Jacques Nobécourt: Vaticano dietro le quinte - Rocca

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Jacques Nobécourt: Vaticano dietro le quinte - Rocca
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, DCB Perugia
€ 2.70
14
15 luglio 2011
Afghanistan
si tratta
e si combatte
una valanga
di sì
e adesso?
ritorno
dei cattolici
alla politica
l’inamovibile
provincia
evoluzione
l’intreccio
può essere la moralità un prodotto politico-religioso
del
di selezione naturale?
fondamentalismo
ebraico
la libertà religiosa
nell’età moderna
scuola
pianeta disabili
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
Rocca
in
ascolto
dei
suoi
lettori
vedi p. 31
Rocca
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sommario
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15 luglio
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Perché i cattolici
Maurizio Salvi
Afghanistan
Si tratta e si combatte
Roberta Carlini
Pubblico/privato
Gli italiani hanno cambiato idea
Ugo Leone
Una valanga di sì
E adesso?
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
L’inamovibile provincia
Fiorella Farinelli
Scuola: Rapporto Fondazione Agnelli
Pianeta disabili
Tonio Dell’Olio
Camineiro
Il bello della diretta
Oliviero Motta
Terre di vetro
Lavoro e psiche
Pietro Greco
Giannino Piana
Evoluzione
Può essere la moralità un prodotto di selezione
naturale?
Inserto
Inchiesta tra i Lettori
Rocca compie 70 anni e ti interpella
Rosella De Leonibus
I volti del disagio
Solitudini in rosa
Marco Gallizioli
Israele
L’intreccio politico-religioso del fondamentalismo
ebraico
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Ferdinand de Saussure
L’invenzione dello strutturalismo
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Giuseppe Moscati
Nuova Antologia
Inoue Yasushi
La penna come una lama
Filippo Gentiloni
Vizi & Virtù
Giancarlo Zizola
Jacques Nobécourt
Vaticano dietro le quinte
Arturo Paoli
Amorizzare il mondo
Dio ha bisogno di te
Carlo Molari
Teologia
La libertà religiosa nell’età moderna
Lidia Maggi
Giobbe
Come se niente fosse accaduto?
Paolo Vecchi
Cinema
Tutti per uno
Roberto Carusi
Teatro
Vivere in città
Renzo Salvi
Rf&Tv
Hatel Patria
Mariano Apa
Arte
Roma/Milano
Alberto Pellegrino
Immagini
La lunga calza verde
Alberto Pellegrino
Musica
Marinai, profeti e balene
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Europa digitale
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Organizzazioni in primo piano
Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità)
Luigina Morsolin
Fraternità
Burundi: cibo per il corpo e per la mente
Numero 14 – 15 luglio 2011
70
ANNO
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ROCCA 15 LUGLIO 2011
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ci scrivonoi lettori
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Il male oscuro
della sinistra
In risposta alla lettera di Giuseppe Piscopo (Rocca, n. 13).
Col mio articolo volevo solo
invitare la sinistra ad essere
meno pessimista, meno
astiosa, meno diffidente. E
magari più fiduciosa e speranzosa nel popolo e negli
elettori. Mi era venuto il
dubbio che il pessimismo,
come spesso l’indignazione
fine a se stessa, fossero un
modo comodo per non cercare alternative e vie d’uscita. I risultati dei referendum
e delle elezioni mi danno un
po’ di ragione. C’erano motivi di speranza. Ora c’è il
problema di passare alla politica, di tradurre quello che
gli elettori hanno mandato
a dire in progetto di cambiamento della società. La sinistra ci riuscirà? Non lo so.
Sarà capace di prendere il
governo di questo paese per
fare cose diverse da quelle
che ha fatto il centro destra?
Non lo so. So che le cittadine e i cittadini glielo hanno
chiesto. E questo non è
poco.
Ritanna Armeni
Nativi digitali
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Sono un insegnante di scuola superiore, nonché genitore di quattro nativi digitali.
È con grande interesse,
quindi, che ho letto gli ultimi articoli di G. O. Longo,
nonché Homo zappiens da
lui recensito. Ho apprezzato l’appello a prendere sul
serio la rivoluzione neurale
che i nuovi media stanno
determinando nelle giovani
generazioni, ma ho anche
avuto l’impressione che per
sfuggire alla tecnofobia di
tanti, si sia incappati in un
filoneismo acritico.
Capisco che McLuhan, non
avendo potuto conoscere la
rivoluzione informatica, rischi di passare per trogloditico, ma è mai possibile che
ci si sia così facilmente sbarazzati del principio che il
mezzo è il messaggio?
Quando Longo sostiene che
CI SCRIVONO I LETTORI
tutti con tutti: come si può
sviluppare la riflessione?
Anche i libri, in particolare
quelli scolastici, sono infarciti di rimandi ipertestuali
e di immagini, e propongono ogni genere di attività
che possa coinvolgere studenti che ci si immagina
sempre più annoiati. Non
ci si rende conto che pretendendo di competere con
i nuovi media, non solo saremo comunque sempre
perdenti, ma sottrarremo
alle nuove generazioni una
opportunità, piccola ma
pur sempre importante, di
sviluppare profondità di
pensiero? La marginalità,
l’alienazione rispetto al
contesto sociale, non erano
i tratti caratteristici dell’adolescenza? Non è per
questa alienazione che è
stata inventata la scuola,
ossia per dare un tempo libero (scholé) con cui potersi liberare – almeno in parte – dagli orizzonti angusti
e preconfezionati della socializzazione primaria?
Davvero noi adulti dobbiamo intimorirci davanti agli
sguardi annoiati dei nostri
ragazzi e accendere la Lavagna Interattiva Multimediale per dare loro la scossa?
È vero che tutte le informazioni di cui necessita un ragazzo per entrare a far parte della civiltà che si profila possono benissimo esser
acquisite al di fuori della
scuola. Ma questo non ci
deve affatto spaventare,
anzi, è positivo, non solo
perché libera l’apprendimento dai meccanismi costrittivi che la scuola dell’obbligo ha sempre adottato; ma anche perché libera la scuola dall’obbligo
di favorire la socializzazione secondaria, di sviluppare conoscenze e competenze preconfezionate. Nel villaggio non c’è mai stato bisogno della scuola e così
forse sarà anche nel villaggio globale. Longo non me
ne voglia, ma credo che la
scuola o è la scuola della
lezione frontale o non è.
Giuseppe Manildo
Treviso
Intanto ringrazio il lettore
per l’attenzione, anche se
dalla sua lettera desumo che
non abbia (ancora) letto tutti gli articoli che Rocca mi
ha pubblicato sul tema dei
«nativi digitali». Attribuirmi
un «filoneismo acritico» mi
sembra francamente esagerato, come mi pare un tantino provocatorio asserire
che non mi rendo conto di
barattare la primogenitura
con un piatto di lenticchie
quando invito non tanto a
educare ai nuovi media (sarebbe puro tecnicismo) ma
a educare mediante i nuovi
media (è un ampliamento
degli strumenti didattici). E
poi: quale primogenitura,
quali lenticchie? Mi pare
proprio il contrario. Il lettore sembra irritato dalla piega che hanno preso la società, la scuola e l’insegnamento sotto l’urto della tecnologia, e anch’io per certi versi
lo sono, ma non può ragionevolmente concludere arroccandosi in una posizione di difesa a oltranza di un
panorama e di una temperie culturali e scolastici che
risalgono a un tempo in cui
le tecnologie non esistevano
ancora. Altrimenti dovrebbe
anche rifiutare le intuizioni
e le innovazioni di McLuhan. Tra l’altro il concetto che ogni individuo esiste
sotto il profilo cognitivo, affettivo e pratico solo in
quanto è immerso in una
società e nel suo flusso comunicativo risale agli Stoici: come potrebbe un individuo essere responsabile in
toto di ciò che scrive o dice?
Infine lo tranquillizzo: non
gliene voglio per la sua convinzione che «la scuola o è
la scuola della lezione frontale o non è». Come potrei
volergliene per un’opinione?
Solo che non condivido il
suo conservatorismo. Io ho
studiato greco per cinque
anni e latino per otto, ed ero
innamorato di queste lingue: ma era un altro mondo. Mi sforzo di tener distinta l’analisi dei fenomeni dalla valutazione personale che
ne dò. Concludo citando
Gregory Bateson, il quale, in
una sorta di preghiera laica,
chiedeva a Dio di dargli la
forza di cambiare le cose che
poteva cambiare, la pazienza di tollerare le cose che non
poteva cambiare e la saggezza di distinguere tra le due.
Giuseppe O. Longo
Gorizia
Energie
alternative
Ho letto sul n. 12 del 15 giugno l’articolo di Ugo Leone
«se la terra agricola sparisce» e a questo proposito
espongo una mia considerazione riguardante appunto le energie alternative al
nucleare. Se l’Italia mettesse pannelli solari ai lati di
tutte le autostrade e superstrade esistenti nel territorio e se mettesse altrettanti
pannelli solari ai lati di tutta la rete ferroviaria esistente in Italia, quanti chilometri quadrati di pannelli potremmo attivare? e quanta
energia elettrica potremmo
ricavare?
Probabilmente una quantità maggiore a quella che
occorre, forse potremmo
anche venderla all'estero.
Inoltre non avremmo nessun impatto ambientale ed
eviteremmo di deturpare
colline a pianure evitando di
sottrarle alla agricoltura.
Si dirà che è impossibile, ma
se arriviamo su Marte dire
che è impossibile mi sembra ridicolo. Si dirà che i
costi sarebbero altissimi,
perché forse le centrali nucleari si fanno gratis?
E i tempi dove li mettiamo?
il nucleare che poi per fortuna è stato respinto dal referendum poteva entrare in
funzione fra dieci dodici
anni, questo subito.
Nelvio Cesaroni
[email protected]
Errata corrige
ROCCA 15 LUGLIO 2011
dobbiamo educare con i
nuovi mezzi più che ai nuovi mezzi, sembra non rendersi conto che si rischia di
barattare la primogenitura
per un piatto di lenticchie:
per far in modo che gli studenti si interessino – che so
– a Petrarca, la scuola dovrebbe accettare acriticamente l’approccio multimediale e interattivo (‘freddo’,
direbbe McLuhan), seguendo il main stream olistico
che caratterizza la nostra
epoca globalizzante? Sempre McLuhan spiegava che
l’era dei media elettrici (ancora non si parlava di elettronica!) ci riporta alla condizione tribale (il famoso
villaggio globale) in cui
ognuno è immerso in un
flusso continuo di stimoli
sensoriali provenienti da
ogni dove e in cui la comunicazione è possibile solo a
patto di coinvolgere attivamente il ricevente perché
integri tutti questi stimoli in
un tutto significativo; dato
però che tutti questi stimoli
non possono essere analizzati uno alla volta, il ricevente è costretto ad adottare per
acquiescenza proprio quegli
schemi interpretativi che la
cultura di appartenenza gli
fornisce, finendo per diventare, sì, parte del tutto sociale, ma a scapito della sua
individualità. La capacità di
analisi, il pensiero astratto
e critico sono invece il dono
prezioso della scrittura e poi
della stampa, di un mezzo
(‘caldo’) che consente di processare linearmente l’informazione e che ci induce a
rispondere a nostra volta
spiegando con la maggior
precisione possibile ciò che
vogliamo dire, proprio perché di ciò che diciamo e
scriviamo (oltre che della
violenza intrinseca ad ogni
atto comunicativo) vogliamo essere responsabili in
toto, senza attenderci dagli
altri – se possibile – alcuna
complicità comunicativa.
Ora la multimedialità ci assedia da ogni dove: qualsiasi schermata di internet è
un profluvio di link colorati e di immagini, per non
parlare di Facebook e della
connessione permanente di
L’autore della lettera
«L’altro che è in noi»
(Rocca n. 12) non è di
Aldo Abenavoli, ma di
Aldo Antonelli. Ci scusiamo con gli Autori e con i
lettori.
5
2010
TUTTA
Rocca 2010
cioè quasi 1500 pagine
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dell’anno
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ROCCA 15 LUGLIO 2011
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6
Italia
calcio
giovani
legalità
Vaticano
incontro
con la cultura
zingara
Le partite a tema «Bravo... a
scuola di calcio» e «Calcio integrato» (tra allievi disabili e
non) hanno dato vita a tornei
di calcio giovanile svoltisi anche quest’anno in parecchie
città italiane a dimostrare che
esistono legami effettivi tra il
calcio giocato ed il rispetto
della legalità. Porte aperte,
quindi, nel prestigioso Centro
tecnico di Coverciano, il 18 e
19 giugno scorsi, alla manifestazione sportiva conclusiva,
organizzata dal settore giovanile e scolastico della Figc, che
nell’ospitare il 3°Convegno
Grassroots Football hanno
dato risalto all’obiettivo di
promuovere il calcio di base
e hanno sottolineato che «Rispetto, sport, giovani, legalità» sono termini che si intrecciano nella proposta operativa dello sport come importante motore educativo. Su questi temi si è sviluppato un incontro/dibattito nel quale
sono intervenuti come relatori ed esperti don Luigi Ciotti,
Gianni Rivera, Mark Milton e
Barbara Benedetti. Essi hanno evidenziato come uno
sport di squadra, quale il calcio di base, può veicolare operativamente il rispetto di se
stessi, dell’avversario e delle
regole; intanto sui campi di
gioco del Centro si sfidavano
1500 ragazzi e ragazze, allievi
provenienti dalle scuole di
calcio di diverse regioni italiane. Un calcio che sceglie l’onestà e perciò si pone in modo
alternativo, perchè intende
mantenersi del tutto estraneo
a quella logica di mercato che
incrementa un vivaio dove si
«allevano pulcini» per farne
campioni di guadagno facile
o di incontri truccati. Un calcio che fa scoprire la bellezza
del gioco, dove si impara che
fare squadra è impegnativo
ma che un goal segnato ben
ripaga lo sforzo e la fatica che
lo preparano.
Luigina Morsolin
Del giugno appena trascorso
non si può dimenticare, tra le
udienze vaticane, una singolare, storica udienza: quella del
Papa con gli zingari, l’11 giugno,
provenienti da diversi Paesi europei, da varie regioni e città italiane, dagli ancora numerosi
campi di Roma. Rom, sinti,
gruppi, famiglie di questa galassia che raggruppa 12 milioni di
persone in Europa, 170.000 in
Italia: arrivati in 2.000 per la celebrazione del loro beato Zefirino, puntuali, ordinati, coloratissimi, felici dell’incontro. Benedetto XVI ha dichiarato: è importante considerare i rom, perché proprio perché ultimi nella
considerazione, sono i primi
nell’amore della Chiesa: non ai
margini, ma nel cuore della
Chiesa stessa. Il Papa non può
fare a meno di ricordare il genocidio dei 500.000 Rom durante il nazismo e il fascismo, peccato dell’Europa cristiana. «Mai
più, ha aggiunto, il vostro popolo sia oggetto di discriminazioni, offese». «Vi invito, cari
amici – ha poi continuato rivolgendosi ai gruppi presenti – a
scrivere insieme una nuova pagina di storia per il vostro popolo e per l’Europa». Le giovani generazioni rom e sinti «desiderano istruirsi e vivere con gli
altri e come gli altri». I vostri figli, ha scandito rivolto ai genitori presenti, «hanno diritto a
una vita migliore». «Sia il loro
bene la vostra più grande aspirazione. Custodite la dignità e il
valore delle vostre famiglie, piccole Chiese domestiche, perché
siano vere scuole di umanità».
Le istituzioni religiose e politiche si adoperino per accompagnare adeguatamente il vostro
cammino, ha sottolineato fortemente, richiamando alcuni doveri basilari.
L’udienza per noi laici, educatori e politici è stata anche un’interrogazione interiore. Riccardi
e Impagliazzo di Sant’Egidio
qualche anno fa curarono un’attenta indagine storico-politica:
«Il caso Zingari», Ed. Leonardo
International, Milano, da rileggere.
Pakistan
Sohana
bambina
Kamikaze
Velo bianco sulla testa, braccialetti colorati ai polsi, strano giubbotto, una bambina di
otto/nove anni è stata scoperta il 20 giugno dalle guardie
frontaliere del distretto del
basso Dir nella provincia
Nord Occidentale del Pakistan. Sohana Javaid (così ha
detto di chiamarsi la bimba)
aveva il giubbotto imbottito
da otto chili di tritolo; ha detto di essere stata rapita mentre andava a scuola a Pechawar da due donne che
l’hanno costretta a salire su
una macchina, drogata, fatta
scendere e poi risalire dopo
averle fatto indossare il giubbotto.
L’avrebbero lasciata vicino
alla frontiera dopo averle indicato il bottone da premere
all’avvicinarsi dei soldati, ma
lei è riuscita a liberarsi dalla
mano che la teneva stretta e a
fuggire verso le guardie.
Kamikaze a nove anni? Per ritorsione a un attacco del 2009
ai Telebani della zona? Un brivido ci assale guardando gli
occhi profondi di Sohana.
7
ROCCA 15 LUGLIO 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
Torino
un master
su scienza
e fede
Arte
angeli
& Grandi Madri
ad Assisi
Giovani
sfortunati
a vivere
in Italia
Un master da molti auspicato e da tempo preparato,
«Scienza e Fede» che nasce
dalla collaborazione tra il Politecnico di Torino e la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. «Una preziosa sinergia – precisa don Valter Danna, preside della Facoltà teologica di Torino – che permetterà di affrontare a livello
universitario, in modo interdisciplinare e nel rispetto delle autonomie, i rapporti tra
la fede e la scienza, tenendo
conto del punto di vista degli
scienziati, dei filosofi e dei teologi sui temi decisivi per il
nostro presente e per il nostro
futuro».
Il programma 2011-2012 affronterà gli argomenti legati
alle scienze della natura (origine dell’universo, strutture
matematiche, relatività) e alle
scienze della vita (evoluzione,
origine della specie e dell’uomo). «Il rapporto tra teologia
e scienze è spesso concepito
in maniera conflittuale – fa
notare don Ferruccio Ceragioli, del Comitato scientifico del
master –. Oggi però si allargano nuovi spazi di confronto».
«Angeli e Grandi Madri» è la
mostra di scultura e disegni
preparatori che sarà inaugurata il 22 agosto prossimo,
presso la Galleria d’Arte Contemporanea della Pro Civitate Christiana di Assisi, nell’ambito del 69° Corso di Studi Cristiani. Essa nasce dall’incontro e dal confronto sul
piano estetico e spirituale di
due scultori di diversa nazionalità, Franco Prosperi di Assisi e Svetlana Melnichenko di
San Pietroburgo, su temi che
hanno unito fin dalle origini
della specie umana civiltà diverse. L’intento degli autori,
come scrive il maestro Prosperi, è di «proporre un messaggio culturale di alto profilo estetico e spirituale accessibile sotto tutte le latitudini,
compatibile con i contenuti di
tutte le religioni e promotore
di pace».
La mostra durerà fino al 30
agosto per proseguire poi per
Roma, Museo della Via
Ostiense, e per San Pietroburgo, Istituto Italiano di
Cultura e Atelier Melnichenko.
Dal VI° Rapporto della Fondazione Migrantes, reso noto a
metà giugno, risulta che il
40,6% dei giovani italiani sarebbe pronto a trasferirsi da subito all’estero. Perchè? Qui le opportunità di studio e di lavoro
che trovano sono poche e le
strutture inadeguate. Di chi la
colpa? La crisi economica, la
classe politica, la situazione del
welfare, lo scarso senso civico,
la corruzione. Dove si dirige
questa emigrazione? Al primo
posto delle scelte gli Stati Uniti
e la Francia, ma ci si indirizza
anche verso la Spagna, dove la
disoccupazione al 21%. Sono
54,2% gli italiani tra i 25 e i 29
anni che hanno un’occupazione, mentre risulta che un giovane su cinque né lavora né studia e nella graduatoria di genere, le giovani inattive raggiungono la percentuale del 49%. I
numeri degli italiani che vivono l’estero è cresciuto di 90 mila
unità rispetto al 2010. Commenta Delfina Licata, curatrice del Rapporto: «L’idea di movimento è cambiata. Il nostro
Paese dovrebbe rendersi più
appetibile».
Luigina Morsolin
Migranti
un milione in fuga dalla Libia
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Il 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato, l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i profughi (Hcr) ha presentato
le statistiche del 2010: nel mondo sono 15,4 milioni a cui vanno aggiunte 27,5 milioni di persone costrette a spostarsi, e
850mila domande di asilo.
Riassumendo, 43, 75milioni di «sradicati» provenienti principalmente da Colombia, Sudan, Somalia, Repubblica democratica del Congo, Eritrea,
Serbia, Iraq, Afghanistan, Cina, Birmania, Vietnam. Non vengono inclusi i rifugiati dei movimenti del mondo arabo, ma
secondo l’Hcr, dall’inizio del 2011 oltre un milione di persone
sono fuggite dalla Libia. Circa 530mila ne ha accolte la Tunisia, 350mila l’Egitto, l’Europa 18.500.
Dalla Siria sono fuggite 9000 persone accolte in Turchia e 4000
in Libano. L’esodo continua.
8
notizie
seminari
&
convegni
Per la pubblicazione in questa rubrica
occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando
a: a.portoghese@
cittadella.org
Trento. Al Castello del Buonconsiglio dal 1° luglio al 13 novembre è allestita la Mostra
«Le grandi vie della civiltà»,
curata da Franco Marzatico,
Rupert Gebhard e Paul Gleirscher. Ricchissima di reperti
(oltre 800, moltissimi di eccezione provenienti da 72 musei), la mostra segue i fili millenari a partire da quando si
diffusero, a Sud come a Nord
delle Alpi, le espressioni dell’arte e le figure delle cosiddette dee madri, fino ai tempi del
cosmopolitismo e della globalizzazione. Informazioni:
[email protected]
Ginevra. Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha adottato il 17 giugno una decisione su «Orientamento sessua-
le e identità di genere» definita storica. Invita l’alto Commissariato dell’Onu a presentare entro dicembre 2011 uno
studio che «documenti le leggi discriminatorie, le pratiche
e gli atti di violenza posti in
atto in tutte le regioni del
mondo contro gli individui in
base al loro orientamento sessuale e identità di genere».
Alla luce dei risultati. Il Consiglio terrà nel corso della propria 19esima sessione una tavola rotonda fondata «su un
dialogo costruttivo, trasparente e consapevole sulla questione delle leggi e delle pratiche».
Campobasso. Il vescovo
mons. Giancarlo Bregantini ha
commentato le ultime proposte della Lega sullo spostamen-
to dei ministeri al Nord. «Io mi
chiedo come vedranno dalla
Calabria o dalla Sicilia il fatto
di dover andare a Milano per
affrontare dei problemi. È un
gesto di grandissimo disprezzo per il sud. A meno che non
ci siano ministeri spostati anche a Palermo», ha osservato.
«Il nord non ha bisogno di
strutture amministrative e per
motivi di lavoro, ma ha bisogno di progettualità, ovvero di
quella parola magica già
emersa alle Settimane Sociali: intraprendere. Ci vuole coraggio. È un tempo di speranza da rimettere in gioco, non
di tecnicismo. Ciò che ci manca – ha aggiunto – non è la capacità manuale, ma è la forza
motivazionale che è in crisi».
16-17 luglio. Assisi (Pg). Presso la Cittadella cristiana San
Francescuccio (Piazzetta Garibaldi), 2° seminario «Un discorso al femminile» sul tema
«Donna è bellezza». Relazioni
(Lucia Russo, Rosanna Virgili, Rosella De Leonibus, Tiziana Lucani, Lorella Natalizi,
Loredana Alicino, Giuseppe
Moscati, Ilenia Beatrice Protopapa, Leila Carbonara), laboratori artistici. Informazioni:
Cittadella Formazione, via Ancajani 3 – 06081 Assisi tel. 075
812308- 075 813231; e-mail:
[email protected];
[email protected]
23-30 luglio. Roma. Presso
il Monastero benedettino san
Giovanni Battista a Monte
Mario, Corso di iconografia
bizantina guidato dal M. Giuseppe Bottone per principianti e avanzati. Informazioni; tel. 33870 45 235, e-mail:
[email protected]
31 luglio-7 agosto. Vicoforte
di Mondovì (Cn). Settimana
per famiglie di bambini con sindrome di Down alla Casa Regina montis regalis. I partecipanti vengono organizzati in gruppi: bambini, genitori, fratelli e
sorelle, nonni. Attività di logopedia, neuropsicomotricità,
musica, massaggi. Informazioni: Servizio consulenza pedagogica, Via Druso 7, 38122 Trento, tel 0461 8286 93; e-mail:
[email protected]
2-6 agosto. Barcellona (Me).
Settimana di spiritualità sul
tema: «Il coraggio di sperare
oggi» guidata dai Fratelli della Comunità carmelitana. Informazioni: tel. 0909762800, email: [email protected]
13-16 agosto. Assisi (Pg).
Alla Cittadella cristiana Convegno «Bibbia e Spiritualità».
Lo smarrimento delle radici
ebraico-cristiane nella civiltà
europea (e italiana), della trascendenza e della speranza,
spingono alla rivisitazione
delle grandi figure bibliche,
del Dio «di Abramo, di Isacco, Giacobbe» (Gen 12.25). Si
ascolterà «la eco che ognuno
di loro fa di Cristo» (San Girolamo), per una rinnovata
rilettura cristologica. Relatori: Leila Carbonara e Bruno
Baioli della Pro Civitate Christiana, p. Guglielmo Spirito
ofc di Assisi, Porzia Quagliarella teologa, Sennen Nunziale del Gruppo Famiglia della
Parrocchia di Salzano (Ve):
Informazioni: Gruppo Missioni, Cittadella cristiana, Via
Ancaiani 3, 06081 Assisi, tel.
075812308/ 813231.
17-19 agosto Assisi (Pg). A
cura del Gruppo Missioni, rilettura alla Cittadella cristiana
delle lettere di Paolo nella sua
prima prigionia romana (ai
Colossesi, agli Efesini, a Filemone) nelle quali l’Apostolo ribadisce la supremazia di Cristo su ogni altra potenza. Confronto con l’attuale società
frammentata. Relatori: Leila
Carbonara, Bruno Baioli, Carmela Randazzo e Pino Valenti
della Pro Civitate Christiana,
Annamaria Bettuzzi, insegnante. Informazioni: 06081 Assisi
tel. 075 812308- 075 813231; email: [email protected]
22-26 agosto. Camaldoli
(Ar). Settimana teologica del
Meic (Movimento ecclesiale
impegno culturale) sul tema.
«Le religioni nella città. Sfide
per la responsabilità del credente». Informazioni: Meic,
Via della Conciliazione 1 –
00193 Roma, tel. 06 686 1867.
22-26 agosto. Trieste. 62° Settimana liturgica nazionale sul
tema: «Dio educa il suo popolo. La liturgia sorgente inesauribile di catechesi». Relatori: i
vescovi Angelo Scola, Giampaolo Crepaldi, Felice di Molfetta, Angelo Camastri, Andrea Bruno Mazzoccato, Luciano Monari, Josip Bazanic,
Anton Stres, Dino De Antoni,
Giuseppe Pellegrini, Bruno
Forte, Bruno Marini, Giuseppe
Bertello; i docenti specialisti:
Lorenzo Magarelli, Giuseppe
Biancardi, Giuseppe Cuscito,
Crispino Valenziano, Luca Diotallevi, Guido Genero, Ubaldo
Mentisci, Luigi Girardi, Daniele Pinton, Antonio Scattolini,
Loris della Pietra. Informazioni e iscrizioni: Segreteria: Via
san Nicolò, 14 -34121 Trieste,
tel. 040 368808; e-mail:
[email protected]
ROCCA 15 LUGLIO 2011
ATTUALITÀ
9
ROCCA 15 LUGLIO 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
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Marocco
referendum
per la nuova
Costituzione
Caporalato
il grido di
800 mila
lavoratori
Il Marocco si appresta a diventare una vera «monarchia costituzionale»?.
La nuova Costituzione viene
sottoposta all'approvazione
del popolo con un referendum
il 1° luglio del quale il re si è
dichiarato pronto ad accettare i risultati. Basteranno a placare la piazza?.
Nel testo costituzionale ci sono
novità a cominciare dalla figura dello stesso re che non sarà
più considerato persona sacra
in senso religioso, ma cittadino, non più rappresentante
della nazione, ma dello Stato.
Verranno dati più poteri al primo ministro e al Parlamento e
il berbero, lingua del popolo,
sarà riconosciuto come lingua
ufficiale accanto all’arabo.
Le altre disposizioni annunciate sono di avanguardia e se fossero pienamente attuate, permetterebbero al Paese magrebino di entrare in una nuova
fase politica fondata sulla giustizia, la legalità e il rispetto dei
diritti e delle libertà. Altro punto importante sul quale da
sempre Mohammed VI ha dimostrato grande attenzione,
già con altre riforme come per
esempio la Moudawana, è il
fattore «donne». Per loro verrà stabilita una quota al consiglio superiore della magistratura.
Nuovo gradino che si aggiunge agli altri, per dare il valore
alla presenza femminile.
Intanto, il movimento giovanile 20 febbraio (prende il nome
dal giorno in cui iniziarono le
proteste nel mondo arabo) non
è soddisfatto delle modifiche
e reagisce. A cominciare da Casablanca ha organizzato pacifiche proteste e ne ha annunciate altre in diverse città. Inoltre, si fa notare da altre parti,
nella vita socio-politica che la
Costituzione prefigura c’è un
vuoto, quello dei partiti politici che in Marocco praticamente non esistono. Forse camminando s’aprirà cammino?
Secondo i dati della Cgil sono
800mila, dal Trentino alla Sicilia, le persone in situazione di grave sfruttamento nei
campi e nell’edilizia: lavoro
nero e lavoro grigio (contrassegnato da irregolarità parziali) sotto il ricatto dei caporali. Più precisamente
400mila gli «schiavi» in agricoltura; 150mila nell’edilizia... Si tratta di lavoratori
italiani e stranieri, nei campi
o sulle impalcature senza sicurezza dei cantieri, affittati
ai datori di lavoro da «caporali» che lucrano su una intermediazione illegale, specie
sugli stranieri. Questi ultimi,
infatti, si trovano in situazioni talora drammatiche perché, senza permesso di soggiorno, non hanno alcuna
possibilità di far valere i loro
diritti, pena l’espulsione. Ricordiamo i fatti dei braccianti di Rosarno, nel gennaio
dell’anno scorso, quando fu
scoperto che per una giornata di lavoro, da 10 a 14 ore,
gli immigrati ricevevano 22
euro di cui un euro era dato
agli intermediari. Ci furono
30 arresti, è vero, dopo le indagini di Polizia e Guardia di
Finanza, per associazione a
delinquere e sfruttamento di
mano d’opera. Ora viene
l’estate: il Foggiano con la sua
calura, ma anche i campi
abruzzesi e di Emilia Romagna hanno avviato il lavoro.
Le categorie edili e dell’agroindustria Cgil, Filea e Flai
lanciano una campagna per
la raccolta di firme per proporre una legge che equipari
questo reato a quello del traffico degli esseri umani. Nel
catechismo che gli anziani ricorderanno c’era elencato,
tra i peccati che «gridano
vendetta al cospetto di Dio»
quello di defraudare la mercede agli ‘operai’. Cambia la
forma ma la sostanza del grido resta intatta.
Gaza
progetti
di scuole
e case
Il 22 giugno l’agenzia dell’Onu
per i rifugiati palestinesi ha
comunicato che Israele ha
approvato la costruzione di
due progetti edilizi nel sud
della Striscia di Gaza. I due
progetti maggiori dovrebbero
essere costruiti per ospitare le
famiglie di Rafah e Khan Younis, le cui abitazioni sono state demolite da Israele nel
2001. Il Maggiore Guy Inbar,
portavoce del ministero della
Difesa e responsabile dei contatti con i Territori palestinesi, ha riferito che Israele ha
approvato il transito dei materiali necessari alla costruzione di 1.200 case e 18 scuole. Ricordiamo come una devastante offensiva militare
israeliana di 22 giorni, conclusasi nel gennaio 2009, abbia
ridotto in macerie gran parte
delle infrastrutture di Gaza e
molte case di civili.
I materiali da costruzione
possono essere portati a Gaza
solo da organizzazioni internazionali, le quali gestiscono
progetti specificamente approvati. Israele impone ancora un rigido blocco navale sul
territorio.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da L’UNITÀ, 15 giugno
da L’UNITÀ, 22 giugno
da L’UNITÀ, 19 giugno
da IL CORRIERE DELLA SERA, 23 giugno
ROCCA 15 LUGLIO 2011
da L’UNITÀ, 15 giugno
da LA REPUBBLICA, 23 giugno
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cittadella convegni 2011
16-17 luglio
2° seminario ‘un discorso al femminile’
donna è bellezza
Ci sono ‘bisogni dell’anima’, come scrive Simone Weil, per cui oggi si devono “creare spazi aperti nei quali sperimentare forme di relazione,
di riflessione, di azione consapevole, luoghi di conoscenza reciproca, di confronto, di progettazione del fare inserito in un territorio, in una
situazione sociale concreta… una forma autentica di socialità in cui fare esperienza del privilegio del parlare e dell’ascoltare, del rispetto
effettivo, della ricerca in comune, dell’apprendimento di linguaggi politici generati da situazioni vissute in determinati contesti umani e
sociali”.
partecipano: Leila CARBONARA, Volontaria Pro Civitate Christiana; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Giuseppe
MOSCATI, dottore di ricerca; Ilenia Beatrice PROTOPAPA, docente di filosofia e psicopedagogia; Lucia RUSSO, counsellor; Rosanna
VIRGILI, biblista
per i laboratori: Loredana ALICINO, esperta in tecniche artistiche; Tiziana LUCIANI, arteterapeuta; Lorella NATALIZI, didatta teatrale
25-31 luglio - a Santa Cesarea Terme (Le)
vacanza-studio
uno sguardo inedito sul vivere quotidiano
riflessioni guidate dal teologo Andrea GRILLO
La formula vacanza-studio è nata da 18 anni per rispondere all’esigenza di coniugare momenti di autentica vacanza e relax con la
riflessione e con la scoperta della cultura e della bellezza del Salento.
Il programma delle giornate prevede un tempo di preghiera e la conversazione del relatore nella prima parte della mattinata, per proseguire
con il mare, la pineta, le passeggiate.
Dopo pranzo, visite ai luoghi e ai monumenti della provincia, alla ricerca della storia, dell’arte, delle tradizioni, della vita culturale salentina.
Sono previste anche serate artistiche e musicali.
2-4 settembre
19° incontro biblico
versetti pericolosi
lo scandalo della misericordia nella Chiesa
con padre Alberto MAGGI, servo di Maria, direttore del ‘Centro Studi Biblici’ di Montefano
‘Valori non negoziabili’…’tolleranza zero’… sempre più nella Chiesa si sentono espressioni che appartengono più a strutture di potere che
difendono se stesse, che all’annuncio di Gesù.
Il potere quando si sente minacciato erige barriere difensive, si rifà all’ordine, alla disciplina e all’obbedienza. Ma la Chiesa che non deve in
alcun modo assomigliare alle strutture di potere esistenti, non può in alcuna maniera imitare il linguaggio e i metodi del mondo: ‘I capi delle
nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il loro potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà
diventare grande tra voi, si farà vostro servo’ Mt 20, 25-26.
Il tema si rifà allo scandalo della predicazione e del comportamento di Gesù, e alla difficoltà con cui le sue parole furono accolte (ma spesso
censurate) dalle prime comunità cristiane.
7-11 novembre
esercizi spirituali
per presbiteri, suore, laici
ROCCA 15 LUGLIO 2011
libertà sulle Tavole: il Libro dell’Esodo
con don Daniele Moretto, monaco di Bose
Il libro che è il “lieto annuncio” dell’Antico Testamento, la “lettera” in cui dobbiamo entrare per cercare il volto di Dio e il volto dell’uomo.
Nella storia di un pugno di uomini Dio ha scelto di svelarsi, di dare le coordinate del suo agire verso tutti, di offrire una relazione.
Conoscere Dio, me stesso, il mondo, la storia per rispondere ad un appello di comunione nella libertà.
Un tuffo nell’Esodo, relativizzandolo in nome dell’oggi, attenti all’azione di Dio che è in atto (cf. Is 43,16-21).
informazioni iscrizioni soggiorno
Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg
tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; [email protected]; ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
esta da chiedersi come mai tra il
maggio e il giugno di quest’anno
c’è stato il grande ritorno dei cattolici alla politica, quale si è manifestato sia nei sorprendenti risultati delle elezioni amministrative
sia nel quadruplice voto referendario. Ciò
che è accaduto è che mentre nelle ultime
sciagurate elezioni politiche il voto cattolico si era ripartito tra gli schieramenti e i
partiti esattamente nelle stesse proporzioni in cui si era distribuito il voto degli italiani in generale, risultando perciò irrilevante, ora invece l’elettorato cattolico si è polarizzato nel voto «di liberazione» di città
come Milano, Napoli, Cagliari e altre città
del Nord, e si è concentrato nella valanga
dei «sì». L’imponente spostamento di voti
dalla Lega e dal Popolo della Libertà alle
posizioni opposte, è spiegabile solo col mutato atteggiamento dei cattolici praticanti,
del resto anticipato da un sondaggio commissionato dai «cristiano-sociali» alla Swg,
da cui risultava che il 57-59 per cento dei
cattolici praticanti provavano «disgusto per
il comportamento di Berlusconi» o lo ritenevano «una vergogna per l’immagine del
Paese» non potendosi separare vita privata
e funzione pubblica, che dal novembre 2010
al gennaio 2011 il gradimento del governo
presso gli elettori cattolici era sceso dal 42
al 33 per cento e che la quota di quelli che
avendolo votato non lo avrebbero votato più
raggiungeva il 22 per cento.
Una simile vitalità della componente cattolica nella vita politica non si registrava da
anni. La stagione d’oro della partecipazione politica dei cattolici ha coperto molti
decenni del Novecento, dalla straordinaria
scelta laica e popolare di don Sturzo all’antifascismo della Resistenza, dalle «idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» di
De Gasperi all’apporto decisivo dato alla
concezione e alla formulazione della Carta
Costituzionale, dal baliatico della Repubblica e della ripresa economica esercitato
dalla Dc alla nuova creatività di forme politiche e di lotte per i diritti indotta dal Concilio Ecumenico Vaticano II, fino alla vetta
della strategia innovatrice di Moro, violentemente interrotta col suo sequestro ed assassinio. Da allora è scesa la notte ed altri
protagonisti, altri gestori, altri progetti e
altri metodi hanno invaso l’Italia per farne
una cosa del tutto diversa. Fino alla fiammata di ora. Come si spiega?
La scomparsa dei cattolici organizzati dalla
R
scena politica (pur essendo rimasta la loro
presenza individuale nei diversi partiti) è essenzialmente legata al venir meno degli strumenti attraverso cui si era esercitata la loro
azione, prima di tutto la Dc ma anche le organizzazioni «collaterali» (Acli, associazioni, sindacati) e, sull’altro versante, la Sinistra Indipendente. A questa causa strutturale si è aggiunto il passaggio del sistema politico italiano dal pluralismo al bipolarismo
maggioritario, con la conseguente perdita del
concetto di bene comune, che è la ragione
stessa del cattolicesimo politico, e si è unito
il fatto che la Chiesa dei vescovi si è assunta
direttamente la gestione dei rapporti col potere, mettendo fuori gioco e rendendo superfluo, se non fastidioso, il laicato. Questo
pertanto si è confinato nel volontariato, nell’azione sociale, nel «progetto culturale» e,
nei casi migliori, nella «scelta religiosa».
È molto significativo che il ritorno della
fiamma politica sia avvenuto nel momento
in cui la Chiesa dei vescovi è sembrata ritornare sui suoi passi e prendere qualche
distanza dal potere politico, e che i cattolici si siano mobilitati non per le questioni a
cui la Chiesa ha finito per ridurre tutta la
«dottrina sociale cristiana», cioè bioetica,
matrimonio e scuola, ma per altri grandi
temi cristiani e umani universali come la
rivendicazione di legalità ed eguaglianza
contro i prìncipi arroganti e ingiusti, la difesa del povero, dello straniero, del musulmano, la tutela dell’acqua, simbolo pasquale
e battesimale di una vita non statica ma che
sempre rinasce, il lavoro come «bene divino» (lo ha detto Benigni) da mettere a frutto e da trasmettere alle future generazioni,
l’uso mite dell’energia, la cura dei beni comuni e la salvaguardia del creato.
Ora si tratta di non lasciare più queste cose,
ma di rimetterle dentro una robusta e costante azione politica perché non si debba
aspettare, per una significativa riapparizione dei cattolici, la fine della legislatura per
il giorno del giudizio taumaturgico delle
urne, o un altro referendum (e già si annuncia, come da non perdere, quello sul risanamento della legge elettorale).
Ma una costante ed efficace azione politica
dei cattolici è possibile solo se non è impedita dalla Chiesa, e se ne vengono inventati
e approntati gli strumenti, che per i cristiani devono essere strumenti laici, sempre
disponibili al dialogo, al negoziato e alla
fecondazione reciproca con tutte le culture
❑
politiche e con tutti i cittadini.
13
ROCCA 15 LUGLIO 2011
perché i cattolici
AFGHANISTAN
si tratta e si combatte
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Maurizio
Salvi
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abul. Abbiamo vinto? Abbiamo
perso? Esperti, diplomatici, politici e giornalisti hanno ingaggiato un acceso dibattito sull’Afghanistan all’indomani del discorso
di Barack Obama che ha spiegato come con l’uscita di scena di Osama bin
Laden e i progressi obiettivi realizzati dalla Forza internazionale di assistenza alla
sicurezza (Isaf, sotto comando Nato), si
può pensare ad un graduale ritorno a casa
di decine di migliaia di soldati americani
nel giro di due anni. Questo nella speranza che nel 2014 l’intero contingente di
140.000 uomini possa fare le valigie e congedarsi da un paese ormai pacificato e con
un governo stabile.
Un obiettivo che però è per il momento
relegato fra gli auspici più desiderabili, ma
pur sempre auspici. In tutti questi anni in
cui si sono confrontati con l’Operazione
internazionale Enduring Freedom, promossa nel 2001 dal presidente George W.
Bush, gli afghani hanno imparato che le
belle parole non contano nulla e che la vita
quotidiana resta particolarmente dura. Che
sia per i micidiali rudimentali ordigni
esplosivi (ied), per le autobomba e per i
kamikaze dei talebani, oppure per i rastrellamenti ed i raid notturni delle forze militari afghane o della Nato a caccia di terroristi, la gente preferisce non farsi illusioni.
E si ripete che per il momento si tratta di
continuare a far fronte ad ogni tipo di sofferenza, mentre per la promessa di un futuro migliore, si vedrà. I talebani racchiudono questo futuro nella costituzione di
uno Stato islamico in cui sia vigente la
Sharia (Legge coranica), mentre il governo del presidente Hamid Karzai e le forze
occidentali si sforzano di lavorare all’idea
di una nazione pluralista in cui trovino rispetto i diritti umani e le conquiste sociali, soprattutto nei confronti delle donne.
Da osservatori occidentali, ovviamente la
scelta fra le due visioni del mondo non
porrebbe dubbi. Abbiamo lottato e costruito anche con rivoluzioni e lotte di libera-
K
zione in Francia, Stati Uniti ed Italia progetti di società giuste e includenti che, va
detto, alla prova dei fatti non sempre ha
veramente permesso a tutti di vivere esistenze degne. Ma certamente l’Afghanistan
proviene da un’esperienza completamente diversa. Le grandi città, soprattutto del
centro-nord del paese, hanno a poco a poco
recepito alcuni valori del mondo occidentale. Ma pur sempre nel quadro di un processo lento e di una esperienza storica che
ha avuto al suo centro l’Islam. E nel caso
afghano e pachistano, l’Islam più ortodosso e, diciamo così, più conservatore.
I governi filo-occidentali qui a Kabul e ad
Islamabad hanno cercato di spingere il
più possibile per modificare le situazioni. Ma i drammatici casi di uccisione quest’anno di personalità di governo che hanno osato criticare la Legge sulla blasfemia, e di condanne a morte di umili donne (la cristiana Asia Bibi) in Pakistan,
sono là a dimostrare che il percorso verso una emancipazione sociale come la
intendiamo noi, è ancora molto lungo.
Ovviamente lo stesso discorso vale per
l’Afghanistan, dove le donne completamente coperte dal burqa color carta da
zucchero fanno parte della quotidianità.
«Portare o no quell’abito – ci ha detto l’attivista afghana Hamida Barmaki – attiene alla sfera sociale e così la questione
deve essere affrontata». Impegnata da
anni nella lotta per l’emancipazione femminile, ed attualmente responsabile per
la ricerca nella Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan
(Aihrc), Barmaki ha aggiunto: «Per me la
scelta di indossarlo riguarda l’ambito dei
diritti umani personali e sarebbe grave
che vi si interferisse per legge».
con chi e come trattare
Questo ragionamento ci porta quindi a
capire meglio cosa sia scattato nella visione dei governanti occidentali quando hanno cominciato a ipotizzare la possibilità
tati sono continuati quotidianamente con
gravi bilanci di vittime, anche fra la popolazione civile. Questo stato di cose è
stato considerato «fisiologico» dal Rappresentante speciale dell’Onu a Kabul
Staffan de Mistura. Con alle spalle decenni di attività in zone di conflitto, il
diplomatico italo-svedese ha detto che
«l’esperienza mi ha insegnato che sempre nelle fasi pre-negoziali si registra una
recrudescenza della violenza, perchè le
parti vogliono arrivare al tavolo delle
trattative nella migliore posizione possibile».
le opzioni
Dato che di fatto nessuno sa se gli incontri
«molto preliminari» ammessi dagli Stati
Uniti hanno permesso già di stabilire un
ipotesi di accordo, possiamo dire che sul
tavolo vi sono più opzioni. La più drastica
sarebbe quella di una spartizione dell’Afghanistan in due stati (uno meridionale
agli insorti, uno settentrionale ad una coalizione multietnica) che verrebbero comunque confederati. Ma si tratterebbe di
una sorta di ultima spiaggia, da esplorare
nel caso la possibilità di creare un governo di coalizione dovesse fallire. I tempi non
sono maturi per capire il corso deldialogo, e il vicepresidente del Consiglio per la
Pace, Ataullah Ludin, ci ha detto che «dopo
33 anni di guerra, ci vorranno da uno a tre
anni per discutere tutti gli aspetti e meccanismi di questo processo».
E una risposta all’interrogativo iniziale su
vincitori o vinti, non c’è. Certamente l’unica sconfitta è l’opzione di quanti alla Casa
Bianca hanno avviato l’Operazione Enduring Freedom oltre dieci anni fa pensando
di poter facilmente avere ragione del nemico, come creduto erroneamente in Vietnam, come in Iraq. Magari riuscendo a
porre basi militari in questa zona strategica dell’Asia. In Afghanistan fra il 2007 e il
2010, l’ex ambasciatore britannico Sherard
Cowper-Coles ha scelto di andare in pensione a 56 anni e pubblicare un volume
(‘Cables from Kabul’) in cui incoraggia
l’Occidente a riconoscere i propri errori ed
a sedersi ad un tavolo delle trattative con i
talebani, «per quanto questo possa apparire spiacevole». Per lui questa opzione è
stata scelta già troppo tardi ed adesso, sottolinea significativamente, perchè dia risultati costringerà le parti «a correre una
lunga maratona con i tempi disponibili dei
10.000 metri».
ROCCA 15 LUGLIO 2011
di una trattativa con i talebani, che ovviamente rappresentano l’elemento frenante
di questo discorso. Per la verità, per organizzare meglio il discorso, bisognerà ricordare che prima del semaforo verde al tavolo negoziale con gli insorti, è venuta la
convinzione che nonostante l’immane sforzo umano e finanziario, la guerra in Afghanistan non poteva essere vinta sul terreno solo militare. Una coscienza che deve
essere maturata anche nel Mullah Omar e
nei suoi collaboratori, che hanno formalmente sempre ribadito di avere «tempo da
vendere» e di poter aspettare che «la bancarotta finanziaria travolga le forze della
Coalizione» come avvenne 30 anni fa con
i sovietici.
Così, una volta consolidata la tesi della
necessità di un compromesso, è venuto
fuori il dilemma di con chi e come trattare. Con le prime condizioni poste dagli
Stati Uniti, gli insorti da inserire nella
trattativa avrebbero dovuto praticamente cospargersi il capo di cenere e ammettere di avere sbagliato tutto. Poi, con il
passare del tempo, il quadro si è chiarito
e si è stabilito che gli interlocutori del
governo di Karzai avrebbero dovuto: 1)
Abbandonare le armi; 2) Rompere ogni
legame con Al Qaida e 3) Accettare la
Costituzione afghana. Su questa base,
prima il Segretario di Stato americano
Hillary Clinton, poi lo stesso Obama, hanno finito per dichiarare che «negoziare
con i talebani era una necessità». Nei mesi
trascorsi nella definizione di questo quadro per il dialogo, il governo afghano ha
creato un Alto Consiglio per la pace con
l’incarico di ricercare un colloquio volto
alla riconciliazione, mentre le diplomazie americana e britannica hanno attivato i loro canali per realizzare i contatti.
Con i militanti.
Intanto, per contribuire a rasserenare gli
animi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu
ha accolto una richiesta da tempo avanzata dal governo afghano, e cioè che si
separassero nella lista dei «cattivi» esistente nel Palazzo di Vetro i membri di
Al Qaida che sono considerati convenzionalmente «terroristi globali», dai talebani che combattono solo all’interno
dei confini dell’Afghanistan. E così è stato fatto, mentre ora Karzai attende che
dalla nuova lista degli afghani vengano
cancellate numerose personalità che oggi
siedono nel Parlamento di Kabul, che
sono membri dell’Alto Consiglio per la
Pace, o addirittura che sono morti. Sul
terreno, le cose non sono nel frattempo
affatto migliorate. Gli scontri e gli atten-
Maurizio Salvi
15
PUBBLICO/PRIVATO
Roberta
Carlini
gli italiani hanno ca
H
anno vinto i beni comuni, è stato il
commento ricorrente dopo la inattesa e straordinaria vittoria della
partecipazione e dei «sì» ai referendum di giugno. Ed è vero, ma non
è tutto. Perché che l’acqua e la tutela dell’ambiente siano beni comuni forse era
opinione corrente anche prima, anche nei due
decenni appena trascorsi e forse conclusi in
quei due giorni di giugno. Che hanno dato
semmai una risposta diversa alla domanda:
se i beni sono comuni, chi se ne deve occupare? Il pubblico o il privato, lo Stato o il mercato? Di fronte a questa domanda, la risposta
è stata inequivocabile: non ci fidiamo del privato, ha detto il 95,80% dei votanti, bocciando i quesiti che sostanziavano l’affidamento
del servizio idrico alla gestione privata.
1993, abolizione
ministero partecipazioni statali
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Diciotto anni fa, non in un giugno ma in un
aprile – il 18 aprile del 1993 – si era tenuto
un altro referendum. Era mischiato con altri che forse oggi si ricordano di più (sistema elettorale, sanità, droghe...), e recitava
più o meno così: «volete abolire il ministero
delle partecipazioni statali»? Sì, rispose con
nettezza il 90,11% dei votanti. Certificando
la fine di quel modello italiano pubblico/privato che aveva segnato la ricostruzione e lo
sviluppo dal dopoguerra, e avviando la stagione della privatizzazione dei grandi complessi industriali e di servizi prima partecipati dallo Stato. Cos’è successo in questi anni?
Gli italiani hanno cambiato idea, hanno imparato dall’esperienza, o hanno dimenticato
il passato? O i voti non sono comparabili?
Cominciamo dai paragoni numerici. Nel 1993
andarono a votare quasi 37 milioni di persone (su 47), la partecipazione fu altissima: il
76,86% degli aventi diritto. La lunga stagione
della crisi dei referendum, quella nella quale
il raggiungimento del quorum del 50 per cento
più 1 è diventato un evento miracoloso, doveva ancora iniziare. All’epoca, si espressero
per il «sì» all’abrogazione del ministero delle
partecipazioni statali (ppss, si scriveva in breve) più di 31 milioni di votanti, il 90,11% per
l’appunto. Nel 2011, diciotto anni e dieci referendum dopo, il numero totale di aventi
16
diritto al voto è salito (siamo quasi 50 milioni
e mezzo, compresi gli italiani all’estero), e il
difficile quorum è stato raggiunto e superato
con 27.637.943 votanti: dieci milioni in meno,
rispetto al ’93. Il numero assoluto di coloro
che hanno votato sì è stato di 25.935.362 persone. In termini relativi, l’adesione al sì è stata maggiore, superando il 95%.
Ricapitolando: nel ’93 circa 37 milioni «proprivato», nel 2011 circa 26 milioni «pro-pubblico». In sé, i numeri paiono indicare un
netto mutamento di opinione dell’elettorato
italiano sulla questione dei rapporti tra pubblico e privato.
tangentopoli e l’era delle privatizzazioni
Più complicato il paragone sostanziale, quello che si può abbozzare andando al di là dei
numeri. Le partecipazioni statali e l’acqua
del sindaco, si dirà, non sono la stessa cosa.
La seconda evoca un’immagine rassicurante e fresca di un bene primario che vogliamo sottrarre alla logica del profitto a tutti i
costi, mentre le prime evocano grandi industrie, grand commis, spesso sperpero e corruzione. Il pacchetto dei referendum del ’93
giungeva al culmine di uno scandalo – Tangentopoli – che aveva inciso proprio nella
zona grigia dei rapporti tra politica ed economia e scoperchiato un’intera classe dirigente pubblica e privata, rivelando la gestione privatistica di beni pubblici fatta da entrambi. Sotto processo erano finiti intoccabili della politica e intoccabili dell’economia,
un mondo era crollato a pochi anni dal crollo
del muro di Berlino e del socialismo reale.
La caduta degli ultimi dèi di quella progenie
– colti con le mani nel sacco pubblico – aveva
fatto dimenticare anni e anni di storia economica del paese, il ruolo positivo svolto dalle
ppss, l’epoca in cui quelle società miste, un
po’ pubbliche e un po’ private, facevano da
modello anche per altre parti del mondo. Avevano sbagliato – più che sbagliato: avevano
malversato, compiuto reati, spolpato la cosa
pubblica – tutti, élite pubblica ed élite privata. Pagò la prima, soprattutto. Vuoi per la forza dei vincoli europei, vuoi (soprattutto) per
il dissesto del bilancio pubblico, vuoi per il
vento culturale che spirava fortissimo d’oltreoceano e in tutto il continente, vuoi per antidoto a quanto fino ad allora successo, ci si
no cambiato idea
2011 non ci fidiamo
Facciamo un salto, e arriviamo subito a giugno 2011. Pochi giorni prima dello svolgimento dei referendum, mentre ancora infuriavano i tentativi pasticciati da parte del governo
per annullarli, a Trento si svolgeva l’annuale
meeting del Festival dell’economia. Un incontro molto partecipato, che richiama studenti, cultori della materia, Nobel e ricercatori,
ma anche cittadini qualsiasi che hanno voglia di farsi un’idea. Il festival è co-organizzato dal gruppo degli economisti de lavoce.info,
un’area che ha portato avanti negli anni le
ragioni del mercato, della concorrenza, dell’equilibrio finanziario: insomma, abbastanza «mainstream», ossia nel flusso della corrente principale, e spesso molto critici verso
le politiche fiscali ed economiche italiane.
Quest’anno gli economisti del festival hanno posto un quesito al proprio pubblico,
chiedendogli di votare in anticipo, pro o contro la privatizzazione dell’acqua. Anzi, poiché sanno bene che il modo in cui le domande si pongono spesso condizionano le
risposte, l’avevano posta così: la gestione dell’acqua deve essere totalmente pubblica? Bene,
nel consesso di quel festival, che ama il mercato e frequenta i suoi pregi e le sue debolezze, ci si poteva aspettare una prevalenza
dei «no». Invece al 59% il pubblico ha detto
sì, che «la gestione dell’acqua deve essere totalmente pubblica». Anticipando quello che,
in percentuale molto più alta, avrebbero detto gli italiani al voto qualche giorno dopo.
Due voti (quello microscopico di Trento e
quello macroscopico degli italiani) che dicono una cosa semplice: non ci fidiamo. Non
ci fidiamo della ricetta miracolosa del mercato, non ci fidiamo di quel che passa il convento privato, non ci fidiamo di un’ennesima delega a poteri che non possiamo conoscere né controllare. Di sicuro c’è, in questa
svolta, l’impatto forte della crisi economica
e finanziaria, una crisi del debito privato nata
ed esplosa nel mercato: un piccolo crollo del
Muro, per il capitalismo di Wall street. Ma
c’è anche una sua declinazione specificamente italiana, legata alla nostra storia e cronaca politico-economica-giudiziaria. Non ci fidiamo, sembra dire il voto del 12 e 13 giugno, di un’apparente soluzione che in realtà
ripropone e amplifica lo stesso problema, che
ci portiamo dietro da Tangentopoli e oltre:
che non è solo il problema del pubblico ipertrofico che non funziona, o di un privato arretrato che non ce la fa; ma che è esattamente
il problema della zona grigia tra i due, dell’area in cui hanno prosperato entrambi senza mettersi mai in discussione e a disposizione del controllo dei cittadini.
una gestione davvero pubblica
Coerentemente, dopo aver vinto il referendum che ha rifiutato la soluzione privatistica, i movimenti vanno avanti e chiedono una
gestione davvero pubblica: cioè non affidata
al potere del politico di turno e all’invasione
dei suoi amici e parenti, ma gestita dai competenti al servizio del bene pubblico. Cosa
che, dicono, può essere possibile, se guardiamo a modelli di gestione avanzata, a buone pratiche italiane e straniere, alla trasparenza dell’informazione. Tra un bene comune saccheggiato dai famigli del sindaco, e un
bene comune svenduto al principale costruttore della città (che per averlo, deve a sua
volta allearsi con il sindaco e i suoi famigli),
un’altra via deve esserci. E quasi 26 milioni
di italiani l’hanno imboccata.
ROCCA 15 LUGLIO 2011
affidò alle privatizzazioni – la vendita del patrimonio pubblico, in particolare degli asset
industriali delle ex ppss, a soggetti privati.
La scelta era già stata compiuta, tra i marosi della crisi finanziaria del 1992, e il referendum non fece che sancirla. E fu una scelta
strutturale, guidata carismaticamente da
Ciampi e dalla sua squadra, condivisa dalla
sinistra dell’ex-Pci e sostenuta (più nelle parole che nei fatti) dal centrodestra. Una scelta
che aprì una lunga era, della quale si può dire
tutto (e si possono dare giudizi divergenti, le
librerie ne sono piene), ma purtroppo non si
può dire la cosa essenziale: ossia che quel taglio, quella cesura dei primi anni ’90 abbia
bonificato la zona infetta dei rapporti abusivi politica/economia. Del resto, ci si poteva
aspettare davvero questo, in un paese che intanto si era affidato, con il ’94, al più brillante dei privati che si erano formati e pasciuti
nella zona grigia dei rapporti tra politica ed
economia, il cavalier Silvio Berlusconi?
Roberta Carlini
17
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Ugo
Leone
referendum, tra gli altri, hanno il merito, abrogando una legge, di costringere il legislatore ad intervenire. Ma
come riempire il «vuoto» in aderenza
alle indicazioni dei votanti? Specialmente quando sono una strepitosa
maggioranza? Che cosa, in particolare,
dopo gli ultimi tre referendum?
Per cominciare bisogna obiettivamente e
realisticamente riconoscere che se non vi
fosse stata una diffusa, martellante campagna di informazione e di «orientamento», non uno degli oltre 27 milioni di votanti, entrati in cabina e messo davanti al
quesito contenuto nella scheda, avrebbe
saputo su che cosa gli si chiedeva di esprimersi con un sì o con un no. Né era in grado di sapere quali sarebbero state le conseguenze della vittoria di sì o no.
Perciò, tanto più, ora si pone un altro quesito: dopo il voto, dopo le abrogazioni, che
cosa cambia?
Proviamo ad andare con ordine e facciamolo per i primi tre referendum dal momento che il quarto, quello sul legittimo
impedimento, ha la evidente conseguenza
che tutti gli imputati sono uguali e devono
avere uguali comportamenti processuali.
I
un profitto illecito
Nel primo caso il lungo, abbastanza incom18
prensibile quesito attineva ad un tema
espresso in modo più chiaro come «Abrogazione delle modalità di affidamento e
gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica».
Nel secondo il quesito riguardava
l’«abrogazione parziale della norma che
riguarda la determinazione della tariffa del
servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito».
In entrambi i casi i cambiamenti sono di
medio periodo più che con riflessi immediati. Anche se è evidente e fondamentalmente evidente, che la cosiddetta privatizzazione dell’acqua è scongiurata e che è
da considerare illecito il profitto ricavabile dagli investimenti tramite interventi sulla tariffa.
Intanto il voto referendario «congela» l’attuale situazione della gestione della risorsa idrica. Avessero prevalso i no tutti i contratti attualmente in vigore per l’affidamento della gestione sarebbero venuti a scadenza entro il prossimo 31 dicembre. Ora
possono andare verso la naturale, contrattuale, scadenza. Ciò significa che nella
grandissima quantità dei casi la gestione
continuerà ad essere a lungo pubblica dal
momento che su 106 affidamenti 66 sono
totalmente pubblici e che gli affidamenti
stessi sono avvenuti molto di recente. Tuttavia, i Comuni che lo volessero potrebbe-
UN VALANGA DI SÌ
e adesso?
chi e con quali soldi?
Resta teoricamente irrisolto il problema
che costituiva la ragione portata avanti dai
sostenitori del no: chi, con quali soldi effettuerà gli investimenti necessari per ristrutturare la sconquassata rete acquedottistica? Come trovare, cioè, i 60 miliardi
di euro che secondo recenti valutazioni
sarebbero necessari alla bisogna? La rispo-
sta con la quale si tentava di spaventare i
sostenitori del sì e che ora viene proposta
con un sottinteso «ve l’avevamo detto», è
che se la gestione è pubblica sono i Comuni, cioè i cittadini che devono accollarsi la
spesa. E poiché i Comuni soldi non ne hanno, gli interventi non si faranno oppure si
faranno ricavando il danaro necessario
aumentando le tariffe. Tariffe che, come
sostengono alcuni, negli ultimi tempi sono
schizzate verso l’alto.
A me non pare che la questione stia in questi termini. È perciò che, dicevo, va messo
ordine nelle tariffe: rendendole il più possibile omogenee sull’intero territorio; stabilendo un prezzo che garantisca il minimo
quotidiano necessario alle famiglie meno
abbienti; e, se necessario (ma sarà necessario), aumentare le tariffe per tutte le altre
categorie di utenti per ricavare il necessario per gli investimenti. Investimenti che
non sono fine a se stessi perché nel ristrutturare la rete, si dà lavoro e si risolve in
modo duraturo il problema delle perdite
d’acqua lungo il percorso. Sono, cioè, investimenti veri e propri, il cui profitto consiste non nella remunerazione del capitale,
ma nella riparazione duratura delle falle
della rete con ricadute evidentemente positive sulla salvaguardia della risorsa e sulla
sua disponibilità nel tempo.
A sostegno della apparentemente impo-
ROCCA 15 LUGLIO 2011
ro anche affidare la gestione ad una società «mista» con l’inserimento del privato
nella gestione. Per farlo, secondo la normativa europea che è quella a tutti gli effetti vigente dopo l’abrogazione referendaria della legge Ronchi, dovrà sempre ricorrere ad una gara. E, comunque, il tutto
potrà avvenire non prima della scadenza
delle attuali convenzioni. Il che significa
che i Comuni hanno tempo per riflettere
come ne ha il legislatore che, senza ripercorrere le linee della legge abrogata e tenendo rigorosamente conto della volontà
dei votanti, dovrà lavorare ad una normativa che sia di riferimento omogeneo all’intero Paese.
Ciò soprattutto con riferimento alle tariffe nell’ambito delle quali c’è oggi una giungla simile a quella che caratterizzava le
tariffe elettriche prima della nazionalizzazione del 1962.
19
UNA
VALANGA
DI SÌ
polare proposta vorrei solo aggiungere che,
mediamente (con un calcolo per eccesso)
costano 300 euro i 200 metri cubi annui
distribuiti ai cittadini nelle varie regioni. Ciò
significa che ogni metro cubo costa, mediamente, 1,5 euro. Ricordando che un metro
cubo equivale a 1.000 litri, se ne ricava che
un litro di (ottima) acqua distribuita dagli
acquedotti costa 0,0015 euro. Mi sembra
che non siano necessari particolari commenti. Se non per aggiungere che non è un
caso, se, in Europa, l’Italia è il Paese nel
quale ogni cittadino ha mediamente più
acqua a disposizione e ne spreca di più.
energia a domanda
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Infine il terzo quesito, quello più temuto
dagli antireferendari essendo in grado di
trainare gli elettori fino al raggiungimento
del quorum, riguardava l’«abrogazione delle
nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare».
Con la plebiscitaria abrogazione gli italiani
si sono espressi una seconda volta, dopo il
referendum del 1987, contro la produzione
di energia in centrali nucleari. E il discorso
è chiuso. Ma non lo è certamente per quanto riguarda il modo in cui rispondere alla
domanda di energia.
Per farlo il legislatore dovrà innanzitutto
colmare il vuoto gravissimo costituito dalla storica mancanza di un Piano energetico
nazionale. Ma le scelte e le soluzioni proposte dovranno dare risposte proprio partendo dalla domanda. Cioè dal modo in cui
oggi vengono soddisfatti i consumi finali di
energia avendo ben presente che questo
modo non ha solo risposte quantitative
come avviene da quando la domanda di
energia viene soddisfatta col ricorso a fonti
fossili. Al contrario, una volta classificati i
consumi finali nei quattro grandi comparti
costituiti da agricoltura, industria, trasporti
e consumi domestici, si dovrà anche individuare la qualità della risposta. Cioè il tipo di
energia meglio ed economicamente più rispondente al soddisfacimento della domanda. Con il ricorso a fonti che, in taluni casi,
possono considerarsi anche effettivamente
alternative ai combustibili fossili. Tenendo
nel dovuto conto l’impatto ambientale di alcuni modi di utilizzazione di queste fonti (solare termodinamico ed eolico). E con politiche di risparmio, che non sono politiche di
sacrificio, ma di razionalizzazione dei consumi e di lotta agli sprechi.
In modo più esplicito, occorre realisticamente partire da quei bisogni che, oggi e
ancora per qualche tempo, non trovano fon20
ti quantitativamente valide in «alternativa»
ai combustibili fossili. Essenzialmente si
tratta della produzione di energia elettrica
e del variegato settore dei trasporti. Ciò significa che là dove le fonti cui far ricorso
sono non solo integrative ma sempre più
alternative, queste vanno incentivate al
massimo con l’obiettivo tra gli altri di liberare quote aggiuntive per il soddisfacimento di quei consumi ancora non svincolati
dalla disponibilità dei fossili.
obiettivo 20-20-20
Il tutto, fra l’altro nel rispetto di quanto contenuto nel «pacchetto clima-energia», approvato dal Parlamento europeo nel 2008,
che si è dato l’obiettivo 20-20-20. L’obiettivo, cioè, per il 2020 di ridurre del 20% le
emissioni di gas a effetto serra, portare al
20% il risparmio energetico e aumentare al
20% il consumo di fonti rinnovabili.
Oggi in Italia si consumano circa 200 milioni di tonnellate di equivalente petrolio. Il 25%
serve per produrre energia elettrica; un altro 25% è consumato dai trasporti; il 20%
dall’industria; il 22% nelle abitazioni; il restante 8% da agricoltura, pesca e «altro».
Allo stato è difficile immaginare una rapida e significativa sostituzione dei combustibili fossili con fonti rinnovabili nella produzione di energia elettrica e nei mezzi di
trasporto. Mentre fonti rinnovabili, essenzialmente il solare (termodinamico e fotovoltaico) e l’eolico possono svolgere un ruolo anche quantitativamente sempre più rilevante nel settore domestico (climatizzazione degli ambienti) e, in parte, nell’industria.
Ma il «20-20-20» impone non solo il progressivo ricorso a fonti rinnovabili, ma anche un sostanzioso risparmio che, come
dicevo, significa soprattutto lotta agli sprechi e razionalizzazione dei consumi. Ciò
può avvenire soprattutto nell’altro grande
consumatore di combustibili fossili (quasi
esclusivamente derivati del petrolio) cioè
nel settore dei trasporti. In questo caso il
risultato si potrà ottenere non solo con il
ricorso a motori diversamente alimentati
quando la lobby petrolifera comincerà a
perdere colpi e la ricerca sui motori alternativi andrà più celermente avanti, ma anche nell’immediato con politiche dei trasporti che più coraggiosamente disincentivino il trasporto di persone e merci su gomma incentivandone il trasferimento su ferro. E via mare se si pensa che l’Italia è una
penisola con 8.000 chilometri di coste.
Ugo Leone
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
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POLITICA
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L
’abolizione delle Province: tutti i
partiti la chiedono ma nessuno la
vuole. E nei giorni scorsi c’è stata
l’ennesima conferma di tale atteggiamento. È, infatti, slittata a data
da destinarsi l’esame della proposta di legge dell’Italia dei Valori che appunto proponeva la loro soppressione. Solo il
partito di Di Pietro e l’Udc si sono opposti
al rinvio. Questo è stato chiesto da Dario
Franceschini del Partito Democratico, seguito a ruota da Roberto Calderoli della
Lega. Il motivo: il Governo intenderebbe
«razionalizzare» ma non sopprimere le
Province. Non si può, sostiene il leghista,
abbandonare il cittadino, che vive nelle
valli di montagna, avendo come unici riferimenti il Comune o la Regione. E allora,
nel timore di una bocciatura nel voto d’aula
che chiuderebbe ogni possibilità di riforma futura, meglio ritirare la proposta di
legge. E così Pd e Lega, la strana coppia,
hanno rimesso nei cassetti la bandiera dell’abolizione delle Province, in attesa di tirarle nuovamente fuori in future occasioni elettorali.
Perciò, in attesa di una razionalizzazione
molto di là da venire, le 107 Amministrazioni Provinciali potranno continuare a finanziare costose e folkloristiche saghe, ad
avere partecipazioni di dubbia utilità pubblica. Contemporaneamente le Province
continueranno a essere la vetrina di politici in ascesa, àmbiti dove si dibatte del testamento biologico e dei diritti civili in
Cina, piuttosto che la sede per affrontare
temi inerenti al territorio. Soprattutto continueranno ad essere una formidabile opportunità di clientelismo. Il tutto a spese
dei contribuenti.
Secondo la Ragioneria di Stato sono 80.500
i dipendenti delle Province (con il più basso rapporto retribuzione-produttività, secondo un’inchiesta Eurispes del 2007), cui
si devono aggiungere 3.246 consiglieri provinciali, 858 assessori, presidenti e vice.
Insomma, le Province, che dovevano essere abolite fin dal 1970, che Berlusconi il
10 aprile 2008 a «Porta a porta» disse che
«non possono più essere lasciate in piedi»,
la cui abolizione Calderoli voleva inserire
nel Codice delle autonomie (abolizione ri-
dimensionata poi a 17, poi a 7, poi a 3 e
infine a zero) continueranno a gravare sui
contribuenti per circa 20 miliardi l’anno
(dati dell’Unione Province Italiane).
Tale costo è diviso a metà tra spese correnti e spese in conto capitale. Le prime
sono per 2/3 spese riguardanti il personale, le altre sono relative ai beni di competenza provinciale (viabilità locale, edilizia
scolastica, manutenzione immobili).
Si tenga conto inoltre che le attuali Province, in proliferazione ininterrotta dal 1992,
risultano essere quasi il doppio di quelle del
1861, l’anno dell’Unità d’Italia.
Gli oppositori alla soppressione delle Province sostengono che la loro eliminazione
farebbe risparmiare ben poco: 3 o 4 miliardi l’anno, perché il resto riguarda il personale, non licenziabile, e il conto capitale.
A parte che 3/4 miliardi non sono pochi, il
personale potrebbe essere impiegato più
proficuamente altrove, colmando vuoti
nella Pubblica sicurezza (liberando gli
agenti dal lavoro d’ufficio e rendendoli disponibili per la lotta al crimine), o nella
sorveglianza ai musei, o nelle segreterie
scolastiche, e altro. E poi si darebbe un
segnale concreto che si vogliono davvero
ridurre i costi della politica.
Ma torniamo alla «razionalizzazione».
Intanto questa dovrebbe prendere le mosse dalla riduzione del numero delle attuali
Province, da uno stop alla loro proliferazione e dalla loro non coesistenza con le
Città Metropolitane, per le quali è bene che
la sovranità sia tutta esercitata in una dimensione metropolitana. Ma la riforma
più importante dovrebbe portare all’abolizione dei Consigli Provinciali, con notevole riduzione dei costi e del personale politico, per sostituirli con Assemblee di Sindaci. In tal modo il legame di questi con il
territorio sarebbe più stretto, più corale, e
si avrebbe un organismo più efficace di
indirizzo e di controllo delle Giunte provinciali.
Ma un tale snellimento dubito possa realizzarsi per iniziativa del sistema politico.
Ci vorrebbe una forte e determinata pressione esterna, da parte della società civile
e dei cittadini, ma si può vivere continuamente in un clima referendario?
❑
21
ROCCA 15 LUGLIO 2011
l’inamovibile provincia
SCUOLA: RAPPORTO FONDAZIONE AGNELLI
pianeta
disabili
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Fiorella
Farinelli
22
liminare gli insegnanti di sostegno.
Non è una buona cosa che tante
testate giornalistiche abbiano scelto titoli di questo tipo per commentare il recente Rapporto della Fondazione Agnelli sull’integrazione
scolastica dei bambini disabili (1). O che
altre abbiano sparato i soliti «troppo» utilizzati dalle campagne diffamatorie del lavoro pubblico di Brunetta e colleghi: troppi gli insegnanti che si occupano degli allievi disabili, troppi quelli che non hanno
una preparazione professionale sufficiente, troppo frequenti i processi di mobilità
che li riguardano, troppo alto il loro costo.
Non è una buona cosa perché l’interesse
del Rapporto è più nell’analisi – i dati, i
processi – che nella proposta, che comunque non è affatto di semplice e sbrigativa
liquidazione di ogni supporto all’integrazione scolastica dei ragazzi con disabilità.
E soprattutto perché commenti così vistosamente orientati sembrano voler disseminare l’idea che, in tempi come oggi di vacche magre, i 4 miliardi di spesa pubblica
tra Stato e Enti Locali per retribuire i
95.000 insegnanti e le 25.000 figure professionali non scolastiche utilizzate per il
sostegno ai circa 200.000 allievi certificati
come disabili, siano un lusso eccessivo. O
un impegno economico sproporzionato ai
benefici che può trarne la società – oltre a
loro stessi e alle loro famiglie.
In verità, il ponderoso bilancio di efficacia
ed efficienza svolto dai ricercatori della
Fondazione, insieme a quelli di Caritas e
di Treelle, dei trenta e più anni di esperienza trascorsi dalla decisione di inserire i
bambini disabili nelle scuole/classi norma-
E
li, sottraendoli all’emarginazione della medicalizzazione e dell’assistenza negli istituti speciali, dice invece a chiare lettere che
quel costo non è comprimibile, ma anche
che quella spesa potrebbe essere meglio
utilizzata se venisse prima o poi superato
l’insieme dei deficit che si sono via via consolidati. Ma quali sono, secondo il Rapporto, i problemi più acuti, quelli su cui intervenire con priorità?
troppi disabili Asl
C’è una questione, intanto, che merita la
massima attenzione. L’incremento degli
insegnanti di sostegno – oltre ventimila in
più tra il 2002-2003 e il 2010-2011 – non
deriva come spesso si afferma da un rapporto troppo basso tra insegnanti e allievi,
che è ormai pari a 1 su 2, 1 nel Nord, 1 su
2,2 nel Centro, 1 su 1,9 nel Sud. Deriva
invece dall’aumento costante del numero
degli allievi certificati dalle Asl come disabili: erano 139.000 (1,59% del totale allievi) nel 2001-2002, sono diventati 200.000
(2,24% del totale allievi) nel 2009-2010.
Ma sono davvero tutti caratterizzati – come
vorrebbe la classificazione Ocse e la nostra normativa sul sostegno – da «deficit
definibili in termini medico-sanitari che
derivano da carenze organico-funzionali
attribuibili a menomazioni e patologie»?
La risposta è no, senza alcun dubbio. I dati
ci dicono che solo per il 70% si tratta di
veri e propri ritardi mentali o disturbi dell’apprendimento riconducibili ad alterazioni fisiologiche e malattie, negli altri casi i
disturbi diagnosticati riguardano invece
l’attenzione, l’ambito della relazione e dell’affettività, il controllo e l’appropriatezza
quando basterebbe una scuola intelligente
Missione impossibile, come si sa, nelle
scuole in cui l’insegnamento resta, come
da modello tradizionale, schiacciato unicamente sulle ore di didattica frontale,
dove non ci sono né tempo pieno né possibilità di compresenze e dove gli insegnanti – quelli «ordinari» – non hanno tutta
l’agilità e la ricchezza professionale che
occorrerebbe. Un vuoto, un deficit di flessibilità organizzativa e didattica, una carenza di qualità professionali a cui sempre più frequentemente si tenta di ovviare, appunto, con le certificazioni di disabilità e relativi insegnanti/ore aggiunte di
sostegno.
Non sono ipotesi, e neppure solo sospetti.
Il fatto che negli ultimi anni risulti essersi
incrementato del 20% – un salto enorme –
il numero degli allievi «disabili» di provenienza straniera, e che tra i «certificati» ci
siano ormai sempre di più ragazzini dislessici, definiti «iperattivi» o «caratteriali»,
con deficit di concentrazione e problemi
di comportamento, parla abbastanza chiaro. La legge 517/77 è spesso usata impropriamente per risolvere difficoltà che in
molte scuole non si sa come affrontare in
altro modo. Altrettanto improprio, pur
trattandosi in questi casi di handicap effettivi, è il diffusissimo ricorso a insegnanti
di sostegno anche per i disabili unicamente motori, che avrebbero bisogno di tutt’altro tipo di supporti per poter partecipare in condizioni di parità alla vita scolastica.
Eliminare, dunque, non è la parola giusta.
Ma distinguere tra le situazioni che hanno
bisogno di un sostegno specialistico e quelle che hanno bisogno «solo» di una scuola
intelligente, ricca di risorse e di opportunità, diversificata secondo le esigenze degli allievi, questo sì sarebbe necessario.
Non per una questione di spesa, perché
quello che non si spenderebbe per il sostegno bisognerebbe spenderlo per qualificare i contesti organizzativi e professionali,
ma perché le buone intenzioni, quando ci
sono, non eliminano l’effetto oggettivamente discriminatorio delle certificazioni
formali di disabilità. Né i rischi, diffusissimi, che l’affidamento a un insegnante di
sostegno, si traduca in un allontanamento
dei bambini e ragazzi più difficili, o dei più
deboli, dall’aula e dalle attività di tutti. Tradendo, perché è questo che talora avviene,
la stessa legge istitutiva: in cui il sostegno
è dovuto alla classe di appartenenza, non
(solo) al singolo studente in difficoltà.
Da questo punto di vista, alcune delle proposte contenute nel Rapporto della Fon-
ROCCA 15 LUGLIO 2011
dei comportamenti.
Ragazzini difficili, ragazzini problematici,
certo. Che hanno bisogni educativi particolari perché appartenenti a nuclei familiari con problemi socioeconomici, culturali, sociolinguistici, o per altri motivi. Che
richiedono una relazione insegnante-allievo personalizzata, didattiche particolarmente accorte, in molti casi anche tempi
scolastici più lunghi e diversificati per attività di laboratorio, di recupero e sviluppo di specifiche competenze, creative ed
espressive. Che consiglierebbero una capacità di coordinamento e di integrazione
tra la scuola e i diversi servizi pubblici e
privati del territorio, oltre a una buona tenuta del rapporto tra scuola e famiglia.
23
RAPPORTO
FONDAZIONE
AGNELLI
dazione Agnelli, come quella di preparare
tutti gli insegnanti a misurarsi con i bisogni educativi speciali e di organizzare in
ogni territorio dei Centri Risorse per l’Integrazione con il compito di assegnare il
personale specializzato docente e non docente secondo i progetti di integrazione
avanzati dalle scuole (e non, come oggi, in
modo automatico e secondo le certificazioni delle Asl), sono ipotesi di lavoro di
un certo interesse. Ma a patto di assicurare alle scuole le condizioni e gli strumenti di un miglioramento sostanziale della
propria qualità organizzativa e didattica
e dei propri ambienti di apprendimento,
nuove tecnologie comprese. E purché
l’amministrazione, il sindacato, la politica dismettano finalmente quella logica
tutta quantitativa secondo cui è solo aumentando l’organico che si possono risolvere i problemi della scuola pubblica. Una
logica speculare a quella dell’attuale governo secondo cui, viceversa, il problema
dei problemi è ridurre gli organici come
condizione per ridurre la spesa pubblica
per l’istruzione.
specialistiche conseguite per via formale).
E poi l’assenza di un effettivo coordinamento tra attività delle Asl e attività delle
scuole; la diffusa indifferenza per i tanti
ragazzi disabili che, abbandonati alle poche ore di sostegno degli insegnanti appositi, perdono interesse per la scuola e la
abbandonano precocemente; la debolezza
degli strumenti e delle politiche di orientamento professionale per rendere più agevole, finiti gli studi, l’inserimento nel mondo del lavoro; le scarse opportunità di qualificazione offerte dal comparto della formazione professionale regionale; il disastro italiano di quel misero 7% di adulti
disabili con un lavoro stabile (a fronte del
21% della media europea); i ritardi nella
segnalazione da parte delle scuole di problemi importanti, come dislessia o disgrafia, che però non comportano automaticamente il supporto di insegnanti di sostegno e richiederebbero invece altri tipi di
intervento dovuti a insipienza o inerzia
professionale, e così via.
quantità o qualità?
Un quadro complicato che il Rapporto
della Fondazione Agnelli ha il merito di
analizzare con grande ricchezza di dati,
allargando lo sguardo all’intero pianeta
disabilità, nella scuola ma anche dopo la
scuola e richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi che restano
irrisolti o che potrebbero col tempo perfino aggravarsi. È interessante che per questa via si possa rianimare la discussione
non solo sull’efficacia della nostra normativa sull’integrazione scolastica dei disabili ma anche sui principi e sui valori cui essa
si ispira. Principi e valori apprezzati non
solo dalle famiglie che hanno figli disabili
o portatori di serie difficoltà ma anche dai
tanti per cui l’inserimento dei disabili nella scuola pubblica è visto come un’opportunità importante di crescita culturale e
civile per tutti gli studenti.
Quanto alle soluzioni proposte dal Rapporto, bisogna dire che non sono tutte convincenti, e neppure tutte facilmente praticabili. Ma è sempre un buon esercizio, individuati i problemi, provare a immaginare le possibili soluzioni.
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Sulla questione dell’handicap ha pesato negativamente, e pesa tuttora come in tanti
altri ambiti del sistema scolastico, una forte sottovalutazione della qualità a fronte
dell’interesse massimo di quasi tutti gli
attori – politica e sindacati in primis – per
l’incremento degli organici e, comunque,
per le politiche del personale e del precariato. Derivano da qui molte delle criticità, e delle vere e proprie storture, analizzate e denunciate dal Rapporto della Fondazione Agnelli, e anche diverse altre di cui
invece si tace.
Il fatto, per esempio, che nel 32% delle
scuole del primo ciclo non ci siano insegnanti di sostegno dotati della regolamentare formazione specialistica (ma insieme
anche il deserto di iniziative di una Pubblica Istruzione che ormai da molti anni
non promuove più percorsi formativi gratuiti di specializzazione). Il fatto che il
possesso della specializzazione venga utilizzato dagli insegnanti precari per accelerare la propria immissione in ruolo salvo
poi, dopo cinque anni, poter rientrare nell’organico «ordinario» (ma anche le responsabilità, in questa dispersione di competenze che si associa anche a una mobilità eccessiva del personale, di un inquadramento professionale in cui non c’è spazio
per nessun riconoscimento in termini retributivi e di carriera delle competenze
24
un’opportunità importante
Fiorella Farinelli
Nota
(1) Il Rapporto, presentato a Roma il 14 giugno scorso, è pubblicato dalla casa editrice
Erikson. Le schede di presentazione sono in
www.fga.it.
CAMINEIRO
il bello della diretta
N
il Paese delle donne
Nell’ultimo rapporto Istat c’è la conferma
che dalle nostre parti circola a piede libero
un’immagine deformata delle donne. Ce lo
rivelano gli interstizi delle notizie quotidiane, le considerazioni banali (talvolta volgari) che sfociano nei luoghi comuni beceri e
vecchi. Ce lo sbatte in faccia la pubblicità
che spesso è la migliore cartina di tornasole della media del pensiero della gente. Questa moneta corrente è la vera diga che im-
pedisce ancora oggi l’affermazione delle
donne, la normalità delle donne, la dignità
delle donne. E che riempiano la Piazza di
Siena queste donne capaci di fare diversamente ciò che gli uomini fanno da secoli.
Quelle che, nello sport e nella scienza, dimostrano di raggiungere vette di eccellenza e quelle che fanno più fatica degli altri a
varcare le soglie dell’occupazione. Madri,
precarie, fragili, offese. «Mogli di», «figlie
di» eppure in grado del colpo di reni che
partorisce la pagina nuova di questo nostro
spicchio di storia che le disegnava come frequentatrici di ville importanti e pronte a
vendersi per un passaggio televisivo e per
la carriera facile. Nel manifesto di convocazione dell’incontro nazionale di Siena si
legge: «Vogliamo difendere noi stesse, il
nostro presente e il nostro futuro perché una
cosa è chiara: un Paese che deprime le donne è vecchio, senza vita, senza speranza».
E allora non è per le donne ma per questa
comunità vasta che si chiama Paese. La nota
in calce avverte, invita o rassicura che «l’incontro è aperto anche agli uomini».
donne d’Africa
Ma anche in Africa sempre più spesso sono
le donne a prendere la parola per urlare al
mondo che quel continente ha gli stessi diritti di tutte le terre del mondo. Sono le donne africane a gestire il microcredito e a dar
vita a cooperative di lavoro per creare opportunità di sviluppo. Sono donne a denunciare le guerre degli uomini e la fame dei
figli. Sempre più spesso le incontri come
valorose giornaliste pronte a segnalare violenze e soprusi. È nell’utero di queste donne che si nasconde il futuro, il riscatto e la
liberazione di un continente che paga il
prezzo più alto degli egoismi del nord del
mondo. Il Nobel della pace sarebbe il riconoscimento a questa lotta feriale. Lo chiediamo da anni. L’invito è a sottoscrivere la
richiesta (http://www.noppaw.org/). L’Africa si aiuta anche così.
25
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Tonio
Dell’Olio
essuna scienza sociale, nessuno
studio comparato degli eventi e
nessuna esplorazione al microscopio della storia, possono prevederne le evoluzioni, i cambiamenti, le virate improvvise e le
sorprese. A volte si tratta di drammi e tragedie e altre volte di squarci inattesi e imprevisti. Nessuno era in grado di intuire la
caduta del muro di Berlino nel 1989, né tantomeno gli attentati dell’11 settembre. Nessuno aveva intravisto il fremito di libertà,
vasto, diffuso e popolare, della sponda sud
del Mediterraneo né, per parlare del catino
di casa nostra, l’esito dei referendum del 12
giugno scorso. La storia conosce tratturi di
campagna e sentieri di montagna che non
sono segnati dalle carte topografiche più
dettagliate. Hanno percorsi carsici di cui
non sono consapevoli nemmeno gli stessi
protagonisti. È bello pensare che le rotte
della storia non sono decise nemmeno da
chi pensa di stare al timone della nave. Per
alcuni è il frutto della lotteria della casualità e per altri è l’azione discreta dello Spirito
che in punta di piedi si insinua nelle pieghe
degli eventi, nella trama dei giorni, nelle coscienze degli uomini e delle donne di ogni
tempo. È il sale della storia, il bello del vivere nel mezzo dei giorni, il bello della diretta. Il 9 luglio le donne torneranno in piazza per ricordarci l’appuntamento fissato con
la storia: «Se non ora quando?». Una domanda buona per ogni epoca. Per ogni giorno.
TERRE DI VETRO
lavoro e psiche
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Oliviero
Motta
26
i sono mestieri facili facili ed altri
dannatamente complicati. Ci sono
imprese che anche a naso riconosci fattibili ed altre sulle quali non
scommetteresti un fiorino. Mission impossible o giù di lì.
E Marco, quando si alza per illustrare i risultati del progetto, pare impersonare perfettamente questo secondo genere di missioni: il collare rigido e il passo leggermente zoppicante non lasciano scampo. Manca il gesso al braccio e lo zigomo tumefatto, ma il colpo d’occhio è proprio quello
fantozziano di chi è alle prese con vicende
troppo grosse e complicate per uscirne interi.
Marco, in realtà, coordina un gruppo di
educatori – tecnicamente coach – che si
occupano di integrazione sociale e inserimento lavorativo di pazienti psichiatrici
gravi. Ha avuto un recente incidente in
bicicletta, ma questo non c’entra. Oggi sta
illustrando i risultati di «Lavoro e psiche»,
un progetto promosso e finanziato dalla
Fondazione Cariplo per sperimentare nuovi strumenti per la ricerca e il mantenimento di opportunità occupazionali nel settore della salute mentale. 150 pazienti in cura
nei Centri psico-sociali della Lombardia,
selezionati tra coloro che hanno un disturbo psichico serio (schizofrenia o disturbi
di personalità gravi).
Il coach fa da operatore specializzato e al
contempo da collante di una fitta rete territoriale: dipartimenti di salute mentale,
amministrazioni comunali, famiglie dei
pazienti, cooperative sociali, imprese.
Insomma, un lavoro complesso che passa
attraverso la collaborazione con le equipe
curanti, la costruzione di un progetto personalizzato, l’affiancamento costante della persona fragile, la ricerca di opportunità lavorative, ma anche il sostegno e la consulenza alle imprese (sociali e non) che
accettano di offrire un lavoro a questa par-
C
ticolare categoria di persone. Naturalmente è proprio questo il punto più complesso
della vicenda: trovare e motivare aziende
disponibili all’ingaggio di persone con problemi di salute mentale. Intuibili i tanti
scogli da affrontare: la crisi economica e
occupazionale, la diffidenza e talvolta la
paura nei confronti dei pazienti psichiatrici, lo stigma sociale.
Una vera corsa ad ostacoli.
Forse aveva in mente proprio questo chi
ha scelto il nome del progetto, con quel
«lavoro» al posto di «amore». Da un lato il
titolo segnala la difficoltà dell’impresa: la
persona da inserire nel mondo del lavoro,
proprio come la Psiche del racconto di
Apuleio, deve sottoporsi a molteplici prove per arrivare al traguardo: suddividere
un mucchio di granaglie con diverse dimensioni in tanti mucchietti uguali, raccogliere la lana d’oro di un gruppo di pecore aggressive, raccogliere dell’acqua da
una sorgente che si trova nel mezzo di una
cima tutta liscia e a strapiombo. Dall’altro, indica che senza un di più di disponibilità, di responsabilità sociale (di «amore»?), l’impresa non può riuscire: Psiche,
infatti, disperata e sull’orlo della rinuncia
alla vita, supera le prove perché aiutata da
un gruppo di formiche, da una magica canna verde, da un’aquila e infine da Giove in
persona.
Qui, senza l’aiuto dell’Olimpo, Marco e i
suoi coach hanno cominciato a collocare
trenta persone in tirocini tra aziende e
imprese sociali. Due di questi si sono tradotti in assunzioni.
Il bicchiere, com’è noto, può essere mezzo
pieno o mezzo vuoto. Ma manca ancora
un anno e mezzo alla fine del progetto.
Viene in mente il Bersani di Crozza: «Uè
ragazzi, ma siam pazzi? Siam mica qui ad
asciugare gli scogli!».
Non proprio, ma quasi.
Mission (im)possible.
EVOLUZIONE
può essere la moralità
un prodotto
di selezione naturale?
Pietro Greco
ROCCA 15 LUGLIO 2011
giornalista scientifico, scrittore
Fondazione Idis-Città della Scienza, condirettore Scienzainrete
Giannino Piana
docente di Etica
Università degli Studi di Torino
27
EVOLUZIONE
il lubrificante
della vita sociale
Pietro
Greco
ontrordine: l’evoluzione è altruista
e in natura spesso vincono i buoni.
I titoli degli articoli con cui il New
York Times e alcuni giornali italiani
hanno dato notizia di recenti ricerche sull’origine biologica dell’altruismo sono efficaci, ma un po’ fuorvianti. Non
perché sia sbagliato affermare che in natura
c’è largo spazio per la cooperazione e persino per la bontà, ma perché questa presenza
non costituisce una novità. Né tantomeno
un cambio di paradigma.
C
altruismo animale
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Da tempo infatti sappiamo che gli animali
cooperano. Dalla leonessa, che rinuncia a
gran parte del pranzo che da sola e con gran
fatica si è procurata, lasciando che l’intero
branco partecipi al pasto gratis; al vampiro
che non esita a rigurgitare nella bocca di un
amico, meno abile o più sfortunato, parte
del sangue che ha appena finito di suggere a
un grosso mammifero addormentato. E che
dire dei soldati delle Camponotus saunderi,
una specie tropicale di formiche, che non
esitano a sacrificare se stesse, in un suicidio
orribile, per esplosione autoindotta dell’addome, pur di liberare una sostanza appiccicosa contro il nemico aggressore e salvare
l’intera comunità.
Il repertorio di atti altruistici che si incontrano tra gli animali non termina certo qui.
Anzi è, per dirla con Helena Cronin, così ricco da risultare impressionante. Già, ma com’è possibile che l’evoluzione biologica, descritta come frutto della «lotta per la sopravvivenza» in una «natura rossa di sangue nei
denti e negli artigli», premi o, anche solo,
consenta non la normale sopraffazione dell’altro, ma lo straordinario sacrificio di sé?
Com’è possibile che il repertorio dell’altruismo animale abbia dimensioni, appunto,
impressionanti?
Per secoli l’altruismo è stato considerato un
carattere esclusivo dell’uomo. Frutto di quella moralità che lo distingue, per volontà di
Dio, dalla natura selvaggia. Per secoli l’altruismo è stato oggetto di studio di filosofi e
teologi. Ed è stato considerato un «problema intrattabile» per la scienza.
28
Ma nel 1859 Charles Darwin pubblica On
The Origins of Species by Means of Natural
Selection e nel 1871 pubblica The Descent of
Man, i due libri dove propone che l’uomo
non è una specie «altra», ma è una specie
tra le altre, evolutasi nel tempo a partire da
un antenato comune a tutti gli organismi
viventi.
E allora, gioca forza, l’origine della moralità
e l’esistenza dei comportamenti altruistici
sono diventati problemi (anche) biologici.
Se l’uomo è frutto dell’evoluzione, non può
anche la sua moralità essere un prodotto
della selezione naturale? E se la moralità
ha un fondamento biologico, non può essere un carattere condiviso con altre specie viventi? E se l’altruismo appartiene al
mondo animale, deve essere considerato
un prodotto adattativo o un’anomalia evolutiva?
Domande oltremodo insidiose verso la fine
del XIX secolo, epoca in cui le reazioni viscerali di opposizione o di adesione alla teoria di Darwin nascevano dalla sensazione che
l’evoluzionismo minasse alla base i fondamenti della morale e del contratto sociale,
come temevano i conservatori, o, al contrario fosse alla base della morale e del contratto sociale dell’economia competitiva governata dalla mano invisibile del mercato,
come andava proponendo il filosofo Herbert
Spencer.
la lotta per la sopravvivenza
Fu a causa di queste insidie politiche, cui
intendeva sottrarsi, che Charles Darwin
evitò di tuffarsi nel dibattito. Ma si limitò
a chiarire un punto: «Uso il termine lotta
per la sopravvivenza in un senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi». Il successo riproduttivo, che è il vero concetto fondante della teoria darwiniana di selezione naturale del più adatto, può essere raggiunto sia attraverso la violenza che attraverso
la cooperazione. Nella lotta per la sopravvivenza, così come la intendo io, sostiene
Darwin, tutto va bene, la forza bruta come
la collaborazione, purché assicuri un vantaggio riproduttivo. «Quando riflettiamo
la teoria della natura crudele
Thomas Henry Huxley, il «bulldog di
Darwin», l’infaticabile araldo dell’evoluzionismo, si rende conto che questi problemi sono, improvvisamente, diventati
non solo «trattabili», ma ineludibili per
la scienza. E sul finire del XIX secolo si
fa carico di rispondere alle domande che
sollevano. In natura, sostiene, non c’è
moralità. La natura è crudele. Peggio, è
indifferente. L’uomo, certo, è il frutto di
questa natura senza morale. Ma la moralità dell’uomo è un qualcosa di innaturale, una costruzione artificiale, un’invenzione. È la spada che egli ha forgiato per
uccidere la tigre e l’orso che sono dentro
di lui.
La soluzione proposta dal naturalista inglese colloca dunque i comportamenti morali
fuori dall’evoluzione biologica. Tuttavia non
spiega dove mai abbia origine la moralità
dell’uomo. E non spiega perché, nella natura, oltre al sangue dei denti e degli artigli, c’è
quel repertorio impressionante di atti altruistici che gli etologi vanno osservando e catalogando: i legami sessuali, tra maschi e
femmine, con quel rapporto d’amore che
quasi sempre induce l’uno a proteggere l’altra (e viceversa); i legami parentali, il rapporto di amore tra genitori e figli, che porta
mamma e papà fringuello a esporre se stessi
per salvare il nido; i legami di comunità, che
portano la leonessa a condividere col branco il frutto delle sue fatiche e le formiche
soldato a suicidarsi per il bene collettivo; i
legami di solidarietà, che inducono una femmina di scimpanzé a festeggiare il parto felice di un’amica o un vampiro a donare il sangue appena raccolto al suo vicino. E poi ci
sono, più inspiegabili di tutti, anche i rapporti di collaborazione tra organismi appartenenti a specie diverse: come quello simbiotico, che porta alcuni pesci a rifugiarsi
ROCCA 15 LUGLIO 2011
su questa lotta, possiamo consolarci con
la piena convinzione che nella natura la
guerra non è continua, che la paura è sconosciuta, che la morte è in genere assai
pronta, e che gli individui vigorosi, sani e
felici sono quelli che sopravvivono e si
moltiplicano».
Darwin non ha certo un’idea mitica della
natura. Egli sa che la natura è, certo «rossa
nei denti e negli artigli», ma che è anche luogo della «reciproca dipendenza degli esseri
viventi». Che in natura c’è pace e c’è crudeltà. C’è armonia e c’è catastrofe. Ma Darwin
sa anche che la valenza di queste parole è
profondamente informata dalla griglia morale con cui noi uomini siamo portati a leggere gli avvenimenti che accadono nel mondo che ci circonda.
Tuttavia, al di là di una certa ritrosia di Charles Darwin a entrare nel merito del dibattito, sono sul tappeto e attendono una
risposta i problemi aperti dalla sua proposta evoluzionista. Dove ha origine la moralità dell’uomo? La morale caratterizza i comportamenti anche di altre specie viventi? E,
se sì, è un carattere adattivo, emerso per selezione naturale?
29
EVOLUZIONE
fiduciosi tra i tentacoli urticanti delle attinie
donandole in cambio del cibo.
È facile spiegare la violenza e persino la
«guerra di tutti contro tutti» nell’ambito di
una dimensione, quella biologica, che è, per
dirla con Huxley, intrinsecamente «amorale» e che evolve grazie una «lotta per la sopravvivenza» dura, sistematica e inflessibile.
Indifferente alla sofferenza. Che non tollera
la debolezza. Che favorisce gli individui forti
e sani, gli individui vincenti. Che non esclude
alcun colpo. Perché nessun colpo è illecito.
insieme si vince
Meno agevole è spiegare la cooperazione, se
non interpretando la «lotta per la sopravvivenza» nel senso lato e metaforico proposto
da Darwin. Come fa Pëtr Kropotkin (v. Rocca n. 15/2006), noto al grande pubblico più
come ideologo dell’anarchia che come scienziato. In un libro, Il mutuo appoggio, pubblicato nel 1902.
Gli animali, sostiene Kropotkin, per sopravvivere non devono lottare tra di loro. Non in
prima istanza, almeno. Devono lottare contro un nemico ben più forte e attrezzato,
l’ambiente e le sue avversità.
Proprio perché hanno un grande nemico
comune, la cooperazione con il reciproco
aiuto e non la guerra è il rapporto usuale tra
gli animali.
Insieme si vince più facilmente che da soli.
Ed è per vincere le avversità dell’ambiente
che i castori cooperano per costruire una
diga.
È per fronteggiare un pericolo che incombe
su tutti, che i cavalli attaccati da un branco
di lupi non cercano la salvezza nella fuga
individuale ma nella difesa comune. È rinunciando alla «guerra hobbesiana» che le formiche e le termiti hanno ottenuto grandi
vantaggi.
Kropotkin, dunque, sostiene che il comportamento altruistico, che talvolta può spingersi «fino al sacrificio di sé per il bene comune»
è stato selezionato nel corso dell’evoluzione
perché più utile dei comportamenti egoistici
per sopravvivere nell’ambiente ostile.
gesti adattivi
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Tuttavia appellarsi a «un bene superiore» a
quello dell’individuo non è un’iniziativa che
possa essere facilmente accettata da tutti i
darwinisti. L’adattamento è il fondamento
della teoria dell’evoluzione biologica. Ma
l’adattamento, nell’ottica di molti darwinisti, altro non è che un vantaggio acquisito
da un individuo. E l’altruismo è l’esatto opposto di un vantaggio individuale. La formi30
ca che si suicida per salvare la comunità o
un uccello che lancia un grido d’allarme per
allertare il gruppo quando si avvede di un
pericolo, non sono esempi di vantaggi per
l’individuo. Non sono gesti adattativi. E così
una parte notevole dei darwinisti, all’inizio
del XX secolo, rigetta senza tentennamenti
il principio comunitario di Kropotkin. Anche se resta il problema: come si spiega, allora, il «sacrificio di sé per il bene comune»?
In molti studiosi, soprattutto ecologi, nasce
così l’esigenza di ripensare il principio dell’adattamento. Se, infatti, si rompe lo schema secondo cui l’adattamento è un vantaggio per l’individuo, o solo per l’individuo, e
si prende in considerazione l’ipotesi che
l’adattamento possa essere un vantaggio acquisito a un Doppelgänger, a un livello superiore (di famiglia, di gruppo, di popolazione, di specie), allora ogni comportamento
altruistico a livello individuale trova una
naturale spiegazione, perché si trasforma in
un vantaggio per la dimensione gerarchica
superiore. Il comportamento della formica
soldato che si suicida per salvare il formicaio è adattativo, perché reca un vantaggio alla
comunità. La ricerca del «bene comune» fino
al sacrificio di sé è, dunque, un frutto della
selezione naturale.
L’ipotesi di Kropotkin, tanto vituperata, trova infine una spiegazione adattiva. E infatti,
chiosa il biologo evoluzionista Stephen Jay
Gould, «Kropotkin is no crackpot», Kropotkin non è uno stupido.
La discussione, tuttavia, non si esaurisce.
Non tutti sono disposti ad ammettere che
c’è altruismo in natura. E che, addirittura,
l’altruismo sia adattativo, sia un vantaggio
evolutivo. Non tutti sono disposti ad ammettere che esista qualcosa come il «bene comune» in natura. L’altruismo, sostengono i
fautori della natura «amorale», è una contraddizione in termini, dal punto di vista
dell’adattamento.
il gene egoista
Certo la selezione naturale è una gara per
egoisti. Ma l’egoismo premiato può non essere, necessariamente, individuale. Se il sacrificio di sé torna a vantaggio dei propri
familiari, allora l’altruismo dell’individuo
potrebbe essere una forma di egoismo. Scopo di un qualsiasi organismo vivente è riprodursi. Cioè trasmettere i propri caratteri
alle future generazioni. Ma i familiari di quell’organismo hanno i suoi medesimi caratteri genetici (o quasi). E allora, talvolta, sacrificarsi e anche morire per salvare due fratelsegue a pag. 35
R
COMPIE
C
C
ANNI
70
Caro lettore, cara lettrice,
chiediamo un po’ del tuo tempo per compilare il questionario che vedi e rispedirlo il prima possibile, comunque entro il
mese di luglio 2011.
Per noi è molto importante ascoltare il tuo
parere, sapere cosa ti piace o meno di Rocca e quali sono gli argomenti di cui preferiresti si parlasse. Sei pienamente soddisfatto/a o forse ti aspetti un contributo diverso
dalla tua rivista? Permettici di conoscere
come la pensi.
Il questionario è anonimo. Può essere spedito per posta, ma può anche essere richiesto, compilato e inviato per posta elettronica (vedi p. 34). Useremo i dati in forma aggregata e per fini statistici; saranno
un sostegno prezioso al nostro instancabile desiderio di orientare costantemente
Rocca verso la mente e il cuore dei suoi
lettori e delle sue lettrici. Ti aspettiamo.
e ti interpella
la Redazione
INCHIESTA
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Come hai conosciuto Rocca? (max 1 risposta)
dopo essere stato/a in Cittadella
dopo aver consultato il CD di Rocca
grazie ad amici
ho ricevuto una copia in omaggio
l’ho letta a scuola
l’ho vista nell’ambiente di lavoro
l’ho trovata in biblioteca o in un centro
tramite il sito web di Rocca
tramite abbonamento omaggio
altro (specificare)
Oltre a te, quante persone leggono o consultano
la tua copia di Rocca?
nessuna
una
due
tre
più di tre
2
1
2
3
4
5
3
1
2
3
4
5
Se acquisti il cd-rom di Rocca, quale uso ne fai prevalentemente?
lo consulto frequentemente
lo consulto raramente
lo archivio
lo cedo ad altri
altro (specificare)
4 Quali sono i motivi per cui leggi Rocca? (max 3 risposte)
1
2
3
4
5
6
7
corrisponde alle mie idee religiose-ecclesiali
mi è utile
mi aiuta ad acquisire senso critico
è una voce libera senza padroni
mi interessa il confronto con idee diverse dalle mie
ritrovo le mie idee socio-politiche
altro (specificare) ____________________________
______________________________________________
______________________________________________
____________________________________________________________________________________________
______________________________________________
31
ROCCA 15 LUGLIO 2011
1
5
Da quanti anni tu (o la tua famiglia) sei abbonato/a a
Rocca?
1 0-3 anni
2 4-10 anni
3 oltre 10 anni
6
Ti è capitato di far conoscere Rocca ad altre persone?
1 sì
7
Cosa hanno apprezzato della rivista? (Es.: temi, linguaggio, impostazione, grafica, ecc.). Se lo desideri puoi
allegare un foglio
____________________________________________
____________________________________________
____________________________________________
____________________________________________
____________________________________________
8
1
2
3
4
5
2 no (vai alla domanda n° 8)
Servizio postale: Rocca ti arriva
entro la data di copertina
in ritardo di 1-5 giorni
in ritardo di oltre 5 giorni
non sempre arriva
altro (specificare) ____________________________
____________________________________________
____________________________________________
____________________________________________
10
9
Rocca affronta tematiche di vario tipo: indica la frequenza con cui le leggi
regolarmente a volte
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
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17
18
19
20
21
22
23
Pensa ora agli autori che scrivono con continuità su Rocca. Indica con quale frequenza li leggi e se condividi il loro pensiero
leggo
regolarmente
ROCCA 15 LUGLIO 2011
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 32
mai
Violenza – Legalità – Mafie
Ecologia – Salute – Ambiente
Immigrazione – Emarginazione
Donna
Giovani
Famiglia – Coppia
Scuola e Università
Diritto – Giustizia – Carceri
Politica internazionale
Europa
Politica italiana
Economia e lavoro
Scienze– Etica – Bioetica
Tecnoscienze e società
Società – Costume
Mass media
Cultura – Religioni – Storia
Esperienze
Teologia
Bibbia
Spiritualità
Vita ecclesiale
Inserti e dibattiti
Umberto Allegretti
Ritanna Armeni
Claudio Cagnazzo
Roberta Carlini
Rosella De Leonibus
Fiorella Farinelli
Marco Gallizioli
Pietro Greco
Raniero La Valle
Ugo Leone
Giuseppe O. Longo
Alberto Maggi
Lidia Maggi
Romolo Menighetti
Carlo Molari
Arturo Paoli
Giannino Piana
Lilia Sebastiani
Rosanna Virgili
Giancarlo Zizola
Altri che scrivono meno frequentemente
a volte
condivido
mai
regolarmente
a volte
mai
Indica con quale frequenza leggi le rubriche
leggo
regolarmente a volte mai
1 Ci scrivono i lettori
2 Primi Piani Attualità
Anna Portoghese
3 Notizie dalla scienza
Giovanni Sabato
4 Vignette
5 Resistenza e pace
Raniero La Valle
6 Oltre la cronaca
Romolo Menighetti
7 Camineiro
Tonio Dell’Olio
8 Terre di vetro
Oliviero Motta
9 Lezione spezzata
Stefano Cazzato
12
Quali inserti del 2010/2011
hai gradito maggiormente? (max 3 risposte)
1 La notte del cattolicesimo italiano (n. 21/2011)
Giancarlo Zizola
2 Tecnoscienza: l’uomo artificiale (n. 8/2010)
Pietro Greco – Giuseppe O. Longo – Giannino Piana
3 Migrazioni: la frenesia del viaggio, motore del progresso (n. 23/2010)
Franco Prattico – Pietro Greco
4 L’uomo e gli animali non umani (nn. 10, 11 e 12/2010)
Enrico Alleva – Augusto Vitale – Pietro Greco –
Cristian Fuschetto – Carlo Molari – Valerio Pocar
Giannino Piana
5 Yemen: un popolo in lento cammino (nn. 16-17/ 2010)
Maurizio Salvi – Gino Bulla
6 Quale legge elettorale? (n. 22/2010 e nn. 1, 2, 3, 6/2011)
Autori Vari
7 Di chi è la mia morte? (n. 4/2011)
Pietro Greco – Giannino Piana
10 Pianeta coppia
Rosella De Leonibus
8 Nucleare sì, nucleare no (n. 8/2011)
Pietro Greco – Giannino Piana
11 I volti del disagio
Rosella De Leonibus
9 L’acqua c’è in abbondanza: perché tanta gente
muore di sete? (n. 9/2011)
Pietro Greco – Ugo Leone
12 Maestri del nostro tempo
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
13 Nuova Antologia
Giuseppe Moscati
Ilenia Beatrice Protopapa
14 Fatti e segni
Enrico Peyretti
15 Vizi & virtù
Filippo Gentiloni
16 Cinema
Paolo Vecchi
17 Teatro
Roberto Carusi
18 Radio e Televisione
Renzo Salvi
19 Arte – Mostre
Fotografia – Fumetti
M. Apa, M. De Luca, A. Pellegrino
20 Musica
E. Romani, A. Pellegrino
21 Siti Internet
Giovanni Ruggeri
22 Libri/Riviste
23 Rocca schede
Paesi e Organizzazioni
Carlo Timio
24 Fraternità
Luigina Morsolin
13
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Quali delle seguenti questioni, secondo te, costituiscono un grave problema? (max 3 risposte)
biogenetica
criminalità
corruzione e clientelismo
dipendenze
disagio giovanile
disoccupazione
giustizia
guerra
immigrazione
inquinamento ambientale
informazione
il futuro
la malattia
la tua vecchiaia
nucleare
povertà
secessione
tendenze autoritarie
violenza su donne e minori
altro (specificare) ____________________________
____________________________________________
____________________________________________
____________________________________________
33
ROCCA 15 LUGLIO 2011
11
14
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Se leggi uno o più quotidiani abitualmente, quali
sono?
Avvenire
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Se leggi altre riviste oltre a Rocca quali sono?
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6
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Se utilizzi internet per quali scopi lo usi? (max 3
risposte)
la posta elettronica
acquisire dati e informazioni
studiare e approfondire
leggere giornali e riviste
scaricare files (musica, film, libri, ecc.)
comunicare e partecipare in rete (Facebook, ecc.)
altro (specificare) ___________________________
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A parità di quota di abbonamento preferiresti leggere Rocca non più su carta, ma al computer?
1 sì
2 no
ROCCA 15 LUGLIO 2011
18
1
2
3
4
5
Qual è la tua fascia di età?
15-29
30-44
45-54
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oltre 65
19
1
2
3
4
20
Da quante persone è composta la tua famiglia o
comunità (tu compreso/a)?
tu solo/a
2
3-4
5 o più
Puoi indicare il tuo sesso:
1 maschio
21
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1
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2 femmina
Qual è il tuo titolo di studio?
licenza elementare
licenza media
qualifica professionale
diploma
laurea
corso post-laurea
altro (specificare) ______________________________
Sei:
studente
lavoratore dipendente a tempo determinato
lavoratore dipendente a tempo indeterminato
lavoratore in proprio
in cerca di occupazione
pensionato/a
altro (specificare) ______________________________
In quale regione d’Italia vivi?
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Hai ulteriori osservazioni o suggerimenti riguardo
la rivista da inviare alla redazione? (Se lo desideri
puoi allegare un foglio)
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Grazie, la tua collaborazione è gradita
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Il questionario può essere staccato dalla rivista, compilato e inviato in busta chiusa a Rocca, Via Ancajani n. 3 – Cittadella
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In alternativa il questionario può essere richiesto e spedito via internet tramite file in formato word: per la richiesta
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34
zione ingannevole di un egoismo saggio e
superiore, quasi immanente.
egoismo camuffato
Già, ma resta l’aiuto che molti animali portano ad altri animali che parenti non sono.
Come spiegarlo? Un tentativo di spiegazione completamente adattativo viene proposto, verso la metà degli anni ’80, da alcuni
studiosi, come Robert Trivers e Robert
Axelrod, esperti di teoria dei giochi. Quando
un animale corre in soccorso di un altro animale che non è un parente, non si tratta di
altruismo ma di «aiuto reciproco». In altri
termini è mero do ut des, aiuto oggi perché
mi aspetto di essere ricambiato quando sarò
in difficoltà.
L’aiuto reciproco è un gioco che favorisce
tutti gli individui partecipanti. Può essere
persino una manifestazione di arroganza.
Quindi è un gioco adattivo. O, se si vuole, è
il sostegno che si danno tra loro diversi e
irriducibili egoismi per restare in piedi.
Secondo Amotz Zahavi, padre della cosiddetta «teoria dell’handicap», in molti casi,
non si tratta neppure di «aiuto reciproco»,
ma di pura ed egoistica ostentazione delle
proprie capacità.
Come nel caso di quei maschi dominanti che,
quando sfidano il pericolo a vantaggio del
gruppo, in realtà lanciano messaggi sessuali: guardate, femmine, come sono coraggioso. Perché me lo posso permettere. Sono forte. Cioè sano. Sono, quindi, una buona scelta. I vantaggi riproduttivi di questo comportamento superano ampiamente, secondo
Amotz Zahavi, il rischio di esagerare e di
dover pagare uno scotto.
Le ipotesi dell’altruismo come egoismo camuffato trova il consenso di molti, autorevoli interpreti contemporanei del darwinismo.
ROCCA 15 LUGLIO 2011
li o otto cugini potrebbe essere vantaggioso
per la trasmissione di quei caratteri. I comportamenti altruistici a favore dei propri
familiari, sostengono a metà del XX secolo,
matematica alla mano, vari biologi, teorici
della «genetica di popolazione», come Ronald
A. Fisher, John Burdon Sanderson Haldane,
Sewall Wright, sono comportamenti adattivi. Sono selezione parentale (kin selection).
La selezione parentale soddisfa i darwinisti
(considerati) ortodossi più della teoria del
«bene comune». E, naturalmente, può spiegare molti comportamenti altruistici. Tuttavia lascia aperte due domande. Come fa un
animale a riconoscere i suoi cugini, cioè i
parenti che non sono propriamente stretti?
E come si spiega l’altruismo se il beneficiario non è un parente?
Alla prima domanda tentano di rispondere,
a partire dagli anni ’70, i padri fondatori della sociobiologia, una nuova disciplina che
cerca una spiegazione genetica e adattiva a
tutti i comportamenti animali. Secondo Edward Wilson e tutti i sociobiologi, la vera
unità di selezione nella teoria darwiniana
non è l’individuo (e men che meno un qualsiasi livello gerarchico superiore), bensì è il
gene. La selezione naturale non promuove
gli individui più adatti, ma i geni più adatti.
Nell’interpretazione che alcuni sociobiologi, come Richard Dawkins, di questa nuova
teoria adattiva, l’individuo non è che lo strumento inconsapevole utilizzato dal «gene
egoista» per sopravvivere e riprodursi. Quando un animale aiuta un suo parente, compie
un atto altruista dal punto di vista dell’individuo. Ma un atto perfettamente egoista dal
punto di vista del gene. E poiché il gene è la
vera unità di selezione, l’altruismo, dicono i
sociobiologi, non esiste. È, semplicemente,
egoismo camuffato. L’immagine della natura «amorale» è così salva. L’altruismo degli
individui è solo apparente. È la manifesta-
35
EVOLUZIONE
Che possono, così, riproporre la tesi, cara a
Thomas Huxley, della moralità come incidente della storia biologica e, quindi, fuori
dalla natura. Così George Williams, uno dei
più grandi teorici della biologia evolutiva di
fine Novecento: «Spiego la moralità come
una capacità accidentalmente prodotta, nella
sua sconfinata stupidità, da un processo biologico che normalmente è l’opposto dell’espressione di tale capacità».
La teoria del «gene egoista» e quella dell’«aiuto
reciproco» sembrano, dunque, appagare molti biologi. Helena Cronin giunge a dire, quindici o venti anni fa, che, con queste teorie, il
problema dell’altruismo è stato definitivamente risolto. E risolto in un quadro integralmente
e coerentemente adattativo.
la moralità prodotto dell’evoluzione
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Non tutti però sono d’accordo. Non lo sono
quei biologi che considerano le due teorie
incapaci di spiegare gli atti di altruismo tra
organismi di specie diverse. Soprattutto
quando non c’è simbiosi o parassitismo. Ma
si consuma in un gesto che non ha possibilità
alcuna di ricambio. Perché un delfino, come
spesso accade, dovrebbe salvare un uomo in
difficoltà? Perché un cane dovrebbe salvare
un bambino che neppure conosce?
Non sono in accordo con le teorie adattative
di spiegazione dell’altruismo soprattutto gli
etologi, che osservano ogni giorno quanto
immenso e variegato sia il repertorio di atti
di generosità in natura. E quanto difficile sia
ridurre questi atti a espressione di geni egoisti o di banale do ut des.
Secondo Frans de Waal, per esempio, autore dieci anni fa o giù di lì di un libro intitolato Naturalmente buoni, che Thomas Huxley
aveva platealmente torto. La moralità non è
affatto un accidente della storia biologica. E
non è neppure un’invenzione dell’uomo. Ma
un prodotto dell’evoluzione biologica. Appartiene, in varie forme e in diverso grado, a
molti animali. Alcuni dei quali compiono atti
autenticamente altruisti. O, per dirla proprio
con Huxley, «umanitari».
Ma, ancorché non sempre adattativa, la moralità è un prodotto dell’evoluzione biologica. In particolare è quel prodotto dell’evoluzione dei gruppi sociali che consente di contemperare gli interessi individuali (che esistono e si manifestano) e gli interessi collettivi
(che esistono e si manifestano) e di rendere,
quindi, più equilibrata la vita di gruppo.
La vita sociale d’altra parte ha un grande
valore adattativo, perché consente a tutti
gli individui di migliorare la capacità di trovare cibo e di difendersi dai nemici. Ma
un gruppo non si basa solo sulla coopera36
zione e lo scambio tra i suoi membri. È
attraversato anche da conflitti interni, tra
individui che hanno interessi diversi. Per
conservare l’integrità del gruppo e, insieme, la sua dinamica vitalità occorre che si
raggiunga un equilibrio tra gli interessi individuali e collettivi. Questo equilibrio può
riguardare il livello diadico: tra due individui che si scambiano aiuti o si riappacificano dopo una lite. Ma può riguardare
anche livelli di relazione superiore: come
la ricerca dell’interesse della comunità o
le riconciliazioni mediate e l’arbitrato nelle dispute. Nei gruppi di umani e, forse, di
altre specie può esserci l’esplicito apprezzamento dell’altruismo e l’incoraggiamento a contribuire alla qualità dell’ambiente
sociale.
I comportamenti altruistici e la moralità si
sarebbero quindi evoluti per rafforzare la vita
di gruppo (con tutti i vantaggi adattivi che
comporta per i singoli) e le dinamiche che la
rendono non solo possibile, ma anche vitale.
In quest’ottica, quindi, in natura non esistono le dimensioni astratte dell’«altruismo» o della «moralità», ma certo
esiste una gamma di comportamenti degli
animali, più consapevoli in alcune specie
meno in altre, che sono stati selezionati e si
sono affinati per migliorare la vita sociale.
Questa ipotesi sull’origine dell’altruismo, che
potremmo definire la «teoria del lubrificante della vita sociale distillato dall’evoluzione», non è, forse, la spiegazione definitiva
del comportamento morale. Ma consente di
rispondere a tre grandi domande.
Se l’uomo è frutto dell’evoluzione biologica,
non deve anche la sua moralità essere un
prodotto dell’evoluzione? La risposta è sì: la
moralità dell’uomo non è «fuori dalla natura», ma è un «prodotto di natura».
Se la moralità ha un fondamento biologico,
può essere condivisa con altre specie viventi? Sì, i comportamenti che noi uomini definiamo morali, non sono una nostra esclusiva. Anche se, nella nostra specie, sono particolarmente sofisticati.
Se l’altruismo appartiene al mondo animale, deve essere considerato un prodotto
adattativo o un’anomalia della selezione
naturale? L’altruismo non è adattativo. Tuttavia è un prodotto dell’evoluzione biologica. È stato selezionato quale utile lubrificante della vita sociale. Ciò è possibile
perché l’evoluzione biologica non è, solamente, adattativa. L’evoluzione biologica
è pluralista. La selezione naturale del più
adatto è il suo motore principale. Ma non
è il suo solo motore.
Pietro Greco
Giannino
Piana
a dove ha origine la moralità? È
appannaggio esclusivo degli uomini o è presente anche nel mondo
animale come prodotto del processo evolutivo o della selezione
naturale? In una parola, l’esperienza morale appartiene al mondo della «natura» o è una costruzione artificiale, dovuta ai
soli processi culturali umani? Sono questi,
in sintesi, gli interrogativi che emergono dall’interessante e aggiornato excursus di Pietro Greco sugli attuali esiti della ricerca scientifica a proposito del comportamento etico.
Etologia, sociobiologia e genetica sono chiamate in causa per interpretare (con risultati
non sempre omogenei) fenomeni complessi, persino contradditori, che si verificano nel
mondo animale e che hanno come epicentro la lotta per la sopravvivenza, la quale può
assumere la forma della violenza e della sopraffazione, ma può anche imboccare la strada della cooperazione e dell’altruismo, fino
all’estremo limite del sacrificio di sé.
Non intendiamo addentrarci nell’analisi dei
singoli dati fornitici da Greco, per quanto
importanti, ci limitiamo a sviluppare qui alcune riflessioni che ci aiutino a mettere in
luce, da un lato, le comuni radici del comportamento animale e di quello umano e a
evidenziare, dall’altro, le differenze (anche
marcate) che giustificano la specificità e l’originalità dell’umano, perciò il fatto che solo
in riferimento ad esso si possa parlare, in
senso proprio, di moralità.
D
le basi biologiche
del comportamento umano
La teoria evoluzionista darwiniana ha provocato una svolta radicale nella lettura del
comportamento umano, che viene da allora
sempre più visto in continuità con quello
animale, soggetto perciò a leggi e a dinamiche legate al mondo delle pulsioni istintuali
nel loro costante adattamento all’ambiente
circostante. L’etologia ha messo chiaramente in evidenza che anche nell’uomo come in
alcune specie animali – in particolare in quella dei primati – si danno comportamenti
derivanti da automatismi innati la cui causa
è la comune origine filogenetica e dai quali
deriva la omologia di una serie di modi di
atteggiarsi: dalla tendenza a delimitare il
proprio spazio alla definizione dello schema del nemico; dal rispetto della gerarchia
sociale alla identificazione delle situazioni
nelle quali si è indotti all’aggressione.
Non meno importanti, per una lettura in
senso evolutivo del comportamento umano,
sono poi il contributo della sociobiologia, che
ha fornito un apporto decisivo allo studio
sistematico delle basi biologiche del comportamento sociale, e, in tempi più recenti, l’apporto delle neuroscienze, le quali, penetrando in misura sempre più consistente negli
strati nascosti dell’organismo corporeo e
delle strutture del sé, sono giunte a identificare la mente con il sistema nervoso centrale, nonché a interpretare il pensiero come
l’esito di processi neuronali basati su reazioni biochimiche.
La conseguenza naturale di questa serie di
conoscenze (peraltro talora controverse e, in
ogni caso, non definitive) è la convinzione (del
tutto giustificata) che alla base del comportamento umano si danno – e posseggono una
considerevole consistenza – condizionamenti biologici di diversa natura, che influenzano grandemente la condotta morale. Il nesso
genetico tra uomo e animale spiega perché
l’uomo ha ereditato quasi tutto il sistema di
impulsi animali e perché tale sistema rappresenti una parte rilevante di quel dinamismo
generale da cui traggono origine gli atti umani. La comprensione del comportamento
umano non può dunque prescindere da una
puntuale conoscenza delle basi biologiche in
cui affonda le sue radici, e che sono riconducibili tanto alla filogenesi che all’ontogenesi.
Questo significa, in altre parole, che una corretta analisi del significato dell’agire umano
deve fare seriamente i conti con il gioco degli istinti e con la misurazione del loro influsso anche su quegli atti che si presentano
come specificamente appartenenti all’uomo.
Infatti – come bene rileva W. Korff – «le stesse strutture impulsive biopsichiche, sulle
quali il comportamento sociale dell’uomo è
basato e che come tali si mostrano già presso gli animali superiori viventi in gruppo,
predispongono sia la costruzione interiore
della personalità umana come anche le forme di socializzazione umana, e in questo
modo limitano il campo di estensione di ogni
possibile morale» (W. Korff, Norm und Sittlichkeit Untersuchungen zur Logik der normativen Vernunft, Mainz 1983, p. 78).
L’etica si trova pertanto dinnanzi a un ventaglio di nozioni che consentono di penetrare sempre più profondamente negli anfratti meno trasparenti dell’agire umano,
cogliendone i meccanismi soggiacenti e facendo soprattutto emergere alcune dinamiche nascoste, che hanno grande rilievo
nella modulazione delle scelte che l’uomo
viene operando.
37
ROCCA 15 LUGLIO 2011
“dentro” e “oltre” la natura?
EVOLUZIONE
oltre il determinismo biologico
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Ma gli interrogativi di Greco non si esauriscono qui. Non è infatti sufficiente ammettere la esistenza di un condizionamento biologico, per quanto altamente significativo,
della condotta umana; si tratta di qualcosa
di molto più rilevante: di chiedersi cioè se
sia possibile ricondurre la moralità a semplice prodotto del dato biologico o – come
già si è accennato – a risultante della selezione naturale. Il fatto che si diano nel mondo animale comportamenti altruistici, che
giungono, in alcuni casi fino al sacrificio di
sé, può far pensare, a una prima impressione, a tale possibilità. Ma, al di là delle diverse interpretazioni che di tali comportamenti possono essere date – da chi li considera
semplicemente un mezzo utile per sopravvivere nell’ambiente o per migliorare la vita
sociale fino a chi li giudica una forma di egoismo camuffato – si tratta, in ogni caso, di
modi di essere e di agire, dettati da un rigido
determinismo, che sembra escludere a priori qualsiasi riferimento a una forma di decisione soggettiva.
Ora la moralità non si risolve nel comportamento retto, che ne costituisce l’aspetto oggettivo, ma ha la sua più profonda radice –
quella che, in ultima analisi, la definisce –
nell’atteggiamento buono, la cui sede è la coscienza e la cui fonte sorgiva è la libertà. Ad
essere sottaciuta è infatti qui la differenza tra
il «fare», cioè il «comportamento» (behaviour)
che riguarda semplicemente gli aspetti esteriori della condotta, e l’«agire», cioè l’atteggiamento di fondo che rinvia necessariamente
al mondo interiore del soggetto, perciò alla
sfera delle intenzioni, delle abitudini acquisite e delle scelte personali. Eticità e libertà sono
grandezze direttamente proporzionali, nel
senso che si dà eticità soltanto laddove si dà
libertà, ma anche che il grado della eticità di
un’azione è legato al grado di libertà che in
essa è concretamente presente.
La ragione di fondo della riconduzione della moralità al solo dato biologico è, in definitiva, una forma di riduzionismo antropologico. Ciò che a tale interpretazione soggiace è infatti una concezione positivista della
realtà, che fa riferimento in senso esclusivo
al paradigma della verificabilità scientifica,
mettendo radicalmente tra parentesi qualsiasi forma di introspezione soggettiva, e non
riuscendo perciò a dare ragione della specificità dei fenomeni umani.
il peso della cultura e del linguaggio
Affermare la non riducibilità della moralità
ai dati forniti dalla ricerca scientifica non
significa certo negare l’importanza che tali
38
dati rivestono per una piena comprensione
dell’agire umano e per la valutazione del suo
significato etico. Le acquisizioni più recenti
delle scienze evolutive forniscono, a tale proposito, schemi interpretativi di grande rilevanza, utili non soltanto per indagare sui limiti della libertà e del suo esercizio, ma anche (e soprattutto) per definire il contesto
entro cui collocarsi per cogliere le potenzialità reali che l’uomo possiede e che trovano
espressione negli atti da lui emessi. Ciò che
tuttavia sfugge all’analisi scientifica, e che
non può essere fatto oggetto di «spiegazione» ma soltanto di «comprensione», è il fattore coscienziale, che è il luogo in cui si verifica una complessa messa in atto del giudizio morale attraverso il ricorso a elementi
che trascendono il semplice livello della conoscenza empirica.
Non è, d’altronde, paradossale che proprio
nel momento in cui giustamente si rifiuta,
ritenendola del tutto anacronistica, un’idea
di «legge naturale», identificata (come voleva il giusnaturalismo) con il dato fisico-biologico, si torni a interpretare il comportamento umano esclusivamente su queste
basi? La grande battaglia per emancipare la
condotta umana dalla «natura» legandola
strettamente alla «cultura», sembra qui radicalmente superata. Il ritorno alla «natura» come chiave interpretativa dei fenomeni umani, sia pure ricorrendo a conoscenze
scientifiche molto più puntuali e sofisticate
di quelle del passato, è forse una forma di
reazione a un riduzionismo culturale, incapace di dare ragione da solo dei processi che
si sviluppano nell’ambito dell’esperienza
umana. Ma non si può dimenticare che l’uomo è anche (e soprattutto) «cultura» e «linguaggio», e che sono proprio questi fattori a
determinarne la specificità e a caratterizzare l’originalità del suo agire.
Questo significa che l’evoluzione biologica
deve essere posta in stretta relazione con l’evoluzione culturale, la quale conferisce pienezza di forma umana all’agire della persona; e
che nell’interpretazione dei comportamenti
è, di conseguenza, necessario fare spazio a
un corretto equilibrio tra «natura» e «cultura», evitando l’oscillazione pendolare dall’uno
all’altro polo. Si tratta, in ultima analisi, di
non incorrere, da una parte, nella tentazione
di ricondurre tutto il comportamento umano all’evoluzione per selezione naturale; e di
non rinunciare, dall’altra, a considerare la rilevanza delle basi biologiche ed istintuali della condotta umana. I rischi di una lettura riduttiva sull’uno o sull’altro fronte hanno infatti come esito l’impossibilità di pervenire a
una effettiva comprensione dell’autentico significato etico dell’agire dell’uomo.
Giannino Piana
I VOLTI DEL DISAGIO
Rosella
De Leonibus
olitudini in rosa – oppure: quando
l’amore sfugge – oppure: senza amore.
«Sai, penso che le donne come me
si sono ormai quasi rassegnate alla
solitudine. Dopo tanti amori falliti,
dopo tante sconfitte e delusioni, viene voglia di mollare la presa e qualcosa dentro ti
dice: ormai non ci puoi sperare più! Poi però
rimane l’inquietudine, l’angoscia del tempo che passa, e queste riunioni delle single
il sabato sera... che tristezza, sempre a parlare di amori falliti, ogni tanto qualcuna se
ne esce con una nuova ricetta per conquistare un uomo, ed eccola di nuovo il sabato
dopo, col racconto dell’ennesimo incontro
andato male...».
Gloria, come Francesca, come Paola, come
tante altre, più sui quaranta che sui trenta,
con l’orologio biologico che pericolosamente si avvia a segnare le ultime battute della
fertilità: sono donne belle, colte, economicamente indipendenti, anche allegre, quando possono, e piacevolissime, piene di interessi, ma scoraggiate, con addosso una gran
dose di sofferenza, e una profonda sensazione di solitudine. Sono un po’ diverse,
anche nel 2000, le aspettative femminili rispetto a quelle maschili. La stabilità affettiva e la costruzione di un legame d’amore
che possa fondare una famiglia sono bisogni molto potenti, anche nelle donne di oggi,
più autonome e meno remissive, bisogni che
incontrano però ostacoli di ogni tipo, dall’eccesso di enfasi «culturale» sull’individualità rispetto al coinvolgersi nella relazione,
sull’indipendenza rispetto alla cooperazione e al dono, sul benessere dell’istante piuttosto che sull’impegno, fino all’idea delle
possibilità infinite che là fuori mi aspettano, fino alla permanenza di idee romantiche e illusioni sul partner ideale, che da
39
ROCCA 15 LUGLIO 2011
solitudini in rosa
S
I VOLTI DEL DISAGIO
qualche parte c’è, ma evidentemente si nasconde, il fellone...
Perché è così difficile amare, essere amate,
per queste splendide donne? La sofferenza
amorosa, l’abbandono, la disillusione, il fallimento sentimentale che diventa la regola,
si traducono in paura di amare, e poi nell’indisponibilità a dare e ricevere amore,
fino alla resa finale: non fa per me, bisogna
che mi rassegni a star sola… Le vicende psico-affettive dell’infanzia arrivano al capolinea, producendo il risultato di consegnare
queste vite alla solitudine.
dove l’amore si arena
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Il modo di amare, e gli ostacoli all’amore,
sono legati alla nostra storia personale, attraverso una ripetizione che spesso genera,
quando se ne prende consapevolezza, un
senso di evidenza che ha dell’incredibile.
Sono le trappole nelle quali l’amore si imprigiona.
Sentirsi povera e bisognosa: si resta nella
posizione di chi chiede e anzi pretende aiuto, comprensione, empatia, ma poi non si è
disponibili alla reciprocità, e invisibilmente ci si defila appena il partner si trova a
sua volta ad aver bisogno di comprensione,
pazienza, aiuto.
Essere amati «a prescindere»: si vive nella
nostalgia di quella madre buona che forse
non abbiamo mai avuto, o nella illusione
di ricreare quel rapporto da cui non possiamo svincolarci, ma che vogliamo solo ripetere all’infinito, di amore in amore, senza
mai trovarlo fino in fondo, perché nessun
uomo sarà mai nostra madre...
Cercasi principe azzurro: aspetto l’incontro
che mi redime da antiche sofferenze, che
mi libera da storiche prigionie, l’incontro
che sveglia i sensi addormentati, ed ecco la
lunga attesa passiva, il sogno e l’idealizzazione di questo «altro» che arriva a salvarci
da morte certa, che si sacrifica per noi, qualcuno che invece è molto attivo e coraggioso e generoso, ma lo è come risultato di una
proiezione massiccia di parti di noi sulla
sua normalissima persona. E quando le
proiezioni cadono, allora lo specchio magico si rompe e il principe, ridiventato ranocchio, può solo finire nello stagno, mentre la principessa gli gira le spalle, delusa e
sdegnata.
Ritrovare la metà perduta: si cerca quell’uomo che sembra proprio fatto su misura, e si
attende questo incontro fatale, dopo di che
40
si immagina che tutto sia compiuto. L’attesa
passiva impedisce di crescere e mettere in
discussione le proprie aspettative illusorie,
e si immagina che l’amore dipenda dal fato,
complice o rio, che ci farà incontrare questo
predestinato, o ne allontanerà i passi per
sempre. Intanto molte creature reali e umanamente imperfette attraversano la nostra
vita, ma noi abbiamo occhi solo per il modello che la nostra mente ha definito e configurato. Non sapremo mai riconoscere
l’amore se si veste in un altro modo o si presenta con un altro volto.
Restare nella dipendenza affettiva: dove si
ama con una fame insaziabile, alla ricerca
di una fusione totale col partner, che, più
che amato, finirà per sentirsi divorato. C’è
un vuoto di affetti e di senso che solo l’amore
sembra poter colmare, ma fatalmente l’oggetto d’amore sfuggirà dall’essere fagocitato, oppure verrà distrutto e reso inutilizzabile, se l’atto predatorio dovesse andare ad
effetto.
Copia-incollare le ferite emotive dei propri
genitori: la figlia di una donna che ha avuto
un marito distratto e poco presente, rischia
di trovare sul suo cammino uomini poco
disponibili, da ciascuno dei quali cercherà
di ottenere ciò che a lei, ma soprattutto a
sua madre, è mancato. Ovviamente senza
successo, accumulando di volta in volta
sempre più dolore e disillusione, fino al cinismo o alla rassegnazione, fino a quella
sorta di godimento masochistico che si genera nella ripetizione della sofferenza, dove
un po’ di controllo lo posso finalmente praticare, e posso perfino illudermi, stavolta,
di non esserne più vittima.
Mantenere il controllo: il controllo degli stati d’animo, propri e altrui, è la negazione
dell’imprevedibilità insita nelle relazioni
intime. Solo chi si abbandona al flusso della vita può donarsi senza la certezza che l’altro la ricambi esattamente e puntualmente. Rischiare la non simultaneità e lo sbilanciamento, la temporanea unilateralità
dell’offerta d’amore, l’investimento senza
certezza di guadagno, è far credito all’altro
senza garanzie e senza passare subito alla
riscossione.
Lasciare aperta la via di fuga: il rapporto sentimentale viene vissuto in modo claustrofobico, come una sorta di prigione, nella
quale ci si sente soffocare ed annullare.
Appena subentra un assestamento sulla
quotidianità, nasce un fastidio, un’ansia, e
le abitudini dell’altro, la sua umanità più
un confine stabile e permeabile
I legami affettivi dell’infanzia sono la formula e l’allenamento nel quale impariamo
cosa è e come funziona l’amore. Sono i primi legami affettivi, quelli che stabiliamo con
il caregiver, prevalentemente la figura materna, che danno forma alla nostra capacità di amare. Fin dal secondo mese di vita
un bambino è in grado di percepire i diversi stili di accudimento, ed adattarsi ad essi,
conservandone la formula dentro di sé.
Nulla di tutto questo è però immutabile,
afferma Boris Cyrulnik, uno dei maggiori
esperti della guarigione delle vecchie ferite. Già nell’adolescenza, con le prime esperienze amorose, si può scrivere una storia
diversa, e imparare ad amare attraverso
l’esperienza dell’amore, gioiosa o sofferta
che sia. E imparare vuol dire continuare a
mettersi in gioco, provare ancora, aprire la
porta e uscire nel mondo. È mettere in gioco il confine dell’io, la pelle psichica che ci
separa e ci connette agli altri, interiorizzarlo come qualcosa che ci appartiene e ci fa
da filtro rispetto alle esperienze, qualcosa
che ci garantisce un senso stabile di noi stessi nel tempo, la certezza della nostra unicità ed integrità anche quando mettiamo la
nostra persona sullo sfondo per avventurarci alla scoperta dell’altro. Alla fine entrerà
in campo anche la casualità, ma starà a noi
essere presenti e disponibili, con gli occhi
ben aperti e il cuore accessibile. Sarà la nostra personale motivazione, e non l’alchimia magica tra noi due, a garantirci una
buona relazione.
Se riusciamo a vedere gli altri separati da
noi, accetteremo l’intollerabile umanità che
l’altro manifesta, riusciremo a vedere le
concrete e reali possibilità che esistono nelle
relazioni anziché continuare a proiettare su
di esse gli affari incompiuti del nostro passato. Usciremo così dal gioco perverso di
sovrapporre all’immagine reale dell’altro
una nostra fantasia o un nostro bisogno, che
lo trasformerebbe inevitabilmente in una
nostra proprietà, in un oggetto parziale che
risponde ad una nostra esigenza. Rinunceremo a controllare i comportamenti e i pensieri del partner, per riconoscerne la reale
separatezza, e non viverlo più come una
protesi che deve gratificarci. Usciremo dall’ancorarci al passato e dalla compulsione
a scegliere persone pericolosamente simili
a quell’altro che ci ha fatto male o da cui
non ci siamo ancora svincolati. La consapevolezza delle cose che ci sono mancate e
l’elaborazione di questo lutto sono la strada che ci porta fuori dal tunnel.
Gloria, Francesca, Paola e tante altre splendide donne stanno cercando di dar valore
alla storia reale che possono creare insieme a questo uomo reale, stanno permettendosi di superare il cerchio malefico di idealizzazione iniziale e successiva delusione
che, inevitabilmente, le porterebbe a cambiare spesso partner o, delusione dopo delusione, ad una rassegnata solitudine.
Rosella De Leonibus
della stessa Autrice
PSICOLOGIA
DEL
QUOTIDIANO
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COSE
DA GRANDI
nodi e snodi
dall’adolescenza
all’età adulta
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41
ROCCA 15 LUGLIO 2011
basica, diventa insopportabile, fino a che
ci si comporta in modo così pesante da indurlo a rompere il legame. I difetti e le caratteristiche dell’altro vengono vissuti come
un sopruso e, invece di negoziare le quote
di potere, si avanzano dubbi sul coinvolgimento affettivo, logorando la relazione.
Svicolare dall’intimità: diventare intimi comporta un certo livello di esposizione emozionale, ed è necessario accettare il limite
di una unione mai completa, dove il livello
di intimità sarà abbastanza alto da esporre
la aree più vulnerabili, ma mai abbastanza
da coprire e illuminare ogni angolo di solitudine e di distanza.
Sfuggire alla sofferenza della crisi: ogni legame profondo inevitabilmente ci espone al
dolore, neanche l’amore più bello e puro ci
risparmia amarezze, non foss’altro la pena
della trasformazione a cui ogni rapporto
vivo deve assoggettarsi per non pietrificarsi e morire. Rimescolare le carte del rapporto, mobilizzare i ruoli tra vincitore e vinto, tra chi dà e chi riceve, chi agisce e chi
subisce, e rimettere ogni volta in gioco la
formula della relazione in una trasformazione alchemica, mentre rigenera la vitalità di ogni rapporto, chiede energia, flessibilità del proprio confine personale e alta
capacità di adattamento.
Mantenersi alla larga dal conflitto: c’è una
quota di tensione che esiste comunque, nel
gioco eterno tra intimità e differenziazione,
tra l’appartenere e l’essere unici, nel gioco
dialettico tra due soggetti che, proprio in
quanto restano due, possono alimentare
l’amore, dove l’incontrarsi si gioca al prezzo
di quotidiani confronti, talvolta barriere,
durezze e chiusure da rimettere in movimento attraverso una sana dose di conflitti.
In quale di queste trappole è bloccata quella
di noi che dispera orami di trovare l’amore?
ISRAELE
l’intreccio politico-religioso del f
Marco
Gallizioli
S
e il fondamentalismo è una delle linee più in voga dell’abito religioso
contemporaneo, è chiaro che anche
l’ebraismo ne venga interessato, soprattutto per l’influenza di alcuni
movimenti della destra religiosa sionista. È altresì evidente, poi, che la seduzione fondamentalista e conservatrice della
religiosità contemporanea contribuisce a
riattivare, in Israele, le pulsazioni del nervo scoperto politico, che, da decenni, complica la convivenza tra ebrei e palestinesi.
insegnamento interrogante
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Il dibattito tra un metodo più rigido e uno
più morbido di interpretare la Torà, ossia
l’insieme del corpus rivelato dell’ebraismo,
era già in atto ai tempi di Gesù, quando si
contrapponevano le scuole di Rabbi Shammaj e di Rabbi Hillel il Vecchio (1), la prima più conservatrice e rigida, la seconda
più aperta e tollerante. Tuttavia, ciò che
ha salvato per lungo tempo l’ebraismo da
interpretazioni fondamentalistiche è l’idea
di fondo che la Torà, per essere davvero
compresa, vada continuamente studiata ed
interrogata, come ricorda un celebre racconto che vede per protagonisti il maestro
Hillel e un pagano. Il «Va’ e studia» che
Rabbi Hillel avrebbe detto al pagano, quando questi, recatosi presso di lui, lo aveva
provocato affermando che si sarebbe convertito all’ebraismo se Hillel gli avesse saputo spiegare l’essenza di questa religione
nel tempo in cui il pagano fosse riuscito a
mantenersi in piedi su una sola gamba, è
il vero antibiotico che dovrebbe impedire
all’ebraismo di chiudersi in un asfittico e
autoreferenziale fondamentalismo (2). Se,
come sostiene Hillel il «non fare agli altri
quello che non vorresti sia fatto a te» è, in
nuce, tutta la Torà, il «Va’ e studia» rappresenta il metodo attraverso cui questo
insegnamento può essere messo in atto, la
via, cioè, del pensiero interrogante, capace di problematizzare perché sospinge lo
sguardo più in profondità e, di fatto, rende impossibile la chiusura fondamentalista. Con la modernità, tuttavia, anche all’interno dell’ebraismo si sono determinate frange di pensiero dai toni più scuri e
42
intransigenti, quasi sempre legati alla visione sionista, che hanno messo tra parentesi l’insegnamento interrogante di Hillel
il Vecchio.
il rischio delle critiche al sionismo
Detto ciò, però, ci troviamo di fronte ad
un problema alquanto complesso, dal momento che criticare il sionismo è operazione sempre delicata e non priva di rischi;
un problema davanti al quale è bene, in
perfetto stile ebraico, compiere un’indispensabile digressione. L’accusa di «antigiudaismo» e «antisemitismo» che questa
analisi critica può richiamare su di sé è
sempre in agguato e, in alcuni casi, a ragion veduta, se con «antigiudaismo» intendiamo l’avversione all’ebraismo in quanto
religione storicamente data e, invece, con
«antisemitismo» un atteggiamento di inaccettabile pregiudizio di stampo razzistico.
È infatti pregiudiziale considerare il sionismo tout court come un’ideologia fondamentalista a sfondo religioso, ancorché
si sia o meno d’accordo con le linee guida
di un movimento che crede nella necessità di un ritorno alla terra promessa e, conseguentemente, della creazione di uno stato indipendente per gli ebrei. In primo luogo, con Piero Stefani (3), occorre osservare che il sionismo nasce come una sorta di
messianismo laico, nel clima ottocentesco
dei nazionalismi europei e come conseguenza dell’ideologia libertaria ed egualitaria che nel XIX secolo comincia a diffondersi. In questo periodo, in alcuni stati
europei e negli Usa, gli ebrei escono da una
plurisecolare condizione di «diversità» giuridica, sociale e religiosa, entrando lentamente, ma inesorabilmente a far parte del
tessuto organico della società libera e democratica.
Davanti a questo fenomeno, la cultura
ebraica si orienta verso tre differenti direzioni: da un lato, vi è chi ritiene che occorra innovare il corpus tradizionale religioso affinché l’ebraismo possa uniformarsi
alla contemporaneità, dando così origine
al movimento riformista; dall’altro, vi è chi
pensa addirittura alla necessità di un’assimilazione che comporti conversioni a li-
oso del fondamentalismo ebraico
una nuova legge dello Shabbath
Nel 1977, quando l’ala nazionalista e ultraconservatrice dell’Agudat Israel diviene
determinante per l’elezione a primo ministro di Begin del partito del Likud, i membri del gruppo non chiedono poltrone, ma
pretendono alcune modifiche legislative
capaci di incidere in senso ortodosso sulla
vita degli individui e di Israele nel suo complesso. Reclamano, così, una nuova la legge dello Shabbath, per vincolare l’osservanza del sabato non solo in ambito pubblico,
ma anche in quello privato, vietando l’apertura di cinema, teatri, centri sportivi, finanche giungendo a proibire le attività di
atterraggio e di decollo dagli aeroporti
nazionali alla compagnia di bandiera El
Al. Le richieste legislative proseguono con
l’approvazione della legge del kashruth che
obbliga gli hotel ad assumere degli ispettori che sorveglino la preparazione del
cibo, affinché avvenga secondo le regole
della purità; o con la nuova legislazione
matrimoniale, che conferisce solo ai rabbini il potere di celebrare matrimonio,
impedendo di fatto che due persone appartenenti a differenti confessioni religiose
possano regolarmente sposarsi; o, ancora,
con la legge sulla regolamentazione del
rientro in patria degli ebrei, secondo la
quale, per ottenere la cittadinanza israeliana, non è più sufficiente dimostrare di
essere ebrei, ma occorre poter esibire un
attestato di ortodossia, ricevibile solo dopo
a un colloquio circa la propria «condizione ebraica», e, in base alla quale, nessun
rabbino riformato può officiare il culto
entro i confini dello stato di Israele (6).
la rigiudaizzazione
Lentamente, così, si è fatta strada in Israele
e in tutto il mondo ebraico una maniera di
pensare la propria fede dai caratteri fondamentalistici, che coincide con un neomessianismo, di cui il sionismo è solo «un’ideologia superficiale, nutrita da forze più profonde il cui scopo è la ricostruzione del
Regno di Dio nella terra di Israele» (7).
Dentro questa cornice, ha trovato spazio
anche il movimento dei coloni, composto
da israeliani che, attraverso la politica degli insediamenti finanziati, perlomeno all’inizio, dalle casse dello Stato e con la protezione delle forze armate, si sono insediati
ROCCA 15 LUGLIO 2011
vello religioso o, quantomeno, un maggiore mescolamento con i cristiani, attraverso, ad esempio, l’incentivazione dei matrimoni misti; e, infine, occupando una posizione intermedia, vi è chi si preoccupa di
ridefinire un’identità collettiva ebraica. Costoro ricercano una modalità di essere
ebrei che sappia fare i conti con la nuova
condizione civica e sociale e finiscono con
il generare un «ripensamento di sé come
gruppo» da cui nascerà il sionismo (4), sotto forma di movimento il cui scopo diviene quello di restituire una terra ad un popolo troppo a lungo errante. In ambito cristiano, e particolarmente cattolico, tuttavia, si genera ben presto un pensiero «antisionista» su basi decisamente pregiudizali
e pseudo-teologiche, di cui, sul finire dell’Ottocento, si farà portavoce la «Civiltà
cattolica», organo ufficiale dei Gesuiti. I
cardini dell’avversione al sionismo ruotano intorno alla questione dei luoghi santi
e della colpa relativa all’accusa di deicidio,
con la relativa condanna alla dispersione
del popolo ebraico. Per il pensiero cattolico, infatti, era valida la cosiddetta teoria
della sostituzione, in base alla quale la Chiesa viene a rappresentare il nuovo Israele, e,
in conseguenza della quale, Gerusalemme,
unitamente a tutti i luoghi santi, non può
più essere rivendicata come terra degli
ebrei. Inoltre, il ritorno alla terra promessa
degli Ebrei viene visto in conflitto con la
retorica antigiudaica secondo la quale Dio
avrebbe punito gli ebrei per non aver accettato il vero Messia con la distruzione del
tempio e con la diaspora eterna. È, quindi,
anche per difendersi da tali pesantissime
accuse che, lentamente, nel corso del Novecento si genera un pensiero religioso sionista, all’interno del quale assumerà sempre più rilievo la matrice di tipo fondamentalista, la quale finirà con il distanziarsi e
con il criticare quel sionismo socialdemocratico e laico che, in qualche modo, aveva
fondato lo stato di Israele all’indomani della Seconda guerra mondiale (5).
43
anche nei territori occupati, senza aspettare il pronunciamento internazionale e
minando alle fondamenta i tentativi di costruire una convivenza pacifica con i palestinesi. In particolare, negli anni Ottanta
alcuni esponenti di punta del movimento
sionista Gush Emunim (Fronte dei credenti) si sono compromessi con il terrorismo
antipalestinese, sposando sempre più marcatamente una linea antidialogica, il cui
scopo è quello della rigiudaizzazione di
Israele, liberandolo anche da quel sionismo laico e democratico, a loro giudizio,
molle ed eretico grazie a cui era nato lo
Stato. Tale rigiudaizzazione doveva avvenire anche attraverso la politica degli insediamenti forzati e i coloni vennero presentati alla società israeliana come dei
nuovi pionieri, coraggiosi e puri, in grado
di combattere contro il rischio della secolarizzazione di Israele e del suo scivolamento nelle spire di un velenoso materialismo consumistico. Il gruppo dei coloni
intransigenti è cresciuto fino a raggiungere le 120.000 unità, una cifra cioè, così
considerevole da non poter essere ignorata da alcun governo israeliano, per quanto
moderato. A mano a mano che l’esercito
dei coloni cresceva, è aumentato anche il
numero degli insediamenti realizzati, ma
non autorizzati dallo Stato, voluti da gruppi religiosi ultra-ordotossi e fondamentalisti, per i quali lo Stato di Israele dovrebbe estendersi ben oltre gli attuali confini
geo-politici, recuperando, così, le dimensioni bibliche. Tuttavia, stabilire con precisione quali siano i confini del Grande
Israele, secondo i parametri biblici, è operazione complessa, dal momento che, in
diversi punti della Bibbia ebraica si fa ridello stesso Autore ferimento a estensioni differenti, come nel
libro della Genesi (cap. 15, 18) o in quello
del Deuteronomio (cap.1, 7-8 e 11, 24), o,
LA RELIGIONE
FAI DA TE
ancora, in quello di Ezechiele (47, 15-20).
il fascino
Ma queste differenze non spaventano la
del sacro
retorica lineare del fondamentalismo: prinel postmoderno
ma della guerra dei Sei giorni, del 1967, il
pp. 112 - i 13,00
rabbino conservatore Kook, in un celebre
discorso, aveva rivendicato con toni enfa(vedi Indice
tici il diritto della bandiera di Israele a
in RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) sventolare su Hebron, Sichem e Gerico,
con parole che non lasciavano spazio a
per i lettori di Rocca nessun dialogo e che sono ancor oggi di
i 10,00 anziché
riferimento per il pensiero ultra-fondai 13,00
mentalista: «(...) Tutta la Transgiordania è
spedizione compresa nostra. Ogni pollice, ogni striscia di terreno (...) appartiene alla terra di Israele. Abrichiedere a
biamo il diritto di cederne anche un solo
Rocca - Cittadella millimetro?» (8). La guerra dei sei giorni
06081 Assisi
ebbe come obiettivo la conquista di tutti i
e-mail
[email protected] territori che il rabbino Kook aveva indica-
ROCCA 15 LUGLIO 2011
ISRAELE
44
to, mettendo in luce la nuova questione
centrale per i gruppi ultra-ortodossi e fondamentalisiti, ossia quella della riconquista di tutta la Terra promessa, del Erez Israel, del Grande Israele.
troppi nodi irrisolti
Il sionismo belligerante, fondamentalista
e ultra-conservatore si scontra così con una
visione più laica e riformista, secondo la
quale, se l’idea di una patria per il popolo
ebraico è irrinunciabile, è altresì vero che
occorre trovare una soluzione pacifica allo
stanziamento nella stessa area di un altro
popolo, quello palestinese, ugualmente titolare del diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione. Il discorso sul fondamentalismo, quindi, si tinge di altre sfumature in una zona nella quale troppi sono
i nodi politici irrisolti, finendo col fornire
alibi religiosi a chi, da una parte e dall’altra, ritiene il dialogo come una debolezza
da rifiutare o, peggio, come una sorta di
abiura alla verità. E, di fatto, il novembre
1995 tale visione ha legittimato Yigal Amir,
che faceva parte del gruppo estremista
«Eyal», nutrito dell’ideologia Kookiana e
accecato dal furore letteralista del fondamentalismo, ad uccidere l’allora primo
ministro Rabin. Amir ha finito con lo spiegare il suo gesto chiamando in causa Dio,
che gli avrebbe assegnato tale orribile compito. Ancora una volta, se mai fosse necessario sottolinearlo, appare evidente come
un certo fondamentalismo si senta in diritto a parlare per Dio, un dio dichiarato
onnipotente, ma che si rivela meschinamente piccolo e troppo, davvero troppo,
compromesso con gli egoismi umani.
Marco Gallizioli
Note
(1) A. Degrâces, Il giudaismo e la lettura religiosa della storia del popolo ebraico, in F. Lenoir-Y.
T. Masquelier (a cura di), La Religione, vol. I, p.
438.
(2) P. De Benedetti, Introduzione al giudaismo,
Morcelliana, Brescia 1999.
(3) P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea,
Laterza, Roma-Bari 2004, p. 208.
(4) Ib., p. 208.
(5) L. Ozzano, Fondamentalismo e democrazia.
La destra religiosa alla conquista della sfera pubblica in India, Israele e Turchia, Il Mulino, Bologna 2009.
(6) G. Kepel, Fondamentalismi religiosi. Cristianesimo, ebraismo, islam, Carocci, Roma 2003,
p. 131.
(7) Ib., p. 136.
(8) Ib., p. 181.
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Ferdinand de Saussure
l’invenzione dello strutturalismo
P
to per tre aspetti: l’affermazione del carattere storico e sociale della lingua; la distinzione tra la langue (la base comune da cui dipendiamo) e la parole (il modo in cui individualmente utilizziamo la langue); il riconoscimento della lingua come un sistema.
natura, società, creatività
La lingua è nella storia e basta fare la storia
della lingua per capirlo. Sostenendo questa
verità elementare ma rivoluzionaria lo studioso svizzero ha rotto il rapporto metafisico che legava le parole e le cose, mostrando come questo rapporto sia convenzionale. Dire convenzionale non significa dire
casuale. Una convenzione non è il capriccio di un singolo ma una regola condivisa
che risponde a esigenze sociali di comunicazione e di senso. Saussure ha sostituito
nello studio dei fatti linguistici la natura con
la cultura, con la società. Domandandosi
cos’è la lingua, risponde che «essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà
del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per
consentire l’esercizio di questa facoltà ne45
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Stefano
Cazzato
uò un pensatore nato nel 1857 e
morto nel 1913 rappresentare ancora oggi un riferimento assoluto?
È il caso di autori come Ferdinand
de Saussure ormai assurti al ruolo
di classici moderni: sono dei monumenti, sembrano lontanissimi, ma hanno
ancora molto da dire. Un grande interprete
come Tullio De Mauro ha stilato l’elenco
delle parole chiave che grazie a Saussure
sono entrate nella linguistica e nella cultura contemporanea: sincronia, diacronia,
segno, significante, significato, sintagma,
fonema, esecuzione, sistema, opposizione
e molte altre. È evidente che Saussure è il
primo grande autore che bisogna imparare
a conoscere quando si decide di lavorare
sul linguaggio e col linguaggio. Ma non solo
i linguisti (da Martinet a Hjelmslev, da
Jakobson a Chomsky) gli devono molto.
Filosofi, antropologi, semiologi, critici letterari e storici delle idee attraverso opportuni adattamenti hanno importato nei rispettivi ambiti spunti, suggestioni e metodi del grande studioso svizzero il cui Corso
di linguistica generale è un’opera di svolta
nell’ambito delle scienze umane soprattut-
gli individui». Se esiste una facoltà naturale, non è la lingua ma «la facoltà di costituire una lingua», di produrre dei segni che
significano qualcosa.
Come in un sistema di scatole cinesi si potrebbe dire che questa facoltà (naturale)
contiene potenzialmente la langue (sociale) che a sua volta contiene potenzialmente
la parole (individuale). Arriviamo così a una
delle intuizioni più importanti di Saussure: «La parole è un atto individuale di volontà e di intelligenza... con cui il soggetto
parlante utilizza il codice della lingua in
vista dell’espressione del proprio pensiero
personale». L’individuo non può creare né
modificare la lingua, che è frutto di un patto comunitario vincolante, ma può utilizzarla in modo personale, creativo e insolito. Può fare con la lingua cose che nessuno
ha fatto ma che tutti sono in grado di comprendere visto che usano il suo stesso codice. Se poi quest’uso creativo s’impone socialmente, allora entra a far parte del patrimonio stabile della lingua che in tal modo
evolve. Ma perché un atto di parole sia intellegibile, deve comunque essere in contatto con la lingua, operare al suo interno,
quindi presupporla. Se così non fosse
un’esecuzione verbale non significherebbe
nulla, non comunicherebbe alcunché. In
questa dialettica tra vecchio e nuovo, tra
equilibrio e instabilità, tra la langue come
sapere depositato nella cultura e la parole
come fare attivo dei soggetti parlanti, tra
fatti linguistici acquisiti e creazioni linguistiche sta il movimento della lingua, il suo
carattere diacronico, il suo rinnovarsi.
Attraverso queste distinzioni fondamentali, Saussure precisa lo statuto epistemologico delle nuove scienze del linguaggio. Alla
semiologia tocca il compito di studiare la
dello stesso Autore facoltà di costituire una lingua come sistema di segni. Alla linguistica della langue il
Stefano Cazzato
compito di studiare la lingua come fatto
Giuseppe Moscati
sociale mentre alla linguistica della parole
MAESTRI
il compito di studiare gli atti individuali.
MAESTRI
DEL
NOSTRO
TEMPO
DEL NOSTRO
TEMPO
pp. 240 - i 20,00
tra diacronia e sincronia
C’è un ultimo aspetto da ricordare, forse il
(vedi Indice
più importante, quello che ha dato il via
in RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) alla cosiddetta rivoluzione strutturalista:
ROCCA 15 LUGLIO 2011
il riconoscimento della lingua come siste-
per i lettori di Rocca ma autonomo di segni che rimandano
i 15,00 anziché i 20,00 l’uno all’altro.
spedizione compresa Da dove viene, si chiede Saussure, il valorichiedere a
Rocca - Cittadella
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e-mail
[email protected]
46
.
re di un elemento linguistico ad esempio
di una parola? Dal fatto che quella parola
corrisponde a una cosa esterna alla lingua
o dal fatto che quella parola è in rapporto
con altre parole della lingua?
Il significato della parola «uomo» non dipende da quello che c’è al di fuori della parola (un oggetto fisico, un’essenza metafisica) ma dalla sua relazione con parole
come «bambino» e «donna» con cui entra
in un certo rapporto. Il valore di «uomo»
sarà ricavato in modo differenziale rispetto a «bambino» e «donna». La linguistica
non dovrà considerare i riferimenti esterni ma i rapporti interni alla lingua, la sua
struttura, l’interdipendenza delle sue parti (fonemi, morfemi, frasi) e delle parti con
il tutto. Lo studio diacronico, della lingua
attraverso il tempo, non può prescindere
da quello sincronico, della lingua come sistema simultaneo di parti coesistenti.
Perché un’impostazione del genere è così
rivoluzionaria e non solo per la linguistica?
Perché la lingua, da questo momento in poi,
è liberata dai principi dell’essere e studiata
a partire dai suoi propri principi. Da semplice riflesso di un mondo unico, la lingua
diventa un mondo a sé, articolato autonomamente pur nel suo indissolubile radicamento storico e sociale. Su questa strada
inaugurata da Saussure l’antropologia contemporanea rivendicherà il carattere autonomo delle culture come sistemi di valore
che si autogiustificano. Si dirà con sempre
maggiore forza che le culture non possono
essere misurate da criteri esterni di giudizio né da un modello normativo di sviluppo, perché ogni cultura ha norme e criteri
che andranno compresi dall’interno.
Stefano Cazzato
per leggere Saussure
F. de Saussure, Corso di linguistica generale,
Laterza, Roma-Bari 1985.
su Saussure
G. Mounin, De Saussure. La vita, il pensiero, i
testi esemplari, Sansoni, Firenze 1971.
R. Amacker, T. De Mauro, L. J. Prieto (a cura
di), Studi saussuriani per Robert Godel, Il Mulino, Bologna 1974.
J. Starobinski, Le parole sotto le parole: gli
anagrammi di Ferdinand De Saussure, Il
Melangolo, Genova 1982.
R. Raggiunti, Problemi filosofici delle teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure, Armando,
Roma 1982.
T. De Mauro, Introduzione, Id., in Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1985.
R. Simone, Il sogno di Saussure. Otto studi di
storia delle idee linguistiche, Laterza, RomaBari, 1992.
S. Avalle D’Arco, Ferdinand de Saussure fra strutturalismo e semiologia, Il Mulino, Bologna 1995.
M. De Palo, La conquista del senso. La semantica
tra Bréal e Saussure, Carocci, Roma 2001.
NUOVA
ANTOLOGIA
Inoue Yasushi
la penna come una lama
A
romanzi storici, anzi no
Laureatosi con una tesi sull’opera estetico-poetica di Paul Valéry, Yasushi mostra
da subito una scrittura accattivante e fluida. Risalgono al 1947 i primi due racconti, Ryoju e Togyu, che tre anni più tardi concorrono a fargli ricevere il prestigioso premio Akutagawa. Tra il 1953 e il ’54 egli scrive Furikanzan, in cui parla di Vento, foreste, fuoco e monti; ma in Italia si sarebbe
dovuto attendere il ’64 per apprezzare qualcosa di Yasushi: La montagna Hira è il titolo sotto il quale Bompiani accorpava,
insieme all’omonimo scritto, anche Il fucile da caccia (su cui torneremo) e La lotta
dei tori.
Innamorato della figura di Leonardo da
Vinci, Yasushi è prevalentemente autore di
romanzi, ma non ha mai
disdegnato il linguaggio
poetico e diverse volte si è
misurato, con esiti significativi, anche con la saggistica, il giornalismo e la
critica dell’arte. I suoi romanzi rientrerebbero nel
filone del romanzo storico
(seiki mono), trattandosi
per lo più di narrazioni
ambientate nel tardo Cinquecento e che si muovono tra scenari giapponesi
e altri contesti asiatici, eppure per più di un motivo
finiscono per fuoriuscirne.
Come accade per Koshi (1982), biografia
romanzata di Confucio.
dietro il tè, la dissidenza
L’agile libro di Yasushi Honkakubô ibun (Il
testamento di Honkakubo o Gli scritti postumi di Honkakubo) ha ispirato un film,
regista Kei Kumai, pellicola arrivata in Italia come Morte di un maestro del tè (Leone
d’argento nel 1989 a Venezia). Ovvero morte di quel monaco buddhista zen Sen no
Rikyu (1522-1591) che – insieme ai suoi
predecessori Murata Shukô (1423-1502) e
Takeno Jôô (1502-1555) – ha reso la cerimonia del tè giapponese, per via antropologico-artistica, un vero e proprio rito codificato secondo la formula del wabi-cha.
Quest’ultima, in estrema sintesi, prevede
un rapporto diretto tra il maestro del tè e
il suo discepolo basato anche sull’idea della trasmissione orale dei principi del Dharma buddhista.
Questo libro, che risale al 1979 (edito nel
1982) e in verità legato al racconto breve
La storia di Rikyu scritto quasi trent’anni
prima, ospita addirittura ottantacinque
personaggi, anziani e tutti uomini. Ma un
posto di primo piano è riservato al discepolo Honkakubo, il quale si inoltra nel fitto mistero della pratica dell’harakiri, il suicidio di alcuni maestri del tè e del suo stesso maestro Rikyu. Ne esce fuori una storia
di elogio esasperato della libertà di ogni
artista e una testimonianza di dissidenza
nei confronti del potere ufficiale.
la fune tagliata, il fucile luccicante
e il meccanismo rotto
La corda spezzata è un crocevia di persone
e sentimenti in tensione tra loro. C’è la storia angosciosa di Kosaka, un giovane alpinista che muore durante una scalata invernale e il cui cadavere viene recuperato
solo in primavera; ma anche quella altrettanto angosciosa di Uozu, il suo compagno di cordata costretto a difendersi con i
47
.
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Giuseppe
Moscati
nche se da noi lo si conosce poco,
Inoue Yasushi (Asahikawa, 1907
– Tokyo 1991) è da considerarsi
sicuramente una delle penne più
interessanti della letteratura
giapponese contemporanea. Certo è che a una prima lettura la sua opera
può apparire, distante com’è dai nostri
canoni letterari occidentali, impenetrabile e ‘fredda’. Proviamo a vedere perché lo
sembra e perché poi di fatto non lo è.
NUOVA
ANTOLOGIA
denti perché accusato di aver tagliato la
fune di Kosaka per salvarsi la pelle; c’è il
dolore di Kaoru, la sorella di Kosaka; ci
sono poi i sospetti e le congetture di Yashiro Kyonosuke, che indaga sul caso di omicidio/suicidio/disgrazia. E c’è Minako, giovane e attraente sposa di quest’ultimo, ma
che non piace solo al marito… Yasushi tira
i fili delle sue a tratti tragiche marionette,
ma non si sporge mai da dietro le quinte
del suo teatrino.
Con il romanzo breve Il fucile da caccia
(1947), che piace subito alle nuove generazioni giapponesi che vivono il dopoguerra, assistiamo ai movimenti lenti di un cacciatore algido e solitario, dal fucile luccicante e dalla strana bellezza «umida di sangue». Di lui parlano i versi di un piccolo
poema ospitati in «L’amico del cacciatore», rivista mensile di un’associazione venatoria. Accanto e dietro a lui, troviamo
un altro uomo, il ricco Misugi Jôsuke, che
scrive al poeta per comunicargli che egli si
ritrova nel personaggio del cacciatore; poi
tre donne, tradimenti, tre lettere e il diario
di una suicida, ma soprattutto storie dell’amare e dell’essere amati, non prive di
grandi sofferenze, segreti, finzioni e qualche senso di colpa. Anche qui Yasushi non
giudica mai.
In Ricordi di mia madre, attraverso una
narrazione autobiografica che in parte svela e in parte nasconde, leggiamo di una
anziana madre che a volte torna bambina
e che quasi sempre assomiglia a un «meccanismo rotto», fatto di memoria e oblio,
un insieme di componenti integre e componenti compromesse. Lo scrittore, manco a dirlo, non si fa mai coinvolgere più di
tanto. O almeno così è in apparenza…
arriva l’amore, sparisce l’amore
ROCCA 15 LUGLIO 2011
L’agile raccolta Amore mette insieme tre
racconti che narrano di sentimenti nitidi
e algidi, aguzzi, spigolosi, affilati e taglienti
nonché sicuri di sé, privi di incertezze, di
dubbi, di chiaroscuri, di ambiguità e quindi
«implacabilmente evidenti alla coscienza»
(Laura Lilli) e conferma la distanza siderale con il modo occidentale di intendere
l’amore.
Tutti e tre questi racconti si fanno ricordare, eccome, se non altro per via del loro
spregiudicato metodo narrativo: ognuno di
essi presenta una storia, vi fa balenare un
lampo chiamato amore che poi, subito
dopo aver folgorato protagonisti e lettori,
svanisce con la stessa rapidità con cui era
balzato dentro la storia. In mezzo, nessuna giustificazione di tale fugacità né alcun
48
.
abbozzo di ragionamento attorno a quel
sentimento che peraltro, seppure presente
per pochi istanti, inesorabilmente informa
di sé tutti e tre i racconti.
Come quando, per esempio, campeggia
sulla scena la decisione di un suicidio di
coppia (La morte, l’amore, le onde), ma di
un uomo «disonorato» e una donna delusa dall’amore che non si conoscono. Sugi
e Nami per il loro folle gesto scelgono lo
stesso posto, una scogliera a strapiombo
sul mare, anche se con un giorno di distanza l’uno dall’altra. Prima del tragico momento trascorrono tra infiniti silenzi gli
ultimi due (lei) e tre giorni (lui) in un albergo superlussuoso, dove non v’è nessun’altro cliente e dove Sugi si sprofonda
nella lettura di un libro di ambientazione
storica mongola. Di botto, senza preavvisi
o minimi coinvolgimenti passionali, giunge improvviso l’amore o quello che (per
noi) vagamente gli assomiglia.
Come quando, ancora, un uomo si avvicina ancora di più alla moglie dopo che lei
muore (Anniversario di matrimonio), ma
entrambi condividono una vita di ristrettezze prima scelta obbligata e poi, dopo
una grossa vincita, volontaria.
Come quando, infine, nel contesto difficile di un matrimonio combinato, durante
il viaggio di nozze i due novelli sposi vanno a Kyoto a visitare un giardino roccioso
(Giardino di rocce) – luogo molto importante ed evocativo per lui – e lei a un tratto
sparisce. Il marito quasi non reagisce, non
fa nulla per opporsi al destino cinico e
baro, come avrebbe detto Giuseppe Saragat.
Giuseppe Moscati
per leggere Yasushi
I. Yasushi, Amore. Tre racconti, Adelphi, Milano 2006.
Id., Il fucile da caccia, Adelphi, Milano 2004.
Id., La corda spezzata, CDA & Vivalda Ed., Torino 2002.
Id., La montagna Hira, Bompiani, Milano 1988
(I ediz., 1964).
Id., Ricordi di mia madre, Spirali, Milano 1985,
poi Feltrinelli, Milano 1991 e Adelphi, Milano
2010.
Id., Vita di un falsario, Il Melangolo, Genova
1995.
su Yasushi
F. Di Mattia, Inoue Yasushi. La poesia che apre
le porte alla vita, http://www.railibro.rai.it/
recensioni.asp?id=182
L. Lilli, Gli affilati sentimenti del Giappone [sulla raccolta Amore di Yasushi], La Repubblica
18 novembre 2006.
&
V
VIZI
Filippo
Gentiloni
on è facile annoverare fra le virtù anche l’allegria, come non è
facile elencare fra i vizi la tristezza. L’una e l’altra sfuggono all’etica e sembrano trovare rifugio
soltanto nella psicologia.
Non è così, ma occorrono alcune precisazioni. Allegria non è felicità nè gioia, anche se è stretta parente dell’una e dell’altra. L’allegria si può fingere, la felicità no.
Vicina all’allegria è la letizia, un termine
antico, di sapere quasi monastico, comunque profondo.
L’allegria, dunque, si può volere? Fino a un
certo punto Si può educare – educarsi –
all’allegria, se non proprio alla felicità. Un
certo modo di considerare le vicende della
vita, di ridimensionarle. Un certo modo di
vedere la vita e soprattutto l’io, abbassandolo dal trono: un certo distacco e un certo sorriso. Soprattutto un certo modo di
vedere gli altri. Compito difficile di tutta
la vita, ma ci si può riuscire.
Il contrario dell’allegria, allora, non è tan-
N
to la tristezza quanto l’egoismo: accentramento su di sé e sui propri guai. Il cannocchiale puntato sul proprio ombelico.
Virtù politica, dunque, la allegria. Anche
se l’uomo politico spesso brilla per una
certa tristezza: un volto dominato spesso
dall’interesse. Quel tipo di sorriso giocato
sugli specchi e sulla macchina da presa,
invece che sulla realtà.
L’allegria non fa parte del mercato. Perciò è
rara, come tutto ciò che è gratuito e che non
si può comprare. Appare quasi inutile.
Ma se è una virtù, come educare all’allegria
sé e gli altri, soprattutto i giovani? Educazione a uscire da sé: non chiedere troppo,
in fatto di soldi, di carriera, di auto sempre
più belle. L’allegria è proprio sorella della
austerità. La austerità allegra che del bicchiere osserva che è mezzo pieno invece di
lamentarsi perché è mezzo vuoto. Un certo
tipo di scuola, dunque, ma anche di famiglia e anche di chiesa. Francesco di Assisi
che, anche morente canta ai confratelli invitandoli alla perfetta letizia.
49
ROCCA 15 LUGLIO 2011
VIRTÙ
Jacques Nobécourt
Vaticano dietro le quinte
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Giancarlo
Zizola
50
urioso insaziabile dei segreti del
presente come di quelli della storia, Jacques Nobécourt non poteva più spostarsi fuori del suo appartamento parigino negli ultimi
degli 87 anni della sua vita, conclusasi il 29 maggio 2011 a Parigi. E una
delle sue pene maggiori – mi scriveva – era
di non aver avuto la forza di venire in questa basilica di Santa Maria in Trastevere,
per essere presente ai battesimi dei suoi
nipotini, i due figli di Anais e di Marco, due
piccoli ragazzi – diceva – che «portano tutte le mie speranze».
Lo posso testimoniare: Roma sollevava in
lui dei sentimenti controversi, una nostalgia «profonda ed intatta», diceva del decennio del suo ufficio di corrispondente romano di Le Monde, ma anche il peso schiacciante dell’agnosticismo, certe «ferite dell’anima». «La mia pietà molto clericale è
crollata sotto il clima di Roma».
Sono alcuni frammenti di una autobiografia intima e drammatica che egli mi affidava nei più recenti messaggi, quando sentiva ormai che il tempo che gli era stato accordato era divenuto impreciso.
Questo scambio di pensieri estremi fra noi
prolungava le nostre complicità degli anni
Settanta, quando le consultazioni regolari
sulla vita vaticana sotto Paolo VI e le contraddizioni del suo riformismo postconciliare, già troppo frenato, facevano del nostro lavoro di osservatori un’interfaccia analitica, nell’autonomia rispettiva, a beneficio
dei lettori di «Le Monde» e del «Giorno».
Il mondo dell’informazione religiosa, e la
sottospecie dei «vaticanisti», devono molto
a Jacques Nobécourt. Anzitutto per le qualità del suo approccio agli avvenimenti della Chiesa: fermezza e discrezione, chiarezza della riflessione, allontanamento da ogni
clericalismo. La lezione che egli ci ha offerto rimane: un ostinato rigore nell’approccio analitico alle questioni della Chiesa, per
captare il senso profondo degli avvenimenti, al di là delle correnti di superficie, accanto a una laicità rispettosa, direi porosa
(per non dire inclusiva) dinanzi a quella riserva misteriosa che giaceva, troppo spesso occultata e schiacciata sotto il peso della
C
Cupola, dentro la Chiesa cattolica.
In secondo luogo, il suo merito va riconosciuto per il ruolo che ebbe nel dissodare il
terreno già agli inizi degli anni Settanta del
Novecento perché la Santa Sede pervenisse a riconoscere uno statuto del diritto di
informazione per i giornalisti, e ad adottare linee avanzate di riforma del sistema della
comunicazione della Chiesa, istituendo una
moderna Sala Stampa, allora inimmaginabile. Non fu un’impresa facile anche se
Nobécourt ebbe la fortuna di trovare Oltre
Tevere degli interlocutori sensibili come il
segretario di Stato cardinale Jean Villot.
Lo stesso ruolo di pioniere lo ebbe agli inizi
del 1970 nella fondazione di una Associazione fra i giornalisti vaticanisti, in riunioni quasi carbonare alle quali, fra gli altri,
era presente Padre Roberto Tucci, accanto
a Jean Neuvecelle, a Enzo Forcella e a me
stesso.
Era utopico lavorare per un diverso assetto
degli equilibri tra le ragioni dell’informazione e quelle del potere nella Chiesa romana?
Non sempre la sua critica al clericalismo e
all’agiografia cortigiana di quelli che disprezzava come «pii imbecilli» era percepita come
un contributo fondamentale al rinnovamento della vita della fede cristiana.
Una volta – era nel 1972 – manifestò delle
riserve sul trionfalismo delle feste per i 75
anni di Paolo VI e «Le Monde» fu rimproverato dall’Osservatore Romano. Credo sia
interessante risentire la sua replica, non
fosse che per l’attualità che riveste: «È decisamente molto difficile esprimere sulla
Santa Sede o sull’attività del papa un apprezzamento che non appaia come marcato dall’ignoranza o dalla denigrazione, ove
non sia strettamente laudativo. Talora si ha
il sentimento che certe personalità del Vaticano vorrebbero che i giornalisti si ispirassero all’esempio di Racine e di Boileau
quando cantavano il passaggio del Reno da
parte di Luigi XIV».
Quale non fu la sua allegria quando seppe
che Paolo VI, il 24 gennaio 1974, aveva letto nel testo originale integrale, senza trovare alcunché di riprovevole, l’indirizzo di
omaggio, di impronta rispettosamente laica che Nobécourt gli avrebbe poi indirizza-
ria romana. Era uno schema antico e consueto che si riproduceva.
Mi confidava che, al suo ritorno a Parigi,
Fauvet, il direttore del Monde, gli aveva detto «con estrema chiarezza di aver ceduto a
un passo dell’ambasciata d’Italia, che reclamava il suo richiamo per due motivi: le mie
posizioni di sinistra in politica interna e la
mia attività con i riformisti, fra i quali tu».
«Vecchie storie» aggiungeva.
«Lasciamo perdere».
Infine, i suoi frammenti autobiografici della penultima ora narrano di un uomo che
fa i conti con la sua ricerca costante dell’assoluto. Lo aveva impressionato, dell’intero
mio libro autobiografico Santità e
Potere (Sperling, 2007) l’episodio della preghiera, nella cripta di Assisi, e i passaggi in
cui, «con ogni discrezione tu evochi la
preghiera. Io ti invidio e ti ringrazio».
Sincero con sé stesso, egli scrutava la vicenda travagliata del suo vissuto interiore:
«Bisogna che ti dica brevemente che dopo
quarant’anni il ricordo del mio soggiorno
romano mi riporta gli schiacciamenti dell’agnosticismo e la desolazione di constatare l’allontanamento di molti da una Chiesa
in cui i giochi di carriera apparenti mascherano ciò che può rassomigliare alla fede. La
mia educazione di gioventù, modellata sull’ultramontanismo e su una pietà molto clericale, si è affondata sotto il clima di Roma.
Le ferite dello spirito che mi aveva inflitto
il mondo ecclesiastico, cioè l’enorme forza
di ipocrisia che camuffa il suo accanimento a godere del potere, l’indulgenza senza
limiti per tutti i chierici, associata a una durezza implacabile per i laici. C’è una formula
più spregevole di quella della ‘riduzione allo
stato laicale’? (...). E poi, i misfatti commessi
dall’educazione religiosa della mia giovinezza, insistendo sui peccati della carne, trascurando tutto il resto del messaggio. Ci
hanno strangolato nella stretta disciplina,
per me almeno. Il miglior ricordo che conservo di un prete a Roma è quello di padre
Tucci e di padre Sorge. Essi mi sono apparsi totalmente onesti con se stessi e con i loro
interlocutori».
«Ciò che potrebbe somigliare alla Fede». Ancora una volta, una nostalgia, ma allo stesso tempo una delusione e una ricerca, di
impronta agostiniana.
Avevano già il valore di un lascito le sue
parole all’amico, il 13 agosto 2009: «Nei
momenti ultimi che si avvicinano per me,
una sola parola mi dà un poco di pace, quella di Paul Claudel alla sua fine. ‘Infine, sto
per sapere’».
«Enfin, je vais savoir».
Giancarlo Zizola
dello stesso Autore
FEDI
E POTERI
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51
ROCCA 15 LUGLIO 2011
to come presidente dell’Associazione della
Stampa Estera in Italia, ricevuta in udienza, mentre alcuni ufficiali si erano affrettati a imporre a quel testo delle ormai inutili
censure.
Con la stessa lucidità esigente si era accostato alla figura di Pio XII, non cedendo alle
facilità apologetiche sul dramma dei suoi
dilemmi sulla Shoah.
E fino agli ultimi tempi, contendendolo alla
malattia, aveva lavorato nuovamente sull’«Affare Pio XII», scartando risolutamente
ormai la diatriba sul tema del «silenzio» e
delle relazioni con gli Ebrei, per
tentare unicamente di comprendere il perché questo papa fosse stato preso come capro espiatorio in un affare puramente tedesco: al punto che da allora – diceva – i nazionalismi tedesco e francese avevano deciso di passare al secondo piano le relazioni con il papato.
La sua ambizione era di fare una storia
pura, «senza interventi della teologia come
filosofia della storia, né agiografia né polemica.
Soprattutto – diceva – senza stile ecclesiastico!».
Eppure, si poteva apprendere da Jacques
anche la capacità di discernere con realismo, più di quanto fosse consentito ai
miei entusiasmi conciliari, la necessità
della dimensione istituzionale e anche
politica della Chiesa.
Alla presentazione pubblica nel 1973 del
mio Utopia di Papa Giovanni: disse chiaramente di non credere che la politica più
pertinente ed efficace per la Chiesa fosse di
tornare all’annuncio profetico del Vangelo,
era convinto che Roncalli fosse affetto da
«cecità politica» e che « una Chiesa che voglia essere incarnata debba avere dei rapporti politici. Dunque deve gestire una diplomazia e fare politica, non teologia».
«Come potrebbe conciliarsi – si interrogava – la neutralità della Chiesa con la rivendicazione di un giudizio chiaro e preciso
sul Vietnam o sul Cile?».
Egli stesso aveva fatto la prova della forza
di questo corpo istituzionale quando, coinvolgendo l’ausiliare di Parigi mons. Daniel
Perezill, il segretario personale di Paolo VI
mons. Pasquale Macchi e il presidente Georges Pompidou, era riuscito a strappare
dalle mani assassine dei golpisti cileni un
giovane franco-cileno e a rifugiarlo in salvo all’ambasciata francese a Santiago.
Eppure, quando suonò anche per lui l’ora
di lasciare l’incarico romano, egli dovette
ammettere che nel suo esilio – per dire il
nome proprio della sua partenza – avevano
giocato insieme il governo italiano e la cu-
AMORIZZARE IL MONDO
Arturo
Paoli
Dio ha bisogno di
I
l cristianesimo presenta una caratteristica che lo distingue da tutte le religioni, ed è quella che Gesù stesso definisce in un’accusa ai dottori dell’ebraismo: «gli si avvicinarono i farisei e i
sadducei per metterlo alla prova e
chiesero che mostrasse un segno dal cielo.
Egli rispose: quando viene la sera dite sarà
bel tempo, poiché il cielo rosseggia, e la
mattina: oggi ci sarà burrasca, poiché il
cielo è rosso cupo. Sapete, sì, giudicare
l’aspetto del cielo, ma non sapete discernere i segni dei tempi. Generazione malvagia e spergiura! Chiede un segno, ebbene le sarà dato; ma solo quello di Giona. E
lasciatili, se ne andò» (Mt 16, 1-4).
il segno su cui puntare
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Prendere coscienza dei segni dei tempi è
essenziale per l’evangelizzazione, e penso
che questa denunzia di Gesù sia attuale
oggi come al tempo cui allude il Vangelo.
La scena si conclude con questa breve denunzia: Gesù si allontana, nulla da fare con
voi, tutto inutile. Qual è oggi il segno cui
dovremmo puntare il nostro sguardo? Il
capitalismo che ha contaminato molti degli eventi e delle scelte di questa epoca. Ha
creato un numero crescente dei miserabili
che vivono con noi, un eccesso per un numero sempre più ristretto di persone. La
distribuzione folle della ricchezza credo sia
una delle cause fondamentali che ha fatto
del nostro popolo italiano ritenuto un popolo di grandi tradizioni, un popolo cialtrone. Ricordo nella mia adolescenza di
essere stato partecipe di una certa mentalità diffusa che scoprivamo nelle conversazioni dei genitori con i loro amici e vicini, che scivolavano spesso sugli stranieri
che arrivavano alla nostra città. Li vedevamo fermi per lunghi tempi con i loro binocoli davanti a una facciata romanica delle
nostre chiese assai numerose, per noi così
familiari da stupirci di scoprirle così attraenti per turisti che venivano da lontano. I poveri non erano miserabili ed erano
oggetto di assistenza talvolta molto affettuosa. L’avvento del capitalismo ha travol52
to le classi sociali distruggendo la povertà
come valore essenziale del cristianesimo,
argomento su cui tornerò più tardi.
Ho portato con me nella mia lunga vita, ad
oggi, un episodio. Fui chiamato a dare una
settimana di riflessioni sulla spiritualità ad
una recente fondazione di monaci di clausura in gran parte stranieri. La linea di spiritualità era quella apparsa recentemente
nel film Uomini di Dio. Non ricordo il contenuto della mia riflessione sulla povertà,
ricordo che impressionò molto un monaco che veniva dagli Stati Uniti, che chiese
di conversare privatamente con me. La
conversazione si protrasse assai a lungo,
in un tono fraterno. Il monaco aveva fatto
dei lunghi soggiorni in paesi poveri e ne
era uscito con una impressione assai critica: voi tutti cristiani volete la povertà e noi
vogliamo la ricchezza per tutti. La frase in
sé non mi offese perché il clima dell’incontro era veramente fraterno, ma forse non
mi ero spiegato bene sulla povertà evangelica. Oggi l’avanzata del capitalismo è arrivata a spegnere ogni idealismo colpendo
a morte il cuore del cristianesimo, tanto
da ispirare uno scrittore esperto in psicologia umana un libro dal titolo La morte
del prossimo. Io sono convinto della eternità del messaggio di Cristo, e penso di contribuire anche se con povere forze a ritrovare il senso della prima beatitudine, e non
a caso prima: beati i poveri in spirito.
quale povertà
La Chiesa cattolica non pare in grado di
aiutare questo rinnovamento che piuttosto
chiamerei rinascita. È troppo impegnata nel
difendere la sua sintesi dottrinale, e trascura i segni dei tempi come i dottori della sinagoga denunziati da Gesù. È un ebreo colui che ha compreso realmente Gesù (1),
dopo averlo odiato come documentano alcuni suoi scritti di gioventù, capendo a fondo il senso della passione e della crocifissione, che chiaramente per lui è l’opposizione chiara al peccato umano di hybris. Il
Cristo povero e nudo, inchiodato sulla croce, è il vero e unico vittorioso del nemico
no di te
non una dottrina ma un’amicizia
Questo mostrarsi di Gesù come la soluzione vera alternativa a queste morti caratteristiche del nostro tempo, la cui alternativa sono gli strumenti della tecnica che occupano tutto il tempo dell’uomo impedendogli così di cercare un senso vero alla sua
vita, è la situazione più comune in cui troviamo giovani e meno giovani nei nostri
incontri. La Chiesa nelle sue offerte di tipo
catechetico non può essere desiderabile per
la gioventù alienata da questi strumenti.
L’alternativa non può essere che l’Amico
che viene incontro con un tipo di amicizia
diversa da quella che noi chiamiamo con
il nome di amicizia. Gesù infatti non ha
lasciato una dottrina, ha lasciato dei testimoni che sono i veri esperti di una vera
amicizia. Ecco uno dei principi che la Chiesa dovrebbe accettare per risolvere la crisi
presente. Il solo messaggio che il Cristo
vuole trasmettere oggi è questo: il Cristo
ha bisogno di te. E il testimone può garantire attraverso la sua stessa esistenza, che
il senso della sua vita è questo e solo questo. È solo così che possiamo trasmettere
la forza della resurrezione. Bisogna dire
ai giovani che la vita vera, autentica, senza limitazioni nello spazio e nel tempo, è
quella pensata in Gesù. È solo questo che
può presentare una alternativa a coloro che
sono alienati dai desideri di cose senza vita.
Si è sempre detto che il giovane è generoso e che ama i progetti audaci. Oggi il progetto è salvare il mondo. Bisogna sottrarre il giovane al fascino degli oggetti che
occupano le sue mani togliendogli il tempo di pensare al vero senso della sua vita.
È una vera forma di trasmettere la fede
quella che dovremmo iniziare noi credenti al grido: Dio ha bisogno di te.
dello stesso Autore
ANCORA CERCATE
ANCORA
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Note
(1) E. Lévinas, Tra noi, Jaca Book Milano 1998,
pp. 85-92.
(2) A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo, Cittadella,
Assisi 2010, p. 352.
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53
ROCCA 15 LUGLIO 2011
della pace, ed è impossibile pensare a eliminare guerre e conflitti se non con la sconfitta della hybris e la scoperta del vero senso della povertà che non è l’equivalente della miseria. Il mondo cristiano continua a
seguire il Cristo come il salvatore dell’anima e non come il costruttore di una società
diversa. Teilhard de Chardin è stato emarginato per avere approfondito il senso della vita terrena e della morte di Gesù come
progetto di amorizzare il mondo.
L’epoca nostra è caratterizzata da diverse
morti: morte di Dio – morte del prossimo –
morte della filosofia e quindi morte del pensiero – morte dei partiti politici. Il risultato
finale di queste morti è il dominio del capitalismo che non può che creare cose morte.
Come si fa a trovare una forza e anche una
gioia per vivere questo nostro tempo? Basta
aprire il vangelo per trovare la risposta: «Dio
ha tanto amato il mondo che ha dato il figlio
unigenito affinché chiunque crede in Lui non
perisca ma abbia la vita eterna. Dio infatti
non mandò il figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17).
Io penso che questa nostra epoca può essere illuminata solo da questa grande luce che
può illuminare solo chiunque non fa il male:
«chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce... colui che fa la verità viene alla
luce perché si riveli che le sue opere sono
operate in Dio» (Gv 3,19-20). È il momento
in cui i veri credenti in Gesù possono pensare di rendere positivo questo momento
così insolentemente negativo: «potrebbe essere l’accoglienza al mistero nell’eroico disinteresse per ciò che questo significa per
me. La prima obbedienza che Dio esige nell’incontro religioso … è di superare la visione di Lui come imperativo. All’uomo religioso Dio si rivela come il datore di senso
che resta nascosto agli occhi umani, che non
viene svelato e comunicato ma promesso.
La conversione sta nell’accogliere questa
promessa, nel non rifiutare che la propria
vita abbia un senso ultimo, una risoluzione
di superiore felicità» (2). In fondo l’esperienza religiosa è l’atto di speranza come affermazione del senso.
TEOLOGIA
la libertà religiosa
nell’età moderna
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Carlo
Molari
I
l 4 giugno scorso il Papa a Zagabria
ha ricordato le conquiste della modernità da accogliere e da sviluppare nell’orizzonte della fede in Dio. Ha detto
tra l’altro: «le grandi conquiste dell’età
moderna, cioè il riconoscimento e la
garanzia della libertà di coscienza, dei diritti umani, della libertà della scienza e,
quindi, di una società libera, sono da confermare e da sviluppare mantenendo però
aperte la razionalità e la libertà al loro fondamento trascendente, per evitare che tali
conquiste si auto-cancellino, come purtroppo dobbiamo constatare in non pochi casi».
Questo è un tema caro al Papa. Anche a
Lisbona nell’incontro con gli uomini della
cultura parlando dell’illuminismo egli aveva affermato «da se stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della
modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza
uscita» (Centro Cultural de Belém, 12-52010).
Nel noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, ha collegato questo processo ecclesiale alla riforma conciliare. Dopo aver
accennato alla riconciliazione tra fede e
scienza, ha proseguito: «In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni
ed ideologie, comportandosi verso queste
religioni in modo imparziale e assumendo
semplicemente la responsabilità per una
convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la
propria religione. Con ciò, in terzo luogo,
era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo».
la discussione nella chiesa
È stato infatti con la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa,
54
approvata il 7 dicembre 1965, che la chiesa
cattolica «dopo un lungo indugiare e numerose riserve e polemiche» «accolse essenziali istanze dell’illuminismo dell’epoca moderna... e si è posta sul terreno degli ordinamenti
di libertà creati dall’illuminismo politico. La
dichiarazione sulla libertà religiosa vale dunque a ragione quale pietra miliare nella lunga e spesso conflittuale storia del rapporto
tra chiesa cattolica e storia moderna della
libertà.» (Kasper W., Chiesa e libertà, Regno/
documenti 1995 n.1). Su questi temi alla fine
del mese di maggio scorso si è svolto un acceso dibattito nel blog di Sandro Magister
settimo cielo nel quale sono intervenuti alcuni filosofi e teologi cattolici oltreché Stefano Ceccanti, ordinario di diritto pubblico
a Roma (www.chiesa.espressonline.it). Credo opportuno riprendere alcuni temi discussi. Possiamo distinguerne tre posizioni all’interno della Chiesa.
1. C’è chi sostiene che il Concilio ha deviato dalla tradizione e che perciò deve essere corretto. È la convinzione dei tradizionalisti. Il superiore provinciale tedesco
della Fraternità sacerdotale S. Pio X, Francesco Schmidberger in una lettera ai Vescovi tedeschi sostiene che la scelta del
Concilio rappresenta la definitiva «secolarizzazione dello stato e della società»,
«l’agnosticismo dello stato». Rappresenta
la rinuncia del diritto e del dovere dello
stato «di impedire ai membri delle false
religioni di diffondere pubblicamente le
loro convinzioni religiose, impedendo le
loro pubbliche manifestazioni e le attività
missionarie e rifiutando a loro il permesso di costruire luoghi di culto». Così il Concilio anziché favorire, avrebbe ostacolato
la costruzione del regno sociale di Cristo,
dato che egli è «il solo Dio e la croce la
sola fonte di salvezza». Ne consegue che i
responsabili dello stato «debbono far valere nella società, per quanto è possibile,
tale rivendicazione di esclusività». Il portavoce della stessa associazione in una lettera aperta (Die Tagespost, 6 giugno 2009)
riconosce che la divergenza riguarda i limiti da porre alla pratica delle «fedi errate» e alla loro diffusione.
Brunero Gherardini, teologo cattolico, ritiene che il testo conciliare sia «in linea
con la mentalità liberale e disimpegnata
del nostro tempo. E che proprio questo si
volesse, balzò all’evidenza dopo il 7 dicembre 1965, quando, approvata e promulgata la Dichiarazione sulla libertà religiosa, fu
ravvisato in essa il contro-sillabo, che sotterrava il Sillabo del 1864» (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011 p. 43). Egli accusa il testo conci-
nei quali la tradizione aveva deviato dalla
linea evangelica, per cui la sua posizione è
legittima e da seguire. La continuità non
deve essere cercata nella dottrina, che è
certamente cambiata rispetto a quello che
«si è creduto dovunque sempre e da tutti»,
bensì nella fedeltà storica e vitale al Vangelo.
Secondo Martin Rhonheimer sacerdote
svizzero dell’Opus Dei insegnante a Roma,
Gregorio XVI e Pio IX avevano interpretato il fondamentale diritto alla libertà di
religione, di coscienza e di culto difeso dai
‘liberali’ come «una negazione della vera
religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa
e una vera Chiesa potessero esistere senza
che quest’ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata
dal diritto civile... Nel magistero preconciliare, l’insegnamento della verità unica
della religione cristiana andava di pari passo con l’insegnamento della funzione e del
dovere dello stato, che aveva l’obbligo di
far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell’errore
religioso. Ciò implicava l’ideale di uno ‘stato cattolico’ nel quale, nel migliore dei casi,
la religione cattolica è l’unica religione di
stato, il cui ordine giuridico è sempre al
servizio della protezione della vera religione» (L’ermeneutica della riforma e la libertà
di religione in «Nova et Vetera», 85 (2010)
n. 4, pp. 341-363).
È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si
verifica una chiara discontinuità nel Concilio Vaticano II. Essi non hanno colto
l’ispirazione evangelica e l’autenticità dei
processi storici. In questo senso, come afferma il Papa nel citato discorso alla Curia: «Il Concilio Vaticano II, riconoscendo
e facendo suo con il decreto sulla libertà
religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa... I
martiri della Chiesa primitiva sono morti
per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono
morti anche per la libertà di coscienza e
per la libertà di professione della propria
fede».
La ripresa del «patrimonio più profondo
della Chiesa» ha reso quindi possibile alla
generazione del Vaticano II di compiere un
passo avanti, che non è certamente in continuità con le idee del Magistero degli ultimi secoli, ma è fedele ai «segni dei tempi»
e all’azione dello Spirito.
dello stesso Autore
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
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55
ROCCA 15 LUGLIO 2011
liare di confondere «fra diritti della persona e delle comunità, tutela legale della libertà religiosa, tolleranza e leggi e mezzi
idonei per renderla operante, diritto personale fondato sulla stessa natura umana
che diventa diritto civile: un groviglio di
parole e di idee, che rende difficile comprenderne la logica ed il significato. Una
cosa si comprende: la sorda polemica con
il magistero precedente sui limiti della libertà dinanzi a Dio ed alla sua Rivelazione» (ib. p. 42).
Anche lo storico Roberto De Mattei nel
volume Il Concilio Vaticano II. Una storia
mai scritta (Lindau, 2010), considera la
Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae uno dei testi conciliari più
difficilmente compatibili con il Magistero
precedente perché sosterrebbe il diritto a
propagare l’errore e non difenderebbe sufficientemente i diritti della «vera fede».
2. In contrapposizione a costoro, altri affermano che il Concilio ha semplicemente
applicato in modo diverso la dottrina di
sempre senza reali rotture con il passato.
Il gesuita Bertrand de Margerie (+ 2003)
ad esempio sosteneva che il Concilio ha indicato gli stessi limiti della libertà religiosa messi in luce da Gregorio XVI. Il Prof.
H. Klueting nel quotidiano Die Tagespost
(30 maggio 2009, p. 18), interpreta la dottrina del Vaticano II nel senso che occorre
evitare ogni «conversione forzata» in perfetta continuità con la dottrina tradizionale. In modo più sfumato il benedettino
francese Basilio Valuet (Abbazia di Barroux) in una ampia dissertazione (6 volumi ora in terza edizione) ha cercato di dimostrare che la differenza tra il Vaticano
II e il Magistero precedente, dipende dalla
diversa prospettiva: ciò che era condannato resta condannato e la libertà che viene
richiesta non contraddice la precedente
condanna. Egli scrive: «se vi è discontinuità
nel discorso del Vaticano II in rapporto a
Pio IX, ciò dipende dal fatto che la libertà
religiosa [difesa dal Concilio] è essa stessa
in discontinuità con la «libertà di coscienza e dei culti» condannata nel XIX secolo:
non ha lo stesso fondamento, né lo stesso
oggetto, né gli stessi limiti, né lo stesso
fine». Per questo egli è convinto che «una
tale discontinuità non significa rottura con
la Tradizione dottrinale dogmatica della
Chiesa, né una deviazione dal ‘depositum
fidei’ e... da ciò che è creduto dovunque,
sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins» (il riferimento è al Commonitorium cap. IV).
3. Altri teologi infine sostengono che il
Concilio ha innovato realmente sui punti
GIOBBE
come se niente fosse accaduto?
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Lidia
Maggi
56
bbiamo lasciato Giobbe che, colpito nei beni e negli affetti da eventi tragici, non rinnega Dio e non
gli attribuisce la responsabilità di
quanto accaduto.
«In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nessuna colpa» (1,22).
Il secondo capitolo ci riporta nuovamente
nelle sfere celesti. La scena appare identica
alla precedente e a chi legge sembra di assistere ad uno spettacolo già visto. Dio riceve
Satana e questi racconta di aver fatto un giro
di ricognizione sulla terra. Poi si nomina il
povero Giobbe ed esattamente come la prima volta Dio lo cita come esempio di giustizia e fedeltà. Tutto sembra ripetersi come se
nulla fosse accaduto. Ma è proprio così?
La sofferenza di Giobbe non ha spostato di
una virgola l’equilibrio celeste? Ha dunque
ragione il Qoelet a constatare che l’essere
umano è solo vento e, sia che faccia il bene o
il male, tutto è vanità?
In realtà, l’immutabilità divina, qui rappresentata dalla ripetizione della scena iniziale,
è solo apparente.
Il primo cambiamento lo troviamo nelle stesse parole divine. Se Giobbe non lo ha ritenuto responsabile delle disgrazie subite, non
significa che Dio non si riconosca colpevole.
«Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è
un altro sulla terra che come lui sia integro,
retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità, benché tu mi
abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo» (2,3).
Dio ammette di essersi accanito contro Giobbe senza alcuna ragione, ovvero di aver commesso un’ingiustizia. Dichiarazione sorprendente, che suonerebbe almeno irriverente,
se pronunciata da un personaggio terrestre.
Giobbe per tutto il dramma lo urlerà: «io
sono innocente, Dio si è accanito ingiustamente contro di me». I suoi amici proveranno a convincere la vittima del contrario. Ma
Dio riconosce le proprie responsabilità. Sa
di essere stato trascinato in un gioco pericoloso che mette a repentaglio la vita di un giusto, innocente ed ignaro.
A questo punto ci aspetteremmo che Dio si
penta e che congedi Satana, almeno fino alla
prossima udienza. Ma il dramma continua
per l’accanimento dell’Avversario e per la tenacia di Giobbe. In ogni caso, la confessione di Dio rappresenta un monito per chi as-
A
siste al dispiegarsi del racconto. Essa permette al lettore di non lasciarsi abbindolare troppo facilmente dalla retorica dei discorsi che
seguiranno, conservando nei confronti della vittima un ascolto empatico, anche quando le sue parole saranno giudicate inopportune e blasfeme.
Satana, dunque, rilancia la sfida, minimizzando quanto Giobbe ha subito: «Pelle per
pelle! L’uomo dà tutto quel che possiede per
la sua vita; ma stendi un po’ la tua mano,
toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti
rinnega in faccia» (2,4-5).
Parole di sospetto che sembrano supporre
che per una persona sia più facile sopportare la morte dei propri cari piuttosto che la
propria malattia. Satana appare meno astuto di quello che sembra. La malattia, certo,
ci deforma, ci piega, a volte ci leva la dignità, muta il nostro carattere; ma è davvero
più terribile della perdita di un figlio? Quanto Giobbe ha già sopportato può essere superato da un nuovo dolore fisico? È solo la
sensibilità moderna che ci fa sentire come
insopportabile la morte di un figlio? La Bibbia stessa narra del re Davide, piegato dal
dolore per la scomparsa dei suoi cari. Nessun dispiacere sembra più grande per le spalle regali. Davide si dispera per la morte di
suo figlio, nonostante questi lo avesse tradito. E prima ancora aveva pianto, digiunato
e pregato nella speranza di salvare il piccolo
nato dalla tresca con Betsabea.
Andare avanti nella vita, dopo aver seppellito un figlio, richiede tanta forza. Al confronto, la malattia potrebbe persino apparire
come un diversivo. Ma all’Avversario serve
proseguire la sfida, giocare sui lunghi tempi. E Dio, che ha fiducia nel suo servo Giobbe, convinto che supererà anche questa prova, concede che la sfida continui: «Il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita’» (2,6).
Dunque, si ricomincia daccapo? Non proprio.
Ora i protagonisti del dramma dovranno misurarsi sui lunghi tempi. Il riconoscimento
divino che Giobbe sa mantenersi saldo dev’essere sottoposto alla prova del tempo. La
tenacia di Satana, che estorce da Dio un’ulteriore proroga, mira a verificare la tenuta di
Giobbe, sottoposto ad un progressivo logoramento. La posta in gioco si fa sempre più chiara: la fede è solo attimo di felicità o è in grado
di resistere sotto i colpi della storia?
CINEMA
R
omain Goupil è
quello che si dice
un eclettico. Militante trotzkista durante il
Maggio, precocissimo autore di cortometraggi, poi
aiuto-direttore della fotografia, assistente alla regìa
per Chantal Akerman, Roman Polanski e Jean-Luc
Godard, attore e scrittore
nonché regista in proprio
di numerosi lavori a destinazione prevalentemente
televisiva e quasi sempre di
taglio documentaristico,
sembrava destinato a una
brillante carriera dopo il
notevole Mourir à trente
ans (1982), sul destino
spesso tragico dei reduci
del Sessantotto, Caméra
d’Or a Cannes, César per la
migliore opera prima e
una nomination all’Oscar.
Pressoché sconosciuto in
Italia, arriva adesso a sessant’anni suonati sui nostri
schermi con Les Mains en
l’air (2010), maldestramente ribattezzato dal distributore Tutti per uno forse per
fare il verso al delizioso
film di Richard Lester del
1964, che in realtà nell’originale si intitolava A Hard
Day’s Night come la canzone dei Beatles che ne erano protagonisti. Anche in
questo caso il regista non
dimentica il proprio passato di impegno civile, raccontando una storia fortemente intrisa di risvolti
politici.
Milana, arrivata in Francia
dalla Cecenia con la famiglia, è una sans papier che
frequenta una classe multirazziale come d’altronde
lo sono tutte a Parigi e ormai anche da noi. Quando
per le leggi restrittive volute da Sarkozy la ragazzina rischia l’espulsione,
dapprima viene ospitata
dalla madre di Blaise, un
compagno di scuola, e della piccola Alice, fingendo
che sia sua figlia. Quando
la minaccia diventa ancor
più stringente, gli amici
Tutti per uno
organizzano un piano di
fuga che li porta a rinchiudersi in uno scantinato,
attrezzati di tutti i generi
di conforto per resistere a
lungo. Mentre la polizia si
mette sulle loro tracce, il
gesto scatena l’emulazione
di altri coetanei in tutto il
Paese. La vicenda è raccontata in flash-back, sul
filo dei ricordi di Milana
ormai sessantenne, nel
2067.
Il film parla dunque di ragazzini, della scuola, di biglietti passati sotto i banchi e le porte, del verd paradis des amours enfantins,
dei rapporti con la famiglia, ciascuno secondo un
codice di educazione legato a nazionalità, appartenenza culturale e religiosa.
E lo fa con un certo garbo,
memore di una cospicua
tradizione transalpina che
va da Jean Vigo a Louis
Malle passando per René
Clément e François Truffaut. Pur non possedendo
il tocco dei fratelli Dardenne – e non ci riferiamo solo
al recentissimo Il ragazzo
con la bicicletta – Goupil
riesce a gestire con risultati apprezzabili il gruppo
di piccoli non attori, in
particolare la più giovane
e spontanea, quella che interpreta Alice. Meno incisiva l’illustrazione delle dinamiche di coppia dei suoi
genitori, lui un po’ grezzo
e pragmatico, lei nevroticamente idealista, con
l’ambizione a fare da
chioccia a un variopinto
nucleo familiare allargato
ergendosi a paladina dei
diritti degli immigrati. Lo
stesso schematismo Goupil lo applica al côté politico-sociale, con le ragioni
un po’ troppo dette quando non urlate, come nel
colloquio chiave della madre col fratello, ideologicamente e culturalmente vicino a Sarkozy se non alla
droite della Le Pen. Di una
certa efficacia, viceversa,
l’idea di mettere tra parentesi la storia, distanziandola nel tempo, dando conto
di una sconfitta e di una
separazione il cui lungo
iato temporale lascia alla
nostra amarezza il compito di agire perché possano
essere impedite.
Detto dei giovanissimi protagonisti, bisogna aggiungere che Goupil attore si
ritaglia con disinvoltura il
gustoso cameo del padre
burbero e manesco ma nel
fondo ricco di buon senso
oltre che di una certa carica di simpatia. Nella sequenza più riuscita del
film, quella in cui i ragazzini escono con le mani nell’aria, come recita appunto
il titolo originale, in segno
di resa, il suo atteggiamento ben diverso rispetto a
quello degli altri genitori –
sarebbe tentato di riempire di sberle il figlio maggiore – ci regala un momento
di schietta comicità.
Meno convincente Valeria
Bruni Tedeschi nel ruolo
della madre. Una volta riconosciutole il merito non
indifferente di aver contribuito a che si parli male del
cognato Sarkozy, e l’attenuante di aver affrontato
un personaggio ben più
presente e difficile di quello di Goupil, bisogna anche dire che l’attrice rischia ormai di rimanere
intrappolata nei limiti di
quella maschera di nevrotica che i registi con i quali lavora le hanno fatto indossare. Oltretutto la danneggia il fatto di essersi
voluta doppiare in una lingua – l’italiano – che forse
non è più la sua.
Con tutti i suoi limiti, Tutti per uno è comunque un’
opera nobile, alla fine controcorrente in un momento in cui razzismo, xenofobìa e altre variegate forme di intolleranza sembrano caratterizzare l’atteggiamento di tanti, in Francia come in molta parte del
resto d’Europa e perfino
nella civilissima Italia. Ben
venga, dunque. Le scuole
sono ormai chiuse, ma da
settembre qualche insegnante di buona volontà
potrà recuperare questo
film piccolo ma forse necessario, e farlo proiettare
alle proprie classi, multirazziali o meno che siano.
❑
57
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ROCCA 15 LUGLIO 2011
Paolo Vecchi
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Vivere in città
ROCCA 15 LUGLIO 2011
C
’è un teatro di narrazione, e un teatro di
necessità. In una parola, un teatro che soddisfa la necessità – ora individuale e ora collettiva – di
raccontarsi per conoscere
meglio se stessi e gli altri.
L’occasione si è data – recentemente, a Milano –
con la seconda edizione
della festa denominata Via
Padova è meglio di Milano.
Il ciclo degli incontri si è
concluso con alcuni spettacoli: tutti finalizzati all’esigenza di migliorare i
rapporti di una comunità
sempre più estesa e multietnica.
Prima in tal senso la rappresentazione delle tante
storie che il Teatro Officina – il quale da quasi quarant’anni dedica la propria
collaudata professionalità
alla raccolta e alla traduzione drammaturgica delle innumeri vicende del
quartiere – ha raccolto attraverso interviste elaborate e collegate spettacolarmente.
Nell’ampio spazio del Teatro Studio del Piccolo Teatro lo spettacolo Via Padova e oltre (titolo allusivo
alle altre parti di Milano e
addirittura del mondo) si
è aperto con Massimo de
Vita – direttore del Teatro
Officina e regista della rappresentazione – che impersona, col solo mutare copricapo e spingendo un
carretto da un lato all’altro
della scena, sia un immigrato dal Sud d’Italia negli
Anni Sessanta sia un diffidente milanese doc. Un significativo prologo nel
quale irrompe all’improvviso la luminosa sagoma
dell’autobus che – percorrendo l’intera Via Padova
– raccoglie e accoglie gli
immigrati di oggi: dal
Nord dell’Africa, dall’Est
58
dell’Europa, dall’Asia, dall’America Latina.
Da quel momento – con
dialoghi, canti, danze – va
dipanandosi il lungo filo
della faticosa conoscenza
reciproca. Fino a che due
giovani tra messaggi in
rete e ingenue scritte sulle
ali di aeroplanini di carta
danno il via al finale con
la travolgente Orchestra di
Via Padova, diretta appassionatamente da Massimo
Latronico.
In tema anche l’altro spettacolo clou: il recital di
Antonio Rezza – geniale
autore di duttile mimica e
proteiforme vocalità – che
da «quadri» di tessuto colorato e ricamato fa «affacciare» e vivere incredibili
caricature di personaggi
urbani, caratterizzati tutti da una credibilissima e
qualunquisticissima indifferenza. Si ride di gusto,
ma anche amaramente
constatando che in quelle
«maschere» alla fine possiamo riconoscerci tutti.
Infine nel verde del magico Parco Trotter, a sera,
una fiaba raccontata ai
bambini – numerosissimi
– con uno spettacolo itinerante interpretato da genitori e insegnanti: Alice in
Trotterland (versione adattata alla circostanza della
famosa fiaba ottocentesca
di Lewis Carroll). Tra glicini e cespugli: le Carte da
gioco, la Lepre marzolina,
il Gatto, il Cappellaio matto e via dicendo. E Alice?
Ecco la trovata di Amedeo
Romeo, regista del Teatro
della Tosse: Alice, interlocutrice delle fantastiche
creature, erano le bimbe e
i bimbi cui i personaggi si
rivolgevano, nel regno della fantasia, scoperto – magia del teatro – sotto casa,
in Via Padova.
❑
Hotel Patria
G
rand Hotel: gente che
viene, gente che va:
tutto senza scopo».
Così si apre e si chiude People at a Hotel (Grand Hotel
in italiano) film realizzato nel
1932, e Premio Oscar, per la
Mgm. Hotel Patria – su RaiTre, il lunedì sera per quattro puntate, dal 6 giugno – è
lontano, titolo a parte, da
quella suggestione tanto per
l’andare/e/venire quanto in
tema di scopo.
Vi si raccontano, per una serata intera, situazioni e vicende che il Paese (quella Patria
posta nel titolo) ospita da
tempo e stabilmente, non
senza problemi – anzi – e
però registrando nella vita
quotidiana atteggiamenti e
modi di operare capaci di
gestire anche situazioni difficili: senza eroismi, per altro, ma con un approccio in
cui si mescolano tenacia e un
saldi orientamenti positivi.
Mario Calabresi, direttore de
La Stampa, conduce le serate di cui è coautore con un
approccio narrativo e, almeno nel primo appuntamento,
anche un po’ testimoniale. La
scuola di via Paravia a Milano era la sua scuola elementare (d’allora) e viene svelata
– nella prima puntata – come
la più multietnica d’Italia
(adesso). Il racconto, di memoria e di attualità, lega attraverso il tempo una realtà
remota di convivenze tra milanesi e meridionali con la
convivenza attuale tra un
numero inatteso di provenienze, colori, culture ed etnie, in cui molti bimbi e bimbe sono però nati a Milano e
dunque già prima generazione italiana dentro la migrazione globalizzata dell’oggi.
Si è trattato anche di un riconoscimento alla fatica ed
all’intelligenza di chi opera
nella scuola, nonostante difficoltà e tagli, circolari ministeriali ideologiche e riduzione di mezzi e di tempi per l’in-
segnamento: tra passato e
presente, interviste e servizi
ben documentati, un ospite
in studio (il compagno d’allora), non poche evocazioni
di insegnanti antiche e molte voci – mai dome – di insegnanti d’oggi, la scuola di via
Paravia, a nome della scuola tutta di questa povera patria, non ha alzato scompostamente la voce ma ha
chiesto quel che per una
scuola è giusto ed equo, ovvero la concretezza materiale a sostegno del suo ruolo
educativo.
Questa storia scolastica, in
realtà, sarebbe bastata per
una puntata intera; le altre
vicende narrate – dal costruir barche di gran livello agonistico al contrastare (ospite Dino Meneghin) il razzismo nello sport – avrebbero
potuto trovar posto in appuntamenti successivi: rendendo più fruibile il programma, più agile lo scorrimento, più chiara l’intenzione. Anche la conduzione, da
limare per quantità di parole in ciascuno degli interventi di raccordo e argomentazione, può migliorare nel ritmo e nell’auto-calibratura
rispetto all’insieme del programma: l’essere in diretta,
nel caso, può aiutare. Riguardare le conduzioni di
Enzo Biagi potrebbe essere
di grande utilità.
Hotel Patria, dunque, nel
suo essere narrazione del
reale in un’ottica di speranza praticata, si segnala per
le sue potenzialità: sperimentato in breve sul margine dell’estate, e dopo aver
persino ceduto la seconda
puntata allo Speciale del
Tg3 sugli esiti referendari,
può prenotare uno spazio
stabile nei palinsesti annuali
della rete, soprattutto dopo
i non pochi esiti infelici di
altri tentativi di rinnovamento dell’offerta (da Articolo 3 a Cosmo...).
❑
IMMAGINI
ARTE
Mariano Apa
Alberto Pellegrino
I
n Biennale a Venezia il
direttore Bice Curiger
compone, tra l’altro, anche una sorta di omaggio a
Gianni Colombo con il suo
«Spazio elastico», e ci si ritrova nella Milano di Manzoni e Castellani, del Caffè
Giamaica raccontato dal
grossetano Bianciardi e ci si
trova al cospetto dell’aristocrazia della dureriana melanconia personificata da
Lucio Fontana. Di rimbalzo, dunque, la scontrosa sapienza di Burri e l’espressività linguistica di Emilio
Villa, Colla, Capogrossi, Cagli e i giovani poeticamente
scaltri di «Forma», da Dorazio a Perilli che, oggi, ritorna in Biennale di Venezia invitato al Padiglione
Italia. Ecco a Roma, dunque, «Gli irripetibili anni
’60. Un dialogo tra Roma e
Milano» per la cura di Luca
Massimo Barbero presso il
Museo della Fondazione
Roma di via del Corso, fino
a fine di luglio e quindi poi
giustamente a Palazzo Reale a Milano.
Era l’Italia che si accorgeva
di aver lasciato alle spalle il
secondo Dopoguerra e di
potersi permettere una Autostrada del Sole, era l’Italia dell’Europa riscoperta e
degli Stati Uniti riaffermati
nella loro inedita veste di
arte e letteratura praticata:
era l’Italia del Grande Giubileo del 1950 che fu, davvero, il segno forte di una
Europa e di un mondo volto al domani nel tentativo di
rispondere alla attesa della
profezia. Superare le ideologie significava aprirsi ad
una laicità capace di vedere
di quanto il pensiero religioso si preparava alla visione
del Concilio Vaticano II: le
iconografie di Manzù e di
Minguzzi e di Scorzelli sul
Concilio hanno radice in
questa incubazione degli
anni Cinquanta tutti dentro
a forgiare gli anni Sessanta:
in quanto la giustificazione
dei «perché» degli anni Sessanta riposa nella disperazione del 1945/1948, la spe-
ranza davvero, come ci sussurra S. Paolo, è della disperazione. Superare la classicità della figura e dei realismi, superare lo scolasticismo dell’astrattismo e puntare sulla elaborazione husserliana o stirneriana del
pensiero visivo che nel solco di Boccioni/De Chirico/
Duchamp potesse condurre
a Roma ad «Origine» e a
Milano ad «Azimuth». Dentro queste radici il fresco e
nuovo albero degli anni Sessanta può permettersi di
imporsi e di far prolificare
l’intero calendario dei decenni a venire. Perché gli
anni Sessanta sono la realtà della consapevolezza, da
dove si veniva e dove si cercava di andare. Perché il
1964 è la Pop Art in Biennale di Venezia ed è Kounellis
e Schifano e Mattiacci e Festa e Lo Savio e un «Im spazio» che tra New York e Berlino, vira da Duchamp verso Beuys: e per ritornare a
Venezia in Biennale, oltre al
citato Colombo, rivivono
questa Roma e questa Milano, assieme a Calzolari in
Ca’ Pesaro, il Pascali di «Ritorno a Venezia», – per la
Puglia Arte Contemporanea, a Palazzo Michiel dal
Brusà in Cannaregio, fino ai
primi di agosto –. Si può
proporre alla geografia della manualistica istituzionale, tra Roma e Milano e Venezia, di considerare anche
Foligno: la mostra e il relativo catalogo dello «Spazio
dell’immagine» nel 1967 a
Palazzo Trinci, sono stati,
mostra e catalogo, una verifica «altra» rispetto la rigidità delle diagonali che sostenevano la geometria del
«sistema dell’arte». Una «alterità» in cui quel «sistema»
paradigmaticamente si è visto e lacaniamente si è riconosciuto. Forse in questo
«riconoscersi» vale la natura di forza spudorata e di
energia disperata e di intuita leggerezza, a confermare
e a caratterizzare anni di un
Paese che si scopre nella
possibilità di nominarsi. ❑
La lunga calza verde
È
stato recentemente
recuperato un «cartoon» intitolato La
lunga calza verde (1961),
un piccolo capolavoro
scritto da Cesare Zavattini e animato dal disegnatore Roberto Gavioli. Si
tratta di uno spot concepito nel 1961 per il mitico
Carosello in occasione del
primo centenario dell’unità d’Italia, ma non andato
mai in onda a causa della
sua lunghezza (24 minuti). Esso resta tuttavia una
delle opere più geniali
progettate per lo schermo
televisivo. Caduto nella semiclandestinità e restaurato dall’Istituto Luce, il
breve film è finalmente
riemerso con l’originario
splendore, per cui ora è
possibile visionare questo
«gioiello» estremamente
divertente. Si tratta di
un’opera ironica ma nello
stesso tempo estremamente impegnata nel tracciare in pochi minuti un
ritratto pregnante e credibile del nostro Risorgimento. Sono presenti i
principali protagonisti
della nostra storia unitaria: i carbonari scamiciati e con barbe da cospiratori che cadono sotto il
fuoco dei plotoni d’esecuzione austriaci; i borghesi austeri e compassati
che si trasformano nei
bersaglieri di Lamarmora
sotto la spinta del vento risorgimentale; Mazzini severo e imponente che scrive su un muro il nome
«Italia» con il sangue dei
martiri, mentre il grassottello Cavour, comodamente seduto in poltrona, è
impegnato a sferruzzare
una lana verde che via via
va assumendo la forma
dello stivale italico come
suggerisce lo stesso titolo;
l’imperatore Francesco
Giuseppe che balla la Marcia di Radetzky orchestrata a valzerino e trasforma
il suo pancione in una
enorme bombarda pronta
a cannoneggiare la plebaglia italica, ma il vento
cambia, la massa diventa
popolo e si batte nelle guerre d’indipendenza, i patrioti indossano la divisa militare e cadono sui campi di
battaglia per trasformarsi
subito in celebrativi monumenti di bronzo. La sequenza più geniale è quella in cui si vede il generale
Garibaldi issato sul suo
cavallo bianco che attraversa al galoppo l’intera
penisola e al passaggio del
suo gigantesco mantello
rosso si trasformano in
Camice Rosse gli studenti
universitari e gli intellettuali, gli artigiani e i borghesi del Centro-Nord, i
pastori e i contadini del
Sud e tutti vanno a ingrossare le file dei Mille partiti da Quarto e destinati a
risalire vittoriosi il Mezzogiorno d’Italia. Zavattini
sceglie una interpretazione «popolare» e quindi
«gramsciana» del Risorgimento e, con un’altra felice intuizione, colloca all’inizio un lungo prologo
dove parla dell’Italia del
«miracolo economico»
con file di macchine e torpedoni che scendono dalle Alpi per invadere il
Belpaese, portandosi via
come souvenir i nostri monumenti più celebri, mentre una voce fuoricampo
proclama «Abbiano fatto
l’Italia Unita, sta a noi farla ricca e felice», profezia
avveratasi in quanto a ricchezza, ma con qualche
dubbio sull’attuale felicità.
❑
59
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ROCCA 15 LUGLIO 2011
Roma/Milano
MUSICA
SITI INTERNET
Alberto Pellegrino
Giovanni Ruggeri
Marinai, profeti e balene
ROCCA 15 LUGLIO 2011
M
olti cantautori
hanno tratto ispirazione da testi
letterari, basti pensare a
Guccini, Vecchioni e
D’Andrè (la raccolta Non
al denaro, non all’amore né
al cielo ispirata all’Antologia di Spoon River), ma ora
Vinicio Capossela con il
nuovo doppio cd Marinai,
profeti e balene sembra
abbia voluto superarsi, cimentandosi con un’impresa estremamente difficile
anche sotto il profilo commerciale: scrivere e comporre 19 canzoni tutte
ispirate alla letteratura.
Eppure si può affermare
che quanto sembrava impossibile è invece pienamente riuscito, tanto che
si può considerare Capossela l’inventore del songbook, che egli definisce
«Marina Commedia», un
nuovo genere letterariomusicale paragonabile per
originalità al teatro-canzone di Giorgio Gaber.
Questo autore ha voluto
creare un disco ambizioso, intenso e visionario,
perché «questo è un momento di grande bruttura
nella politica, nell’informazione, nella televisione... Si respira un’aria pesante, al veleno, tipo ultimi giorni di Pompei. E,
allora, è giusto occuparsi
di bellezza, del lato divino dell’uomo, di temi più
alti». E in fatto di altezze
Capossela non scherza vista la complessità delle
fonti letterarie di riferimento. C’è l’Antico Testamento che esercita uno
strano fascino per un non
credente (Il Grande Leviatano, Job, Goliath con il ricorrente totem della balena); c’è un riferimento a
due grandi scrittori del
mare come Jack London
60
(Lord Jim) e Melville (La
bianchezza della balena,
Billy Budd, I Fuochi Fatui,
L’Oceano Oilalà); c’è il richiamo a Saffo (Le Pleiadi) e a Céline (La sirenetta
Pryntyl) con un brano jazz
dal vago sapore retrò e con
il coro delle Sorelle Marinetti, sia l’ispirazione
maggiore arriva dal mondo omerico (La Lancia del
Pelide, Aedo) e in particolare il mondo di Ulisse (Vinocolo, Calipso, Aedo, Le
Sirene) e in particolare Nostos, dove il tema del viaggio si colora di echi danteschi, la splendida canzone Dimmi Tiresia, un manifesto del bisogno di scoperta e di quella conoscenza che non è niente senza
la fede, per cui bisogna navigare e vedere nuove terre fino a quando «la morte ti coglierà dal mare/consunto da splendente vecchiezza». Siamo di fronte
all’opera di un uomo che
dice di non amare particolarmente il mare, ma che
usa questo suo «mare di
carta» come un mondo alternativo e misterioso,
una metafora del viaggio
della vita, un tema epico
sul destino dell’uomo tratto dal passato per superare la miseria del presente.
Infine abbiamo l’allegra e
coinvolgente Polpo d’amor
e una canzone come La
Madonna delle conchiglie,
divisa tra clavicembalo e
banda di paese, dove si accenna al tema attualissimo dell’immigrazione. Oltre al fascino delle parole,
colpisce il tessuto musicale profondo, poetico, carico di raffinate risonanze,
la grande varietà dei cori
che ricordano le ciurme
dei pirati o sono fatti da
voci bianche e classicheggianti.
❑
Europa digitale
E
uropa digitale a luci
e ombre: cresce l’uso
regolare di Internet, si
diffonde meno del dovuto la
banda larga, risultano ancora poche le piccole e medie
imprese on line. Sono le linee di fondo del primo quadro di valutazione pubblicato dalla Commissione Europea (http://ec.europa.eu/
information_society/digitalagenda/scoreboard/
index_en.htm) per illustrare
progressi e capitoli aperti
sul fronte della diffusione
delle tecnologie digitali negli Stati membri, a un anno
dall’avvio dell’Agenda digitale europea. L’incidenza
sociale ed economica del
comparto è troppo rilevante per non essere sistematicamente monitorata e assistita: di qui l’Agenda.
Generale soddisfazione
fanno registrare l’uso regolare di Internet, gli acquisti
on line e i servizi della pubblica amministrazione, col
65% della popolazione europea che accede regolarmente a Internet, dato previsto al 75% entro il 2015.
L’uso di internet si sta diffondendo anche tra le fasce
più svantaggiate, come le
persone meno istruite e gli
anziani (dal 42% al 48%).
Oltre la metà della popolazione di 8 Stati membri,
inoltre, compra on line –
dato che scende però al
40% se si considerano tutti
i cittadini dell’Ue. Buone
notizie vengono dal cosiddetto e-government, ossia i
servizi in rete della pubblica amministrazione, di cui
si serve il 41% dei cittadini
europei, anche se nel 2015
si dovrà arrivare ad almeno il 50% di cittadini e 80%
di imprese che si avvalgono dei servizi dell’amministrazione pubblica in Internet.
Più modesti risultano i progressi nell’ambito della disponibilità e dell’uso effet-
tivo della banda larga, ossia le connessioni ad alta
velocità indispensabili per
avere qualità e varietà di
servizi. In generale la banda larga di base è sempre
più accessibile anche nelle
zone remote, ma l’effettiva
diffusione e utilizzazione
della banda larga superveloce si concentrano attualmente solo in poche zone,
soprattutto urbane e nemmeno in tutte! L’esperienza
è sotto gli occhi di molti di
noi: vi sono periferie di
grandi città che ancora non
hanno l’Adsl (il sottoscritto può testimoniare personalmente di Bergamo,
Roma, Pesaro...), per non
dire – e qui siamo quasi alla
beffa – che nei più sperduti
paesini di Romania sono
disponibili connessioni fisse e mobili ad una velocità
stratosferica rispetto a
quella disponibile ad esempio nelle laboriose Marche!
Ebbene, obiettivo dell’Ue è
dare accesso a ciascun cittadino europeo alla banda
larga di base entro il 2013
ed alla banda larga veloce
e ultraveloce entro il 2020.
Da ultimo, il rapporto individua quali fanalini di coda
il commercio elettronico
transfrontaliero (cresciuto
nemmeno di un punto nel
2010, per un totale di 8,8%,
mentre l’Agenda punta a far
salire al 20%, entro il 2015,
i cittadini che acquistano
beni on line da oltre frontiera), la presenza in rete
delle piccole e medie imprese (solo il 26% delle Pmi
compra in Internet e solo il
13% vi vende), gli investimenti pubblici nelle telecomunicazioni.
Luci e ombre, dicevamo in
apertura. Vista l’abituale
lentezza di noi europei,
sono risultati di cui dovremo essere quasi contenti.
Ma prima potremo togliere quel «quasi», meglio
sarà per tutti.
❑
LIBRI
Tertulliano nel suo «de cultu
feminarum» dice: «Ogni donna dovrebbe camminare
come Eva nel lutto e nella
penitenza, di modo che con
la veste di penitenza essa possa espiare pienamente ciò che
le deriva da Eva, l’ignominia,
io dico, del primo peccato, e
l’odio insito in lei, causa dell’umana perdizione. Non sai
che anche tu sei Eva? La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi; la
tua colpa rimane ancora. Tu
sei la porta del Demonio! Tu
hai mangiato dell’albero proibito...»! Penso sia nata dalla
dotta lettura di questo apologeta vissuto fra il II° e III°
secolo l’urgenza di scrivere
questo saggio che la Murgia
definisce conversazione.
Il titolo «pop», un po’ irriverente, cerca e ci riesce a
riportare al 21° secolo la
condizione della donna all’interno soprattutto della
tradizione ecclesiastica ma
non ultimo fra la società civile dei benpensanti che criticamente e forse geneticamente, ha fatto propria
questa spaventosa discettazione Tertullianesca.
Se pure riprende il saluto
dell’Angelo alla Vergine, non
è un libro sulla Madonna ma
una disanima ironica a volte, divertente, cruda ma fondamentalmente vera della
scomoda posizione che «l’altra parte del cielo (+ una)»
ha collocato all’interno della storia di sempre, anche sì,
di quella attuale.
C’è, in questa bravissima
scrittrice sarda, indimenticabile il suo Accabadora, una
sorprendente e illuminante
capacità di leggere la Teologia con un taglio assolutamente nuovo e disincantato;
la bravura di cogliere fino al
midollo l’intrinseca lettura
della posizione della tradizione ecclesiastica ufficiale davanti alle figure anche storiche, recenti o passate, dalle
sante aureolate alle giovani
vergini immolatesi sull’altare
della loro virtù. C’è insomma
il divertimento di ritrovare
nelle e fra le righe, la nostra
storia ma soprattutto da lasciarci affascinare dal taglio
assolutamente nuovo e spiazzante del quale l’Autrice afferma: «... non è un libro sulla
Madonna ma sulle donne...
che non comprenderebbero
il linguaggio dei saggi accademici ma comunque patiscono le conseguenze di una
educazione cattolica assimilata fin dall’infanzia».
Caterina dalle Ave
Rocco D’Ambrosio
Come pensano e agiscono le istituzioni
EDB, Bologna 2011, pp.
280
È davvero una felice opportunità intellettuale saper cogliere un momento così propizio come l’attuale per raccontare l’universo complesso e difficile delle istituzioni.
Soprattutto per diagnosticarne la patologia evidente ed
affrontare, non senza coraggio ed un briciolo d’illuminato azzardo, una terapia di
successo. Si badi bene: raccontarlo con approccio organico, sensibilità critica e aggiornata competenza pluridisciplinare e tanto più fruttuosamente se dall’interno di
una larga prospettiva culturale in grado di tradurre in
‘paideia’ autentica i saperi
scissi della modernità.
Questo non agevole proposito è riuscito a realizzare
Rocco D’Ambrosio, professore e studioso tra i più impegnati nel dibattito sulle
scienze sociali, attento ad un
incessante lavoro di investigazione sui fondamenti storico-filosofici della politica.
Come pensano e agiscono le
istituzioni, pur riprendendo
dichiaratamente l’orizzonte
tematico di Mary Douglas
(How Instuitions think, New
York, 1986), si situa nel punto più acuto della lacerazione – la bobbiana ‘malattia’ –
del rapporto tra persona
(«corpo, cognizioni, emozioni») e istituzioni (tutto
ciò che nella più ampia
espansione metafisica è ‘abitato’ dall’uomo). Le istituzioni, nella loro ‘nuda veste’
di finzioni giuridiche tendenti ad autonomizzarsi dal
corpo che le ha generate e
politicamente giustificate,
manifestano, nella convenzionalità tecnica che le caratterizza, lo smarrimento
esiziale della loro antica anima etica. D’altra parte la crisi di fiducia istituzionale ad
ogni livello del vivere associato, conseguenza dell’efficientismo e della strumentalità organizzativa, non è
che il prezzo dovuto allo
svuotamento di ethos e di
virtù, intesi come i valori
fondativi delle istituzioni.
Uno dei pregi del libro di
D’Ambrosio consiste, appunto, nella esaltazione della virtù, individuata nella
natura ‘relazionale’ dell’uomo (Aristotele), e, al contempo, nel «volume totale
dell’uomo» (E. Mounier).
La tenace ed appassionata
ricostruzione dell’idea classica del binomio zòon/pòlis disegna il quadro teorico dell’odierna categoria del ‘politico’, avviando la ricca ermeneutica della discussione contemporanea. D’Ambrosio
mutua criticamente tale tradizione teorica e può così evitare l’insidioso agguato dell’organicismo ideologico, instaurando un fecondo legame tra retaggio culturale e urgenza pratica. In un serrato
ed aperto confronto, l’Autore
contesta fermamente sia il disincanto machiavelliano che
il borghese utilitarismo smithiano, privilegiando la dottrina della Chiesa, espressione del progetto valoriale dell’universalismo cristiano.
Grazie a questo ancoraggio
ideale, navigando attraverso i nove densi capitoli del
testo, introdotti da splendidi brani poetici, corroborati
da una vasta bibliografia e
da un prezioso indice concettuale, approdiamo al
«porto sicuro del buon vivere». Meta problematica
ma irrinunciabile, vogliamo crederlo, per chiunque
aneli a diventare e a sentirsi uomo tra uomini.
Paolo Protopapa
Armando Matteo
Presenza infranta. Il disagio postmoderno del
cristianesimo
Cittadella, Assisi 2011 (II
ed.), pp. 280, € 17,00
Il cristianesimo è oggi presenza infranta in un mondo ove sembra tramontare
il senso religioso della vita.
In questo denso volume,
che miscela articolati ragionamenti teologici, ponderati riferimenti evangelici e ambiziosi spunti pastorali, Armando Matteo indaga con grande puntualità il
disagio e la frattura che separa tale credo cristiano
dalla mentalità contemporanea, nella certezza che
«non vi è altra strada che
abitare un tale disagio e
una tale frattura, attraversarli in profondità, diventare rabdomanti di quelle
indicazioni e di quelle tracce in essi presenti che, meglio approfondite e collegate, potrebbero illustrare di
nuovo la grazia e la promettente verità del cristianesimo e comporne una rivisitata configurazione che
tenga conto della sensibilità media degli «attuali cittadini dell’Occidente».
Contro la finitezza dell’esistente decretata dalla svolta anti-metafisica dell’Occidente l’autore, affidandosi
al pensiero di Jean-Luc Marion, ravviva anzitutto la
cristiana provocazione della divinità che sa abitare il
finito e la distanza che la
libertà dell’uomo impone.
Segnalando attentamente
le riflessioni di René Girard
e Michel De Certeau, analizza quindi il consistente
tratto anti-sacrificale e
anti-ideologico della postmodernità giungendo a
formulare una coraggiosa
riconsiderazione dell’essere Chiesa nella società democratica e una rivalutazione della presunta debolezza del credere come occasione e scaturigine di
nuovo e più autentico fervore evangelico.
Tiziano Torresi
61
ROCCA 15 LUGLIO 2011
Michela Murgia
Ave Mary
Einaudi, Torino 2011,
pp. 159
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
Oms
ROCCA 15 LUGLIO 2011
L
’Organizzazione
mondiale della Sanità (Oms), chiamata in inglese World Health
Organization (Who), nata
nell’aprile del 1947, è l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata per la salute e per
le questioni sanitarie. È un
soggetto di diritto internazionale e come tale è soggetta agli obblighi imposti dalla giurisdizione internazionale: consuetudini, atto costitutivo e accordi internazionali. Al momento della
sua fondazione, gli Stati firmatari erano ventisei. Oggi
sono centonovantatre. Per
poter aderire all’Organizzazione, occorre prima essere
membri delle Nazioni Unite e quindi accettare lo Statuto. Un’anomalia è costituita dalla Repubblica di Cina
(Taiwan). Malgrado sia stato uno dei paesi fondatori
dell’Oms, in seguito all’entrata della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni
Unite nel 1972, fu costretta
a ritirarsi dall’Oms. Dal
1997 Taiwan continua a presentare domanda di ammissione all’Oms, senza esito. È
infatti la Repubblica popolare cinese a farne parte in
rappresentanza di Taiwan.
Questo non consente al paese fondatore cinese di poter accedere a informazioni
sanitarie né di partecipare
alle iniziative dell’Oms.
Struttura: gli organi decisionali dell’Organizzazione
sono tre: il Segretariato,
l’Assemblea mondiale e
l’Executive board. Il Segretariato, sotto il controllo del
Direttore generale che è
eletto ogni cinque anni, è
formato dal personale dell’Organizzazione. L’attuale
Direttore è Margaret Chan,
una cinese eletta nel 2006.
62
(Organizzazione Mondiale della Sanità)
L’Assemblea mondiale è
composta da tutti i ministri
della Salute delegati dei centonovantatre Stati membri.
Si riunisce una volta all’anno per affrontare i temi connessi al ruolo della sanità
pubblica sullo scenario internazionale. I lavori assembleari si svolgono in sedute
plenarie e con l’ausilio di
due Comitati tecnici, si discutono temi rappresentati
dall’ordine del giorno, si
adottano risoluzioni e si
approva il bilancio biennale. L’Assemblea approva anche la classificazione internazionale delle malattie basata su statistiche di mortalità e morbilità di tutti gli
Stati membri. Lo scopo di
questa classificazione è
quello di analizzare la situazione sanitaria generale delle popolazioni e di monitorare l’incidenza e la prevalenza delle malattie in relazione ad alcune variabili
esogene, quali l’ambiente, lo
sviluppo economico e l’inquinamento atmosferico.
L’Executive board è invece
il consiglio esecutivo composto da rappresentanti di
trentaquattro Stati membri.
La durata dell’organo è di
tre anni, seguendo un sistema di rotazione che garantisce la rappresentatività di
tutti gli Stati secondo una
ripartizione geografica.
Esamina dettagliatamente i
programmi dell’Organizzazione, preparando i testi
delle risoluzioni e predisponendo l’ordine del giorno.
L’Italia ha fatto parte di questo organo dal 2000 al 2003,
mentre ora partecipa soltanto come osservatore. Per
far fronte alle crisi connesse con problematiche ambientali e sanitarie, l’Oms è
presente in sei grandi regio-
ni (Europa, Americhe, Africa, Mediterraneo orientale,
Pacifico occidentale e sudest Asiatico) tramite strutture facenti capo a Comitati
regionali. Quello europeo,
di cui fa parte anche la Federazione russa, ha sede a
Copenaghen. Anche in Italia ci sono uffici di rappresentanza. Uno si trova a
Roma e si occupa di epidemiologia ambientale, sicurezza alimentare, inquinamento delle acque, dei trasporti e atmosferico, cambiamenti climatici e impatto dello sviluppo economico sulla salute. L’Ufficio di
Venezia fa ricerca sugli
aspetti economici, sociali e
sanitari della popolazione,
cercando di investire sul binomio salute-sviluppo. La
sede del Comitato decentrato dell’Africa si trova a Brazzaville (Repubblica del Congo), quella del Mediterraneo
orientale al Cairo (Egitto),
del sud-est Asiatico a Nuova Delhi (India), delle Americhe a Washington (Stati
Uniti) e del Pacifico occidentale a Manila (Filippine).
Funzioni e finalità: il compito primario dell’Organizzazione è quello di fornire
una leadership globale su
materie legate alla salute e
a programmi di ricerca sanitaria, indirizzando gli Stati verso l’adozione di risoluzioni scaturite dal monitoraggio e dalla valutazione
delle tendenze di salute, fissando norme e regole standard da applicare in ogni
stato. Si impegna per creare sinergie volte a sviluppare azioni comuni contro le
emergenze, mira alla diffusione delle conoscenze
scientifiche in materia di
salute pubblica. Si batte per
fornire un accesso equo alle
rocca
schede
cure essenziali contro le
minacce transnazionali.
Punta a promuovere il miglioramento delle condizioni sanitarie nel mondo attraverso il progresso della
medicina e dei servizi sanitari e ospedalieri, l’intensificazione e il coordinamento della vigilanza e dell’assistenza contro le epidemie,
l’incremento della ricerca
scientifica medica e farmacologica, la diffusione delle
informazioni sanitarie e la
conclusione di accordi internazionali. Raggiungere il
più alto livello di salute per
la popolazione, inteso come
benessere fisico, mentale e
sociale, nonché assistenza
in caso di malattia o infermità sono due obiettivi primari dell’Oms. Tutte queste
funzioni costituiscono il
contenuto dell’undicesimo
Programma generale (la cui
durata va dal 2006 fino al
2015), che provvede a fornire le linee guida per l’organizzazione del lavoro, del
budget e delle risorse di ogni
paese membro.
Sistema Oms: l’Oms opera in un panorama sempre
più complesso e in rapida
evoluzione. I confini della
sanità pubblica sono poco
chiari, estendendosi sempre più spesso su altri ambiti che a loro volta esercitano un’influenza sulla salute. Dal 1995 l’Oms pubblica un Rapporto sullo stato della salute a livello mondiale in cui si combina la
perizia sulla salute globale
con un focus su un argomento specifico. Il Rapporto mira a impartire indicazioni e informazioni utili
per aiutare paesi e organizzazioni a prendere decisioni politiche e finanziarie
per la salvaguardia della
salute del cittadino. L’obiettivo è quello di conseguire
un buono stato di salute attraverso un processo di sviluppo sostenibile che assicuri a tutti i cittadini servizi sanitari, anche in caso di
impossibilità a coprirne le
spese.
❑
Fraternità
raccontare
proporre
chiedere
Burundi
cibo per il corpo e per la mente
L
credibili del posto per
valorizzare e responsabilizzare le risorse umane
locali».
«Nei pressi della capitale
Buyumbura, visitando la
garderies di Mpanda» racconta la dott. Maccone
«abbiamo trovato i bambini che si sono lavati le
mani in una grande bacinella, poi si sono seduti ai
tavolinetti per mangiare
riso e fagioli (un piatto
ogni due piccoli) e, finito
il pasto, hanno lavato il
loro piatto. Qualche
mamma sorvegliava lo
svolgimento del pasto ed
era pronta a consolare il
pianto disperato dei più
piccoli che vedevano per
la prima volta muzungu
(bianchi)». L’attività didattica che gli animatori
svolgono nelle garderies
ha contenuti minimi, che
risultano però sconosciuti ai bambini al loro ingresso: dalla pratica di
regole igieniche di base all’imparare la loro lingua,
il kirundi, che poi è una
lingua bantu assai complessa, perché la maniera
in cui si pronuncia un
suono (più o meno alto o
basso) può cambiare il
senso della parola. I bambini di 3/4 anni ripetono
le parole del maestro e
cantano canzoncine,
quelli della seconda classe (5/6 anni) scrivono lettere e numeri alla lavagna, che è l’unico sussidio didattico disponibile. È aumentato il numero dei piccoli iscritti
e frequentanti, tanto che
molte richieste non possono essere accolte, perché porterebbe a superare il tetto dei 50 bambini per classe... e chi
rimane fuori protesta!
Benefattori di Fraternità,
possiamo aiutare le mense delle 9 garderies burundesi a funzionare, offrendo un pasto giornaliero, nella prima parte
dell’anno scolastico (1/2
settembre – 1/2 dicembre
2011) periodo più difficile da gestire a causa della carestia? Costo mensile: € 3.375. Costo trimestrale: € 10.125.
Luigina Morsolin
Per contribuire al presente progetto Burundi e/o al
Progetto Guinea e/o al
Progetto Haiti tuttora in
corso, si possono inviare
contributi con assegni
bancari, vaglia postali o
tramite il ccp 10635068,
Coordinate: Codice IBAN:
IT76J 0760103 0000 0001
0635 068 intestato a Pro
Civitate Christiana – Fraternità – Assisi. Per comunicazioni, indirizzo email:[email protected]
63
.
ROCCA 15 LUGLIO 2011
’aggiunta della
mensa nelle garderies» riferisce
Cristina Maccone, referente italiana per il progetto, al termine del suo
recente viaggio in Burundi dove ha monitorato la situazione nelle 9
scuole dell’infanzia interessate, ha innescato un
serio coinvolgimento
dei genitori dei bambini: in alcune scuole essi
si sono accordati per pagare un guardiano per il
controllo degli alimenti
che vengono settimanalmente forniti dal responsabile provinciale
dell’Asb. A dimostrazione di come i genitori riescano ad assumersi delle responsabilità dirette,
non solo nel chiedere
qualcosa per i propri figli, come l’ammissione a
queste scuole dell’infanzia, la cui frequenza è
gratuita, ma anche nell’impegnarsi per migliorare insieme il funzionamento di un servizio collettivo. Per questa gente
rappresenta in qualche
modo la risposta al monito popolare che ritrova nel detto burundese
«Imana ikuvyarira siyo
ikurerera/Dio ti dona figli, ma non li alleva per
te»; per l’Associazione
scout Eccomi è la realizzazione del principio
«Operare insieme ed
alla pari con partner
cittadella di Assisi, 20-25 agosto
69° corso di studi cristiani
“sporgersi ingenui sull’abisso...”
il male sfida uomini e religioni
il Corso è in collaborazione con la Comunità ecumenica di Bose, Exodus e
l’Editrice Queriniana
domenica 21
ore 9,00
16,30
21,15
lunedì 22
ore 9,00
16,30
19,00
martedì 23
9,00
16,30
21,15
mercoledì 24
ore 9,00
16,30
21,15
il male sfida gli uomini e la fede - Enzo BIANCHI, priore
Com. ecumenica di Bose
male, dove sono i tuoi dèmoni? – Marco POLITI, scrittore e giornalista
‘spesso il male di vivere ho incontrato’ – Rosella DE LEONIBUS,
psicologa e psicoterapeuta – coordina Tonio DELL’OLIO
l’inquietante banalità del male – Giovanni CUCCI, filosofo e psicologo
maschilismo e violenza – Nicoletta DENTICO, giornalista, dell’Associazione
‘Filomena, donne in rete’ – coordina Emanuele FILOGRANA
liturgia eucaristica festiva
il bene e il male in Dostoevskij – Sergio GIVONE, filosofo
‘pongo davanti a te il bene e il male’ – Rosanna VIRGILI, biblista
coordina Mariano BORGOGNONI
riscoprire il fascino e la forza del bene – Vito MANCUSO, teologo e
scrittore – introduce Raffaele LUISE
la bellezza dell’arte, terapia del male? – Svetlana MELNICHENKO e
Franco PROSPERI, scultori – coordina Anna NABOT
inaugurazione della Mostra dei due artisti
quel confine smarrito tra vero e falso, tra giusto e ingiusto…
Roberta DE MONTICELLI, filosofa - introduce Tonio DELL’OLIO
oltre i fanatismi, i fondamentalismi, le idolatrie – Marco GALLIZIOLI,
fenomenologo delle religioni – introduce Gianna GALIANO
des hommes et des dieux - film di Xavier Beauvois
in ascolto del grido dei popoli e delle coscienze – tavola rotonda
interreligiosa con Izzedin ELZIR, imam di Firenze; Elizabeth GREEN,
pastora battista; Tanaka HIROMASA, buddhista giapponese; Giuseppe
LARAS, rabbino; Dipak Raj PANT, antropologo nepalese; Domenico
SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino
coordina Raffaele LUISE, giornalista RAI
prendersi cura della terra, rigenerare la vita – Simone MORANDINI,
fisico, teologo
sull’orlo dell’abisso… resistere alla vertigine – Ermes RONCHI,
servo di Maria
‘la mia lettera siete voi’: Paolo ai credenti di oggi – testo di Ermes
Ronchi
ogni giorno,ore 8,00, preghiera del mattino con Barbara INVERNIZZI ed Emanuele PREVIDI
iscrizione (+ IVA 20%): € 90,00; per coniugi, insegnanti di religione, giovani (fino a 30 anni) € 75,00
informazioni iscrizioni soggiorno
Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg; tel. 075/813231; fax 075/812445;
[email protected]; [email protected]; ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
DCOER0874
sabato 20
ore 21,15