I sogni del Cinema italiano

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I sogni del Cinema italiano
Paola Olivieri Alfinito
I SOGNI DEL CINEMA ITALIANO
Tra registi e dive
Edizioni Helicon
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Emozioni dal grande cinema
“Nel cinema italiano degli anni ’50 e ’60 c’era di tutto, una moltitudine di attori magnifici, di grandi registi, un’inesauribile attenzione alla realtà che andava dalla famosa commedia all’italiana,
al cinema politico, a quello intellettuale. Ce n’era per tutti, e gli
italiani si schieravano”. (Natalia Aspesi, Repubblica, 8 giugno 2008).
Allacciamoci le cinture e scivoliamo nel magico mondo
della celluloide, in un passato glorioso, alla riscoperta di
qualche emozione capace come sempre di regalarci tanta
magia e qualche verità. Il mondo intero invidia all’Italia
la seppur breve stagione cinematografica del Neorealismo, che si apre con “Roma città aperta” (1945, regia di
Rossellini) e si protrae fino al 1953-56 con film che sono
entrati a far parte della storia del Cinema. Il tema della Resistenza, presente in “Roma città aperta”, era stato
precedentemente trattato in “Giorni di Gloria”, firmato da Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Mario Serandrei e Luchino Visconti, documentario che fu però
proiettato dopo il capolavoro di Rossellini. Si trattava di
un film-verità che esprimeva l’oppressione di un popolo,
proponendo le sconvolgenti immagini del ritrovamento
dei cadaveri delle Fosse Ardeatine, il processo a Koch,
a Caruso e la successiva fucilazione. Nei titoli di coda
era infatti scritto “A tutti coloro che in Italia hanno sofferto,
combattuto l’oppressione nazifascista è dedicato questo film di lotta
partigiana e di rinascita nazionale.”
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Il movimento neorealista fu una corrente solo italiana,
più simile a un risveglio morale etico - politico; fotografava con fedeltà le drammatiche vicende umane che si verificavano in un’Italia ancora in via di ricostruzione. Per un
breve periodo sembrò che autori diversi quali Zavattini,
Rossellini, Visconti, De Sica, De Santis, Lattuada e Zampa fossero uniti e partecipi nel raccontare attraverso nuovi codici un paese lacerato e stanco. Finalmente, il cinema
accoglieva ed esprimeva i drammi generati dalla guerra
e quel bisogno euforico e dirompente di quanti volevano raccontare nella ritrovata libertà. Il popolo aveva una
nuova voce che si chiamava “Cinema neorealistico”, che
non tradiva la genuinità del singolo, anzi, lo esaltava elevandolo a nuovo messaggero di valori.
La macchina da presa ritrae molteplici visioni, finalmente
parlano gli sguardi dell’uomo comune, alcuni attori non
professionisti bucheranno lo schermo e i piccoli gesti
avranno sempre un significato in quanto intrisi di poesia.
La verbosità dialettale erompe. “Te vuo’ abbuscà cinquanta lire?”. Pasquale risponde “No ne vogli duicente!” Questo
breve dialogo tratto da “Paisà” rivela come cambiano
drammaticamente i dialoghi tra ragazzini. La rinascita del
desiderio comune di un futuro migliore si materializza
cinematograficamente nel dialogo tra Pina e Francesco
di “Roma Città aperta”.
“Ma quando finirà? Ci sono momenti che non ne posso più. St’inverno sembra che non debba finire mai...”, dice Pina.
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“Finirà, Pina, finirà... e tornerà la primavera e sarà più bella delle
altre perché saremo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo... Noi
lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire. Forse
la strada sarà lunga e difficile... ma arriveremo e lo vedremo un
mondo migliore. Soprattutto lo vedranno i nostri figli”, risponde
Francesco.
Gli attori non professionisti lasciano il segno, si distinguono per una certa iconicità, rivestono un intenso simbolismo, sono parte di quegli scorci degradati e distrutti.
I valori della Resistenza uniscono gli animi, alla costante
ricerca di un lavoro che non c’è si sostituiscono piccoli
espedienti, la solidarietà tra gli umili si tramuta in una dimensione umana rara, che rivela una grande poesia. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul Neorealismo, perché la grande novità è che il popolo si riscopre nel grande
schermo, non solo in una dimensione reale e quanto mai
drammatica, ma anche in una condivisione emotiva che
non ha eguali.
Condivido pienamente il pensiero di Goffredo Fofi
quando, rispetto al Neorealismo, dichiara che “il cinema
ha avuto la capacità di inserirsi nella storia della cultura e del
costume con una veloce rispondenza e rappresentatività, assente in
altri campi”. (“I grandi registi della storia del cinema. Dai
Lumière a Cronenberg, da Chaplin a Ciprì e Maresco”,
Donzelli Editore). I registi, pur coesi, si diversificavano
nelle loro scelte, che non sempre ricadevano su attori
non professionisti: Rossellini per “Roma Città aperta”
chiamò infatti come principali interpreti Anna Magnani e
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Aldo Fabrizi, così come il raffinato Luchino Visconti, ad
eccezione che nel magnifico “La terra Trema” (1948), si
avvalse sempre di attori professionisti.
Francesco Rosi, in qualità di assistente alla regia di Visconti, ricorda che per questo film gli attori non professionisti “finirono poco a poco per identificarsi nei personaggi della
sua finzione. I dialoghi li scriveva con l’aiuto degli stessi attori che
gli comunicavano la maniera più vera di come avrebbero espresso
nella vita quei sentimenti che egli andava loro proponendo per lo
sviluppo della sua storia” (dal sito www.luchinovisconti.net:
“La Terra Trema” Articolo di Francesco Rosi). Le lunghe inquadrature di questo film superbamente pittorico
inaugurano un’estetica foriera di una nuova visione del
mondo.
L’attenzione alla cronaca e alla vita quotidiana ha un potere illuminante, la scelta delle ambientazioni reali e di
particolari volti, il sovvertimento delle tecniche del montaggio e dell’inquadratura veicolano un nuovo modo di
filmare e sono elementi di rinnovamento che polifonicamente raccontano un’epoca.
Ma il Neorealismo era mosso da veri principi e colmo
di messaggi sociali che non si sono più ripetuti. Questi
moderni cantori spingevano sul pedale del rinnovamento linguistico: il dialetto esprimeva una vasta gamma di
emozioni, la gestualità e i lunghi silenzi avevano un nuovo potere comunicativo. I veri protagonisti furono i grandi slanci e la solidarietà, che divennero parte attiva di un
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processo di ricostruzione del dopoguerra.
La stupenda contraddizione de “L’école italienne de la
Libération” – così i francesi ribattezzarono il Neorealismo – è la pregnante rappresentazione della realtà vissuta
dal grande pubblico nella sua carica emotiva, ma accompagnata da un’ansia di rinnovamento. Non dimentichiamoci che siamo al cinema...
Sarebbe stato lo stesso senza il Fascismo e la Resistenza?
Giuseppe De Santis, nel libro “Alle origini del Neorealismo” (a cura di Jean A.Gili e Marco Grossi, Bulzoni
editore, 2008), dice: “Sono convinto che il cinema neorealistico
abbia avuto soprattutto una grande madre, la Resistenza italiana.
Senza la Resistenza, senza la caduta del fascismo, senza l’avvento
della democrazia il cinema neorealistico, legato alle problematiche
nazionali, non sarebbe mai nato”. E aggiunge: “E non è un
caso che il protagonista del neorealismo sia - per la prima volta nel
cinema italiano - tutto quel popolo che aveva fatto la Resistenza,
dai pescatori agli operai, agli artigiani, ai piccoli e medi intellettuali,
ecc. Sono loro i protagonisti del cinema neorealistico”.
Ma dove sono i germi del Neorealismo? Cinematograficamente li troviamo in tre opere: “Quattro passi fra
le nuvole” di Blasetti (1942), “Ossessione” di Visconti
(1943) e “I bambini ci guardano” di De Sica (1944) che,
secondo Lino Miccichè (“Enciclopedia del Cinema”,
2004, “Neorealismo”), avevano azzerato “l’immaginario del
cinema italiano sotto il fascismo”. Tre film rivoluzionari per
quell’epoca impregnata dell’atmosfera mussoliniana che
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sbandierava virilità e solidità familiare.
“Ossessione” rappresenta il vero cambiamento: “Suscitò
per lunghi mesi polemiche infinite e portò il termine realismo al centro delle discussioni fra intellettuali. Provocò i primi scandali, accese
le prime scaramucce tra i conformisti e i non conformisti, contribuì
a mettere il movimento formalista in secondo piano e riuscì, più che
ogni altro esperimento, a creare un orientamento omogeneo del miglior cinema italiano verso posizioni di ricerca realistica” (“Storia
del Cinema” Carlo Lizzani, Castelvecchi).
Per “Ossessione” l’esordiente Luchino Visconti scelse Clara Calamai e, come racconta Giuseppe De Santis
(“Alle origini del Neorealismo”, Giuseppe De Santis a
colloquio con Jean A. Gili, Bulzoni Editore 2008), “la
distrusse, cominciò a non truccarla, a scompigliarle i capelli, a farne
una donna di campagna, una ex contadina, una barista”. Un film
cupo, traboccante di sensualità, ma al contempo di straordinaria attualità: la trasformazione di una star in donna
vera, dissoluta e frustrata, spinta dai suoi istinti passionali
e istigatrice di un delitto con cui sarà difficile convivere.
Il regista, attraverso la macchina da presa, filma gli attori
seguendoli come fossero prede.
Tra i collaboratori di Visconti il montatore Mario Serandrei che, guardando le immagini del film, scrisse un biglietto al regista: “Non so come potrei definire questo tipo di
cinema se non con l’appellativo di neo-realistico”.
Ed è proprio da questa frase che nasce il nome Neorealismo, rafforzato dal futuro regista Pietrangeli che nella
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“Revue du cinéma” del 1948 scrive: “Lungo una strada nazionale, da un camion in cammino, vediamo, al di là del parabrezza, la ‘bassa’: la pianura ferrarese. Lentamente, il Po si riannoda
alla strada attraverso la piana fertile e, sotto la luce del sole pomeridiano, si sente come unico rumore fra la campagna e il cielo, quello
monotono del motore (...). Ma poi, davanti ad un distributore di
benzina che si leva lungo la strada come un segnale di frontiera, la
lunga carrellata alla Renoir si arresta. E di colpo, con una stupenda rottura lirica, la macchina da presa si solleva a inquadrare
il regale ingresso nella storia del cinema di un personaggio nuovo:
un personaggio nostro, un personaggio ancora senza volto; con una
maglia strappata sulla pelle bruciata dal sole, col passo indolenzito di chi si sgranchisce le gambe per aver dormito a lungo su un
autotreno. Come un cane randagio, ma con il gusto dell’avventura,
questo personaggio entra nella vicenda. Non ha ancora un nome.
Vogliamo battezzare noi stessi il Gino di ‘Ossessione’? Chiamiamolo, se volete, il neorealismo italiano”. Con questa opera la
protagonista femminile, Clara Calamai, entra per sempre
nella storia del cinema, dopo aver precedentemente interpretato un altro torbido personaggio ne “La cena delle
Beffe” (firmato nel 1942 da Alessandro Blasetti), nel quale aveva mostrato il suo seno. Di quel periodo ricordiamo
Doris Duranti, Luisa Ferida, Alida Valli e, ancora prima,
nel cinema muto, Lyda Borelli e Francesca Bertini, donne fatali e soprattutto inaccessibili, abbigliate con abiti
sontuosi, eroine indimenticabili o torbide protagoniste di
amori impossibili.
Del Neorealismo ci rimangono film densi di impegno
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morale, ma la visione concreta della realtà nel grande
schermo non piacque a molti. Moravia era tra gli intellettuali interessati a questo fermento. Scriveva: “L’Italia,
nella sua storia, non ebbe mai o scarsamente, teatro e romanzo:
segno che la società italiana non amò mai conoscersi né criticarsi,
né, in fondo, migliorarsi veramente. E, infatti, c’è voluta una catastrofe del calibro di quella del 1943, con l’Italia tagliata in due, tra
due eserciti stranieri combattenti, come ai tempi dei goti di Totila e
dei greci di Belisario, per ispirare a molti italiani una certa quale
generica curiosità per i fatti ‘veri’ di casa loro. Il cinema, bisogna
riconoscerlo, anche più del romanzo, è in prima linea nell’aver
soddisfatto, almeno in parte, questa lodevole curiosità” (“Storia
del cinema italiano. Dalle origini agli anni Settanta” Carlo
Lizzani, Castelvecchi, 2016).
Zavattini, nella sua relazione al Convegno Internazionale
di Cinematografia (Perugia 1949) incalzava: “Il Neorealismo non può essere interrotto. Sarebbe la fine del cinema, della democrazia, se questo giudizio si interrompesse, e anche lui, il cinema
italiano, fosse risucchiato dalla vita vecchia, dalla vita che molti
chiamano normale; e che vuol dire inganno...”. Amava a tal punto questo tipo di cinema che, in un’intervista radiofonica
trasmessa probabilmente nel 1946, asserisce: “De Sica e io
crediamo di sapere ormai quello che vogliamo. Vogliamo un cinema
che ci aiuti a conoscerci. Siamo stanchi di mentire. Mentire per
mezzo del cinema è certamente il delitto più grande che si possa
commettere. Il cinema deve dire la verità e per dirla non c’è bisogno
di essere profeti. Mai come oggi, dopo una guerra più stupida delle
altre perché venuta dopo le altre, siamo in grado di additare la veri18
tà. La vediamo a un passo da noi scolpita nella faccia di un operaio
o di un povero. Noi due siamo, insomma, contro un cinema che per
rimandare la resa dei conti finge che l’ingiustizia e la infelicità si
manifestino intorno a noi solo in ‘casi da romanzo’. Considereremmo fallito il nostro compito se la storia dell’attacchino romano non
fosse vista come la più quotidiana storia di questo mondo” (“Zavattini e la radio”, Gualtiero De Santi, Bulzoni Editore).
L’uomo della strada si riconosce in quelle abitazioni anguste, nelle vie paesane, nella difficile quotidianità e, finalmente, quei guerrieri felici in uniforme, eroi di cartapesta
pronti a combattere sul grande schermo lasciano il posto
all’uomo quasi intimidito dai ritrovati respiri di libertà.
Questo nuovo sguardo cinematografico, bagnato di sangue e verità e pieno di riferimenti, come di problematiche legate al singolo, supererà i confini del nostro Paese,
tanto che Georges Auriol nel 1946 scriverà su “Revue du
cinéma”: “Non c’è dubbio che oggi in Europa, se non nel mondo,
è a Roma che il cinema ha la sua testa”.
In effetti, Roma era un crocevia di intellettuali, pittori,
registi, sceneggiatori, che avevano nei caffè letterari e nei
locali di via Veneto il loro punto di incontro. “Stavamo tutti quanti dentro lo stesso triangolo, fra Piazza di Spagna, Piazza
Mignanelli e Piazza San Silvestro”, racconta Mario Monicelli
nell’intervista pubblicata nel libro “Mario Monicelli. Con
il cinema non si scherza”, conversazione con Goffredo
Fofi (Edizioni Cineteca di Bologna, 2008). “Circolavano le
idee e c’era quello che aveva i soldi da impiegare... c’era di tutto e
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