CANADA – La Corte Suprema apre la strada al suicidio assistito di

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CANADA – La Corte Suprema apre la strada al suicidio assistito di
ISSN 2037-6677
DPCE online 2015-2
CANADA – La Corte Suprema apre la strada al suicidio assistito
di Francesco Gallarati
Il 5 febbraio 2015 la Corte Suprema del Canada, con la sentenza Carter v. Canada,
ha dichiarato all’unanimità l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del codice
penale canadese che vietano il suicidio assistito.
La questione si è posta con riferimento agli articoli 14 e 241 del codice penale, i
quali, rispettivamente, vietano l’omicidio del consenziente e prevedono fino a
quattordici anni di reclusione per chi aiuti una persona a commettere suicidio. Dal
combinato disposto di questi due articoli discendeva l’illegittimità del suicidio assistito
(physician-assisted dying) nell’ordinamento canadese.
La Corte Suprema si era già pronunciata sulla legittimità di tali articoli nel 1993,
con la sentenza Rodriguez v. British Columbia. In quel caso, essa aveva ritenuto che la
proibizione del suicidio medicalmente assistito, sebbene limitativa del diritto alla
sicurezza della persona, fosse giustificata dalla necessità di evitare che una persona
vulnerabile, in un momento di debolezza, potesse decidere di porre fine alla propria vita.
Chiamata nuovamente a pronunciarsi sul punto, la Corte ha quindi innanzitutto
dovuto chiarire se il giudice di merito dovesse ritenersi vincolato al rispetto del
precedente, oppure se vi fossero i presupposti, individuati dalla giurisprudenza della
Corte Suprema, per dare luogo ad una revisione (reconsideration) del precedente: novità
della questione giuridica o mutate circostanze di fatto.
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Nel caso di specie, secondo la Corte entrambi tali presupposti erano sussistenti. Da
un lato, infatti, la novità della questione giuridica era data dal fatto che, rispetto ai tempi
in cui era stata pronunciata la sentenza Rodriguez, i criteri di valutazione della
legittimità costituzionale delle norme (in particolare, il criterio dell’overbreadth ed il
test di proporzionalità) erano evoluti, tanto che la medesima questione, alla luce dei
nuovi criteri, avrebbe potuto essere risolta diversamente. Dall’altro lato, poi, la
reconsideration era giustificata dalle mutate circostanze di fatto. Particolarmente
interessante, a questo proposito, è il richiamo all’evoluzione normativa intervenuta nel
panorama comparato dopo la sentenza Rodriguez: la Corte di Ottawa ha infatti
osservato come, tra il 1993 ed il 2015, diversi paesi occidentali abbiano ammesso e
regolamentato il suicidio assistito e, sulla base di questo, ha ritenuto che fossero mutate
le circostanze di fatto e che, quindi, fosse opportuno riesaminare il proprio precedente.
Una volta chiarito che il giudice di merito non era tenuto a conformarsi
all’orientamento espresso nella sentenza Rodriguez, la Corte Suprema è passata ad
esaminare la questione giuridica che le è stata posta.
In primo luogo, il collegio ha valutato la legittimità delle disposizioni sottoposte al
suo scrutinio alla luce dell’art. 7 della Carta dei diritti e delle libertà del Canada, il quale
da un lato sancisce il diritto di ognuno alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della
persona e, dall’altro lato, ammette che tale diritto possa conoscere restrizioni, purché nel
rispetto dei principi di «giustizia fondamentale» (fundamental justice).
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che le disposizioni impugnate integrassero
una lesione del diritto alla vita, in quanto, ponendo i malati terminali dinanzi ad
un’alternativa tra il suicidio e l’attesa passiva della morte naturale, esse costringevano
alcuni soggetti a porre fine prematuramente alla propria vita, quando avevano ancora la
possibilità di farlo autonomamente, nella consapevolezza che, una volta persa tale
autonomia, non avrebbero potuto legittimamente ricorrere all’intervento di un altro
soggetto. Così facendo, la Corte Suprema ha disatteso le argomentazioni avanzate dallo
Stato canadese e da altri soggetti intervenuti, i quali, sulla base di un’interpretazione
estensiva del diritto alla vita, ritenevano che, al contrario, la protezione della vita fosse
il fondamento stesso della norma de qua. Essi ritenevano, cioè, che la ratio del divieto
fosse propria quella di tutelare il diritto alla vita. La Corte, a questo proposito, ha
replicato che dal riconoscimento costituzionale del diritto alla vita non discende la
necessità di preservare la vita umana ad ogni costo, non potendosi ricavare dal
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riconoscimento del diritto alla vita (right to life) l’affermazione del dovere di vivere
(duty to live).
Le disposizioni de quibus sono state inoltre giudicate lesive del diritto alla libertà
ed alla sicurezza personale, nella misura in cui non consentivano a ciascuna persona di
decidere autonomamente in ordine al proprio trattamento sanitario e di disporre della
propria integrità fisica, costringendole, contro la loro volontà, a sopportare gravi
sofferenze.
Accertata la sussistenza di una restrizione del diritto alla vita, alla libertà ed alla
sicurezza della persona, si è posta quindi la questione di verificare se tale restrizione
potesse ritenersi conforme ai principi di fundamental justice, come richiesto dall’art. 7.
Tale valutazione è stata effettuata dalla Corte sulla scorta dei criteri elaborati negli anni
nella propria giurisprudenza, per i quali la misura a) non deve essere arbitraria, b) non
deve avere una portata eccessivamente ampia (cd. overbreadth), o c) avere conseguenze
manifestamente sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguito.
Nel caso di specie, l’obiettivo perseguito dalla normativa de qua è stato identificato
dal collegio nella necessità di evitare che un soggetto vulnerabile fosse indotto, in un
momento di debolezza, a porre fine alla propria vita. Individuata tale finalità, la Corte
ha ritenuto che la normativa sottoposta al suo scrutinio fosse overbroad: essa ha cioè
ritenuto che un divieto assoluto, come quello posto dagli artt. 14 e 241 del codice penale
canadese, nel perseguire l’obiettivo di tutela delle persone vulnerabili, determinasse una
lesione dei diritti alla vita, alla libertà ed alla sicurezza anche nei confronti di persone
pienamente consapevoli e capaci, in relazione alle quali la ratio della normativa veniva
meno.
Accertato il contrasto con l’art. 7 della Carta, la Corte ha infine affrontato la
questione centrale, ovvero se il divieto generalizzato del suicidio assistito potesse
considerarsi giustificato alla luce dell’art. 1 della Carta stessa, in quanto strettamente
necessario al raggiungimento dell’obiettivo perseguito. In altre parole, si poneva la
questione se il divieto assoluto posto dalle disposizioni de quibus potesse considerarsi la
misura meno lesiva tra quelle idonee a raggiungere lo scopo perseguito. Secondo lo
Stato canadese, la risposta avrebbe dovuto essere affermativa, in quanto qualsiasi altra
misura meno rigida non sarebbe stata idonea a perseguire lo scopo. Infatti – sostenevano
gli avvocati del Canada – data l’impossibilità di stabilire con certezza chi sia vulnerabile
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e chi no, solo un divieto generalizzato può consentire di perseguire efficacemente lo
scopo perseguito.
La Corte Suprema, invece, associandosi alle conclusioni cui era giunto il giudice di
merito, anche sulla base di un’analisi dei regimi già operanti in altri ordinamenti, ha
ritenuto possibile limitare i rischi legati alla legalizzazione del suicidio medicalmente
assistito, attraverso la predisposizione di un sistema di salvaguardia ben strutturato e
sottoposto a continuo monitoraggio.
Sulla base di queste argomentazioni, in conclusione, la Corte ha statuito che un
divieto assoluto, come quello previsto dal codice penale canadese, al ricorrere di
determinate condizioni, non sia giustificato. In particolare, secondo il collegio, tale
giustificazione viene meno qualora il richiedente sia una persona adulta, capace di
intendere e di volere, che abbia espresso chiaramente il proprio consenso; inoltre,
ulteriore condizione è che la persona sia affetta da una grave ed irrimediabile malattia o
disabilità che le causi una sofferenza intollerabile.
La Corte ha quindi dichiarato illegittima la normativa de qua. Essa, tuttavia, ha
sospeso per dodici mesi gli effetti della propria decisione, in modo da consentire al
Parlamento federale ed ai legislatori provinciali (questi ultimi, nei limiti della potestà
legislativa concorrente in materia di sanità), ciascuno per le proprie competenze, di
dettare una disciplina in materia, che sia conforme alla pronuncia della Corte.
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