Fundamentos n

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Fundamentos n.5 – La división de poderes
ESTADO MIXTO Y DIVISIÓN DEL PODER
ANÁLISIS HISTÓRICO-POLITICO DE UN ITINERARIO DOCTRINAL
Alessandro Torre 
Sommario: 1. Premessa generale. - 2. Il contributo del pensiero antico. - 3. Motivi e spunti
dalla cultura di common law.- 4. Verso il contrattualismo: la riflessione sulla sovranità. - 5. Le
concretizzazioni costituzionali. – 6. Governo misto e separazione dei poteri. - 7. La fase matura del
contrattualismo. - 8. Conclusione.
1. Premessa generale
Nella formulazione del concetto di governo misto si riconosce una delle intuizioni
fondamentali del costituzionalismo antico e moderno, ovvero di quella complessa costruzione
intellettuale la cui grande e fondamentale scommessa si può riassumere nel tentativo di porre tra
loro in equilibrio due dimensioni in oggettivo contrasto. Queste due dimensioni essenziali nelle
quali si riepiloga l’intera storia delle organizzazioni politiche che assumono le sembianze della
statualità sono, da un lato, il potere organizzato, delle istituzioni di governo, dello Stato; e,
dall'altro lato, le autonomie individuali e dei gruppi sociali, della società civile, dei diritti e delle
libertà. Nella misura in cui esse esprimono due versioni, complementari e spesso in contraddizione
della medesima realtà politica che è, appunto, la società organizzata in istituzioni, vi si intersecano
pressoché tutte le questioni connesse al problema della attribuzione e collocazione della sovranità.
In tale contesto, assume una particolare importanza prioritaria la questione della distribuzione
del potere e, con essa, la riflessione sul governo o Stato misto (nel pensiero delle origini i due
termini possono essere considerati come sinonimi), la cui invenzione è una risposta al dilemma
della conciliazione tra istanze tra loro oggettivamente poco conciliabili, ovvero della ricerca di un
punto d’equilibrio che ne assicuri la pacifica convivenza e la rispettiva operatività. La nozione di
Stato misto può pertanto essere considerata una moderna versione di quella che un tempo era
definita la ricerca del buongoverno che è così efficacemente raffigurata nelle medievali allegorie
senesi. Il punto può essere illustrato soprattutto tenendo conto che, con ciò evocando le visuali dei
molti costituzionalisti classici del cui pensiero egli si era ampiamente nutrito, Norberto Bobbio
anteponeva l'esistenza della comunità delle libertà e dei diritti alla formazione della statualità
sostenendo che la comunità civile è il prius con cui l'organizzazione del potere, che è sempre la
seconda arrivata perché nessun potere pubblico può "creare" la società ma solamente adattarsi a
essa nel modo migliore possibile, deve fare i propri conti (Bobbio sviluppava queste osservazioni in
un saggio sulla società civile, grande promotrice dello Stato misto della modernità). Se, oltre che al
padre nobile della scienza politica italiana, si presta ascolto alle demistificanti osservazioni
sull’origine del potere che Thomas Paine sviluppò in alcuni passi del Common Sense (1776) e di
Rights of Man (1791), non si può ignorare l’esistenza di una dimensione pre-statuale in cui si
esercitano le autonomie dei singoli e dei gruppi sociali, e che rappresenta il terreno di coltura in cui
trova sviluppo l’idea di governo misto. D’altra parte, rispetto alla pre-statualità decantata dalla
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Professore ordinario di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università di Bari, Facoltà di Giurisprudenza.
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cultura libertaria l’assolutismo o lo Stato totalitario – entrambi rispondenti a concezioni della sfera
pubblica che tendono alla reductio ad unum del potere, ovvero a un’estrema semplificazione dei
suoi spazi che produce effetti distruttivi su quella delle autonomie – intendono porsi in rapporto di
supremazia unilaterale: la società civile ne risulta privata di senso e ridotta a sudditanza o massa di
cui acquisire con ogni mezzo il consenso anche con mezzi tecnologici progrediti (l’esperienza
europea della prima metà del XX secolo insegna che non necessariamente l’espansione verso un
orizzonte totalizzante del comando dello Stato è una categoria arcaica), le autonomie territoriali o
sociali sono negate o grandemente ridimensionate fino ad essere considerate mete ripartizioni
organizzative dello Stato, la separazione dei poteri è fortemente oscurata, non messa in pratica o
addirittura abbandonata, e il governo misto risotto a un’indesiderata utopia.
Alle luce della fondamentale antitesi tra potere e autonomie, e delle possibili risposte sul
versante politico e costituzionale (perché il dato della politica precede sempre quello della
costituzionalizzazione), è possibile percorrere un itinerario ricostruttivo che metta insieme alcuni
frammenti di una riflessione dottrinale che ha trovato sviluppo attraverso numerosi secoli e
numerosi autori.
2. Il contributo del pensiero antico
La storia del pensiero sul governo misto può far risalire le sue origini a tempi molto lontani. È
infatti in forza della consapevolezza che qualsiasi forma pura di governo, nella quale il potere non
avesse interlocutori in se stesso, era soggetta a degenerazioni prestandosi all’arbitrio e all’abuso nei
riguardi del corpo sociale, che Aristotele – dando sviluppo alla lezione platonica che nella
Repubblica sosteneva la necessità che, di contro all’uso incontrollato delle istituzioni di governo da
parte dei loro occupanti, le magistrature conservassero una posizione indipendente rispetto al potere
politico – si impegnò nell’individuazione di una forma mista di governo nella quale confluissero ed
entrassero in rapporto armonico gli elementi migliori delle forme pure. Nella Politica aristotelica si
individuava pertanto nella politìa quel sistema di governo a struttura mista che ricomprendesse in
sé, ponendole in un circuito virtuoso strutture e potenzialità delle tre forme miste (monarchia,
aristocrazia e democrazia) la cui identificazione, unitamente a quella delle loro degenerazioni,
costituiva la base della riflessione sulle possibili organizzazioni della società umana. La politìa si
proponeva infatti come un’organizzazione bilanciata del potere, e in proposito è interessante notare
che, affinché il governo misto di concezione aristotelica non usurpasse le prerogative della società e
del demos, era considerata altamente auspicabile la sua entrata in un rapporto di equilibrio con essi
e, pertanto, di reciproco rispetto, e che perché ciò si realizzasse era essenziale che il potere non
fosse organizzato secondo un blocco monolitico posto sotto l’unica direzione del monarca, ma
ripartito nelle sue funzioni essenziali. Si tratteggiava in tal modo quella distinzione tra funzioni,
intese non come strumenti di un potere dispotico ma come profili dell’attività pubblica, che
separava la decisione dalla sua esecuzione e dall’inerente giudizio: ne derivava la ripartizione tra
funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale che lungo corso ha avuto nel pensiero
costituzionalistico fino alle odierne applicazioni. A tale riguardo, sarà appena il caso di rammentare
come due millenni più tardi l’espressione “Stato di polizia” interverrà a designare non già, come nel
linguaggio corrente odierno, uno Stato particolarmente propenso a impiegare le sue strutture
coercitive nei riguardi delle espressioni dissenzienti della società e della politica, bensì quelle
particolari forme di Stato di derivazione illuministica affermatesi nella Mitteleuropa del XVIII
secolo, in cui, quasi a tracciare un ideale anello di congiunzione fra l’assolutismo e la democrazia,
si assumevano come significativi ai fini del buongoverno il riconoscimento valoriale del benessere
dei cittadini (verso il quale si indirizzava la politica del sovrano), una relativa autonomia della
giurisdizione, e il ruolo promozionale che era proprio di una comunità nazionale organizzata
soprattutto nelle municipalità. Non si trattava ancora di forme di Stato misto perché queste statualità
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fondate sulla “amministrazione interna” erano, i fin dei conti, ancora forme di ancien régime, ma di
certo esse, per quanto imperfette se considerate dal punto di vista della moderna apertura dei sistemi
di potere alle istanze politiche della società civile, segnavano un importante passo in avanti verso la
percezione di nuovi canoni organizzativi del rapporto tra potere e autonomie, se è vero che uno
degli argomenti centrali della scuola storica tedesca di fine Settecento sarà proprio la riflessione
sulle valenze positive dell’autogoverno e sui valori dell’assemblearismo (entrambi considerati
elementi propri di una comune cultura anglosassone che univa il mondo germanico all’inglese).
Lodando le istituzioni della Roma repubblicana negli anni della sua cattività (166-150 a.C.),
Polibio si occupò nelle Storie, e qui in particolare negli ammirativi passi dedicati alla descrizione
delle istituzioni civiche romane, di verificare i tratti del governo misto in questo che egli ritenne un
vero e proprio modello costituzionale. nel quale le principali funzioni pubbliche erano disimpegnate
da organi rappresentativi di ceti diversi. Secondo la sua analisi, infatti, Roma aveva realizzato un
esempio mirabile di governo misto ripartendo il potere attraverso corpi politici di derivazione
monarchica, aristocratica e democratica, ovvero rispettivamente tra i consoli (i quali a loro volta
configuravano un esempio di ripartizione duale del potere, da Polibio considerato con estremo
apprezzamento, ma sovente, soprattutto nel corso di operazioni militari come nel caso delle guerre
puniche, non privo di disfunzioni), il senato e i comizi. Si trattava pertanto, come poc’anzi
accennato, di un sistema nel quale il potere era ripartito su base cetuale, il che tuttavia può essere
considerato vero per quanto riguarda il senato di formazione aristocratica e i comizi di formazione
popolare, mentre il consolato era espressione delle classi alte e solo in una fase avanzata della sua
evoluzione giunse ad essere ricoperto da esponenti di nuove classi economicamente affluenti e non
solo da membri delle grandi famiglie patrizie. L’accurata conoscenza che Polibio aveva del sistema
di governo misto della Roma repubblicana fu a lui utile allorché, nel dedicarsi alla grande
riorganizzazione delle istituzioni di governo della Grecia ormai diventata provincia romana, seppe
farne tesoro per imprimere alle strutture giuspubblicistiche delle poleis caratteri non dissimili dal
prototipo di cui aveva fatto esperienza. I caratteri romani del governo misto sono stati osservati, el
XX secolo, dapprima da James Bryce e, in seguito, da Charles H. McIlwain in Constitutionalism:
Ancient and Modern (1947) e ancor prima in The Growth of Political Thought in the West (1932)
ma va soprattutto messa in evidenza l’influsso che le categorie polibiane seppero esercitare sul
pensiero di Montesquieu e sui Padri Fondatori della Costituzione statunitense, e ciò per quanto
riguarda sia il metodo (ovvero l’applicazione delle conoscenze storiche alle prospettive politiche e
istituzionali), sia anche la concezione della struttura tripartita dell’organizzazione del potere.
3. Motivi e spunti dalla cultura di common law
Ma prima di arrivare a queste grandi sintesi dell’idea di separazione dei poteri e di governo
misto, entrambe tributarie sia della grande storiografia antica sia dell’esperienza prototipica inglese,
è proprio a quest’ultima che occorre fare riferimento rivolgendo l’attenzione alla cultura dei
common lawyers e tra questi in particolare al contributo che alla riflessione sul buongoverno diede
il legista Henry de Bracton, autore (tra il 1260 e il 1265) del trattato, rimasto incompiuto, De
legibus et consuetudinibus Angliae. Le due maggiori premesse storico-istituzionali su cui si innesta
la lettura bractoniana della poliformità sono rispettivamente di carattere oggettivo e soggettivo.
La prima va ricavata da una lettura ex post del contesto istituzionale in cui l’illustre common
lawyer operò, in base alla quale va posto in rilievo che giammai l’ordinamento feudale europeo, e
soprattutto nel regno d’Inghilterra, ha consentito l’affermarsi di un potere assoluto della monarchia.
Con ciò non si intende dire che la feudalità abbia scientemente percepito se stessa come una forma
di governo misto, ma di certo la sua struttura e la sua stessa natura hanno assunto caratteri
esplicitamente pluralistici per via dell’organizzazione piramidale del potere e dei numerosi
contrappesi operanti in seno a questa organizzazione poliforme da cui Giovanni di Salisbury prese
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spunto per l’elaborazione del suo Policraticus (c. 1159), opera nella quale, pur ammettendo il diritto
divino del re e attribuendogli una posizione sommitale nella complessa scala sociale, giungeva
tuttavia a teorizzare l’estremo contrappeso di un regime monarchico dispotico, ovvero il
tirannicidio. Notevole fu l’influenza di Bracton sulla cultura politica occidentale del suo tempo e dei
secoli successivi. Per quanto concerne in particolare la questione del governo misto, egli invero non
affrontò il punto in termini espliciti, ma la sua elaborazione etica dei princìpi di buongoverno è alla
base di numerose, successive interpretazioni; e in taluni suoi enunciati non si fa certamente fatica a
rintracciare elementi che, opportunamente filtrati attraverso le esperienze dei tempi e le inerenti
mediazioni intellettuali, giungono fino a epoche invero molto più recenti del tardo XII secolo. In
particolare, se si considera che al principe di Giovanni di Salisbury è attribuito l’alto potere ma
anche è opposto il limite della giustizia, e che quattro sono le sue responsabilità di regnante –
ovvero l’adorazione di Dio, l’amore verso i sudditi, la pratica dell’autolimitazione e la scelta di
ministri capaci – è alquanto evidente il collegamento con princìpi che di lì a poco avrebbero trovato
forma concreta nella Magna Carta, che si ritroveranno sia nelle speculazioni dei costituzionalisti,
sia nelle dottrine della prima rivoluzione inglese, sia nei grandi manifesti ideali delle rivoluzioni in
America e in Francia. Questi princìpi saranno la non autoreferenzialità del potere, il suo incontrare
un limite invalicabile nel diritto del paese, l’ossequio che è dovuto alle libertà dei cittadini, la
creazione di un’amministrazione preparata alla conoscenza della giustizia e servitrice della
comunità, e la pratica di un senso di pietas che, non disgiunto da un ferreo esercizio dell’autorità,
deve governare i rapporti tra lo Stato e la società (in termini contemporanei, si direbbe tra Statoapparato e Stato-comunità). Ma, al di là dell’etica governante di Giovanni di Salisbury, è ben noto
che il re feudale, in altri termini, è sempre stato l’espressione di un ordine sociale sul quale il suo
potere non ha mai potuto essere esercitato in forma assoluta: non si spiegherebbe altrimenti come
mai Luigi XIV, nel creare nella Francia del XVII secolo il perfetto modello di stato assoluto, si sia
in qualche modo astratto dall’ordine sociale del regno personificando in sé lo Stato e, soprattutto,
abbia coinvolto in questa avulsione anche e soprattutto l’aristocrazia alla quale, ben più di una
società civile quasi del tutto inesistente nel paese e dell’azione giuridico-istituzionale dei parlamenti
locali, poteva essere riconosciuto il ruolo di efficace contrappeso nei riguardi del potere regio.
La seconda premessa che illustra più puntualmente l’itinerario intellettuale di Bracton è tutta
inglese, e certamente il legista, in quanto personalità profondamente immersa nelle cose
costituzionalmente più notevoli del regno, ne aveva una netta consapevolezza: nel 1215 era stata
scritta a Runnymede, e nei primi decenni dalla sua firma più volte confermata e aggiornata, la
Magna Carta; alla metà dello stesso secolo il Parlamento stava muovendo i suoi primi e incerti
passi verso l’autonomizzazione, tant’è vero che nel 1265 (data che è tuttora convenzionalmente
celebrata come quella della nascita dell’istituzione parlamentare di Westminster) esso si era
autoconvocato per iniziativa del conte di Leicester Simon de Montfort a cui lo stesso Bracton aveva
fornito consiglio e supporto politico (il Parlamento sarà successivamente ristrutturato nel 1297, ad
opera del riformatore Edoardo I Plantageneto che avrebbe dettato la composizione-modello della
camera “bassa” in due cavalieri per ogni contea e due borghesi per ogni città che fosse dotata di un
Royal Charter); e infine le stesse Corti di giustizia, all’epoca, avevano già fissato i punti fermi
dell’ordinamento di common law. In condizioni simili, lo Stato inglese si presentava come già
permeato di quelli che in seguito, con linguaggio moderno, sarebbero stati definiti “freni e
contrappesi”, in parte istituzionali, e in parte politici e sociali: la Corona, il baronaggio, il
Parlamento, le Corti, le libertà, le città franche, la Curia Regis.
Si spiega in tal modo la complessa natura del contesto in cui si inserì la soggettività tutta
giuridica di Bracton e venne a maturazione la dottrina del governo misto fondata sulla distinzione
tra gubernaculum e jurisdictio, ovvero tra due dimensioni essenziali del potere nelle quali si
riconoscono rispettivamente quelle che con discreta approssimazione si possono definire l’azione
governativa e l’azione giuridica, entrambe riferentisi all’opera del monarca ma da quest’ultimo in
qualche misura condivisa con l’aristocrazia e con il corpo parlamentare. Nella prima si individua la
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condotta politica della statualità, che Bracton considera non vincolata dal diritto vigente e pertanto
ampiamente assistita dal diritto di prerogativa; la seconda forma quel livello di produzione e di
applicazione della legge del paese che sottostà alla legge stessa. Resta comunque ampiamente
presente nel pensiero bractoniano restano comunque ben presenti le concezioni che pongono il Re al
di sopra di ogni altro potere e vicario di Cristo nel suo regno: concezioni, queste, visibilmente
finalizzate all’affrancamento del regno d’Inghilterra e del suo sovrano dalla penosa dipendenza dal
potere del papato che aveva caratterizzato i primi decenni del secolo, ma in qualche modo
riequilibrate dalla dichiarazione per cui «the king must not be nder man but undr God and under the
law». La nozione di governo misto emergente dalla dottrina di Bracton è pertanto permeata di uno
spirito teocratico, ma anche più laicamente posta sotto la legge, e la separazione tra gubernaculum e
jirisdiction ne illustra la fondamentale dualità.
Che comunque, più che l’idea, la prassi di un governo misto o ripartito nel regno d’Inghilterra
fosse già nella natura delle cose nel periodo in cui si sviluppò la parabola intellettuale di Bracton è
testimoniato dagli effetti concatenati della stesura della Magna Carta, dall’agitarsi dell’assemblea
parlamentare e dallo sviluppo del sistema delle Corti. Per quanto concerne il documento delle
libertà, dall’originaria stesura del 1215 (peraltro destinata a vita effimera se la si considera come
documento giuridico in senso stretto, ma quanto mai fondamentale come “principio attivo” del
costituzionalismo inglese) alla grande riconferma di Edoardo I (da cui nacque la dizione Magna
Carta Libertatum con cui essa è universalmente nota) il percorso delle libertà si era rapidamente
esteso e affermato con il coinvolgimento di nuove classi sociali. Il Parlamento a sua volta, come già
annotato, estendeva la sua sfera rappresentativa aprendo la partecipazione alle classi
dell’aristocrazia minore e dei borghesi delle città libere (sotto questo profilo, sussiste un legame
diretto tra il progresso della Magna Carta e la genesi del parlamentarismo di Westminster) e via via
si andava affermando come controllore della tassazione – tanto che alla volontà dello stesso
Edoardo I si fa risalire la formulazione di due princìpi destinati a imprimere un impulso
determinante all’evoluzione dell’istituto parlamentare: in primo luogo, il principio del “no taxation
without representation” che collega attività politica e contribuzione fiscale; e in secondo luogo, la
raccomandazione ai baroni di non ostacolare le decisioni in materia fiscale dei commoners riuniti in
Parlamento – ma non ancora elaboratore degli statutes legislativi che all’epoca erano ancora di
produzione sovrana (occorrerà attendere la rivoluzione puritana, ma soprattutto la svolta della
“Gloriosa Rivoluzione” del 1688-89 per assistere alla nascita del legislatore parlamentare). E, in
terzo luogo, le Corti che avevano già da tempo elaborato le procedure e gli strumenti attivi della
common law e che, attraverso alcune metamorfosi strutturali e di ruolo (lo stesso Bracton, nominato
giudice coram Rege, fece parte di un collegio giudicante ben presto evoluto nel King’s Bench) e che
alla svolta del secolo si attestavano su posizioni di più evidente autonomia in nome della purezza
della law of the land di cui erano interpreti e creatrici..
Un governo misto ante litteram era configurato in tal modo nel regno dì Inghilterra, e la
dottrina del gubernaculum e della jurisdictio forniva, in quell’epoca di grandi trasformazioni
giuridiche e costituzionali che fu in XIII secolo inglese, la piattaforma, se non proprio di una
moderna divisione dei poteri, almeno di quella specificazione di branche operative del potere che i
legal historians avrebbero lodato almeno fino all’età vittoriana e oltre (anche in questo caso torna
utile il riferimento al Constitutionalism: Ancient and Modern di McIlwain e, in Italia, a Nicola
Matteucci che ne trasse grande ispirazione) e che, tra svolta rivoluzionaria e secolo dei Lumi, tanto
affascinò i principali cultori europei del costituzionalismo britannico: il refugée ugonotto Paul
Rapin de Thoyras autore di una monumentale Historie d’Angleterre in otto volumi (1724), il
presidente del Parlamento di Bordeaux Charles-Louis Secondat de Montesquieiu che scrisse il
celeberrimo Esprit des Lois e il ginevrino Jean-Louis de Lolme che scrisse i due volumi della
Constitution d’Angleterre (1785) e con essa fu cultore del nascente liberalismo inglese e della
separazione dei poteri realizzata nella forma istituzionale del Regno Unito. Ma, prima di
soffermarsi sul pensiero del più celebre fra i tre, ovvero sul Montesquieu al quale comunemente si
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attribuisce il merito di avere espresso in chiaro la dottrina della separazione dei poteri e di averla
divulgata ovunque si operava affinché l’Antico Regime cedesse il passo a nuove organizzazioni del
potere, può essere utile aggiungere nuove tappe all’itinerario che si sta percorrendo.
4. Verso il contrattualismo: la riflessione sulla sovranità
Una volta superate le nebbie del pensiero assolutista che faceva discendere il potere delle
monarchie dalla volontà divina e pertanto non poteva ammettere alcuna corresponsabilità
nell’esercizio del potere né alcun suo frazionamento, la creazione dello Stato sovrano si è affidata,
da Thomas Hobbes in poi, al principio di necessità. Autentico trait d'union tra concezioni assolute
del potere e ipotesi contrattualiste, il pensiero politico hobbesiano, che si articola in tre fasi
fondamentali scandite alla pubblicazione degli Elements of Law, Natural and Politic (1640), del De
Cive (1642) e del Leviathan (1651), rappresentava alla svolta degli eventi della prima rivoluzione
inglese, l'ultimo grande contributo della dottrina assolutistica e anche il più moderno sotto il profilo
della costruzione intellettuale. Dalla sua concezione della necessità dell’instaurazione di un potere
assoluto quale condizione ineliminabile per portare ordine in una società altrimenti preda dello stato
di natura derivava non tanto la convinzione dell’utilità di un governo misto e – come desiderato dai
molti Utopisti che scrissero a cavallo tra XVI e XVIII secolo – di un’impostazione democratica e
parlamentarista della dorma istituzionale, bensì il fondamento di una sovranità unica e superiorem
non recognoscens. Questi tipo di sovranità, in apparenza, non si differenzierebbe alquanto dal
concetto di autorità derivante dalla dottrina dei common lawyers classici se non fosse che, rispetto a
questa, esclude radicalmente ogni derivazione del potere supremo dalla volontà divina, più per
necessità intellettuale e argomentativa che per autentica empietà, facendone derivare ogni
giustificazione da una profonda istanza sociale (l’esigenza della sicurezza e della regolazione dei
rapporti) e dall’obbligazione politica che ne discende, che dal principio teologico e dalla condizione
patriarcale. In ciò l’assolutismo di Hobbes infatti si distingueva sia dalle concezioni assolutistiche di
Jean Bodin, nei cui Six Livres de la République si leggeva, circa un secolo addietro (1576), della
sovranià come di quel «potere assoluto e perpetuo» che appartiene allo Stato identificato nella
monarchia e che garantisce una amministrazione unica del potere, e di Sir Robert Filmer che nel
Patriarcha, ot the Natural Power of Kings (1680, postumo) rivestiva di argomentazioni bibliche le
sua concezioni assolutistiche e si distingueva come grande ideologo della Restaurazione stuartiana).
A differenza di Bodin e Filmer, dei quali nondimeno condivideva la prospettiva ultima ovvero
la prospettiva dell’edificazione di un potere assoluto verso cui si dirigeva una comune convergenza
ideale, Hobbes non trovò alcuna fortuna presso i suoi contemporanei e le generazioni successive
proprio per via dell’enfasi che egli aveva dedicato al principio della necessità sociale del regime
assoluto, per cui l’assolutezza del potere – o meglio il conferimento di tale potere a un unico centro
di volontà, il monarca – risultava deprivata di tutti quei caratteri sacrali che erano tanto graditi ai
principi del suo tempo, ma anche escludeva ogni forma di governo misto o condiviso. L’accusa di
empietà, diventata un luogo comune sia nella seconda metà del XVII secolo sia in seguito almeno
fino all’età vittoriana, gli valse l’immediato anatema della Chiesa anglicana, che evidenziava
soprattutto nel Leviathan l’assenza di argomentazioni teologiche a premessa e sostegno della sua
concezione assolutistica. Tuttavia un’empietà di natura non religiosa, ma politica e istituzionale, fu
aspramente rimproverata a Hobbes dal Re e dalla Corte, che condannavano la sua rappresentazione
della sovranità assoluta come un male minore (nei cui confronti era perfino ammesso, seppure in
extrema ratio, il tirannicidio) rispetto al male maggiore del regresso sociale verso l’incubo dello
stato di natura e del conflitto permanente; e dal Parlamento, che in precedenza aveva condotto una
guerra civile contro l’assolutismo di Carlo I Stuart e che si scopriva del tutto esautorato dalla
prospettiva di instaurazione del governo unico e supremo delineata negli scritti hobbesiani. La
collocazione della fonte del potere unico nell’obbligazione politica, inoltre, guadagnò a Hobbes un
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ulteriore elemento di dissenso: oscurato il diritto divino ed evidentemente fatto dipendere il potere
del Re da una scelta della società, risalente dal basso e dall’insieme delle volontà, piuttosto che
dall’unzione sacrale, discendente dall’alto e da un punto ben circoscritto della volizione, la
monarchia assoluta era diventata in Hobbes il risultato di un contratto o, come oltre un secolo dopo
affermerà Rousseau che all’assolutismo reale sostituirà in sostanza l’assolutismo dei governati, di
un contratto “sociale”. Ma, per sintetizzare infine la posizione di Hobbes nei confronti del governo
misto e della sua ancella fedele, la separazione dei poteri, e con ciò tornare in carreggiata, sarà a
questo punto sufficiente rammentare la sua sintetica osservazione per cui ogni corpo politico, se si
divide, è inevitabilmente votato alla dissoluzione: un’osservazione, questa, che poteva in fin dei
conti essere condivisa da un monarca assoluto, ma di certo non dal Parlamento che di lì a qualche
decennio avrebbe instaurato, con la “Gloriosa Rivoluzione” del 1688-89, una fondamentale
esperienza di governo misto e che, pertanto, non poteva che essere ostile nei confronti del grande
pensatore politico e contribuire anch’esso alla sua demonizzazione.
Per comprendere a fondo la natura di questa svolta rivoluzionaria e il ruolo che in essa ha
ricoperto il principio di separazione dei poteri resta fondamentale il contributo di John Locke, alla
cui intuizione della dualità tra il duty to society e il duty to government si riconducono idee che
avranno lungo corso sul pensiero dei cultori della società civile e dell’opinione pubblica
rispettivamente come luogo e strumento del controllo sull’operato delle istituzioni (tra i quali anche
gli Illuministi scozzesi e qui soprattutto Ferguson e, per altri versi David Hume), dei difensori delle
libertà e degli spazi di autonomia individuale (che esalteranno il concetto lockeano di property
intesa come tutto quanto attiene all’individuo) e dei sostenitori del valore del consenso politico.
Queste ed altre concezioni politiche hanno prodotto uno straordinario impatto sullo sviluppo del
parlamentarismo britannico nel secolo successivo alla “Gloriosa Rivoluzione” dei whigs e dei tories
e hanno contribuito alla diffusione del principio di separazione dei poteri, di cui Locke tratta nel
secondo dei Two Treatises of Government (tempestivamente apparso nel 1689), ove il "governo
misto" emergeva come prodotto della separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e federativo,
mentre il giurisdizionale operava sullo sfondo come garanzia ultima della coerenza di tali funzioni
dello Stato con la common law e con la lex Angliae. Questa tripartizione ripercorre l’antica struttura
del pensiero polibiano, ma organizzandola non secondo l’apporto che distinte componenti della
società possono recare al governo misto (suggestioni, queste, presenti anche in Italia nel pensiero di
Giambattista Vico) quanto piuttosto, e in un senso relativamente più pragmatico, secondo una
declinazione funzionale nella quale si intravede, da un lato, lo spirito del common lawyer e,
dall’altro, un elemento di repubblicanesimo che non era estraneo alla cultura politica dell’epoca.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’attribuzione del potere esecutivo al Re e del legislativo
al Parlamento è coerente con la natura delle cose nel clima della svolta rivoluzionaria: attraverso
essa si consacra un dualismo essenziale per l’equilibrato sviluppo in senso parlamentare del sistema
di governo del regno d’Inghilterra, ovvero nel senso di uno sviluppo che non sostituisca
all’assolutismo monarchico quell’assolutismo parlamentare di cui si era fatta una triste esperienza
nel periodo della rivoluzione cromwelliana (in tale ottica, il dilemma della collocazione/attribuzione
del potere sarà risolto dai nuovi parliamentarians mediante l’istituzionalizzazione della figura
composita del King in Parliament, autentica corporation o trust costituzionale in cui monarchia e
organo parlamentare si connettono nell’esercizio della sovranità “legislativa” occupando in tal
modo il centro focale dell’intero ordinamento). Non stupisca la non inclusione delle Corti di
giustizia, autentiche grandi istituzioni del regno, nella tripartizione lockeana ove compare invece il
potere cd. “federativo”: non si tratta di una sottovalutazione del ruolo della giurisdizione, ma
semmai di una sua esaltazione, ritenendosi implicitamente riduttiva una loro catalogazione entro
una tripartizione di funzioni inerenti al government del paese. Più che agenti istituzionali, le Corti di
common law sono, infatti, “il diritto” del regno, e operano sullo sfondo dell’intero sistema politico,
ne dettano le regole esplicite e quelle subliminali, dirimono i conflitti di potere, tutelano le libertà, e
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pertanto si propongono come autentici arbitri del gioco istituzionale: per far ciò, esse debbono
trovarsi in una posizione di autonomia come esplicitamente garantito dal Bill of Rights, e in
un’autonomia garantita non all’interno della tripartizione funzionale, bensì al di fuori di essa, tanto
che dal XVIII secolo a tutt’oggi la independence of the Judiciary è uno dei princìpi-cardine su cui si
fonda l’intera costruzione costituzionale del Regno Unito. La tripartizione dei poteri “separati”
secondo Locke, pertanto, si completa con il potere federativo che si collega in prima battuta alla
necessità che – in attesa del Trattato di Unione del 1707 – il regno d’Inghilterra e quello di Scozia,
ancora collegati in una unione “personale” sotto una sola monarchia ma con istituzioni del tutto
separate e pertanto costituzionalmente indipendenti, restino legati dal labile patto posto sotto l’egida
di una nuova monarchia d’importazione; ma, al di là della questione territoriale, il foedus è
necessario anche perché occorre fare fede del patto plurimo, risultante da un intrecciarsi di
contrattualismi, che lega la Corona al paese e la rende garante del nesso tra la società civile e le
istituzioni, e tra le grandi forze politiche che hanno allontanato dal paese ogni tentazione di
assolutismo. In seconda, e non meno importante istanza, il potere federativo presenta l’indubbio
vantaggio di inserire in un’organizzazione potestativa bilanciata, e pertanto “di governo misto”, una
serie di poteri che gli antichi sovrani esercitavano per virtù propria e per prerogativa (dichiarare
guerra, trattare la pace, stabilire intese con gli altri principi, conferire gli onori, sciogliere il
Parlamento, ecc.).
Quanto al repubblicanesimo di Locke, non è certo in un rifiuto dell’organizzazione
monarchica – purché informata a separazione dei poteri – che esso trova concretizzazione, bensì
nell’interpretazione del ruolo che un Re non assoluto, e pertanto non accentratore di tutto il potere
nella sua persona, è o dovrebbe essere chiamato a svolgere nel quadro di un sistema costituzionale
ormai irreversibilmente condizionato dall’affermazione dei valori della società civile e del
Parlamento (e d’altra parte non poteva essere diversamente in un paese che, cacciato lo Stuart,
aveva chiamato a reggere il governo del paese quel Guglielmo d’Orange stathouder delle province
olandesi, che Voltaire descriverà come il più grande antagonista protestante di Luigi XIV, e che si
sarebbe impegnato solennemente ad osservare le antiche libertà del regno dì Inghilterra riepilogate
nella Declaration, poi Bill, of Rights). Gli elementi di un simile spirito repubblicano si rintracciano
nella multiforme biografia politica di Locke, e soprattutto nel suo sodalizio con Anthony AshleyCooper, Primo Lord conte di Shaftesbury, che fu un influente leader dei whigs durante la
Restaurazione e un oppositore del neoassolutismo stuartiano (insieme al Duca di Monmouth, fu
protagonista di un fallito tentativo di ostacolare l’ascesa al trono di Giacomo II Stuart). Locke e
Shaftesbury, in particolare, collaborarono all’elaborazione delle Fundamental Constitutions della
Carolina (1669), carta costituzionale in cui si garantiva quella tolleranza verso le sette religiose
dissenzienti che era negata nella madrepatria inglese, si favoriva una dinamica produzione
legislativa, e – in anticipo sui tempi – si introduceva il voto segreto nelle elezioni. Attraverso questo
esperimento istituzionale l’influenza delle categorie lockeane sul pensiero repubblicano degli
Americani, nel quale esse introdussero visibili elementi antiautoritari, si sarebbe resa visibile
operando, per così dire, “all’interno” del sistema, mentre molto più appariscente sarà l’influsso dei
due Treatises soprattutto per quanto concerne i principali elementi della sua analisi di scienza della
politica: tolleranza religiosa, valori della società civile e separazione dei poteri.
5. Le concretizzazioni costituzionali
Si profilava in tal modo anche nel Nuovo Mondo quella convinzione della naturalità delle
libertà e dei diritti – o almeno della loro immemorabilità e del loro incardinamento nella lex
gentium – che aveva profonde radici nella percezione comune dei popoli di cultura inglese, dalla
Magna Carta in poi fino all'enunciazione dei birthrights ad opera degli (in parte inconsapevoli)
costituenti della Convenzione di Filadelfia a cui si sarebbero idealmente associati i (fin troppo
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consapevoli) loro colleghi dell'Assemblea Nazionale francese del 1789. Da entrambe queste
elaborazioni costituzionali derivavano sistemi di governo basati sulla separazione dei poteri, e
pertanto organizzazioni di governo misto, ma la natura della differenza tra le due percezioni va a
doverosamente chiarita perché può porre sotto una particolare luce la questione della realizzazione
di forme di governo misto negli scenari rivoluzionari e del loro rapporto con il riconoscimento dei
diritti fondamentali e le loro garanzie.
A Filadelfia, i delegati di dodici Stati americani s’erano riuniti per risolvere, attraverso la
regolazione delle proprie relazioni commerciali, il problema del malfunzionamento del loro
sodalizio nato con la guerra di indipendenza e regolato dagli Articoli di Confederazione. Il grande
manifesto ideale dei diritti era già stato scritto con la Dichiarazione di Indipendenza (1776), mentre
la questione sul tappeto era di carattere eminentemente pragmatico: organizzare il potere, creare una
«more better union», eliminare la perniciosa concorrenza economica. Ne sarebbe scaturita una
originale opzione costituzionale che dava forma all’essenza mista dello Stato e la regolava sia
accogliendo il principio di separazione dei poteri sia dando corpo a un’organizzazione duale in cui
lo stesso potere ulteriormente si scomponeva tra Federazioni e Stati membri (per una più accurata
conoscenza degli argomenti addotti a sostegno della separazione dei poteri, di considerevole utilità
sia la lettura dei saggi 47-51 dei Federalist Papers, opera collettiva che sotto lo pseudonimo
condiviso di Publius fu scritta nel 1788 e divulgata nello Stato di New York da Hamilton, Jay e
Madison). Quanto ai diritti, essi erano già solennemente delineati nella Dichiarazione del 1776 e più
minuziosamente dettagliati nelle costituzioni dei tredici Stati (molto significativa, a tal riguardo, era
la Costituzione della Virginia) e pertanto la loro riformulazione fu ritenuta per il momento
superflua, rinviandosene l’attuazione a un successivo momento non necessariamente lontano nel
tempo. Pertanto la Costituzione del 1787 si proporrà come una formula pragmatica di
organizzazione del potere secondo lo schema della separazione (le coordinate del governo misto vi
si ritrovano agevolmente negli artt. 1-3), mentre per un riconoscimento dei diritti dei cittadini degli
Stati Uniti, ovvero dei cittadini della federazione e non della Virginia o del New Jersey,
l’appuntamento fu rinviato al1791, anno di introduzione del primi dieci emendamenti da allora in
poi noti anche come il Bill of Rights statunitense. Coloro i quali invece si riunirono a Versailles
dopo il giuramento della Pallacorda, atto davvero rivoluzionario in cui il Terzo Stato mutava pelle e
si erigeva in Assemblea Nazionale, erano ben coscienti della missione da svolgere e del ruolo
costituente, ovvero di pieno potere o pouvour constituante che intendevano assumere e portare fino
alle ultime conseguenze per eliminare ogni residuo di ancien régime. Il problema di cui nella
Francia della prima fase della Rivoluzione si cercava la soluzione più immediata e cogente non era
infatti l’organizzazione del potere in senso proprio, che ben poteva consistere in un mero
rimaneggiamento in senso montesqueiano di una monarchia ormai estenuata, bensì il
riconoscimento delle libertà e la loro proclamazione solenne: questione rispetto alla quale la Francia
era storicamente una tabula rasa (così come lo era per l’autonomia dei giudici, per l’esistenza stessa
di un parlamento nazionale, ed evidentemente per la stessa idea di governo misto). Da questo stato
di cose, e dalla diversa selezione delle urgenze operata dai costituenti francesi, sarebbe derivata una
dissociazione tra costituzione organizzativa e proclamazione dei diritti simile alla statunitense, ma
di segno inverso poiché la scrittura della Déclaration des dtoits de l’homme et du citoyen (1789)
avrebbe preceduto l’elaborazione della prima Costituzione (1791). Se pertanto negli Stati Uniti, la
costituzione intesa come organizzazione del potere precedeva pertanto la proclamazione delle
libertà e dei diritti ad opera degli elaboratori di fatto di una carta costituzionale (in realtà gli
autentici costituenti della federazione statunitense vanno individuati negli Stati e nei loro Legislativi
che successivamente ratificarono il prodotto della Convenzione di Filadelfia), nella Francia del
1789-91 un potere perfettamente consapevole in astratto e in via formale della propria supremazia,
derivante dall’essere esponente della Nazione, dava vita a una prima Costituente facendo precedere
la proclamazione dei diritti e quindi producendo la carta costituzionale in senso tecnico (questa
distinzione sarebbe scomparsa del tutto dapprima in forma imperfetta con le costituzioni dell’età
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liberale, e poi in modo più consapevole e ormai culturalmente acquisito in quelle razionalizzate e
cd. democratico-sociali della seconda metà del Novecento).
La differenza di approccio alla questione del nesso tra garanzia delle libertà e organizzazione
del potere nel discorso costituente molto spiegherebbe della diversa natura delle due rivoluzioni, ma
l’argomento poterebbe troppo lontano e non rientra nella riflessione che qui si intende svolgere.
Giova pertanto sottolineare, per tornare ancora una volta di discorrere di governo misto,
un’eloquente analogia che accomuna entrambe le esperienze, la statunitense e la francese, e che le
fa discendere da un comune intelletto costituzionale.
Per illustrare il punto, si faccia riferimento dapprima a quel frammento della Dichiarazione di
Indipendenza degli Stati Uniti d'America (1776) che, prendendo principio dal riconoscimento dei
birthrights come diritti innati della persona umana, sostiene con singolare efficacia «that to secure
these rights, Goverments are instituted among Men, deriving their just powers from the consent of
the governed». Questa espressione è per il costituzionalista alquanto più significativa di quella,
molto più nota e su cui si è costruita una vasta letteratura, che introduce il diritto alla ricerca della
felicità («the pursuit of happiness») di matrice jeffersoniana: perché, se questa indica un grande
orizzonte ideale, l’altra dà ragione della motivazione profonda per cui secondo gli Americani, ma
oggi anche secondo chiunque affronti l’ubi consistam del diritto costituzionale, la società dovrebbe
erigersi in governo o creare un governo dal suo seno e politicamente obbligarsi nei suoi confronti. Il
potere organizzato, in fin dei conti, esiste non per esercitare un comando dispotico e arbitrario, ma
per garantire il mantenimento delle libertà e l’esercizio dei diritti, e per questo non può che reggersi
che sul consenso dei governati; un consenso – in altri termini – non dato, in senso hobbesiano, una
volta per tutte salva poi l’estrema possibilità del tirannicidio, ma un consenso costantemente
alimentato dalla società civile e reso visibile attraverso la partecipazione alla politica. In questa
annotazione, che disvela alla generalità degli associati il movente di fondo che legittima l’esistenza
del governo, e di qualsiasi governo che regga la società umana, ancora prima che Montesquieu (il
quale pure ebbe gran fortuna nell’America pre-federale), v’è tutto Locke e v’è tutta l’influenza del
suo pensiero sul government by consent e sulla primazia dei diritti alla vita, sulla libertà personale e
alla property, sulle valenze contrattualistiche del patto federativo, sulle potenzialità della società
civile. Non meno illuminante è quell'analogo passo del preambolo della francese Dichiarazione dei
Diritti del 1789 in cui si legge, con inverso ragionamento retoricamente inteso a porre in
drammatico risalto i malanni derivanti dal governo accentrato e, pertanto, arbitrario per definizione,
che «l'ignorance, l'oubli ou le mépris des droits de l'Homme sont les seules causes des malheurs
publics et de la corruption des Gouvernements»: potere corrotto è, secondo essa, quel potere che
non riconosce o profana i diritti, o ne dimentica l’esistenza oggettiva perché è di diritti naturali che
si sta discorrendo. Il concetto è analogo al precedente: le influenze statunitensi sul pensiero
costituzionale della prima fase rivoluzionaria in Francia sono più ramificate di quanto normalmente
appaia).
Non è casuale che, sebbene con diverse parabole politiche, entrambi i sistemi di governo
scaturiti dalle concezioni costituzionali dei corpi costituenti che agirono in base a questi princìpi
avrebbero in seguito dato vita a ordinamenti giuspubblicistici in cui il potere era diviso e la
statualità si presentava come "mista", soggetta alle leggi e rispettosa delle libertà: negli Stati Uniti,
la garanzia del carattere misto del sistema di governo era affidata alla struttura federativa dello Stato
e alla rigida separazione fra branche istituzionali «sharing power»; nella Francia della costituzione
moderata del 1791, che fu la figlia primogenita di quel memorabile art.16 per cui «Toute Societé
dans laquelle la garantie des Droits n'est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n'a
point de Constitution», la medesima garanzia risposava sotto l'ala protettiva dei princìpi
montesqueiani. In questo articolo infatti si enunciava uno dei punti fermi del costituzionalismo
universale – o almeno di quello che è stato realizzato in modo compiuto nelle democrazie della
famiglia liberale, e spesso malamente imitato nelle democrazie nominali – ovvero che o la
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costituzione garantisce le libertà e separa i poteri, o non è; e prima ancora vi si tracciavano i
contorni di un altro principio universale, ovvero che la costituzione è il prodotto di una società, di
un corpo politico originario, e non di un potere autoreferenziale (altrimenti, anche stavolta, “non
è”). Si può pertanto dire che in questi due fondamentali enunciati della grande dottrina
costituzionalistica, sui quali si stende l'ombra lunga delle concezioni emerse nel secondo dei Two
Treatises of Government di John Locke e rielaborate per la grande divulgazione europea e
transcontinentale dal Montesquieu dello Esprit des lois, si riassume quell'incontro a metà strada fra i
due essenziali corpi della politica, ossia appunto tra l'apparato delle istituzioni pubbliche e il
complesso delle autonomie private degli individui e delle formazioni sociali, che per secoli aveva
monopolizzato il pensiero dei costituzionalisti fin da quando i loro antichi precursori – tra i quali il
già menzionato Bracton che trattando del binomio gubernaculum-jurisdictio aprì la via verso il
riconoscimento della complementarietà tra la saggezza governante del principe e la saggezza
giuridica delle corti di giustizia e, in seguito, anche del Parlamento – si impegnarono nel tentativo
di salvaguardare il fragile punto d'equilibrio tra le opposte esigenze della comunità organizzata:
conservare la maestà del potere sovrano e garantire le libertà.
Si potrebbe anzi affermare, a tale proposito, che prima ancora che nelle formule di
separazione di poteri elaborate da Locke e successivamente da Montesquieu, l’autentica base su cui
si è innestata ogni concezione di governo misto è il rapporto originario tra società e potere, ovvero
tra due realtà oggettive che tendono a vivere rapporti controversi ma non possono escludersi né
annullarsi a vicenda. In ciò consiste l’essenza del governo misto, ed è in tale grande scommessa
intellettuale e giuridica che si risolve, in estrema sintesi, la fondamentale esperienza del
costituzionalismo, ovvero del movimento di pensiero che ha preceduto la concreta scrittura di
costituzioni fino al momento in cui, sotto la spinta degli eventi negli Stati Uniti confederati che
discutevano su come eliminare la sleale concorrenza commerciale lungo le grandi vie fluviali
attraverso cui si sviluppavano la navigazione interna e il trasporto delle merci, e con dichiarata
volontà di costituire nella Francia rivoluzionaria, si venivano a produrre le prime costituzioni
scritte, formalizzate, rigide.
Poiché, come finora si è spesso considerato, nel principio di separazione del potere si ravvisa
una delle componenti formative del concetto di governo misto, non è più possibile a questo punto
trascurare un appuntamento a lungo rinviato, ovvero l’appuntamento con Montesquieu.
6. Governo misto e separazione dei poteri
Sebbene non sia lecito ignorare o ridimensionare il ruolo pioneristico esercitato in epoca
moderna da John Locke, il più appariscente contributo sul tema resta comunque quello elaborato da
Montesquieu nell’Esprit des lois (1746), grande opera in due volumi che si colloca in linea diretta
con lo spirito antiassolutistico precedentemente esplicitato negli ironici ragionamenti colloquiali dei
due viaggiatori delle Lettres persanes (1721), e che per l’intento non dissacratorio bensì volto alla
fondazione di una nuova metodologia della politica nella Francia assolutistica, subì numerosi
attacchi e fu messa all’indice nel 1751. L’articolazione della teoria della separazione dei poteri si
rinviene nel libro XI dell’Esprit des lois, il cui assunto di base – nel quale si avverte un’eco delle
osservazioni platoniche circa il contrasto tra forme di governo ideali e loro forme corrotte – è che
l’assolutezza del potere, ovviamente monarchico, è un incontrovertibile veicolo di corruzione. Alla
base di tale certa condizione degenerativa del potere unico è l’ignoranza dei valori della società, e
quel suo esserne totalmente avulso per esercitare su essa un comando privo di freni, nel migliore dei
casi paternalistico, nel peggiore crudamente dispotico. A tale premessa fa immediatamente seguito
la ricognizione dei tre ordini di poteri attraverso i quali ogni statualità, sia essa portatrice di
condizioni di assolutezza o di condivisione potestativa (e in ciò Montesquieu si rivela un convinto
estimatore del sistema di governo della Gran Bretagna e, indirettamente, un tributario del pensiero
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lockeano), monarchica o repubblicana, opera e disimpegna la sua funzionalità: il potere di produrre
le leggi del paese e pertanto di regolare i rapporti, il potere di rendere esecutive e, in sostanza, di
governare, a e il potere di porre riparo alle trasgressioni o di punirle, ovvero di giudicare. Se è vero
che in una dimensione di buongoverno la libertà degli associati deve essere sommamente cara a chi
porta su di sé il fardello del potere costituito, la separazione fra questi tre poteri, ovvero non la
frammentazione distruttiva dell’unità metaistituzionale del potere ma la sua attribuzione a
istituzioni distinte e reciprocamente autonome, è la condizione essenziale perché tale libertà sia
effettiva. In questa regola basilare si condensa la teoria montesquieiana.
Ricco, come nella tradizione argomentativa dell’epoca, di esempi storici e, nel miglior stile
antropologico dell’Illuminismo, fecondo di osservazioni sui fattori di costume, di religione, di
condizioni materiali e perfino di clima in cui trovano sviluppo le società umane organizzate, il
discorso dell’Esprit des lois non si discosta dal requisito fondamentale della separazione in
mancanza del quale ogni società politica si corrompe (o, come diranno i montesquieiani del 1789,
“non ha una costituzione”). E anche in questo caso seguendo una linea argomentativa che ha lunga
esperienza nel pensiero politico, da Platone in poi, Montesquieu passa alla ricognizione di quali
siano le forme di governo che danno corpo alla statualità, ovvero la repubblica, la monarchia e il
despotismo. A fondamento dell’opzione repubblicana si pongono, come nell’antica Roma e presso i
Greci, innanzitutto l’eguaglianza, l’amore per il proprio paese e l’esercizio della virtù: si tratta, in
sostanza, di una forma di governo in cui il popolo si regge autonomamente ed è nello stesso
momento monarca di se stesso e suddito di se stesso (l’idea sarà radicalizzata da Rousseau, che
discorrerà di identità tra governanti e governati) esercitando la doppia funzione di legiferare e di
amministrare, o essendo – attraverso le magistrature da esso designate – il principio di tali funzioni.
Il governo despotico trae la sua forza dall’imposizione del terrore e pertanto dalla strutturale
negazione in forma assolutamente coercitiva di ogni autonomia individuale: è una forma che non
consente alcuna compartecipazione al potere e nella quale è impossibile alcuna separazione. Nella
monarchia, il valore portante è, come nell’antica Sparta, l’onore che si pone alla base di ogni
attribuzione di nobiltà; buon laudatore (contrariamente a Rousseau, che le rivolgerà acri giudizi)
della forma costituzionale britannica, Montesquieu tesse gli elogi della monarchia costituzionale, o
limitata, miglior esempio di governo misto o Stato misto nel quale il Re, il Parlamento e le Corti
esercitano separatamente i tre poteri e, soprattutto, un sistema di freni e contrappesi incrociati,
neanche troppo complesso perché ma guidato dal senso comune, mette in funzione un meccanismo
il cui “è il potere a frenare il potere” e, pertanto, nessun uomo di governo o sovrano o istituzione
può prevalere e, con ciò, devastare l’ordine istituzionale e privare i sudditi delle loro libertà.
Molti altri elementi costruttivi del governo misto Montesquieu individuerà nelle sue
argomentazioni. Se ne possono selezionare alcuni.
In primo luogo, la necessità di evitare che, al di là del pur necessario coordinamento, i poteri
evitino ogni forma di riavvicinamento o, peggio di conduzione sotto la responsabilità di una singola
istanza che li inquinerebbe vicendevolmente. Tuttavia si deve prestare molta attenzione, cedendo a
un malinteso schematismo, nel considerare come assoluta questa annotazione montesquieiana
perché ogni totale dissociazione tra poteri porterebbe, contraendo la classica sindrome hobbesiana
che conduce alla dissoluzione dei corpi politici, all’annullamento reciproco: forme di
comunicazione tra i poteri debbono sussistere in un sistema equilibrato, e di certo il magistrato
francese, che aveva osservato accuratamente il funzionamento del sistema inglese scaturito dal
devolution settlement di fine Seicento e nel quale già si stava delineando con Robert Walpole la
figura del premier (parola, tra l’altro, di origine francese così come nella stessa epoca lo era il
termine budget), ben conosceva i pregi del “government by influence”.
In secondo luogo, era negli auspici di Montesquieu che l’esercizio della giurisdizione, per
quanto necessario, prevedesse il concorso dell’elemento popolare (un’eco abbastanza evidente di
quel carattere di immediata socializzazione della giustizia che risale alla Magna Carta e che si
esprimeva, e tuttora si esprime, sia nel trial by jury ovvero nel “processo per giuria”, sia nel corpo
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dei giudici di pace la cui prima e basilare regolamentazione risale al XIV secolo), e che le
magistrature legislative ed esecutive fossero dotate di quell’alto un alto grado di stabilità che solo
poteva garantire la continuità dell’ordine politico e la non dispersione delle funzioni istituzionali.
In terzo luogo, la preferibilità che il potere legislativo, ovvero il potere di stabilire le regole di
una società ordinata, promanasse dal popolo. Per far ciò, Montesquieu reputava necessaria la tenuta
di periodiche elezioni per il cui accesso si tenesse tuttavia conto del censo e della posizione sociale
dei singoli (e ciò per evitare ogni slittamento di carattere repubblicano che turbasse la separazione
dei poteri creando una diretta interdipendenza tra legislatore e governante). Designato in tal modo il
ceto nobiliare ad operare in rappresentanza e per il bene del popolo stesso, il Legislativo avrebbe
operato con una lungimiranza politica che nessuna forma di democrazia assembleare basata su
un’ampia partecipazione dei ceti inferiori avrebbe potuto garantire; ma in un sistema dinamico e
prospero, il progresso economico e l’innalzamento del tenore di vita dei sudditi, posti sotto l’egida
del governo misto, avrebbe inevitabilmente creato un popolo di notabili idoneo a designare con
oculatezza le proprie magistrature. Anche in ciò si intravede una serie di suggestioni britanniche di
carattere parlamentarista.
E infine, in quarto luogo, una peculiarità del pensiero di Montesquieu che tuttavia corrisponde
a una certa mentalità diffusa nella Francia tradizionale, è la sua convinzione che in un sistema di
buongoverno la giurisdizione dovesse avere un ruolo recessivo o minimale. Senza voler vedere in
tale asserzione una precisa volontà montesquieiana di andare contro gli interessi del proprio ceto
(egli proveniva da un’antica famiglia di nobiltà di toga) o di destabilizzare il potere dei molti
parlamenti locali (organi dei quali egli tuttavia tra le righe dei suoi scritti, soprattutto ponendoli a
confronto con la vitalità storica del Parlamento di Westminster, rilevava la desuetudine), gli era
propria l’idea che in un sistema di buon governo il circuito essenziale del potere non includesse la
magistratura della giurisdizione tra i suoi protagonisti principali. Questa idea in qualche modo si
discosta dalla visuale britannica del ruolo fortemente permeante delle Corti, ma solo in apparenza
(non si dimentichi che Locke, per i motivi che sono stati dianzi esposti, aveva escluso la
giurisdizione dal novero dei tre poteri) contiene l’intuizione che la giustizia, prima ancora che un
potere attivo dello Stato, debba essere considerata la linfa di un sistema ben governato, e che tanto
più il sistema è ben governato tanto meno vi sarà bisogno dell’intervento del giudice; ma, come s’è
detto, si può anche sospettare che in questa riflessione di Montesquieu ricorra quell’elemento
tradizionale che imponeva ai giudici francesi di occuparsi il meno possibile, o di non occuparsi
affatto, delle cose relative all’amministrazione del regno.
7. La fase matura del contrattualismo
Per quanto un singolo autore possa essere identificato con una categoria del pensiero politico,
nella percezione corrente Montesquieu lo è con la separazione dei poteri: insoddisfatto delle
condizioni politiche e istituzionali del proprio paese e del proprio tempo – come del resto
profondamente insoddisfatto della stagione restaurativa era stato il Locke che nei Two Treatises
delineava i tratti del governo misto – in questa concezione egli intravedeva una risposta a uno Stato
assoluto che, tramontata la parabola del Re Sole, si stava allontanando dalla perfezione originaria e
si era già trasformato in ancien régime. Ancora più radicale, anche se non privo di qualche elemento
contraddittorio, sarebbe stato l’approccio alla questione del governo misto del maggiore spirito
contrattualista dell’Illuminismo, ovvero di Jean-Jacques Rousseau, che dedicava all’argomento una
parte del Libro III dell’opera che lo ha reso celebre: Du contrat social: ou principes du droit public
(1769).
Procede Rousseau secondo uno schema consueto, ovvero – sulla base di una profonda
riflessione sulle condizioni dell’uomo nello stato di natura in cui la drammatica visuale hobbesiana
è radicalmente ribaltata – passando in rassegna gli elementi che costituiscono la materia prima della
tematica, ovvero le forme di governo. Pertanto egli analizzerà i caratteri del governo democratico,
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nel quale il corpo sociale assomma in sé il potere di legiferare e quello di governare (proponendosi
nel contempo come sovrano, principe e magistrato di se stesso, e quindi anche suddito poiché autoobbligato al rispetto delle leggi delle quali assicura produzione ed esecuzione); del governo
aristocratico, ove solamente ad alcuni cittadini – auspicabilmente i migliori, come il termine stesso
suggerisce da secoli e come tutti vorrebbero, o i più anziani – venga affidata la responsabilità
dell’esecuzione della legge (questa aristocrazia, un tempo naturale nelle società umane, la si
dovrebbe tuttavia rendere elettiva perché alla sua base sussista comunque un costante controllo
della volontà collettiva: per avere una prova dell’importanza che Rousseau attribuisce alle elezioni,
si pensi al suo celebre, sferzante commento sulla condizione del popolo britannico, sempre schiavo
ma libero solamente quando è chiamato all’esercizio del suffragio); e del governo monarchico, in
cui assunzione della sovranità ed esercizio del governo si riassumono nel Re che per dare corso a
tale riunione di funzioni politiche opera attraverso i ministri suoi fiduciari e i corpi amministrativi
sui quali fa valere la propria volontà.
Non manca anche nel Contrat social una curvatura platonico-aristotelica del ragionamento
sulle forme di governo, Quando gli interessi egoistici prevalgono sull’interesse collettivo, allora
ogni forma si presta alla corruzione, e impegno di Rousseau è verificare quali siano gli elementi
degenerativi e quale tra le forme di governo ne sia, se non la più immune, almeno la più dotata di
anticorpi. Entrano qui in gioco i primi elementi di governo misto: del governo aristocratico
Rousseau pensa che, per via della separazione che vi esiste tra le magistrature di anziani e il potere
legislativo, la corruzione della sovranità (perché questa resta sempre l’attribuzione del corpo
politico in cui risiede la volontà generale e che fa le leggi) non avrebbe luogo giacché il governo si
occuperebbe di questioni parziali e il legislatore di norme generali. D’altra parte, la naturale
tendenza a far sì che l’accesso alle alte magistrature di governo diventi ereditario in forza delle
naturali diseguaglianze sociali ed economiche che esistono in ogni aggregato sociale, della
prevalenza degli interessi particolari e dell’accenutarsi dello spirito di copro, trasformerebbe questa
forma in una oligarchia facendovi venire meno ogni residuo elemento di repubblicanesimo. Nel
governo democratico, a fronte del vantaggio che deriverebbe dalla coincidenza tra produzione,
interpretazione ed esecuzione della legge, la corruzione del sistema sarebbe altamente probabile, e
anzi quasi inevitabile, dal momento che il corpo politico che si occupa di questioni di portata
generale (le leggi) inquinerebbe la propria potestà trovandosi a dover essere responsabile anche
delle particolari che ne sono esecuzione (le azioni di governo), e gli abusi da ciò derivanti
porterebbero al disfacimento di tale sistema di governo. Resta pertanto una pura illusione, in questo
problematico interscambio tra generale e particolare che configura un elemento portante della
speculazione rousseauviana, il pensare che un popolo che si autogoverni perfettamente, come se
fosse un popolo di dei, cesserebbe di aver bisogno di essere governato. Infine nel governo
monarchico, la corruzione è costantemente appostata dietro l’angolo ogniqualvolta il principe operi
in modo da riassumere in sé tutto il potere appropriandosi del legislativo che compete alla sovranità
del popolo: secondo Rousseau è pressoché inevitabile che ciò avvenga poiché la distinzione tra
governo e sovranità tenderebbe ad annullarsi e il monarca si trasformerebbe in un tiranno il cui
potere si esercita in spregio delle regole che costituiscono lo Stato e dell’equilibrio di funzioni in
questo che appare un sistema di separazione potestativa dagli equilibri alquanto precari.
Il governo misto rousseauviano, pertanto, si propone di riassumere le positività della forma
democratica eliminandone i punti di contraddizione o almeno smussandone le asperità più evidenti.
Sulle caratteristiche e le valenze del governo misto, che egli definisce anche “temperato” poiché in
sostanza esso non è presentato come un modello originale ma configura una ridefinizione di una
forma di governo “pura”, Rousseau concentra la sua attenzione nel capitolo 7 del Libro III del
Contrat social. La premessa su cui egli costruisce la propria teoria del temperamento è la
constatazione dell’impossibilità che i regimi puri trovino realizzazione realtà: infatti occorrerebbe
per questo che esistano monarchi che abbiano i caratteri della divinità, popoli governanti
perfettamente virtuosi, aristocratici purificati da ogni forma di egoismo di casta. E pertanto,
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considerato che nella storia umana la nozione di purezza dei regimi politici aiuta a costruire degli
idealtipi e non a costruire nel concreto forme di governo praticabili, occorre abbandonare la
filosofia nel suo grado più elevato e prendere atto che ogni regime che l’esperienza può registrare
nell’evoluzione delle società erette in ordinamento politico non è che una forma in cui prevalgono
elementi di una dei tre descritte, ma che è attenuata o “temperata” con elementi delle altre.
L’elemento mobile che Rousseau individua nel descrivere in che modo il temperamento delle
forme di governo si realizzi è il potere di governo, che è il momento istituzionalizzato della politiità
e della discrezionalità, e pertanto si dimostra il più reattivo e dinamico in relazione alla relativa
fissità del potere legislativo e di quello giurisdizionale: sicché, poiché per sua natura il potere
esecutivo tende a espandere il proprio raggio d’influenza e ad assumere forme mutevoli, è in
direzione di questo che si può operare con maggior probabilità di successo se si intende mettere a
punto credibili condizioni di governo misto. Deve essere puntualizzato a tale proposito che anche
per Rousseau, non tenendo conto del declinante sistema delle Province Unite olandesi che
soprattutto nel secolo precedente aveva costituito (se se ne accetta la magistrale descrizione di
Johan Huizinga) un esempio del tutto sui generis di autogoverno privo di statualità, l’unico regime
che si potesse definire misto era ancora – come al tempo di Montesquieu – quello britannico, che
offriva un esempio di premiership e di Parlamento in evoluzione, l’unico in Europa. Delle negative
valutazioni che Rousseau dedica in più parti del suo scritto alle modalità di organizzazione e
gestione del potere in Gran Bretagna è stato già detto (egli di certo non condivide l’atteggiamento di
ammirazione che ne aveva avuto il suo eminente predecessore), ma occorre anche ricordare che
nell’epoca in cui Rousseau aveva in gestazione il Contrat social era stato appena inaugurato il
regno di Giorgio III, ovvero del sovrano che, di contro all’ascesa della premiership determinata dal
lungo periodo di potere di Walpole sotto la prima monarchia Hannover, avrebbe presto tentato di
ristabilire una personal rule scegliendo premiers di minor autorevolezza e ingaggiando un serrato
confronto costituzionale con il Parlamento. La Gran Bretagna offriva all’osservazione, in altri
termini, quell’esempio evidente di mobilità dei grandi blocchi istituzionali che potesse fornire a
Rousseau, nonostante la presa di distanze, un punto di riferimento per l’analisi di base dei fattori
dinamici che determinano il temperamento del sistema di governo: d’altra parte la monarchia
limitata e quindi la monarchia costituzionale e quella a base parlamentare, che nel secolo precedente
l’apparizione del Contrat social avevano percorso la loro parabola in Gran Bretagna, altro non
erano state che forme di governo temperato in rapida successione. Considerando infine, in linea
teorica generale, che tra le diverse istanze istituzionali l’Esecutivo tende a espandere il proprio
raggio d’influenza, è in direzione di questo che Rousseau dichiara che occorra operare per creare
credibili condizioni di governo misto. Oltre al potere di fare le norme, quello di dar loro esecuzione
in condizioni di discrezionalità è potere sovrano; ma poiché secondo Rousseau la sovranità è un
concetto assoluto, non ripartibile né distribuibile, è molto più realistico pensare che, se la sovranità
compete al popolo, la realizzazione del “governo temperato” debba risolversi entro la sfera
dell’Esecutivo affinché questo non tenda ad erodere la sovranità popolare e ad usurpare a sua volta
una forma di sovranità che abbia reciso ogni contatto con il corpo sociale. L’Esecutivo è pertanto
l’ago della bilancia del temperamento del regime di governo (e in ciò Rousseau si è rivelato profeta:
nell’Europa del primo XX secolo quante forme istituzionali democratiche hanno ceduto il passo alla
forza degli Esecutivi e dei loro capi), ma per evitare la sua definitiva presa di potere la soluzione
rousseauviana si presenta improntata sì a realismo, ma invero alquanto blanda: il meccanismo del
governo misto si risolverebbe pertanto nell’impedire che l’Esecutivo guadagni posizioni di coesione
interna che possano diventare irreversibili e attentare alle altre istanze della statualità come corpo
sociale organizzato, il che si farebbe distribuendo in senso verticale il suo potere attraverso
l’istituzione di magistrature e corpi amministrativi intermedi che esercitino le funzioni che
altrimenti si concentrerebbero al vertice. Ma di certo lo schema di ingegneria del potere configurato
da Rousseau per il temperamento del regime monarchico può risultare meno convincente
dell’analisi da cui scaturisce.
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8. Conclusione
Questa breve ricognizione storico-politica dell’evoluzione dei rapporto tra il concetto di
governo misto e la separazione dei poteri può a questo punto volgere al termine, di certo non perché
l’itinerario intellettuale si sia esaurito (si pensi alla parte Rechtslehre della Metaphysik der Sitten
pubblicata da Kant nel 1797; o alla prima quarantina di pagine della terza edizione del Cours de
politique constitutionnelle (1837) di Constant; per recenti pregevoli contributi della dottrona italiana
si vedano anche i libri di gaetano Silvestri, La separazione dei poteri.II, del 1984; e di Giovanni
Bognetti, La divisione dei poteri, 1994), ma perché con l’avvento delle costituzioni scritte dapprima
negli Stati Uniti e in Francia, e poi con le grandi stagioni del costituzionalismo ibero-americano e
delle costituzioni liberali europee poste sotto l’egida della Costituzione di Cadice (1812) e della
lezione costituzionale britannica, il concetto di governo misto è stato infine accolto con abbondanza
di esempi, che tuttavia si sono alternate a svolte restaurative o autoritarie, o hanno conosciuto
corruzioni materiali nonostante la sopravvivenza del dato costituzionale formale.
E, influenzata nelle sue forme applicative dallo spirito giuridico dei common lawyers o dalle
teorie lockeane, o dalle teorizzazioni di Montesqueieu o di Rousseau (la prima, come è noto, aveva
informato di sé la moderata costituzione monarchica francese del 1791; la seconda sarà fatta propria
dalla Costituzione del 1793, o dell’Anno Primo), la separazione dei poteri a sua volta ha conosciuto
un’evoluzione che non mancherà di sollevare talvolta commenti ironici (Walter Bagehot, dando alle
stampe nel 1867 la English Constitution, giungerà ad affermare che la separation of powers era un
concetto filosofico che egli avrebbe lasciato volentieri ai Francesi, mentre le istituzioni del Regno
Unito dovevano la loro funzionalità e la loro stabilità piuttosto alla cooperazione tra poteri
assicurata dall’intimo rapporto tra premiership e Parlamento) o grandi negazioni sul piano
effettuale, ma ha guadagnato un posto d’onore tra i princìpi costruttivi dello Stato contemporaneo,
che o è misto, o “non è”. Ma, ciò detto, quanto più invidiabile la posizione speculativa dei
sostenitori dell’assolutismo (che anche quando partono da visuali problematiche e laiche accedono
infine, come Cyrano sulla luna, a un mondo di certezze inamovibili che si riconducono a un’unica
formula-base ripetuta infinite volte) rispetto a quella dei cultori dello Stato misto che si misurano
con le probabilità politiche e con la scienza del possibile, e sono condannati a una incessante
sperimentazione e, pertanto, a una condizione di eterna incertezza che si alimenta di dubbi e
contraddizioni, ma della quale il progresso del diritto costituzionale come scienza del buongoverno
è infinitamente debitrice.
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