definizione di appartenenza alla nazione carica di significati politici. Quanto appena detto sulla Costa d’Avorio ci porta, infine, a considerare quello che forse è uno dei problemi più scottanti al giorno d’oggi in Africa, soprattutto in ambiti di riforme di good governance e di processi di democratizzazione: l’intreccio tra le forme di mobilità umana, le varie definizioni teoriche e pratiche di autoctonia (chi è autoctono originario - di un dato posto?), e le questioni della cittadinanza. Laddove in passato vi erano complessi e soprattutto flessibili, dinamici, processi di negoziazione e scambio tra comunità e immigranti in dati contesti, ora le nuove esigenze di definizione amministrativa di chi è cittadino, autoctono, di un dato territorio portano a definire come “straniero” gruppi sempre più numerosi di persone che prima non lo erano, o perlomeno che prima non erano definiti esattamente come tali (es.: Costa d’Avorio). Due conseguenze particolarmente rilevanti di questi processi sono: primo, l’esclusione sempre più evidente di certi settori della popolazione dall’accesso a quelle cruciali risorse per la sopravvivenza e sviluppo che prima potevano garantirsi tramite la mobilità sul territorio e la negoziazione secondo le dinamiche proprie di sistemi di autorità e responsabilità comunitaria locali (es.: MIO CASO IN MOZAMBICO); secondo, la definizione di chi è straniero rispetto ad un dato territorio fatta da agenzie “esterne” (istituzioni statali centrali, organizzazioni della cooperazione internazionale, ecc .) secondo una selezione particolare delle varie possibilità di autoidentificazione espresse dalle popolazioni locali, e quindi, per estensione, la definizione esogena di nuovi criteri di cittadinanza. Sicuramente, entrambi questi processi producono e produrranno nuovi flussi migratori nel continente.