2003-7-2_Luca Bellocchio - Dipartimento di Scienze sociali e

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Alla ricerca dell’interesse nazionale perduto
La politica estera americana
dopo l’11 settembre
e la questione della JOREDOJRYHUQDQFH
ZZZVRFLROXQLPLLWULFHUFDBSXEEOLFD]LRQLSKS
$OODULFHUFDGHOO¶LQWHUHVVHQD]LRQDOHSHUGXWR
/DSROLWLFDHVWHUDDPHULFDQDGRSRO¶VHWWHPEUH
HODTXHVWLRQHGHOODJOREDOJRYHUQDQFH
Tutte le parole perderanno il loro significato proprio.
L’annuncio della moderazione farà presagire l’impiego
della violenza; la proclamazione della giustizia preannuncerà
l’iniquità. Il diritto internazionale sarà trasformato in
un codice della sopraffazione e della barbarie. Tutti
quei principî che alla luce della ragione sono stati nel corso
di più secoli introdotti via via nelle relazioni tra popoli come
in quelle tra individui, saranno di nuovo contestati.
(%HQMDPLQ&RQVWDQW)
,OQXRYRQRPRVGHOODWHUUDXQLPXOWLSRODUHGLIUDPPHQWD]LRQHHODFULVLGHOODSUHYHGLELOLWj
Panico epistemologico. Stretching teorico-concettuale senza sosta. Confronto tra paradigmi rivali di relazioni
internazionali che spesso sfiora l’ incommensurabilità. Annunciata fine del fascino delle filosofie della storia ma,
contemporaneamente, proliferazione di una molteplicità di HQGLVPV davvero peculiare per un tempo che aveva
predetto la fine di ogni lettura teleologica della storia. E, ovviamente, epocale e, forse definitiva, crisi della
prevedibilità dei fenomeni politici internazionali, resa evidente, a tutti, dalla mancata previsione di macro-eventi
come l’ implosione dell’ ex URSS, la frammentazione dell’ ex-Yugoslavia, l’ inarrestabile parata di nuove sovranità
che proiettano il sistema internazionale verso una situazione di congenita e continua diffusione di potenza, per
concludere con l’ emersione di un terrorismo inedito, SULYDWR, tradizionalista e iper-tecnologico (quello di Al-Qaida
e affini). Crisi della prevedibilità, questa, che gli internazionalisti concordano nel far risalire non tanto a una
presunta intrinseca incapacità delle scienze sociali di farsi scienze predittive (sul modello di quelle sperimentali)1,
ma a ragioni che rimandano alla genealogia della disciplina DPHULFDQDdelleRelazioni Internazionali: consolidata
preferenza per i fenomeni aggregativi rispetto a quelli disaggregativi; predilezione per il concetto di ordine rispetto
al concetto di mutamento; obsolescenza di buona parte dell’ arsenale teorico-concettuale della giovane disciplina
relazioni internazionali, ancora fortemente condizionata dall’ irresistibile imprinting del sistema bipolare della
guerra fredda; tendenza a confondere - sovrapponendoli - i concetti di stato e nazione; irresistibile propensione a
vedere nelle aspirazioni alla VWDWHKRRG dei movimenti etno-nazionalistici, comportamenti appartenenti all’ infanzia
politica e, dunque, anacronistici; e, infine, crisi della prevedibilità dovuta al perdurante statocentrismo della
disciplina, che le ha impedito di pensarsi oltre lo stato (di fronte all’ insorgere di nuovi attori DOWUL dallo stato) e di
pensare le sintesi politiche -ogni sintesi politica- come non eterna, perché artificiale e non naturale (il Leviatano di
Hobbes era pensato sì come un Dio, ma mortale, PDFKLQDPDFKLQDUXP).
1
Incapacità semplicemente dimenticata, a causa dell’ overdose di produzioni intellettuali di stampo quantitativo di
plotoni di scienziati passati, dopo il 1985, dalle scienze naturali al settore delle scienze sociali.
Questo, in breve, lo status epistemologico che la disciplina delle relazioni internazionali dell’ era post-bipolare si è
trovata a dover gestire, dopo il risveglio dal torpore teorico in cui lo splendido cristallo della guerra fredda l’ aveva
gettata. Condizione epistemologica aggravata, sul versante empirico, almeno a partire dall’ implosione dell’ Urss, da
una costante e cronica situazione di mutamento della morfologia della politica internazionale, continuamente
ridisegnata dall’ intrecciarsi e sovrapporsi di una poliedricità di fenomeni senza precedenti: sconquassamenti
politico-territoriali e frammentazione delle sintesi polietniche del sistema internazionale; ritorno in grande stile
della variabile geopolitica con tutti i suoi orpelli teologici-politici; l’ avvento di almeno tre sistemi internazionali dal
crollo della Russia sovietica, sospesi tra antitetiche spinte alla diffusione di potenza e un’ irresistibile tendenza
all’ integrazione delle sue XQLWV a ogni livello possibile (economico, politico, giuridico, culturale oltreché,
ovviamente, tecnologico); l’ ingresso sul palcoscenico internazionale di nuovi attori non-statuali e il corto circuito
del diritto internazionale, sospeso tra difesa del particolarismo statuale e suo oltrepassamento (per meglio difendere
le norme di MXVFRJHQV, i diritti umani ad esempio); una guerra globale (dopo l’ 11 settembre) scatenata da nemici
“privati” e giustificata in termini etici e non politici (dall’ intensità dunque illimitata perché mossa dall’ ardore di far
giustizia più che trovare assetti di pace, di punire più che creare ordine politico); l’ emersione di problemi di portata
globale gestibili solo attraverso la cooperazione tra stati, l’ istituzionalizzazione di regimi internazionali e reti di
JOREDOPXOWLOD\HUJRYHUQDQFH, conseguenza diun’ interdipendenza senza precedenti che ha certamente posto le basi
per un infittirsi delle occasioni di cooperazione, ma anche aumentando, paradossalmente, le occasioni di conflitto
tra potenze rivali, o di soprusi tra potenze ineguali. E, ODVWEXWQRWOHDVWsituazione di smarrimento generale, questa,
certamente non aiutata dai continui imprevedibili ondeggiamenti dell’ egemone di turno della prima fase dell’ era
post-bipolare: gli Stati Uniti d’ America. Da subito indecisi (ossia dal marzo 1991) non solo se occupare o meno il
trono dell’ impero-mondo che, quasi loro malgrado, si sono trovati a dover gestire, ma soprattutto se procedere
all’ auto-investitura cercando di guadagnarsi un minimo di consenso da parte della comunità internazionale
(opzione multilaterale) o agendo G¶LPSHULR(opzione unilaterale): indecisi se gestire l’ impero IDFHQGRVLEHQYROHUH
(con autorità), o ripiegando sul mero abuso di strapotere.
Questa situazione di estrema imprevedibilità ha obbligato gli studiosi a intraprendere una navigazione a vista negli
arcipelaghi di teorie che costellano l’ oceano della disciplina “relazioni internazionali”, nel tentativo, titanico vista
l’ inaudita IOXLGLWj del momento, di dare un senso al succedersi continuo, peraltro in un breve arco di tempo (un
decennio), di vari sistemi internazionali tutt’ altro che omogenei (in senso DURQLDQR). Sforzi interpretativi spesso
disperati perché orfani, come non mai, delle splendide geometrie del sistema bipolare della guerra fredda, la cui
WHRULFD VHPSOLFLWj aveva concesso agli internazionalisti il lusso di non pensare la diversità storico-culturale delle
sintesi politiche e quella di ogni sistema internazionale, fatto, questo, che li portò ad accontentarsi di una certa
parsimonia esplicativa, perché ciò che contava di più nel periodo della guerra fredda, era l’ invadente sistema
bipolare, che condizionava (GHWHUPLQDYD per i neo-realisti) in modo irresistibile ogni politica estera.
In questa fluidità teorico-empirico-concettuale, i tentativi di dare forma agli eventi LQFRUVD, e in particolare quelli
volti a scovare una definizione per l’ attuale sistema internazionale e una lente di lettura della politica estera
dell’ egemone artefice dell’ ordine internazionale, gli Stati Uniti d’ America, sono stati molteplici.
Se archiviamo i framework interpretativi sullo scontro di civilizzazioni, sulla fine della storia per eccesso di vittoria
sullo sconfitto, sulla realizzazione dell’ utopia giusglobalista o dell’ incubo neo-medievalista di un impero-mondo di
sintesi politiche in guerra perenne per il controllo dei rispettivi feudi, due, ai fini della presente ricerca, meritano di
essere menzionati e analizzati. Il primo rimanda alla proposta di definizione dell’ attuale assetto del sistema
internazionale tentata da S. P. Huntington qualche anno fa, tutto volto a cercare un abile e agile compromesso tra le
analisi di marca realista-strutturalista, quelle degli alfieri liberali dell’ interdipendenza e quelle - attualissime - degli
apologeti della geopolitica. Il politologo internista di Harvard con il vizio delle relazioni internazionali, in un
articolo2 meno noto di molti altri che invece lo hanno consacrato guru degli scienziati sociali, proponeva la
seguente scaltra FDWFKDOOGHILQLWLRQ di sistema internazionale post-bipolare: uni-multipolare, un solo egemone - gli
Usa - e isole di multipolarità gestite da SLYRWDO VWDWH caratterizzate da: politiche estere dal deciso orientamento
espansionistico; competizione con i vicini e con l’ egemone per accaparrarsi le (solite) risorse scarse; propensione
spiccata a formare alleanze saltuariamente lungo faglie di civilizzazione; tentazione frequente di ricorrere all’ uso di
SUR[\ZDUV(guerre su procura); abitudine a interpretare il diritto internazionale a seconda del proprio particolare
contributo dato alla formazione di certe norme (soprattutto di diritto internazionale comune, ma anche positivo). Il
secondo framework interpretativo, dopo quello di Huntington sulla forma del sistema internazionale, utile per il
presento studio, è quello che tende a leggere la politica internazionale post-bipolare come caratterizzata da una
tensione tra dinamiche di frammentazione politico-territoriali (con conseguente aumento del tasso di natalità
statuale) e processi di integrazione economico-giuridica tra le XQLWV del sistema, che al contrario dovrebbero
contrarre numericamente la società degli stati. Gli studi sul fenomeno etnico-nazionale (su tutti quelli di Anthony
Smith) e quelli sulla globalizzazione (qui la letteratura è copiosa) nelle sue molteplici sfaccettature rientrano,
ovviamente, in questo ambito.
Il mare di incertezze della fase post-bipolare ondeggia, così, attorno a due fattori preponderanti su tutti gli altri e, al
contempo, incontrovertibili: persistenza di un sistema egemonico dominato dal colosso americano - per quanto
sfidato da potenze in ascesa - e dialettica frammentazione/integrazione tra le XQLWV del sistema. E’ proprio la
persistenza di questa duplice cruciale peculiarità della politica internazionale del dopo-guerra fredda, ad aver
incanalato l’ attenzione degli studiosi sul legame intercorrente tra due macro-fenomeni: lo studio della politica
estera americana e l’ analisi dei processi di frammentazione e integrazione o, come si dice oggi semplificando, di
globalizzazione.
Nelle pagine che seguono analizzeremo, legandoli, la politica estera americana e il fenomeno globalizzazione,
concentrando principalmente l’ attenzione su un aspetto: il rapporto intercorrente tra la politica estera di Washington
e la questione/necessità della “ governanza della globalizzazione” , tra le opzioni in politica estera a disposizione
delle amministrazioni americane e la necessità - vitale per la comunità internazionale - di pilotare la massa informe
dei fenomeni socio-politici di portata globale che assillano l’ era attuale, di trovare una risposta a quel catalogo di
angosce globali che l’ attuale sistema internazionale postwestphaliano sembra incapace di gestire. In particolare,
vedremo come l’ adozione di una politica estera alternativamente unilateralista o multilateralista mal si concili,
comunque, con la portata epocale dei fenomeni portati dalla globalizzazione e rappresenti, peraltro, una
raffigurazione delle alternative a disposizione di Washington, in un certo qual modo, semplicistica. Soprattutto
dopo gli eventi dell’ 11 settembre, che sembrano riportare l’ orologio delle relazioni internazionali all’ inizio
dell’ epoca westphaliana, quando le sintesi politiche lottavano per resistere alle pretese universalistiche dell’ impero.
Samuel P. Hunt ingt on, “ The Lonely Superpower. The New Dimension of Power” , )RUHLJQ $IIDLUV, March-April
1999
2
'HFOLQRHULWRUQRGHOORVWDWRQD]LRQH/¶XWRSLDJLXVJOREDOLVWDHODFULVLGHOGLULWWRLQWHUQD]LRQDOH
Analisti che pensano secondo i propri desideri. Questo fanno, spesso, gli studiosi di relazioni internazionali quando
sono impegnati a cercare di cambiare la politica internazionale semplicemente narrandola diversamente da quella
che q nella (vana) speranza di redimerla dallo spettro (sempre presente) della guerra. E’ così che spesso capita di
vederli impegnati a pensare i sistemi di alleanze per scopi meramente militari come forme embrionali di macrounioni continentali (lo spill-over tipico di certo funzionalsimo GLH KDUG); o a vedere nella devoluzione
circostanziale di quote di sovranità a organizzazioni sovranazionali la rinuncia definitiva (VWUXWWXUDOH direbbe
Michael Lind3) alla sovranità e annesso definitivo approdo a forme di obbligazione politica di natura meramente
contrattuale (il mondo post-moderno di Robert Cooper, consigliere di politica estera di Blair ed esteta dei futuribili,
ma anche quello del manager Kenichi Ohmae). Quando poi gli analisti sono mossi dall’ ardore dell’ utopia
giusglobalista del RQHZRUOG(come certa tradizionale ortodossia liberale delle relazioni internazionali e certo postmodernismo), allora non c’ è scampo: il ripotenziamento in atto della sovranità statuale altro non è che “ un innocuo
ritardo di percorso” , perché ormai inevitabile è l’ approdo a uno stato mondiale e conseguente trasformazione della
politica internazionale in polizia internazionale. Vizio, questo, di deformare sistematicamente la realtà con lo scopo
di cambiarla, tipico anche di quegli studiosi che amano raccontare che la loro principale (pre)occupazione è quella
di cercare di leggere la realtà con disincanto, SRVLWLYLVWLFDPHQWH, per scovare le regolarità della politica
internazionale. E’ questo il caso dei realisti (neo-strutturalisti, neo-classici offensivisti e neo-classici difensivisti),
impegnatissimi, come sempre, nel loro riflettere sul caso peggiore, sullo stato d’ eccezione (la minaccia all’ integrità
della sintesi politica), a mantenere questo proverbiale distacco senza accorgersi, peraltro, di riflettere come in uno
specchio la realtà che cercano di comprendere. Deformandola per l’ occasione per renderla DG XVXP GHOSKLQL. La
UHWRULFDrealista, infatti, resta fortemente prescrittiva, reca nel suo dna narrativo la missione di ben consigliare il
principe per consentirgli di mantenere e, magari, di estendere il regno: essa è tecnica di potere, Machiavelli è il vero
mentore degli alfieri della scuola realista. Sempre pronta, infatti, a enfatizzare quelle tendenze del sistema
internazionale che in qualche modo preparino o assicurino l’ egemonia americana nel sistema internazionale.
L’ irruzione del tempo nel gioco teorico è, decisamente, una costante nelle analisi di marca realista.
Il gioco, d’ incanto, è presto fatto. I liberali à la Keohane, in compagnia in questo caso dei post-modernisti e dei
FULWLFDO WKHRULVWV, in questo sforzo emanicipatorio dall’ incubo della guerra e della sovranità (la cui tenuta, a loro
dire, ne è la causa prima), sposano come unico antidoto DOO¶DUPDJHGGRQ hobbesiano del EHOOXP RPQLXP FRQWUD
RPQHV,la logica multilaterale e la cooperazione internazionale attraverso la proliferazione (questa sì incontrollata)
di regimi internazionali, che appunto dovrebbero limitare l’ anarchia. Il metodo? Il solito: irregimentazione e
sterilizzazione giuridica della politica internazionale, attraverso la moltiplicazione delle istituzioni e dei trattati, con
il fine di ammorbidire, fino alla sua irrilevanza, lo schermo statuale. Gli Usa, a tal proposito, secondo i liberalistituzionalisti, in quanto egemoni e in quanto custodi (armati) del verbo liberaldemocratico, dovrebbero ergersi a
garanti del rispetto delle norme e delle istituzioni internazionali, punendo le violazioni, ma senza per questo
pretendere di considerarsi OHJLEXV VROXWXV, sottratti alle prescrizioni del diritto. Ingiustificata, dunque, secondo i
liberali, la mancata ratifica del trattato istitutivo del Tribunale Penale Internazionale, e ancora meno la recente
approvazione (giovedì 12 giugno) in seno al Consiglio di Sicurezza (tra le proteste, ma senza l’ uso del diritto di
3 Michael Lind, “ The catalytic state” , 7KH1DWLRQDO,QWHUHVW, Spring 1992
veto), dell’ esenzione dei soldati americani dalla giurisdizione del TPI. Inascoltate le osservazioni di quegli studiosi
(realisti in gran parte) volte a ricordare ai liberal-istituzionalisti che il pretendere dall’ egemone l’ adozione di una
politica estera multilaterale nel perseguire il proprio interesse nazionale, e una di stampo unilaterale per punire i
trasgressori di una presunta volontà generale della comunità internazionale, è semplicemente ingenuo; mentre, il
negare all’ egemone ogni pretesa di primato ma, al contempo, invocarne la (pre)potenza ordinatrice per contenere le
inevitabili derive anarchiche del sistema, la diffusione di potenza e la multipolarizzazione del sistema
internazionale che ridurrebbe il diritto internazionale a semplice “ merce di scambio” , è decisamente ingenuo.
Ora, i fatti, a guardare l’ andamento della politica internazionale di questi anni, soprattutto dopo l’ 11 settembre,
sembrano dare ragione alle previsioni (prescrittive) dei realisti. L’ aggiramento senza troppi complimenti e a più
riprese dell’ intera impalcatura del 3HDFH 3DODFH dell’ ONU da parte dell’ asse anglo-americano e alleati del
momento, prima e dopo la campagna d’ Iraq, ma anche da parte degli altri grandi attori del sistema internazionale
(Francia in Costa d’ Avorio, Russia in Cecenia, Cina nello Xinjiang musulmano per limitarci ad alcuni sparuti ma
significativi casi); l’ apologia di interesse nazionale contenuta nelle principali dottrine strategiche americane; il
ritorno di vecchie e storiche rivalità tra potenze europee (Francia e Regno Unito), l’ emergere di nuove (tra Unione
europea e Stati Uniti); i tentativi a oltranza delle HWQLH YDFDQWL di guadagnare la prestigiosa VWDWHKRRG, senza
accontentarsi della semplice autonomia amministrativa; la persistenza di sistemi internazionali regionali di tipo
westphaliano (quelli del continente africano sub-sahariano, quello estremo-orientale); l’ irrigidimento delle frontiere
a seguito degli attentati alle Torri Gemelle, l’ adozione di legislazioni d’ emergenza per fronteggiare la minaccia del
terrorismo di matrice fondamentalista-islamista. Questi, e molti altri eventi, hanno palesato, da una parte la crisi
senza precedenti del diritto internazionale, dall’ altra la resurrezione (WHQXWD direbbero i realisti) del soggetto
politico principe delle relazioni internazionali, forse troppo frettolosamente dato per morto: lo stato-nazione e il suo
orpello giuridico-politico, la sua istituzione più importante: la sovranità.
Impegnati (e ossessionati) a vedere sempre e comunque segni dell’ ormai imminente estinzione del Leviatano, gli
infaticabili detrattori dello stato ed esteti della previsione, per amor di globalismo, non si sono accorti che la
prospettiva da cui, in epoca di globalizzazione, si doveva osservare l’ evoluzione dello stato doveva essere non solo
quella interna ma DQFKH e soprattutto quella internazionale, quella del sistema internazionale, il cui (per ora)
ineliminabile dilemma della sicurezza spiegherebbe l’ incredibile tenuta dello Stato moderno, la sua capacità di
adattarsi, riformandosi, alla mutevolezza dei sistemi internazionali e ai cambiamenti socio-economici, da almeno
tre secoli, UHLQYHQWDQGRVL. Se poi i detrattori dello stato avessero rivolto la loro attenzione allo studio DQFKH della
realtà empirica, si sarebbero accorti che parlare di una generica crisi della sovranità o di crisi dell’ identità nazionale
e dello stato, più in generale, avrebbe avuto, appunto, uno scarsissimo riscontro empirico. E si sarebbero potuti
render conto come l’ agonia del diritto internazionale e delle sue istituzioni a vocazione regionale e universale, sono
proprio la conseguenza di questo ri-potenziamento della sovranità statuale, in atto da tempo (teoricamente dal
crollo della Russia sovietica, in realtà dalla decolonizzazione), ma poco considerata a causa di un’ attenzione forse
eccessiva per i fenomeni aggregativi della convivenza internazionale e per la presunta LQHVRUDELOH tendenza storica
alla formazione di un unico sistema politico globale (causa sovradimensionamento dell’ impatto dell’ integrazione
tecnologica del sistema internazionale). In breve: la predilezione degli studiosi per l’ integrazione politicoeconomica (la tanto evocata globalizzazione) a discapito delle spinte alla frammentazione del sistema, ha impedito
di prendere nella dovuta considerazione quella miriade di fattori che si risolvono, al contrario, in un rafforzamento
della statualità. Effettivamente numerosi e cruciali.
Il lunghissimo Novecento è stato, innanzitutto, il secolo dello VWDWHEXLOGLQJ, ossia della proliferazione incontrollata
del numero degli stati (il cui tasso di natalità è tuttora inarrestabile); il principio di autodeterminazione dei popoli,
almeno dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando coerentemente applicato negli stati polietnici, è stato ed è
un inno alla statualità, professa la fedeltà alla VWDWHKRRG; la detenzione delle armi di distruzione di massa
annichilisce la capacità dello stato che non le ha di proteggere i propri cittadini (in corto circuito la dialettica
SURWHJR HUJR REOLJR che lega stato e cives), ma, congiuntamente, tutela al cuore l’ integrità ultima dello stato
possessore; la stessa globalizzazione dovrebbe leggersi, innanzitutto, come esportazione su scala globale della
forma VWDWR. Non solo. A essere in crisi è probabilmente la versione SDQFLXWD dello stato, mentre quella in atto è una
devoluzione VROR circostanziale (dunque sempre reversibile) e non strutturale di quote di sovranità alle
organizzazioni sovranazionali; la minore invadenza dell’ attuale sistema internazionale multipolare apre margini di
libertà agli stati sconosciuti durante la guerra fredda, mentre la grande rivincita del diritto internazionale avvenuta
con l’ istituzione di un Tribunale Penale Internazionale, è stata azzerata proprio da un suo articolo (il 16), la cui
applicazione consente al Consiglio di Sicurezza - il club degli egemoni - di sospenderne discrezionalmente le
iniziative. Per non parlare delle nuove guerre, come quelle informatiche condotte da hacker al soldo di uno stato in
lotta con gli stati-rivali, o quelle contro il terrorismo globale che si palesano sia nell’ adozione di legislazioni di
emergenza sul fronte interno, sia nella guerra agli stati sponsor su quello internazionale (dando così vita a guerre
tutte inter-statali).
Il diritto internazionale, per parte sua, incontra più di una difficoltà nell’ adeguarsi alle sfide dell’ era della
globalizzazione del JLXULGLFR, in questo caso, DQFKH a causa della crisi delle organizzazioni statuali nel mantenere il
monopolio della produzione normativa. Come ha lucidamente affrescato Maria Rosaria Ferrarese4, lo Stato, difatti,
non sta tanto perdendo il monopolio del SROLWLFR, quanto soprattutto quello del JLXULGLFR: il diritto ha cessato di
essere un monopolio statale, da quando vige un’ autentica competizione tra soggetti di natura diversa nel processo
di produzione giuridico (tra le grandi ODZILUPV): il diritto è ormai un dirittojODFDUWH, un prodotto continuamente
negoziabile a seconda delle esigenze, le cui norme seguono l’ accadimento dei fatti e il prodursi di bisogni invece
che anticiparli o regolarli. Le norme del diritto internazionale subiscono un processo di riscrizione continua,
rispondono a una ORJLFDUHDWWLYD.
Orbene, il successo dello Stato nell’ adeguarsi alle pressioni poste dalla globalizzazione, sembra mandare in
ulteriore corto circuito un diritto internazionale a vocazione universale, sempre confidante nell’ oltrepassamento
della statualità quale precondizione per una sua autentica effettività. Il diritto internazionale sembra mostrarsi
incompatibile non solo con un sistema internazionale egemonico-imperiale quale quello attuale, dove l’ imperatore
si considera ed è, nei fatti, OHJLEXV VROXWXV, sciolto dagli obblighi giuridici; ma anche, prevedibilmente, con un
eventuale sistema internazionale multipolare, perché la “ comunità degli egemoni” vedrebbe nell’ ordinamento
giuridico internazionale un fastidioso ostacolo ai propri “ appetiti regionali” , adducendo quale scusa per la non
ottemperanza delle sue norme, la mancanza di una sua universalità normativa, rendendo palese, così, la grande
tensione tra particolarismo politico ed eterogeneità cultural-giuridica del genere umano, così decisiva nell’ era del
confronto globale.
La legittimità di un ordinamento giuridico internazionale, con buona pace dei IDQ GHO RQH ZRUOG, dipende
irresistibilmente dall’ impossibilità per qualunque attore di considerarsi OHJLEXV VROXWXV. L’ ipotesi di uno stato
4
Maria Rosaria Ferrarese, /HLVWLWX]LRQLGHOODJOREDOL]]D]LRQH, Bologna, Il Mulino, 2000
mondiale liberal-democratico (massima espressione di statualità concepibile), di un solo attore politico coincidente
con l’ intero globo terrestre, sembra essere per quanto remota e forse anche un po’ fantascientifica, l’ unica sede
davvero appropriata per un diritto internazionale DOOD ULFHUFD GHOOD OHJLWWLPLWj SHUGXWD. L’ utopia gius-globalista
della “ Pace attraverso la legge” e dell’ unità politico-morale dell’ umanità, quando si realizzerà, se mai si realizzerà,
passerà ancora per i vecchi QRWL canali della statualità. Perché, per ora, lo Stato resta ancora l’ unica forma di
organizzazione politico-territoriale conosciuta e inventata. Altre, per ora, aspettano di essere inventate.
La forza dello stato non solo nel resistere alle sfide della globalizzazione, ma addirittura nell’ agire da NDWHFKRQ, da
forza frenante, nei confronti di processi potenzialmente in grado di annichilire i concetti di sovranità, confine,
monopolio del politico, che ridurrebbero lo stato, TXDOXQTXH stato, all’ impotenza, ha un riscontro empirico
oltremodo sorprendente, se si volge l’ attenzione alle politiche adottate dalla Washington repubblicana del dopo-11
settembre, sul versante interno e su quello internazionale: ricorso a legislazioni di emergenza per fronteggiare la
minaccia terroristica (alterato il delicato equilibrio libertà/sicurezza); proposta del ministro della giustizia John
Ashcroft di limitare la libertà di espressione (il caso Bursey); quasi chiusura dei confini con il Canada (aggirato,
senza troppi complimenti, il NAFTA); politica estera improntata a un forte unilateralismo (linea Bush-RumsfeldWolfowitz), pur in un sistema internazionale in via di progressiva multipolarizzazione e, dunque, lotte di
giurisdizione tra dipartimento di stato e della difesa, vinte sistematicamente dal secondo (politica estera fatta da
“ burocrati-guerrieri” , come insistono le testate giornalistiche americane); dipendenza delle alleanze dalle missioni e
non viceversa (dottrina Rumsfeld) e conseguente – potenziale – fine dell’ eternità delle alleanze internazionali
eredità della guerra fredda (Nato in testa); rifiuto dell’ autorità (ultima) di qualsiasi istituzione internazionale
(Nazioni Unite, Tribunale Penale Internazionale) che in qualche modo limiti la libertà di manovra dell’ esecutivo in
politica estera; l’ esenzione dalla giurisdizione dei tribunali internazionali (e locali5) dei propri soldati; rifiuto di un
sostegno a priori nei confronti della protezione dei beni collettivi globali - su tutti l’ ambiente - (si pensi alla
mancata ratifica Protocolli di Kyoto giustificata in termini di competizione tra potenze). In breve: una politica
estera, quella dei neoconservatori, che vede nella tutela a oltranza dell’ interesse nazionale la *UXQGQRUP della
società degli stati del XXI secolo. E in un pan-interventismo senza limiti, DQFKH per instaurare la democrazia (o
“ imporre” , come recita la dottrina Wolfowitz), che, non solo sta riducendo ai minimi termini l’ idea di comunità
internazionale, ma che, sottolinea certa storiografia americana, rappresenta una grande novità rispetto alla
tradizionale politica estera americana dei repubblicani, solitamente caratterizzata da una forte predilezione per un
contenimento degli impegni all’ estero, (causa rischio di LPSHULDO RYHUVWUHWFK e alterazione del “ Lippmann gap” ),
per una politica estera di RIIVKRUHEDODQFLQJ. In una parola: predilezione per una politica estera isolazionista, per
l’ $PHULFDILUVWDQGVHFRQGDQGWKLUG. Almeno fino all’ 11 settembre.
,OGLOHPPDLVROD]LRQLVPRLQWHUQD]LRQDOLVPR
C’ era una volta l’ alternativa isolazionismo/internazionalismo. All’ indomani della risicatissima vittoria di Bush II
nelle presidenziali contro il rivale Gore, il dibattito massmediatico sulla politica estera proposta dai due candidati
alla presidenza, ruotava, com’ era del resto prevedibile, attorno alla classica nota dicotomia isolazionismointernazionalismo. All’ internazionalismo pan-interventista tipico dell’ ideologia liberal-progressista di un Gore che
Si veda la disputa tra Stati Uniti e Belgio del giugno 2003, riguardo all’ eventualità – legalmente possibile – che il
generale Tommy Franks possa essere incriminato per crimini contro l’ umanità da un giudice belga, qualora si
recasse nella sede Nato di Bruxelles.
vedeva nella sistematica e diffusa violazione dei diritti umani da parte delle numerose VRFLHWjFKLXVHdel sistema
inter-statale, nell’ incontrollata proliferazione degli arsenali nucleari e delle armi batteriologice e chimiche, nei
fenomeni di sciovinismo etnico e nella bellicosità destabilizzante dei URJXH VWDWHV, le ragioni per continuare ad
essere VFHULIIL del milieu post-bipolare conservando la supremazia perché LQWHUQDWLRQDOSULPDF\PDWWHUV(agli Usa e
a tutti), faceva da contraltare, in caso di vittoria, secondo i media americani (ma non solo), il neo-isolazionismo
conservatore del repubblicano George W. Bush, favorevole invece a un consistente disimpegno degli Usa da buona
parte degli scenari di crisi internazionali (a partire da quelli europei); scelta inevitabile, questa, secondo il plotone
QHRFRQ, per evitare la crisi fiscale del sistema statunitense causa LPSHULDO RYHUVWUHFWK, conseguenza
dell’ alterazione definitiva di quel “ Lippmann gap” (delicato equilibrio tra impegni all’ estero e risorse), che almeno
dalla dottrina del containment incombe sulle scelte di ogni amministrazione. In breve: secondo gli allarmati
columnist e opinionisti del tempo, alla politica internazionale come VRFLDOZRUNdi un Clinton sarebbe seguita una
politica estera molto oculata quanto a interventismo e caratterizzata da una scaltra, di britannica memoria, strategia
di HQJDJHPHQWZLWKRXWHQWDQJOHPHQW.
Ora, la dicotomia isolazionismo-internazionalismo ri-proposta con quella insistenza dagli opinion maker, non
teneva però in debito conto che il cosiddetto isolazionismo americano aveva tradizionalmente significato molto di
più di un semplice ULSLHJDUVLin patria sulle note dell’ $PHULFDILUVWDQGVHFRQGDQGWKLUG di un Pat Buchanan ed
epigoni. Isolazionista la politica estera americana lo era stata certamente in passato, ma solo se con tale espressione
si intende il rifiuto di impegni permanenti per garantirsi una libertà d’ azione dai bellicosi europei e dalla perfida
Albione; senza però dimenticarsi che ciò che così spesso si era definito isolazionismo era il semplice e saltuario
disimpegno Usa dallo scacchiere europeo, conseguenza di uno spostamento dell’ interesse nazionale americano
verso altre aree del mondo, LQSULPLV l’ area del Pacifico (quest’ accezione di isolazionismo dimostrandosi, così, nei
fatti, il frutto di una percezione tutta europea della politica estera americana). Non solo: la dicotomia
isolazionismo/internazionalismo così come presentata dai mass-media ma anche da numerosi politologi e storici,
era una falsa e per molti versi fuorviante chiave di lettura della politica estera americana, perché, alla prova dei
fatti, mai gli Usa avevano adottato una politica estera strettamente isolazionista. Persino prima del fatidico 1898,
anno della guerra ispano-americana e tradizionalmente data di riferimento per gli storici dell’ inizio di un’ autentica
politica estera di Washington, sostenere che gli americani erano privi di una politica estera semplicemente perché
poco interessati ai “ confronti di potenza” del teatro europeo, lascia un po’ perplessi. Di più. Come dimenticare la
spettacolare espansione territoriale senza precedenti delle 13 colonie nel corso dell’ 800, che, secondo alcuni,
continua addirittura ancora oggi (con il condominio internazionale sull’ Iraq, praticamente diventato una sorta di
51esimo stato6, sotto il governatorato di Bremer III)? Quella era politica estera della specie più nota agli europei: di
tipo espansionista.
A rendere ancor più inverosimili i timori di neo-isolazionismo del team Bush II, stavano poi, innanzitutto, la
pubblicazione, prima e dopo la vittoria alle presidenziali, di una costellazione di scritti di stampo neo-reaganiano
super-interventista da parte di quelli che sarebbero poi diventati membri dell’ esecutivo e consiglieri del presidente
Bush II (Paul Wolfowitz, Condi Rice, il duo Kristol e Kagan, per citarne alcuni). E, in secondo luogo, una serie di
gravi disfunzioni della politica internazionale che agivano come forze sistemiche irresistibili, e che resero
necessario e, per un verso inevitabile, il coinvolgimento di Washington, perché da un eventuale suo disimpegno
6
James Fallow, “ The f ift y-first st at e” , At lant ic Mont hly , November 2002
poteva derivare – neanche troppo indirettamente - una grave minaccia per l’ interesse nazionale americano:
l’ incapacità dimostrata dalle potenze e dalle organizzazioni regionali nell’ accomodare le crisi inter-statali e quelle
intra-statali (l’ incubo dei IDLOHG VWDWHV, divenuto realtà con l’ 11 settembre); la grave incertezza sulle regole e i
principi che regolano la politica internazionale; la potenziale dis-integrazione delle compagini politiche polietniche
e la minaccia costituita dai URJXHVWDWH, in corsa per accaparrarsi dosi massicce di armi di distruzione di massa, sia
per garantire al meglio la propria sicurezza, ma anche per cercare di sfuggire alle ritorsioni americane (ricorrendo,
appunto, alla minaccia dell’ uso di una WMD) .
Così accadde. La vittoria della compagine repubblicana di Bush II e l’ inaugurazione di una politica estera superinterventista rese così, una volta per tutte, surreale e anacronistica l’ ipotesi isolazionista, e, con essa, la dicotomia
esplicativa isolazionismo/internazionalismo. Gli eventi dell’ 11 settembre, poi, e il conseguente impegno in politica
estera a 360 gradi della Washington repubblicana-protestante, semplicemente resero inadeguata questa antiquata e
poco utile chiave di lettura della politica estera americana.
La pluralità delle minacce e la progressiva multipolarizzazione del sistema internazionale conseguenza anche della
“ politica delle concessioni” di Washington7, hanno, in altre parole, predisposto l’ amministrazione repubblicana di
Bush II a confezionare una politica estera certamente differente dalla precedente, cocktail di pan-interventismo prodemocrazia (accantonato, per ora, il libero mercato), corretto con gocce abbondanti di tradizionale SRZHUSROLWLFV.
Questo rimescolamento di tradizioni di politica estera ha comportato, da subito, la necessità di predisporre nuove
chiavi di lettura dell’ operato di Washington nell’ arena internazionale. E’ così che sul mercato dei framework di
politica estera americana ha fatto la sua comparsa la dicotomia unilateralismo/multilateralismo, dagli analisti
indicata come utilissima per spiegare lo stile dell’ aquila, e dai SUDFWLWLRQHUV come l’ alternativa per eccellenzatra cui
scegliere nell’ elaborare e implementare la politica estera. Da una parte, la predilezione dei multilateralisti per
un’ egemonia FKHVLIDEHQYROHUH, che cerca di legittimare il proprio operato guadagnandosi il consenso attraverso il
ricorso continuo alla consultazione e alla cooperazione multilaterale, ritenendo che i problemi dell’ era della
globalizzazione non possano esser gestiti unilateralmente (un esempio: la terza via alla globalizzazione di Clinton
ed adepti e le digressioni scientifiche di un Keohane o di un Nye); dall’ altra la posizione di coloro8 che vedono
nella logica multilaterale una semplice strategia per “ dividersi le spese prima di dividersi l’ incasso” (EXUGHQ
VKDULQJ), perché lo spettro dell’ imperial overstretch è sempre in agguato, e una strategia per generare consenso tra
gli amici ma non necessariamente tra gli alleati (perché come recita la dottrina Rumsfeld, <<le missioni creano le
alleanze non viceversa>>). Ricerca del consenso, secondo questi ultimi, non indispensabile per agire sulla
scacchiera internazionale qualora la tutela dell’ interesse nazionale americano richiedesse necessario un intervento
immediato. In tal caso, l’ America farebbe anche da sola.
7
Gli Usa, dopo l’ 11 set t embre, per pot er agire indist urbat i nella lot t a globale al t errorismo, si sono appoggiat i
agli st at i pivot di ogni sist ema geopolit ico regionale, riconoscendone il ruolo di “ ordinat ori regionali” (cessando
di curarsi dell’ event uale violazione dei dirit t i delle numerose minoranze nazionali), dando vit a a nuove inedit e
speciali relazioni (Polonia, Uzbekist an, Romania ad esempio) e iniziando un’ opera di PLOLWDU\ UHDOLJQPHQW su
vast a scala (apert ura di nuove basi milit ari e chiusura di molt e di quelle esist ent i in cont est i geopolit ici giudicat i
non più cruciali per la lot t a al t errorismo). Riallineament o, che dobrebbe consent ire un più facile int ervenmt o
negli scenari geopolit ici fert ili al proliferare delle cellule t errorist iche di Al-Qaida e affini. Si vedano, a quest o
proposit o, le dichiarazioni del sot t osegret ario Wolfowit z nel suo recent e viaggio in Est remo Orient e e quelle di
Andy Hoehn, addet t o alle quest ioni st rat egiche del DD, sulla necessit à di cont rollare “ l’ arco di inst abilit à” del
t errorismo int ernazionale, at t raverso la chiusura delle basi, ent ro il 2005, di Okinawa e in Germania
(www.defenselink.mil/ news/ ).
8
Lo st esso president e Bush II, Condoleezza Rice, Paul Wolfowit z e gli analist i, ad esempio, del PNAC.
Il banco di prova di questa nuova dicotomia interpretativa della politica estera americana venne imbandito quasi
subito: in occasione dell’ 11 settembre. Che stravolse tutto: gli americani iniziarono a guardare con crescente
diffidenza l’ inefficienza delle strategie multilateraliste nel garantire la sicurezza dello stato, cominciarono la conta
dei nemici e degli amici e ricominciarono a parlare brutalmente – cioè accantonando l’ arma diplomatica degli
eufemismi – di tutela a oltranza dell’ interesse nazionale quale primario obiettivo di una politica estera assertiva. Il
motto poi ossessivamente ripetuto dai QHRFRQ al potere - chi non è con noi è contro di noi -, ben riassume la
posizione di ferrea intolleranza dell’ amministrazione Bush verso gli indecisi, ossessionata dal ripetersi della strage
del World Trade Center. Amministrazione che, a partire dai bombardamenti su Kabul iniziati già il 12 settembre
2001 per proseguire con la campagna d’ Iraq, inaugurò una serie di spettacolari aggiramenti del diritto
internazionale e delle sue istituzioni, che quasi azzerarono ogni parvenza comunitaria della convivenza
internazionale. Sull’ altare della sicurezza nazionale, l’ amministrazione Bush II sacrificò senza troppi complimenti
l’ opzione multilateralista, incrinando delicati equilibri con grandi potenze regionali (ri)emergenti (Russia e Cina),
alterando storici rapporti di cooperazione con alleati tradizionali (l’ asse franco-tedesco), seppur aprendo nuove
LQWHVHFRUGLDOL(con l’ Europa Centro-orientale e l’ India) e dando vita a inedite speciali relazioni (con la Polonia).
Questa deriva unilateralista intrapresa dall’ amministrazione repubblicana al potere a Washington, ha avuto subito,
prevedibilmente, una vittima illustre: la SROLWLFDJOREDOH, la concertazione tra potenze soprattutto in sede Onu per
gestire e dare forma alla FRQIXVLRQH della globalizzazione, per predisporre la JOREDOJRYHUQDQFHGHOVLVWHPD. Deriva
unilateralista, questa, che ha reso, così, difficile la gestione delle emergenze globali e delle angosce planetarie (lotta
al terrorismo, al crimine organizzato su scala trans-nazionale, questione ambientale e proliferazione WMD). Con
conseguente corto circuito del buon funzionamento delle istituzioni sovranazionali e, in particolare, del diritto
internazionale, sull’ interpretazione delle cui norme ormai le grandi potenze del sistema internazionale hanno già
intrapreso una cinica contrattazione senza sosta.
8QLODWHUDOLVPRUHDOLVWDPXOWLODWHUDOLVPROLEHUDOHHJOREDOJRYHUQDQFH
Quella in atto è una contesa tra mondi e tra relative visioni del mondo. La divisione del sistema inter-statale in un
pluriverso di ordini parziali gestiti da potenze regionali a vocazione imperiale (e, talvolta, universale), è la
conseguenza certamente di un dato oggettivamente materiale - la distribuzione delle FDSDELOLWLHV nel sistema
internazionale (numero effettivo di super e grandi potenze) -, ma anche del modo di descrivere la forma del sistema
internazionale e di narrarne la struttura.
Ora, le teorie di relazioni internazionali che descrivono quest’ alternativa unilateralismo/multilateralismo a
disposizione di Washington nell’ elaborare la propria politica estera, sono molteplici ovviamente, ma possono,
senza troppe forzature, esser ricomprese entro i due più classici paradigmi della disciplina: il liberalismoistituzionale, con la sua enfasi sulla dimensione cooperativa della convivenza internazionale quale unico antidoto
all’ anarchia endemica del sistema internazionale (perché non c’ è un DUFKqmondiale sovrano e l’ egemone di turno
pretende sempre di essere OHJLEXV VROXWXV), la sua predilezione per la variabile istituzionale, che generando
aspettative tra gli attori limita la diffidenza reciproca, contenendo gli effetti perversi del dilemma della sicurezza (il
dogma numero uno del credo realista). Il secondo paradigma è quello realista (classico o strutturale, offensivista o
difensivista che sia) con la sua attenzione ai rapporti e alla distribuzione della forza, la sua predilezione per il caso
peggiore (quello in cui è minacciata la sicurezza dello stato) a causa di premesse filosofiche che sposano la
prospettiva del pessimismo antropologico, che vedono nella rivalità tra stati per accaparrarsi risorse scarse la
normalità, per concludere con il gioco della grande politica internazionale e la forma anarchica del sistema
internazionale (per riprendere lo schema delle tre immagini di Waltz), che spiegherebbero tutto, consentendo al
plotone di Waltz e compagni di predire tutto, sulla base del forte stampo positivista del loro approccio volto a
scoprire (più spesso a inventare), presunte regolarità della politica internazionale.
Se vediamo un po’ più da vicino le posizioni di questi due paradigmi e relative teorie dedotte per interpretare lo
VWLOHGHOO¶DTXLOD, secondo i realisti, l’ unipolarità di un sistema internazionale porta sempre (prima o poi) l’ egemone
del sistema ad adottare una politica estera di tipo unilaterale, a prescindere,ricordano i realisti con un curioso
riduzionismo al contrario, dalla cultura politica della leadership al potere nello stato egemone del sistema, perché
l’ abnorme concentrazione di potere che un sistema unipolare riconosce (di fatto) all’ unica superpotenza rende
questa tutt’ altro che indifferente al potere, anzi la predispone all’ arroganza da K\SHUSXLVVDQFH. E’ questa, secondo
la vulgata realista, una delle poche regolarità del gioco della politica internazionale. Unilateralismo da surplus di
potenza cui seguirebbe, secondo i realisti, la formazione di un EDODQFHRISRZHU(ecco un’ altra regolarità), ossia la
formazione di blocchi di potenze che si oppongo e cercano di controbilanciare l’ egemonia americana (è il caso del
recente asse franco-sino-russo-tedesco in occasione dell’ annuncio dell’ invasione dell’ Iraq). Controbilanciamento
attenuato, come purtroppo non ci ricordano i realisti, dall’ inedito (per la propria tradizione di politica estera) ruolo
della Gran Bretagna, che affidandosi a una strategia di EDQGZDJRQLQJ, ha deciso di non unirsi al blocco ostile agli
Usa ma di saltare sul carro dell’ egemone per impedire, stando alle parole del premier Blair, che contro gli Usa si
formi una coalizione composta DQFKH di democrazie che avrebbe non solo trasformato lo sceriffo riluttante in
ranger solitario, ma soprattutto avrebbe significato la fine di Occidente, come spazio geopolitico unito e come
cassaforte del verbo liberaldemocratico. A vuoto, dunque, gli ammonimenti di un’ importante schiera di analisti
realisti (K. N. Waltz, S. Walt, R. Gilpin, J. Mearsheimer per citarne alcuni), che guardano con crescente
preoccupazione a questa deriva unilateralista dell’ amministrazione Bush II, non solo perché preludio alla
formazione di blocchi ostili agli Usa anche tra gli alleati tradizionali; ma, soprattutto, perché in agguato sta sempre
il rischio dell’ LPSHULDO RYHUVWUHWFK, la crisi fiscale del sistema per eccesso di zelo guerresco. Gli Usa, secondo
costoro, dovrebbero limitare gli impegni all’ estero, puntare sulle alleanze (non foss’ altro che per dividere le spese),
e credere meno al mito di un’ $PHULFDDVDPRGHOIRUWKHZRUOG.
Secondo la tradizione liberal-idealista (o liberal-istituzionalista), al contrario, la variabile sistemica (la struttura del
sistema internazionale,) certo condiziona (non GHWHUPLQD come per i realisti) il tipo di politica estera che uno stato
adotterà, ma ancora di più conta la particolare cultura politica, il particolare orientamento ideologico-politico della
leadership al potere, il bargaining tra i gruppi di potere (lobbies economiche ed etniche) all’ interno del sistema
politico. In tal senso, per i liberali, la dicotomia unilateralismo/multilateralismo rimanda a uno stile di condotta in
politica estera determinato da variabili quasi tutte interne e non dalla distribuzione di potenza nel sistema
internazionale: i repubblicani o i democratici al potere fanno la differenza. Per i liberali resta, come sempre9, valido
il primato della politica estera su quella internazionale. I fan del multilateralismo della galassia liberale delle
relazioni internazionali (Keohane, Nye, per citare i più famosi), ritengono, dunque, che nell’ era della politica
integrale, della globalizzazione dell’ HFRQRPLFR e del JLXULGLFR (in senso neutro), $PHULFD FDQ¶W JR LW DORQH. Da
9 Cioè dal primo grande dibat t it o met odologico della disciplina (il cosiddet t o ILUVWGHEDWH).
questa premessa, i liberal-istituzionalisti traggono la conclusione che la gestione della dimensione globale di molte
delle urgenze e delle angosce che assediano il mondo oggi, sarebbe più facile, secondo loro, se gli Usa – l’ egemone
di turno - adottassero una politica estera di stampo multilaterale, vale a dire rispettosa delle esigenze della comunità
internazionale con cui dovrebbero concordare la costruzione di un ordine internazionale traendo ispirazione dallo
stile versagliese, ossequiosa verso la stipulazione di quei trattati pensati per tutelare l’ ambiente globale (fisico e
politico) e comunque sempre anteponente l’ interesse nazionale globale (della grande famiglia dell’ umanità) rispetto
a quello ristretto degli Stati Uniti. Di più. Fenomeni come il crimine organizzato trans-nazionale incontrollabile, i
devastanti problemi ambientali di questi anni, flussi migratori che ormai annichiliscono l’ idea di confine rendendo
lo stato poroso a qualsiasi ingresso di gruppi DOWULda quelli nazionali, una tecnologia scatenata sempre più difficile
da incatenare: orbene, ripete ossessivamente la vulgata liberale, tutto ciò dovrebbe suggerire all’ egemone
americano che la cooperazione internazionale è l’ unica soluzione alla gestione di queste issues, pena implosione del
sistema. E, dal momento che la politica estera è una politica pubblica, anzi OD politica pubblica per eccellenza,
ricordano i liberali, frutto sia della cultura politica delle pOLWHV che dei compromessi e delle contrattazioni tra le
lobbies del sistema politico interno, occorre puntare sul consolidamento e diffusione di una cultura politica (tipo
quella clintoniana della Terza Via) che impregni la politica estera americana di uno spirito fortemente
multilateralista, per impedire che l’ unipolarismo generi una politica estera unilateralista. Cercando, così, di evitare
di alterare il delicato equilibrio tra impegni all’ estero/risorse per eccesso di zelo umanitario che porterebbe
all¶LPSHULDORYHUVWUHWFK, mettendo a rischio la tenuta del sistema politico-fiscale americano (spese delle missioni
condivise con IULHQGV DQGDOOLHV), e soprattutto per bloccare il dilemma della sicurezza (tanto amato dai realisti),
quella condizione di diffidenza di tutti contro tutti che mantiene il sistema internazionale in una condizione sempre
prossima agli incubi hobbesiani.
Da tutto ciò si evince che la dicotomia unilateralismo/multilateralismo quale alternativa a disposizione di analisti e
policy makers per pensare e analizzare la politica estera americana, è soprattutto la conseguenza del modo di
guardare alla politica internazionale (da quella interna) delle lenti liberali, che deformano, sdoppiandole, le opzioni
a disposizione della politica estera americana. Perché per i realisti questa è una falsa dicotomia, giacché la politica
estera di uno stato sarà sempre, in ultima istanza, e non potrebbe essere diversamente, unilateralista perché pensata
(e volta) a tutelare l’ integrità dello stato: il multilateralismo, per i realisti, può andare bene, saltuariamente, per
issues di secondaria importanza, per ingraziarsi l’ opinione pubblica (interna e internazionale) prima e durante
qualche esibizione di potenza e in ogni caso mai quando è davvero in gioco l’ interesse nazionale. Cioè,
potenzialmente, sempre. Come ha sostenuto con la sua solita buona dose di ruvidità Robert Kagan, alfiere del
realismo ortodosso, i multilateralisti americani sono, nei fatti, unilateralisti o con gentile giro di parole,
“ multilateralisti strumentali” : l’ appello alle alleanze altro non nasconderebbe che esigenze da EXUGHQ VKDULQJ,
quello alle organizzazioni internazionali consentirebbe agli americani di agire ancora più indisturbati (godendo del
consenso dei fori internazionali), mentre quello all’ umanità altro non sarebbe che il più diabolico dei mezzi per
squalificare l’ avversario, trasformando così la guerra in crociata, punendo lo sconfitto imponendogli una pace
altamente penalizzante perché aveva attentato all’ ordine internazionale.
Cinico disincanto, questo dei realisti, che non è spezzato dal tentativo un pò naïf di un liberale come Nye, che ogni
tanto veste i panni del realista e che in un recentissimo articolo10 prova a pensare sette test per stabilire quando la
10
Joseph S. Nye, “ Seven t est s. Bet ween concert and unilat eralism” , The Nat ional Int erest , Wint er 2001, pp. 10ss.
logica multilaterale sia la via migliore. Il risultato: quando ciò non interferisce con l’ interesse nazionale. Tradotto in
gergo realista: potenzialmente, sempre.
,QXRYLGRFXPHQWLVWUDWHJLFLDPHULFDQL
Le dottrine Bush (quella del settembre 2002 e quella del febbraio 2003) tolgono il fiato alla corsa all’ integrazione
politico-economica del sistema internazionale perché reimpongono lo schermo statale e la logica particolaristica
della tutela dell’ interesse nazionale a ogni costo al centro di ogni azione politica: la politica estera è, stando al
nuovo verbo neoconservatore, semplice promozione e tutela del proprio interesse nazionale. L’ eventuale tutela
dell’ interesse globale, secondo le due dottrine, non è che la semplice e quanto mai scontata conseguenza di un
compiuto perseguimento dell’ interesse nazionale della liberaldemocrazia per eccellenza: quella statunitense.
Buttato a mare il multilateralismo annacquato dell’ era Clinton, reo, secondo Bush II, di avere presentato
ipocritamente ogni scelta in politica estera sotto le vesti del PXOWLODWHUDOLVPR, l’ amministrazione repubblicana si è
prodotta in una serie di pubblicazioni in cui è evidente il ruolo giuocato dalla cultura politica dei membri di questa
amministrazione per spiegare l’ accelerazione data alla (ri)formazione di un sistema internazionale dai forti
connotati westfaliani, in cui ogni spinta all’ integrazione ulteriore del sistema internazionale, e relativo
trasferimento di quote di sovranità a istituzioni sovranazionali e conseguente attenuazione dello schermo statuale,
entra in cortocircuito, è accantonato senza troppi complimenti.
Il Clintonismo della terza via credeva che il balance of power fosse insufficiente per gestire la globalità dei
problemi di quest’ era, anzi d’ ostacolo. La Weltanschauung di Clinton e compagni riprendeva con rara coerenza
quella del presidente-politologo Wilson che vedeva nella persistenza del sistema dell’ equilibrio di potenza la radice
di ogni male, la cui estirpazione avrebbe, dunque, posto fine a ogni situazione di tensione e purgato il mondo
dall’ incubo della guerra. L’ amministrazione Bush non solo crede alle virtù del balance of power, alla sana
competizione tra rival powers per accaparrarsi le risorse scarse come giusto perché QDWXUDOHmodus vivendi in un
sistema internazionale nei fatti (e nelle FDSDELOLWLHV) multipolare, ma, contemporaneamente, pensa che la
sopravvivenza di organizzazioni internazionali a vocazione universale come l’ ONU o che la ratifica a oltranza di
trattati multilaterali nell’ interesse dell’ umanità, sia d’ ostacolo e a un’ efficiente tutela del proprio interesse nazionale
(queste le argomentazioni contro la richiesta franco-russa di passare per il CdS in occasione della campagna
d’ Iraq), e di quello globale dell’ intera comunità internazionale, perché in un sistema multipolare diventa più
difficile difendere la tenuta di principi universalistici (causa alta particolarità degli interessi in gioco).
La giustificazione addotta da Bush per la mancata ratifica dei Protocolli di Kyoto è, a questo proposito, cruciale: gli
Usa dovrebbero dotarsi nel breve periodo di politiche di risparmio energetico e aumentare la tassazione del danno
ambientale fatto, questo, che potrebbe compromettere il buon andamento dell’ economia americana danneggiando il
paese soprattutto nella competizione con altri grandi potenze cui non è richiesta alcuna riduzione delle quote di
emissione dei gas (Cina, Russia e India in testa, che tradurrebbero questo vantaggio in potenza militare). E’ il gioco
tra grandi potenze a livello di sistema internazionale a impedire, sostiene l’ amministrazione Bush, la ratifica di
Kyoto.
Ora, se si scorrono i due principali documenti strategici prodotti dall’ amministrazione Bush II, sono diverse le parti
in cui si spinge per il mantenimento della supremazia americana, precondizione indispensabile per il mantenimento
dell’ egemonia americana pur in un sistema multipolare in via di progressivo consolidamento. I due documenti, la
1DWLRQDO6HFXULW\6WUDWHJ\ (NSS) del settembre 2002 e la 1DWLRQDO6WUDWHJ\IRU&RPEDWLQJ7HUURULVP (NSCT) del
febbraio 2003, annichiliscono ogni ipotesi di JOREDOSROLWLFV, perché pur riconoscendo, qui e là, la globalità delle
issues del mondo post-bipolare con cui convivere e da gestire, pur avendo un preambolo che sembra quello di una
costituzione, pur abbondando le dichiarazioni di intenti per una collaborazione proficua con gli altri SLYRWDOVWDWH,
pur insistendo che le organizzazioni regionali come la NATO vanno rinforzate e allargate, la ricetta proposta è
SDUWLFXODUH, improntata ad un unilateralismo d’ iniziativa a oltranza, che cerchi sì il sostegno dei IULHQGVDQGDOOLHV
per ogni missione (questa detta le alleanze non viceversa), ma senza che ciò costituisca la precondizione per
un’ azione. In particolare:
•
Secondo la NSCT, il EDODQFH RISRZHU (l’ equilibrio di potenza) è l’ assetto del sistema internazionale che
garantisce un’ equa concorrenza tra grandi potenze con cui è giusto cercare forme di cooperazione nella
lotta al terrorismo, ma non necessario.
•
La NSS, dunque, prende atto della multipolarizzazione del sistema internazionale (“ main centers of global
power” , sezione VIII), cui gli Usa devono rispondere cercando certo la concertazione con le altre ULYDO
SRZHUV nel gestire le nuove emergenze globali, rafforzando organizzazioni regionali come la NATO,
allargandole per esempio; pur tuttavia, la NSCT corregge il tiro laddove è scritto (nell’ introduzione) che
<<if necessary, however, we will not hesitate to act alone, to exercise our right to self-defense>>, e laddove
nella NSS si parlava di IULHQGVDQGDOOLHV, nella NSCT si parla sempre più spesso di SDUWQHUV
•
Nella NSCT, nel paragrafo $QHZJOREDOHQYLURQPHQW, è scritto testualmente che <<members of Al-Qaida
use ostensibly charitable organizations and non-governmental organizations (NGOs) for funding and
recruitment>>
•
L’ unico ambiente riconosciuto come degno di essere protetto è il VHFXULW\ HQYLURQPHQW (dunque,gli
ecologisti si mettano l’ animo in pace, QLHQWHGLQXRYRVXOIURQWHDPELHQWDOH)
•
La NSCT propone, per combattere efficacemente il terrorismo e gli stati sponsor del terrore, la “ strategia
delle 4 D” (4D Strategy, sezione *RDOV DQG REMHFWLYHV): sconfiggere (defeat) le cellule del terrore
distruggendone finanziatori e finanziamenti, leader e seguaci; impedire (deny) ulteriori sostegni obbligando
ciascuno stato della comunità internazionale a contrastare questa piaga; contenere (diminish) le condizioni
socio-economiche sfavorevoli di alcune zone del globo, terreno fertile per il terrorismo, invitando gli alleati
a investire in queste aree; infine, difendere (defend) <<gli Stati Uniti, i suoi cittadini e i suoi interessi, a
casa e all’ estero, cercando di neutralizzare la minaccia il prima possibile>>.
•
Nel far riferimento ai nemici dell’ America, nei due documenti si parla sempre più di HQHP\ (O¶LQLPLFXV
privato dei latini), e sempre meno di IRH(O¶KRVWLV, l’ avversario pubblico): il nemico torna ad essere qualcosa
che deve essere annientato. I terroristi sono i pirati dei tempi moderni: il detto DOLXG HVW KRVWLV DOLXG
UHEHOOLV viene azzerato da una riteologizzazione della guerra che vede solo e ovunque LQLPLFL JHQHULV
KXPDQLV
•
La conclusione della NSCT descrive quello in atto come uno scontro di civiltà; ma non tra le famigerate
otto, inventate un po’ frettolosamente da Huntington, ma tra quella occidentale di marca (ovviamente)
statunitense e RJQL DOWUD che voglia distruggerla, nessuna esclusa. I templari QHRFRQ del “ tempio della
liberaldemocrazia” ripropongono in grande stile l’ eccezionalismo americano, ristabilendo quel FRUGRQ
VDQLWDULH che è la linea globale dell’ emisfero occidentale, alzata per dividere il nuovo continente GDL
YHFFKL.
Ma soprattutto la NSS porta a battesimo la dottrina della SUHYHQWLYHVWUDWHJ\abbandonando la pre-emptive. Non si
tratta di un banale gioco linguistico, di una sottigliezza semantica. Questa, al contrario, è forse la più importante
novità introdotta dall’ amministrazione Bush II sul versante RJQXQR IDFFLD GD Vp. Per rendersi conto del come la
distinzione SUHHPSWLRQ/SUHYHQWLRQ sia davvero l’ epitaffio dei QHRFRQ sulla tomba della comunità internazionale,
basta leggere, a tal proposito, l’ asettica definizione dei due termini fornita da quel 'L]LRQDULRGHL7HUPLQL0LOLWDUL,
pubblicato dal Dipartimento della Difesa qualche anno fa ma emendato il gennaio scorso, e ripresa
dall’ amministrazione per spiegare la differenza. Si legge:
•
preemptive attack: an attack initiated on the basis of incontrovertible evidence that an
enemy attack is imminent
•
preventive war: a war initiated in the belief that military conflict, while not imminent, is inevitable, and that
to delay would involve greater risk.
E’ chiaro. Meglio gestire minacce che pericoli concreti. Meglio (ahimè questa volta) prevenire che curare. Quello
confezionato, è senza dubbi un putsch teorico-concettuale all’ intera architettura della legittima difesa prevista dalla
Carta delle Nazioni Unite (articolo 51): la SUHYHQWLYH VHOIGHIHQVH, annichilerà, se attuata con la coerenza e
sistematicità annunciata dai suoi zelanti redattori,ogni parvenza di diritto internazionale esistente, cancellerà,
creando dei precedenti che verranno prontamente imitati dalle altre grandi potenze, ogni idea di JOREDO SROLWLFV.
L’ esito? La comunità internazionale ripiomberà in una guerra indiscriminata (perché non giuridicamente regolata)
di tutti contro tutti, in cui non solo gli egemoni ma chiunque pretenderà di essere OHJLEXV VROXWXV, sciolto da
qualsivoglia vincolo giuridico nel perseguire la tutela del proprio interesse nazionale. La giustificazione portata
dall’ amministrazione Bush II è quella dell’ imprevedibilità delle nuove guerre scatenate da gruppi terroristici
privati, non statuali ma sponsorizzati da stati, che obbligherebbero gli stati-bersaglio (come gli Usa) a rivedere
l’ assunto per cui l’ assoluta imminenza del pericolo è la condizione necessaria per far scattare la legittima difesa (la
pre-emption): ora diviene sufficiente l’ esistenza della minaccia stessa, per quanto sul punto di concretizzarsi o
meno, per far scattare la legittima difesa (la prevention). <<Se hai una serpe nel giardino, non aspetti di trovarla nel
letto, vai, la stani e la uccidi>>, ci ricorda, con una metafora di rara efficacia, Condi Rice. Vane sinora le proposte
di alcuni giusinternazionalisti (ma anche di Henry Kissinger) di una concertazione Usa-Resto del mondo per porre
confini giuridici chiari alla definizione della natura della minaccia e della sua intensità, affinché la legittima difesa
preventiva possa dirsi legittima (non legale, si badi) e dunque giustificabile. Anche perché, come ricordano i QHR
FRQ, le “ evil-star” dell’ asse del male poco si curano di rispettare le norme e i principi della convivenza
internazionale. In atre parole, concludono cinicamente i QHRFRQal potere, occorre non puntare troppo sul diritto
internazionale.
Un altro documento merita un po’ d’ attenzione per capire quest’ involuzione unilateralista dell’ amministrazione
repubblicana e le speranze mal riposte dai giusglobalisti nella volontà americana di farsi promotrice della
democratizzazione del sistema internazionale (i neo-con parlano una lingua diversa, quella di Meinecke,
Morgenthau e dei grandi geopolitici tedeschi). Il documento in questione è il report Rebuilding America’ s Defense
redatto dalla Commission on America’ s National Interests, gruppo di pressione di analisti e di policy-makers di
spessore di varia provenienza accademica e politica, pubblicato dal PNAC11 nel settembre 2000, prima dunque
degli eventi dell’ attentato al World Trade Center. I redattori (la Rice, Graham T. Allison, R. Armitage, P. Krugman
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Proj ect for t he Next American Cent ury.
per citare i più noti) erano mossi dalla premura di dotare gli Usa di un nuovo framework di politica estera che
stabilisse finalmente le priorità, le minacce, gli obiettivi da perseguire ad ogni costo e le missioni di cui non farsi
(inutilmente) carico, nuove modalità della guerra, tecniche per capitalizzare il surplus tecnologico e trasformarlo in
predominio militare. Nel documento, non ci sono balbettii strategici: lo stile del documento è quello di un
decisionismo cristallino. All’ introduzione gentile segue un corpo centrale del documento pieno di furia strategica,
un autentico regno di contenimenti, profondamente polemogeno, facendo dell’ esistenza o dell’ invenzione del
nemico l’ essenza stessa di un’ autentica politica estera. Nel documento:
•
Si parla di “ interessi nazionali” , al plurale, e non più di “ interesse nazionale” al singolare (chiara la
pluralità delle minacce e delle angosce).
•
Si parla non di Stati Uniti, ma di America, a ribadire la sovranità di Washington sull’ intero emisfero
occidentale
•
Gli interessi nazionali sono pensati in relazione a LVVXHV legate alle ambizioni dei vari pivotal states
regionali, scanditi per priorità e catalogati come: vitali, estremamente importanti, importanti e secondari.
Per scenari: in Asia contenimento della Cina, inevitabile futura potenza rivale a livello globale (vitale);
assicurazione dell’ integrità di Taiwan (importante, non vitale, dunque sacrificabile); collaborazione con la
Russia sullo smaltimento delle scorie nucleari, ma contenimento delle sue spinte egemoniche in Europa
(vitale); stati europei liberi e sovrani e NATO baluardo/cerniera indispensabile per legare la Ue agli Usa
(vitale); mantenimento dell’ integrità di Israele (vitale), questione palestinese neanche citata; Emisfero
occidentale solo su posizioni
filo-Usa (leggi: dottrina di Monroe sempre attiva, vitale) e lotta ai
narcotrafficanti per impedir loro la conquista di uno stato dell’ emisfero (importante).
•
Sul versante proliferazione delle WMD, il documento sorprende anche di più: non la si fronteggi se non
quando favorisca gli stati canaglia. Accolta dunque la filosofia del PRUHPD\EHEHWWHU, per cui la diffusione
capillare e controllata delle WMD eliminerà le guerre grazie alla deterrenza, tutelando l’ integrità dello stato
(fortunatamente) detentore.
•
Solo “ importante” l’ abbassamento delle barriere doganali: dunque, libero mercato sacrificato sull’ altare
della sicurezza, ortodossia dell’ interdipendenza economica del sistema attenuata
La filosofia ispiratrice del documento è decisamente quella del “ realismo offensivo” , jOD0HDUVKHLPHU: il nemico
potenziale si fronteggia intimorendolo e punendo quello reale esemplarmente (regime talebano); il catechismo del
documento non è più quello della pre-emptive strategy - inadeguata al nuovo ambiente internazionale – ma quello
della preventive strategy: l’ imminenza della minaccia è criterio insufficiente per neutralizzarla, non bisogna
aspettare che la minaccia si concretizzi, ma occorre agire prima ch’ essa prenda corpo (il pranzo è servito: l’ Iraq di
Saddam). Dunque SUHYHQWLYH VWUDWHJ\, molto prima dell’ attacco alle Torri Gemelle. L’ 11 settembre ha
semplicemente accelerato l’ implementazione di questo tipo di politica estera. Questo documento è un regno di
contenimenti. Esso è, nel profondo, polemogeno, fa dell’ esistenza o dell’ invenzione del nemico l’ essenza stessa di
un’ autentica assertiva politica estera.
L’ America’ s National Interests è un autentico viaggio nel tempo. In avanti, perché anticipa pressoché ogni punto
della NSS e della NSCT; indietro, riprendendo ampiamente il manifesto di ascendenza neo-reaganiana della diade
William Kristol-Robert Kagan (“ Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy” ), completando quello stilato dalla Rice
(“ Promoting the National Interest” ), e preparando la 4XDGUHQQDO'HIHQVH5HYLHZ5HSRUW del 30 settembre 2001e la
dottrina Bush (contenuta nella NSS).
Il sistema internazionale affrescato GDOO¶$PHULFD¶V1DWLRQDO,QWHUHVWV, entro cui dovranno essere scolpite le mosse
strategiche che guideranno la Washington repubblicana, sono decisamente quelle di un sistema westaphaliano. I
promotori e certosini compilatori del documento ci riportano delicatamente al XVII secolo. La politica estera non è
più VRFLDO ZRUN, engagement tipico del missionarismo della terza via di clintoniana memoria, ma diventa
0DFKWSROLWLN, politica di potenza; mentre la politica internazionale non va più pensata come un ambito dove la
cooperazione è non solo possibile ma necessaria, ma il regno della competizione tra potenze nemiche (e non rivali)
per l’ accaparramento di risorse scarse e per l’ egemonia imperiale.
Ce n’ è, insomma, per tutti i gusti. Quelli espressi nei documenti strategici americani redatti dall’ amministrazione
QHRFRQ (o commissionati) sono davvero concetti teologici secolarizzati, per riprendere un famoso epitaffio posto
sulla tomba dello stato moderno in via di spoliticizzazione. E’ il ritorno, in grande stile, della teologia politica. Le
grandi criminalizzazioni dell’ avversario sono in agguato. Finite le guerre legali iniziano quelle legittime, tornerà
l’ era delle guerre-crociate. E diverrà impossibile per il diritto internazionale ottemperare alla sua unica vera
funzione (minima): la limitazione della guerra attraverso la sua regolamentazione giuridica.
/DGRWWULQD5LFHHOD³XQLODWHUDOJRYHUQDQFH´
Il nuovo verbo unilateralista del credo conservatore di casa a Washington, risiede tutto in quella che ormai è stata
ribattezzata la “ dottrina Rice” , lo zibaldone di politica estera che il consigliere per la sicurezza nazionale
Condoleezza Rice, la “ lady di ferro americana” (potenziale futuro candidato repubblicano alle presidenziali del
2008), ha presentato in numerosi tra studi accademici e interventi in pubblico, approfondendo, completando e
formalizzando altre tre dottrine altrettanto famose, quella Rumsfeld (<<sono le missioni a stabilire le alleanze e non
viceversa>>), quella Wolfowitz (<<diffusione della democrazia attraverso la sua imposizione>>) e quella Cheney
(<<approfittare della supremazia Usa aumentandola>>, contenuta nel &KHQH\¶V GUDIW del 1992 fatto circolare al
Pentagono) ripresa dal PNAC12 nel report 5HEXLOGLQJ$PHULFD¶V'HIHQVHdel settembre 2000.
Il Rice-pensiero non è quel catalogo di massime e precetti jOD5XPVIHOG (le famigerate “ Rumsfeld rules” distribuite
dal segretario alla difesa ai dipendenti del Pentagono), ma si dispiega in una più che ventennale produzione
scientifica nel campo della teoria delle relazioni internazionali. La Rice è un’ esperta di questioni strategico-militari
che ha studiato a fondo la politica estera russa e dei paesi dell’ Europa Centro-Orientale, è una politologa a suo agio
con le splendide geometrie strategiche del sistema della guerra fredda, abituata al rigore dei modelli predittivi ed
esplicativi del cristallo bipolare. La lady di ferro americana appartiene a pieno titolo alla galassia dei teorici realisti
delle relazioni internazionali (per giunta della scuola RIIHQVLYLVWD), accettandone, di fatto, gli assunti filosofici
fondamentali e le relative prescrizioni in politica estera (si legga il VXR “ Promoting the national interest” 13): statonazionale attore principe delle relazioni internazionali; tutela dell’ interesse nazionale obiettivo primario di ogni
politica estera, ricorso al multilateralismo come semplice strategia per non accollarsi tutte le spese; ideale
giusglobalista – l’ ipotesi di stato mondiale – visto come puro vaneggiamento; primato della politica estera sulla
politica interna e grado di solidarietà socio-politica interna di uno stato in stretto rapporto con l’ esistenza o meno di
nemici esterni e guerre in corso (un nemico ed eventualmente una guerra al giorno tolgono le divisioni sul fronte
interno di torno).
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Condoleezza Rice, “ Promot ing t he nat ional int erest ” , Foreign Aff airs, January 2000
Ma, a dimostrazione che l’ 11 settembre ha rimescolato le carte e a dimostrazione del fatto che una rigida
contrapposizione del tipo “ multilateralismo di stampo democratico vs unilateralismo di ascendenza repubblicana”
tiene sempre meno, i cambiamenti apportati dalla Rice alla sua dottrina, hanno disorientato, quantomeno
inizialmente, un po’ tutti gli analisti. Perché quella che ci affresca la lady di ferro americana non è tutta disincantata
UHDO SROLWLN, abbondando, di fatto, qua e là, anche discrete dosi di idealismo di marca evangelico-wilsoniana. E’
questo, in un certo senso, un ulteriore rovesciamento, delle tradizionali filosofie di politica estera secolari. I
conservatori, secondo la GRWWULQD5LFH, devono pensare a se stessi come a sceriffi non più riluttanti ma assertivi in
un ambiente internazionale ancora ostaggio di una sempre presente (per quanto latente) JXHUUDGLWXWWLFRQWURWXWWL,
cui, però devono rispondere con una politica estera interventista, che faccia della promozione della
liberaldemocrazia e del libero-mercato su scala globale, della lotta agli stati canaglia (il cui assetto politico sarebbe
una minaccia all’ ordine internazionale) e alla proliferazione delle WMD (armi distruzione di massa) il proprio
catechismo. Come si può vedere, per quanto strumentalmente, una certa osmosi tra realismo conservatore e liberalistituzionalismo democratico c’ è stata. Questi obiettivi, infatti, da sempre patrimonio dell’ ideologia progressista dei
democratici americani, diventano qui arsenale cultural-politico e ideologico del credo conservatore. La tradizionale
sfiducia dei conservatori nei confronti dell’ esportazione della democrazia e dell’ ingegneria istituzionale è
accantonata per sempre (a mare gli ammonimenti del padre del conservatorismo, Edmund Burke), mentre la
filosofia del PRUHPD\EHEHWWHUdi Waltz e compagni, cioè della diffusione controllata delle WMD, tanto cara alle
amministrazioni repubblicane, viene abbandonata per sempre perché, dopo l’ 11 settembre, giudicata un suicidio.
Ovviamente, la promozione della democrazia su scala globale per i QHRFRQ al potere è, a differenza della strategia
multilateralista dei democratici (di un Clinton per esempio), un modo (indiretto) per tutelare la sicurezza nazionale
e non un modo (almeno indiretto) per tutelare l’ ordine internazionale.
/H GHPRFUD]LH QRQ VL IDQQR DQFRUD OD JXHUUD" 3DQLQWHUYHQWLVPR UHSXEEOLFDQR H WHRULD GHOOD SDFH
GHPRFUDWLFD
<<Diffusione della democrazia attraverso la sua imposizione>>. Questa dichiarazioni del sottosegretario alla difesa
Paul Wolfowitz, passata alla storia come dottrina Wolfowitz, coglie con rara efficacia la conversione
dell’ establishment conservatore alla filosofia della cosiddetta SDFH GHPRFUDWLFD: la democrazia va esportata su
scala globale perché in un mondo di democrazie i conflitti inter-statuali cesserebbero, essendo prossima allo zero la
casistica di guerre tra democrazie. Tradizionalmente patrimonio dell’ arsenale ideologico dei democratici, baluardo
concettuale dei teorici della politica su posizione giusglobaliste (Habermas per citare il più rappresentativo), il
paradigma della SDFH GHPRFUDWLFD ha conosciuto negli ultimi anni, soprattutto dopo la sconfitta dell’ Urss e il
trionfo della democrazia americana nello scontro cinquantennale della guerra fredda, un successo scientifico
imponente seguito da una certa significativa incidenza sul processo di IRUHLJQSROLF\PDNLQJdell’ era clintoniana.
Ora, quanto questa conversione dell’ establishment conservatore alle prescrizioni del paradigma della pace
democratica sia reale o meno, è cosa in un certo qual modo importante da stabilire, dal momento che costituirebbe
una significativa eccezione all’ avversione di questa amministrazione per ogni ipotesi di stampo giusglobalista.
Conversione deducibile, almeno in linea di principio, da tre cose: dalle dichiarazioni dei policy makers americani,
dai
documenti
strategici
pubblicati
e
ovviamente
attraverso
un
controllo
empirico
dell’ operato
dell’ amministrazione in quei scenari in cui più evidente essa è parsa muoversi sulla base degli assunti di questo
paradigma. Ora, le dichiarazioni e i documenti strategici dell’ amministrazione Bush II accolgono la teoria della PD,
ma YLD “ tutela (indiretta) dell’ interesse nazionale” : diffondere la democrazia è certamente un auspicabile bene in sè
(l’ ideale poliarchico per organizzare le società umane), ma soprattutto perché meglio serve la protezione
dell’ interesse nazionale americano, perché i regimi autoritari - questa è una delle lezioni imparate con l’ 11
settembre - sono spesso sponsor del terrorismo internazionale, spesso più facilmente a rischio di stabilità (dunque
terreno fertile per il proselitismo pro-attentati). Il riscontro empirico crea, invece, qualche problema. Mentre risulta
ormai evidente il disimpegno di Washington dal gestire in prima persona la riorganizzazione della faccenda
afghana (nation e state-building) e l’ abbandono di ogni ipotesi di “ democrazia consociativa all’ afghana” (esecutivo
allargato, di SRZHUVKDULQJ in una società segmentata lungo cleavages religiosi ed etnici, posta in un contesto
regionale dall’ incredibile reticolato di legami/affinità etnico-culturali); orbene, altrettanto non può dirsi così
facilmente per il contesto irakeno: la divisione in tre zone del paese, sotto controllo anglo-americano-polacco;
l’ istituzione di una versione aggiornata di condominio internazionale sotto il controllo di del GLWWDWRUHFRPPLVVDULR
Bremer III, dotato di poteri eccezionali; il processo di de-baathificazione delle élites irakene; la ricostruzione delle
infrastrutture, capillare; l’ elezione di sindaci, il riordino delle forze di polizia: tutte queste operazioni, in breve,
farebbero pensare a un processo di VWDWHEXLOGLQJ volto a preparare, in un secondo momento, la transizione alla
democrazia dell’ Iraq post-Saddam: cioè, l’ istituzione di una federazione di tipo presidenziale, con gli Usa “ custodi
armati” della costituzione e dell’ ordine politico iracheni (autorità esterna degli americani e in casi eccezionali, una
vera sovranità). Il caso irakeno, farebbe così pensare, in prima istanza, a una reale intenzione di Washington di
democratizzare l’ Iraq, e da lì, O¶LQWHUR0HGLRULHQWH (come vorrebbe Wolfowitz, uno degli artefici più influenti della
politica estera americana mediorientale).
Secondo certo realismo delle relazioni internazionali oltranzista e, come sempre, diffidente verso le buone
intenzioni nella conduzione dei ZRUOGDIIDLUV, la Washington impegnata nella democratizzazione dell’ Iraq, sarebbe,
in realtà, più interessata alla stabilità del paese. Infatti, come lamentano, del resto, anche i candidati democratici
alle primarie, i repubblicani al potere sembrano curiosamente abdicare dalle posizioni di leadership nelle fasi di
ricostruzione dei paesi sconfitti militarmente (il caso dell’ Afganistan). Non solo. Secondo i realisti, il caso Iraq
rientra, in realtà, a pieno titolo, nelle magiche prescrizioni teoriche della dottrina Cooper14 e del “ neo-imperialismo
illuminato” dei repubblicani al potere, tutte volte a ripensare la decolonizzazione (giudicata un errore) e a invitare
l’ Occidente ad occuparsi del destino politico delle giovani democrazie afroasiatiche. L’ esito finale? Un mondo di
condomini internazionali, di stati autoritari occupati militarmente dagli Usa, con il sostegno dei paesi
dell’ Anglosfera, con lo scopo della stabilità politica. Questo paternalismo politico-istituzionale rivisitato
trasformerà il vecchio principio di autodeterminazione dei popoli (l’ Iraq agli iracheni) in “ etero-determinazione dei
popoli” : a decidere del futuro di un popolo sarà, d’ ora in poi, l’ egemone di turno del sistema internazionale o lo
stato pivot di un’ area (con il consenso dell’ egemone).
A rinforzare le perplessità della scuola realista delle relazioni internazionali riguardo a questa presunta conversione
al verbo della pace democratica dell’ establishment di Bush II, sta anche la profonda convinzione di Waltz ed
epigoni, che il ricorso alla retorica della PD serva solo per dare un contenuto moralistico ad operazioni di politica di
potenza, rendendole così più digeribili all’ opinione pubblica internazionale, agli alleati e a qualche rivale riluttante
ad accettare la nuova dottrina Bush super-interventista. Per i realisti, del resto, non potrebbe essere diversamente,
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Robert Cooper, consigliere in polit ica est era del premier brit annico Blair.
perché la genealogia della tradizione di ricerca della PD sta tutta in un wilsonismo di marca evangelica che vede
nell’ esportazione del verbo democratico su scala globale la panacea di ogni tensione e conflitto che attanaglia il
mondo. La scuola della PD torna al cuore della disciplina, alle sue aspirazioni redentive, riaprendo la questione
della possibilità per una disciplina di farsi sapere applicato, di farsi WHUDSLD per una società malata dalla piaga della
guerra. I realisti si spingono oltre, contestando che il super-interventismo dei QHRFRQ sia dovuto all’ accettazione
dei precetti della PD, anche perché, come sa bene parte dell’ establishment repubblicano che conta (Wolfowitz e la
Rice per esempio, decisamente familiari con la letteratura della PD15), il presunto riscontro empirico di cui parlano i
suoi sostenitori, è in realtà altamente problematico, perché spesso l’ assenza di guerra tra democrazie dipende meno
da fattori di natura interna (il tipo di regime politico) e più da variabili di tipo sistemico. Da questa considerazione,
i realisti fanno discendere il loro assunto più importante: la stabilità di un sistema regionale non dipende dalle
caratteristiche politiche interne degli attori, ma dalla configurazione delle alleanze, dai rapporti di forza, dal
reticolato di vulnerabilità. Anzi: spesso proprio la transizione alla democrazia di un paese può comportare un
aumento della ZDUSURQHQHVV degli attori e del sistema nel suo complesso. Se si scorre la cospicua letteratura di
marca realista che si è occupata della tesi della PD, i principali quesiti solitamente posti per spiegare questa assenza
di guerra tra democrazie possono essere riassunte nelle seguenti (più o meno esaustivamente):
a) Durante la Guerra Fredda, le democrazie europee non si sono effettivamente fatte la guerra. Ma come
dimenticare la guerra scatenata contro governi regolarmente -cioè democraticamente- eletti nei paesi del Terzo
Mondo?
b) Quanto conta la configurazione delle alleanze nell’ impedire lo scoppio di una guerra tra democrazie? Tra
Turchia e Grecia per esempio.
c) L’ assenza di conflitto tra due democrazie non potrebbe invece dipendere dalla grande disuguaglianza di forza
tra gli attori (Uk e Irlanda, Stati Uniti e Canada)?
d) L’ esistenza di un nemico comune aiuta oppure no a trascendere le divisioni? La presenza della minaccia
sovietica quanto ha contribuito a bloccare un eventuale conflitto tra Francia e Regno unito?
e) A chi spetta decidere della democraticità dell’ altro regime? I realisti sostengono che i più forti attori del sistema
internazionale decidono. Non solo: una democrazia che volesse iniziare una guerra contro un’ altra democrazia
difficilmente definirebbe la rivale una democrazia. La maggior parte degli americani durante la guerra del 1812
non considerava la GB una democrazia in quanto monarchica, così come nel 1898 gli Usa dichiararono guerra
alla Spagna con relativa agilità anche perché non la consideravano una democrazia
f) La tesi delle democrazie come satisfied powers: le democrazie sono in genere soddisfatte con lo status quo
territoriale entro e fuori i confini (Kakowicz), perché hanno meno necessità di scatenare conflitti
g) Le democrazie sono gli stati più ricchi, quindi meno propense a una alterazione dello status quo
h) Metodologicamente, è corretto definire democrazie gli stati del XIX e della prima metà del XX secolo come la
Gran Bretagna e la Francia che possedevano imperi coloniali vastissimi? Quanto conta la variabile “ impero”
nella war SURQHQHVV di uno stato-nazione?
i) Quanto conta la dipendenza energetica di una democrazia da un’ altra? Il grado di interdipendenza tra
democrazie quanto è causa dell’ assenza di conflitto?
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Ent rambi possono considerarsi a pieno t it olo esponent i del realismo offensivist a, t radizionalment e su posizioni
decisament e crit iche nei confront i degli assunt i del paradigma della PD.
j) Come dimostrano alcuni studi sull’ Asia centrale, sono solo le democrazie più consolidate che non si fanno la
guerra; i regimi in via di democratizzazione sono molto war-proneness (Snyder)
k) Spesso un passato di guerre o battaglie combattute assieme possono impedire o attenuare le possibilità di
conflitto (i paesi dell’ Anglosfera)
l) La teoria della PD trascura soprattutto il tipo di guerra che si può condurre tra democrazie: guerra commerciale,
guerra convenzionale o guerra terroristica, atmosferica, strategica (alleanze con un terzo minaccioso),
giudiziaria (denuncia di crimini contro l’ umanità da parte di una democrazia contro un’ altra democrazia). Le
democrazie non si fanno la guerra, va bene, ma che dire delle guerre informatiche, degli “ hackeraggi di stato” ?
m) La teoria della PD, predilige un approccio riduzionistico, trascurando la particolare conformazione del Sistema
Internazionale: la libertà di manovra concessa a uno stato in un sistema bipolare è ben diversa da quella in un
sistema multipolare, e dunque l’ opzione guerra ne risulta fortemente condizionata. Le democrazie devono
scendere a patti con la natura anarchica del Sistema Internazionale: sono obbligate a stipulare compromessi con
il loro PLOLHX internazionale.
Per concludere. Le perplessità dei realisti, di cui Wolfowitz e la Rice sono esponenti di prestigio, circa gli assunti
della PD, invitano a guardare con un certo ulteriore scetticismo questa presunta conversione dell’ establishment
conservatore alle prescrizioni del paradigma.
7HU]DYLDRLQWHUQD]LRQDOLVPRLVROD]LRQLVWDQHRFRQ"$OODULFHUFDGHOO¶LQWHUHVVHQD]LRQDOHSHUGXWR
Oggi, è innegabile, c’ è un sentimento antiamericano, di cui si nutrono le culture politiche della galassia liberalcattolica, socialdemocratica e le leadership degli stati rivali della K\SHUSXLVVDQFH americana (LQ SULPLV, francese,
cinese ma anche canadese). Il UHQRXYHDX progressista della Terza Via riannunciato da Anthony Giddens nella
conferenza alla Warren House lo scorso aprile, aggiornato dall’ ex presidente Clinton in una recente conferenza
negli Usa tenuta a New York a maggio, ma soprattutto le dichiarazioni rilasciate dai nove candidati democratici alle
primarie (che inizieranno il prossimo 13 gennaio con il caucus nell’ Iowa), preludono probabilmente a un ritorno in
grande stile del verbo multilaterale. La strategia pensata, in particolare, dai candidati democratici - Kerry, Gephardt
e Lieberman su tutti - si propone di contrastare questo sentimento anti-americano conseguenza, secondo loro, della
deriva unilateralista dell’ amministrazione repubblicana. Nella presentazione della loro agenda di politica estera, i
candidati democratici hanno, più o meno efficacemente, rifiutato il multilateralismo a ogni costo, la fede cieca nelle
istituzioni internazionali e nel sistema delle Nazioni Unite, la difesa a oltranza dei diritti umani e l’ esportazione
della democrazia con semplici pressioni culturali o economiche: segno che una certa osmosi tra repubblicani e
democratici c’ è effettivamente stato anche nell’ altro senso (sempre in conseguenza dell’ 11 settembre). Di più. Gli
interventi dei candidati democratici sono pressoché tutti improntati ai temi della sicurezza, sul fronte interno e su
quello internazionale: i servizi di intelligence sono totalmente inadeguati a contrastare il terrorismo a causa dei tagli
inauditi (a detta loro) operati dall’ amministrazione Bush II che preferisce le UXPRURVH guerre statuali dal facile e
immediato successo, al silenzio di una lotta quotidiana al terrorismo, che paga solo nel lungo periodo;
l’ unilateralismo dei QHRFRQ sta mandando in rovina (fiscale) il paese che non può fare da solo (esigenze da EXUGHQ
VKDULQJ). Gli sfidanti di Bush, in particolare quelli dati per favoriti (Kerry, Gephardt, Lieberman e Dean),
sottolineano l’ importanza di riprendere una politica del dialogo con gli stati canaglia (Corea del Nord in testa), per i
timori legati a un’ escalation militare in Estremo oriente (il Giappone è pronto ad annunciare la sua capacità
nucleare, la Cina rivuole Taiwan); ricordano che la minaccia che gli Usa devono fronteggiare a ogni costo, è la
proliferazione delle armi di distruzione di massa e il suo utilizzo da parte delle organizzazioni terroristiche, e a tal
fine, la concertazione con il più alto numero di paesi diventa vitale, perché Al-Qaida e simili operano in più di
sessanta stati, e le vittime che miete non conoscono confini. Come si vede da queste dichiarazioni, le giustificazioni
addotte sono tutte lungo le linee del verbo dell’ interesse nazionale: occorre cambiare rotta, por fine
all’ unilateralismo dei neo-con perché ciò QXRFHDOO¶$PHULFD. Gli accenni alla necessità di affinare meccanismi di
PXOWLOD\HU JRYHUQDQFH, che vedano la partecipazione, nella gestione delle issues globali (ambiente, crimine
transnazionale, flussi migratori, ordinamento giuridico internazionale), di attori DOWUL da quelli statuali, così
frequenti del duello Clinton-Bush e in quello Gore-Bush II, sono praticamente scomparsi. Tutto ciò è conseguenza
certamente del crollo delle due Torri, e con loro del mito dell’ invulnerabilità della superpotenza protestante.
Eppure, mai come dopo gli eventi dell’ 11 settembre lo schermo entro cui cercar di dare un senso e una direzione ai
multiformi processi della globalizzazione non può più essere VRORquello statuale: l’ emersione di soggetti DOWULdallo
stato, che faticano a trovare una adeguata rappresentanza, impone la necessità di cominciare a pensare la politica
internazionale ROWUH OR VWDWR. L’ organizzazione di sedi di governanza globale multilivello, da affiancarsi alle
tradizionali sedi statuali, sono, secondo alcuni, una prima risposta. Le prossime elezioni presidenziali decreteranno
il destino riservato a queste alternative per creare e gestire un ordine internazionale post-11 settembre. Una cosa è
certa: la strategia dei neo-con americani del team Bush II - la promozione dell’ interesse nazionale a ogni costo -,
non potrà, però, nascondere a lungo quel mix di irresistibili contraddizioni di fondo, fatto di tradizionalismo
conservatore di stampo protestante e apologia del mercato, di militarismo per amor di pacifismo, di profonda
sofferenza e intolleranza per il relativismo particolarista dei sostenitori del multipolarismo. Ma, soprattutto, i neocon dovranno spiegare agli elettori americani e alla comunità internazionale, come possano convivere senza traumi
una politica estera unilateralista e un sistema internazionale multipolare. Questo è il dilemma di fondo che i neocon difficilmente potranno aggirare.
La necessità per gli Stati Uniti e per le altre grandi potenze protagoniste del gioco della politica internazionale di
neutralizzare – spoliticizzandole – le cause di questa conflittualità endemica al sistema internazionale post-11
settembre, e la necessità di rendere intelligibile e dunque minimamente prevedibile l’ andamento della politica
internazionale, sta innescando un vero e proprio spiegamento tellurico di energie non solo militari ma soprattutto
teorico-concettuali. L’ approccio unilateralista dei QHRFRQ è una sfida ambiziosa e rischiosa, tutto volto com’ è a
ridurre la complessità della globalizzazione con un decisionismo volto a esautorare ogni potere concorrente. La
multipolarizzazione del sistema internazionale, la formazione di blocchi di grandi potenze in concorrenza tra loro
per l’ accaparramento delle risorse scarse, in gran parte ormai sotto il controllo degli americani (soprattutto dopo la
vittoriosa campagna d’ Iraq), è, probabilmente, già una realtà.
L’ unilateralismo a oltranza del team Bush non farà che accelerare questa tendenza alla multipolarizzazione del
sistema. Ma, forse, questo, è proprio l’ obiettivo - VHFRQGEHVW - che i QHRFRQ vogliono perseguire, di fronte alla
minaccia trans-nazionale del nuovo terrorismo e alla sfida rappresentata dalle nuove iper-potenze emergenti (Cina,
India, Giappone, Unione Europea) e riemergenti (Russia) a livello regionale. In un sistema internazionale
multipolare, infatti, maggiore è la libertà di manovra nel gioco delle relazioni internazionali, più agile la politica
delle alleanze e minore l’ interferenza degli organismi internazionali a vocazione universalistica.
Dal carattere concettuale del “ politico” consegue il pluralismo del mondo degli Stati.
L’ unità politica presuppone la possibilità reale del nemico e quindi un’ altra unità politica,
coesistente con la prima. Perciò sulla terra, finché esiste uno stato, vi saranno sempre
più stati e non può esistere uno “ Stato” mondiale che comprenda tutta la terra e tutta l’ umanità.
Il mondo politico è un pluriverso e non un universo. L’ umanità in quanto tale non può
condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici, quanto meno su questo pianeta.
Il concetto di umanità esclude quello di nemico…che poi vengano condotte guerre in nome
dell’ umanità non contrasta con questa verità, ma ha solo un significato politico
particolarmente intenso…l’ umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle
espansioni imperialistiche… proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’ umanità,
monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare solo…la terribile pretesa che
al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato KRUVODORL e
KRUVO¶KXPDQLWqe quindi che la guerra deve essere portata fino all’ estreme inumanità…
tali guerre sono necessariamente intensive e disumane poiché, VXSHUDQGRLOSROLWLFR,
squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo
trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’ essere
definitivamente distrutto, FLRqQRQGHYHHVVHUHSLVROWDQWRXQQHPLFRGDULFDFFLDUHQHLVXRLFRQILQL.
(Carl Schmitt)
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