Il lapidario dell`Acerba Posto di seguito al bestiario a chiusura del

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Il lapidario dell`Acerba Posto di seguito al bestiario a chiusura del
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Il lapidario dell’Acerba
Posto di seguito al bestiario a chiusura del terzo libro dell’Acerba (capp. XLVIII-LVI), il
lapidario non ha goduto sinora di attenzioni pari a quelle dedicate alla sezione che lo precede
da Francesco Zambon. L’unica voce specifica, se non mi è sfuggito qualcosa, è un articolo di
Battelli in cui venivano in buona sostanza riprodotti i capitoli in questione preceduti da poche
parole introduttive dove si indicava come fonte il De lapidibus di Marbodo. L’obbiettivo che
mi sono proposto per questa breve comunicazione è stato dunque quello di situare i capitoli
dell’Acerba entro la tradizione dei lapidari medievali.
Penso sia opportuno, per iniziare, riassumere a grandi linee il contenuto del lapidario
stabiliano. Esso si sviluppa, come dicevo, lungo nove capitoli ed esaudisce alla seconda metà
della promessa fatta in chiusura del secondo libro di «far somiglie» di «certi animali e prieta».
Le pietre menzionate e descritte da Cecco sono 28, tre per capitolo ad eccezione del cap. LIII
che ne cita quattro. Questo l’elenco: diamante, zaffiro, smeraldo (XLVIII), agate, allettorio,
berillo (XLIX), topazio, diaspro, gagate (L), elitropia, panterone, giacinto (LI), diacodio,
asbesto, magnete (LII), carbonchio, crisopazio, epistite, ametista (LIII), cerauno, calcedonio,
cristallo (LIV), enidro, chelidonio, corallo (LV), perla (anzi, «margarita»), galazia e corniola
(LVI). Cecco dichiara (LVI 14) di avere «scritte le più degne», sottintendendo dunque di aver
operato una selezione: potrebbe essere una pura exscusatio retorica (qualcosa del genere lo
affermava persino Isidoro di Siviglia prima di addentrarsi nella sua minuziosa trattazione), ma
sta di fatto che l’ordine delle pietre presentato dall’Acerba (se si fa eccezione per la menzione
del diamante in apertura di trattazione, una costante nei lapidari non alfabetici) non trova
riscontro in nessuno dei testi che conosco.
Veniamo alla questione delle fonti. Considerando quanto scoperto da Zambon a proposito
della sezione del bestiario, è stato spontaneo sospettare che anche per il lapidario Cecco
avesse usufruito del medesimo repertorio, vale a dire il De rerum proprietatibus di
Bartolomeo Anglico. Zambon, lo ricordo telegraficamente, ha infatti dimostrato come proprio
Bartolomeo, scelto per il suo carattere di compendio, magari un po’ pedestre, di un’ampia
tradizione classica e mediolatina, sia il testo di riferimento con cui lo Stabili dialoga e talvolta
persino polemizza, solo a tratti ‘contaminato’ con informazioni provenienti dal Tresor di
Brunetto Latini. L’ipotesi funziona in ampia misura anche per ciò che riguarda la sezione del
lapidario, dove comunque, accanto ad aderenze quasi perfette, si riscontrano alcune
discrepanze più o meno accentuate. Tali discrepanze potrebbero escludere una filiazione
esclusiva, anche se va subito aggiunto che l’assenza di una edizione critica del De rerum
proprietatibus non aiuta certo ad avere certezze definitive in merito. Faccio due esempi
brevissimi in questa direzione: nella parte dedicata allo zaffiro, Cecco afferma (XLVIII 46) che
«questa gemma vale a l’idromanti». Nell’edizione francofortese del 1601 Bartolomeo, citando
direttamente Marbodo, afferma che questa gemma era considerata nell’antichità
particolarmente cara agli dei: «Et hoc tangitur in Lapidario ubi dicitur: “Et plus quam reliquas
amat hanc hyerophantia gemmas / Ut divina queant per eam responsa mereri” etc.». La
differenza sembrerebbe in questo caso suggerire un rapporto diretto con Marbodo, dal
momento che alcuni codici del De lapidibus hanno appunto «hydromantia». Sennonché
proprio «hydromantia» è quanto riporta l’edizione 1519 dello stesso Bartolomeo. Secondo
esempio: la pietra che Cecco chiama «panteron» (LI 19), come in Marbodo, appare invece
nell’ediz. 1601 di Bartolomeo col nome di «Panchrus», lo stesso utilizzato ad esempio da
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Isidoro (XVI XII) e dal Damigeron non alfabetico (XXXVII). Ancora una volta, però, l’edizione
1519 del De proprietatibus ci riavvicina all’Acerba, visto che appunto ha «Panteron».
In linea di massima, comunque, Bartolomeo si rivela appunto come l’ipotesto dell’Acerba,
forse contaminato in alcuni casi con Marbodo (intendendo con “Marbodo” un testo non
meglio identificabile e forse appartenente anche all’ampia serie di traduzioni e rifacimenti che
il De lapidibus ha generato in Europa), in qualche caso integrato con informazioni che
derivano da altre “fonti” (anche questo da intendere in senso ampio, tanto che si potrebbe
meglio parlare di “aree testuali”). La cosa non deve sorprendere più di tanto, e non è escluso
che una tale sovrapposizione di elementi fosse già originaria o che sia da imputare a interventi
e integrazioni originali di Cecco. A lui saranno infatti da attribuire, ad esempio, i versi che
aprono quasi tutte le voci del lapidario e in cui si citano le influenze dei vari pianeti sulla
generazione delle singole pietre. Del resto, neppure nel caso del lapidario dell’Intelligenza, la
cui la fonte pure è stata identificata con certezza, non si riesce a verificare una perfetta
sovrapponibilità.
Vorrei adesso fornire qualche esempio per ciascuna di queste tre componenti (derivazione
diretta da Bartolomeo, elementi che risalgono a Marbodo, notizie non riconducibili né all’uno
né all’altro).
1. Il lapidario dell’Acerba e il De rerum proprietatibus.
Per quello che riguarda il punto principale, cioè il rapporto diretto tra Bartolomeo e Cecco
d’Ascoli, occorrerà per prima cosa isolare quelle pietre di cui il De rerum proprietatibus
riporta una descrizione desunta, qualche volta persino per citazione diretta, esclusivamente da
Marbodo. Si tratta, nell’ordine di apparizione, di elitropia, panterone, diadoco, asbesto,
epistite, cerauno, cristallo e corniola. Persino in alcuni di questi casi si possono però segnalare
alcuni indizi che, seppure cautamente, sembrano nonostante tutto avvicinare direttamente
l’Acerba a Bartolomeo. Mi limito a questo proposito a fare un solo esempio che mi sembra di
interpretazione univoca. Le due proprietà dell’elitropia indicate a LI 4-11, cioè quella di
portare l’acqua fredda ad ebollizione e quella di originare eclissi di sole, derivano a
Bartolomeo direttamente da Marbodo: ma l’inciso del v. 4, «ove ’l Sole spira», e
l’organizzazione generale della descrizione sembrano più precisamente rinviare al primo.
Per quel che riguarda invece tutte le altre pietre in cui Bartolomeo non utilizza Marbodo, o
comunque quest’ultimo non è la fonte essenziale, l’esemplificazione dovrebbe coprire la
quasi totalità delle voci, per cui mi limiterò a pochi esempi che credo siano sufficientemente
eloquenti.
Nei versi dedicati allo smeraldo (XLVIII 55-62), l’affermazione del v. 57 («di molte
infermitade fa salute») non trova riscontro in Marbodo ma è quasi una traduzione da
Bartolomeo e lo stesso si dica dei vv. 60-61 («conforta la memoria e la natura, / li spirti fuga e
le lor false scorte»), per cui l’unico parallelo possibile è di nuovo con Bartolomeo e non con
Marbodo.
A Bartolomeo risale l’affermazione a proposito dell’allettorio (XLIX 23): «sì come oscuro
cristallo mostra aspetto», corrispondente a De rerum proprietatibus «crystallo obscuro
similis» (cap. XVII), là dove Marbodo dice semmai l’esatto contrario (v. 79: «Crystallo similis,
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vel aquae, cum limpida paret»). Inoltre a XLIX 13 «fa l’uomo vincitor nella battaglia» l’Acerba
si accosta di nuovo più a Bartolomeo («Hic in certamine secundum magos creditur reddere
homines insuperabiles et invictos») che al De lapidibus (v. 81: «Invictum reddit lapis hic
quemcunque gerentem»).
Per quel che riguarda la descrizione del magnete Bartolomeo afferma che ci sono due tipi di
magneti, uno che proviene dall’India ed attira il ferro, l’altro che proviene dall’Etiopia e
respinge quello stesso metallo (cap. LXIII: «In India apud Troglodytas invenitur, ferrum trahit
[…]. Est enim alia species magnetis in Aethiopia, quae ferrum respuit et a se fugat»), passi
entrambi restituiti quasi alla lettera nell’Acerba (LII 13-16: «La calamitra per sé tira ’l ferro, / e
questa nasce in India maggiore / e l’altra de Etiopia se non erro. / Da·lei lo ferro fugga
coll’aspetto»). Marbodo, invece, non nomina l’India, limitandosi ad affermare (v. 284) che
«Magnetes lapis est inventus apud Trogoditas», indica un solo tipo della pietra e non accenna
ad alcuna virtù repulsiva nei confronti del ferro.
Lo spunto presente nel capitolo XXVIII di Bartolomeo sul calcedonio, per cui la pietra avrebbe
la virtù di scacciare le entità demoniache («His lapis perforatus et portatus […] valet contra
illusiones daemonum»), viene ripreso e, soprattutto, ampliato a LIV 13-18 («S’è perforato
anche me’ resiste / a spirti maligni et a·lor beffe, / mostrando in sogno le diverse viste; / di dì
e di notte fanno gran paure / che, dubitando l’uom, par che ne cesse / vegendo l’ombre e
subito figure»). Tutti elementi assenti invece nei brevissimi quattro versi dedicati da Marbodo
a questa pietra (XI. De Chalcedonio).
Infine un ultimo caso. La pietra su cui si apre il cap. LV è l’enidro, che Cecco chiama «entra».
La descrizione dell’entra è brevissima, occupando solo i vv. 1-3 e si limita a segnalare l’unica
caratteristica per cui essa viene sempre menzionata nei lapidari, quella cioè di espellere
continuamente acqua. Il capitolo corrispondente del De rerum proprietatibus (XLII) è in realtà
per una buona metà parafrasi e talvolta citazione diretta da Marbodo. Però Bartolomeo sente il
bisogno di dare una risposta (introdotta dalla formula «ut mihi videtur») alla questione posta
da Marbodo circa lo strano rapporto tra questa continua emissione di liquido e l’immutabile
massa della pietra. Cito direttamente dal De rerum proprietatibus:
Et dicitur ibidem [cioè in Marbodo] quod difficile est huiusmodi reddere rationem, quia si gutta defluit de lapidis
substantia, quare non minor efficitur vel omnino liquescit? Si vero ros vel aliud ipsum ingreditur, quid non
repellit egredientem? Potest tamen esse, ut mihi videtur, quod virtus lapidis condensat in aquam aerem sibi
vicinus propinquantem, ut iam videatur exire de substantia lapidis quod egreditur de substantia aeris
circumstantis.
La spiegazione fornita da Bartolomeo è appunto quella accettata dall’Acerba (vv. 1-3):
«L’entra che l’acqua per virtude tira / de l’aire e sopra sé così condenza, / e’ par che dentro
nasce chi la mira». Particolarmente significativa è in questo caso anche l’assoluta aderenza
lessicale all’interpretazione di Bartolomeo («virtus lapidis condensat in aquam aerem sibi
vicinus» corrisponde a «[…] l’acqua per virtude tira / de l’aire e sopra sé così condenza»).
L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo, ma credo sia sufficiente per questa occasione
quanto sin qui segnalato. L’aderenza di Cecco a Bartolomeo, come si è visto, non è solo, per
così dire, di sostanza, ma anche di forma, con riprese precise del lessico del De rerum
proprietatibus (come per l’entra, l’ultima pietra di cui ho parlato). Una rete, insomma, fitta e
continua.
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2. Marbodo.
Detto questo, va aggiunto che esistono alcune discrepanze tra Cecco e Bartolomeo che si
consistono in elementi rinvenibili invece nel lapidario di Marbodo. Elencherò velocemente i
(pochi) casi in questione:
1) Nel capitolo dedicato al diamante (XLVIII 13-36) l’Acerba distingue tra due diversi tipi di
questa pietra. Il primo, per cui Cecco non indica un luogo di provenienza, ha come proprietà
un’eccezionale durezza e il potere di interdire la potenza attrattiva del magnete («presente
questa, giamai calamita / a·lei di trager ferro non resulta, / ma fa nel tempo sua potenza quita»,
vv. 28-30); il secondo, «che Arabbia produce» (v. 31) è per contro fragilissimo («vaccio sì
rompe sì come cristallo», v. 32). Il corrispettivo capitolo di Bartolomeo Anglico (cap. IX) cita
un unico tipo di diamante, il primo dei due nominati nell’Acerba, distaccandosi però da
Isidoro nell’attribuirgli non tanto un effetto di interdizione rispetto al magnete ma addirittura
proprio quello di respingere il ferro. Decisamente più convincente l’accostamento a Marbodo,
il quale cita complessivamente quattro tipi di diamante, cioè dall’India, dall’Arabia, da Cipro
e dalla Grecia: quello indiano infatti corrisponde prefettamente al primo diamante
dell’Acerba, mentre la seconda pietra di Cecco ha appunto la stessa fragilità del diamante
arabo.
2) Solo in Marbodo viene istituito un rapporto di parentela tra il nome del panterone e quello
della pantera (vv. 655-658: «Pantheram patet esse feram diversi colorem / India quam gignit
cujus pavefacta leonum / voce fugit rabies, quam bestia contremit ominis / hujus ad exemplar,
sic est lapis iste vocatus»), rapporto assente in Bartolomeo (che per altro qui, come dicevo,
presenta una voce brevissima e ripresa nella sostanza proprio da Marbodo) e presente invece
nell’Acerba, LI 19-24.
3) Nella descrizione del diacodio, a LII 4-5, Cecco afferma: «S’è messo in acqua, vegnon per
natura / li spirti tutti della setta borna», con rinvio a un particolare, quello della necessità di
immergere la pietra nell’acqua prima di evocare i demoni, presente in Marbodo (vv. 684-685:
«Diadocos per aquam responsa petentibus aptus / demonis effigies varias ostendere fertur»), e
assente invece in Bartolomeo (cap. XXXVI: «est apta ad responsa a daemonibus obtinenda,
excitat enim daemones et phantasmata»). Anche in questo caso la voce di Bartolomeo è
parafrasi quando addirittura non citazione esplicita del De lapidibus.
4) Forse dipende da Marbodo quanto affermato nella descrizione del chelidonio a LV 6:
«chiunche la vole, convien che·la sventre», particolare che non riscontri nel De rerum
proprietatibus (dove al cap. XXX ci si limita ad affermare che «De ventre hirundinis
extrahuntur») e meglio affiancabile invece a De lapidibus 255: «nam niger et rufus caeso de
ventre trahuntur».
5) Potrebbe infine rinviare di nuovo a Marbodo anziché a Bartolomeo l’affermazione
dell’Acerba nella descrizione della galazia a LVI 9 «così natura vuol che fredda sia», che
riprenderebbe De lapidibus 526-527: «Cujus naturae vis tanta probatur ut omni / tempore
frigida sit […]» (più neutramente il De rerum proprietatibus, cap. LI: «Et est tantae
frigiditatis»).
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Nel complesso, come si vede, si tratta di un numero molto limitato di punti, e gli ultimi due
potrebbero essere tra l’altro rielaborazioni autonome dell’Acerba a partire in qualche modo
già da quanto affermato nel De rerum proprietatibus. Tra l’altro, nei casi 2 e 3 il testo di
Bartolomeo è una derivazione diretta del De lapidibus, per cui è legittimo il sospetto che
l’assenza dei particolari qui in questione possa essere imputata allo stato della tradizione
testuale. Detto questo, comunque nulla esclude, almeno in linea teorica, che Cecco sia anche
ricorso direttamente, seppure in modo sporadico, a Marbodo.
3. Altre fonti del lapidario dell’Acerba?
Sotto questa rubrica dubitativa riunisco alcuni elementi presenti nell’Acerba ed assenti tanto
in Bartolomeo quanto in Marbodo: prima i casi in cui, come si vedrà, l’Acerba riporta
informazioni citate nella tradizione dei lapidari, in conclusione quelli di cui non mi è riuscito
di individuare la provenienza.
3.1 Notizie presenti nell’Acerba e in altri lapidari.
1) A proposito del diamante (XLVIII 25-27) Cecco afferma: «Chi ’n sangue caldo questa prieta
involve, / over con piombo, per natura occulta / poca percossa in polver lo disolve». Il
particolare del piombo si trova in Alberto Magno e nella versione latina del lapidario
alfabetico francese pubblicata da Meyer.
2) Nel capitolo sul magnete (LII 17-18) si legge: «un’altra calamitra è de dolore: / la carne
umana tira al suo cospetto». Anche questa caratteristica, assente in Bartolomeo, è menzionata
da Alberto Magno (cap. 11), che rinvia per questo al lapidario pseudo-aristotelico.
3) Nel capitolo sul corallo si afferma (LV 23) che questa pietra «lo stomaco conforta». La
notizia, anche questa volta non presente Bartolomeo, è però nel tardo lapidario veneto del
Palatino 548, che rinvia per essa ad Avicenna.
3.2 Notizie di provenienza ignota.
1) Parlando dell’allettorio (XLIX 19-22) Cecco afferma: «È Jove che in testa forma e ventre /
innel capone, che so’ lu’ è concetto, / pur che suo raggio sotto Cancro c’entre, / Aresta, che sì
ritien lo sperma». Al v. 19, insomma (non credo si possa interpretare altrimenti), si dichiara
che l’allettorio può formarsi nella testa e nel ventre del cappone. In questo caso la tradizione
dei lapidari è quasi concorde: l’allettorio si forma «Ventriculo galli» (Marbodo, v. 74), «in
ventriculis gallinaceis» (Bartolomeo, cap. XVII), «in ventriculis gallinaciorum» (Damigeron
non alfabetico, cap. XIX) ecc.. Quasi: perché l’Intelligenza, anzi il manoscritto
Magliabechiano VII.1036 che è nel punto in questione il suo unico testimone, afferma proprio
che l’allettorio «dentro al capo del pollo si trova» (per contro, la fonte diretta del poemetto, il
Libro delle virtudi: «Aletorio si è una pietra la quale nasce nel ventricello del cappone poscia
k’elli è vivuto .vij. anni compiuti»). Non mi è però possibile indicare da dove i due autori
traggano l’affermazione (escluderei una conoscenza dell’Intelligenza da parte dello Stabili).
2) Nei versi dedicati al topazio, l’Acerba aggiunge due informazioni (L 8 e 11: «a passioni
meridional resiste / […] / e credesi che dignitade acquiste») assenti in Bartolomeo (anche se
la prima può forse essere considerata come un integrazione di Cecco a partire quanto
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affermato al v. 7: «Resiste alla lunatica malia», corrispondente a Bartolomeo, cap.
«Dicitur etiam quod […] contra Lunaticam valere [sic] passionem»).
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3) Nella descrizione del diaspro Cecco afferma (L 23-24): «legato nell’argento portar deve /
ciascun questa pietra, si fa guerra». Il problema qui non risiede nella menzione
dell’incastonatura della pietra nell’argento, che è notizia diffusissima in tutti i lapidari, ma
nell’inciso del v. 24 che, invece, non ho trovato in alcuna delle fonti che ho potuto vedere
(anche se forse può essere avvicinabile il Lapidario di Berna, v. 327: «Puissant contre son
adversaire»).
4) La voce sull’elitropia si apre con il verso (LI 1): «Elitroppia, qual’è detta orfanella». Anche
in questo caso si tratta di una indicazione che non ho mai trovato altrove. Lo stesso vale anche
più sotto al v. 12: «e può con essa, chi vuole, esser furo», dove però si potrebbe anche trattare
di una specie di deduzione indipendente a partire dalla notissima virtù dell’elitropia di rendere
invisibili coloro che la indossano portando con sé l’erba con lo stesso nome.
5) A proposito del giacinto si legge (LI 34-36): «fuga ’l veneno e omor adequa. / Umor che
fosse de natura vaire, / per sua virtude, lo distrugge e l’equa». Se il primo emistichio del v. 34
trova corrispondenza in Bartolomeo (cap. LIV: «veneno obviar et toxico contrariatur»), gli altri
risultano senza rinvii ai lapidari che ho potuto vedere.
4. Conclusioni (provvisorie) e alcune proposte testuali.
Come spero di aver mostrato sin qui, a parte alcuni elementi (molto limitati) extravaganti, il
grosso della sezione del lapidario stabiliano dipende direttamente da Bartolomeo Anglico. Le
spinte centrifughe, chiamiamole così, che ci allontanano da quella fonte potrebbero in realtà
dipendere in parte da elementi di contaminazione già presenti nell’esemplare del De rerum
proprietatibus utilizzato (penso in particolare agli elementi marbodiani assenti in Bartolomeo
e presenti nell’Acerba), in altra parte da notizie desunte de Cecco da letture assimilabili e non
sempre identificabili. La pratica contaminatoria, del resto, si può dire che sia peculiare di
questo genere di testi. Per fare un esempio, il lapidario veneto conservato nel Palatino 548 che
mi è capitato prima di citare consiste principalmente in una traduzione piuttosto fedele di
Marbodo, a cui vengono però aggiunte, in coda a quasi tutti i capitoli, informazioni desunte
da altre fonti, introdotte con rubriche che ne indicano la provenienza. E, cosa ancor più
interessante, si danno casi in cui le aggiunte ribadiscono dati già presenti in Marbodo,
denunciando quindi come l’accumulo di notizie sia un obbiettivo seguito anche a costo di una
inutile ridondanza informativa.
Resta inteso che, in questo come in casi simili, l’interazione tra restituzione testuale e
commento, con l’individuazione, per quanto possibile, delle fonti utilizzate da Cecco può
permettere una più precisa indicazione di eventuali danni della trasmissione e dei rimedi
applicabili, soprattutto là dove niente denuncia, a prima vista, una patente manomissione.
Vorrei quindi concludere fornendo tre ipotesi su altrettanti punti critici del testo di questa
sezione che mi è capitato di individuare durante questo lavoro, elencate nell’ordine di
probabilità d’intervento.
1) Nella terza strofa del capitolo XLIX vengono elencate alcune virtù (la capacità di vincere in
combattimento, di diventare facondi, di togliere la sete ecc.) che sono proprie non dell’agate,
sulla cui descrizione il capitolo si apre con le prime due strofe e di cui quella in questione
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sembrerebbe una prosecuzione, ma dell’allettorio, che è la pietra che invece subito segue. Ci
si trova insomma di fronte ad un’inversione nell’ordine delle strofe, fenomeno tutt’altro che
infrequente nella tradizione dell’Acerba.
2) Nella descrizione della perla, a LVI 4, E legge: «Delle celeste rosata si forma». La maggior
parte dei codici messi in apparato nell’edizione Albertazzi presenta la preposizione al
singolare (F «Da la», F1, V, M «Della»/«De la»), mentre P ha, come nel codice Eugubino,
«De le» al plurale. Il che comporta nell’ediz. Albertazzi la lezione «De le celeste, rosata si
forma», e il conseguente e a questo punto necessario suggerimento di una genesi tra perle di
diverso colore. In realtà qui ci si trova di fronte al sostantivo «rosata» ‘rugiada’, come prova
senza dubbio la corrispondenza con «coelesti rore» di Bartolomeo (o forme simili) da cui
appunto trae origine la perla, tanto più che «rosata» è termine utilizzato anche altrove da
Cecco nell’Acerba.
3) A XLIX 18, già citato in precedenza, E legge: «se non sta dentro, suo natura scocca». Pur
lasciando da parte il problema posto dal verbo in rima, rimane egualmente inspiegabile
«dentro» a cosa dovrebbe stare l’allettorio per poter «scoccare» (o «sbroccare») la propria
«natura». Va comunque notato che in questo punto l’ediz. Rosario e i mss. P, F1 e M
riportano «se non sta in oro», a cui può essere accostata la lezione di F «in loro», mentre il
solo V, con «se non sta idro», potrebbe essere avvicinabile ad E. Le lezioni alternative qui
segnalate, però, non forniscono ancora una soluzione del tutto soddisfacente, visto che nessun
lapidario afferma che l’allettorio per essere efficace dev’essere legato nell’oro. Forse
originariamente il verso suonava più o meno «se non sta in ore», cioè ‘se non sta in bocca’,
con variazione sinonimica, dunque, rispetto al v. 16: «tolle la sete chi·la porta in bocca»? In
questo senso sarebbe possibile rinvenire un parallelo con Marbodo, che infatti chiarisce (v.
91) come tutte le virtù dell’allettorio possono manifestarsi solo se «clausus portatur in ore».
Se questa ipotesi venisse giudicata accettabile, si tratterebbe di un’altra traccia di derivazione
diretta dal De lapidibus, visto che il particolare è assente in Bartolomeo. Va però segnalato
che non mi risultano attestazioni in italiano di questo latinismo.
Per concludere davvero. Dal confronto con le fonti può venire anche qualche aiuto in
direzione di una corretta segmentazione delle singole descrizioni all’interno dei vari capitoli.
La descrizione del chelidonio al cap. LV, ad esempio, a differenza di quanto appare nelle
edizioni, inizia col v. 4 e non col v. 7. È infatti il chelidonio, non l’entra che subito la precede,
la pietra che «la rondine la porta nel suo ventre» (v. 4).
Marco Berisso