Norma-Jean era nata a Saint-Laurent-sur-Mer, nel

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Norma-Jean era nata a Saint-Laurent-sur-Mer, nel
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orma-Jean era nata a Saint-Laurent-sur-Mer, nel
dipartimento del Calvados, qualche mese dopo lo
sbarco in Normandia. La sua vita privata non interveniva
mai nella sua pedagogia, fatta eccezione per il corso di inizio
anno rivolto agli studenti del primo.
Non aveva trovato niente di meglio del suo nome per illustrare l’idea secondo la quale l’essere umano deambula nella
storia come sulla piazza del mercato: sua madre, nubile, le
aveva dato un nome composto, anglosassone, come ringraziamento agli Alleati, per precisione a un alleato. Paracadutato nel giardino, l’americano si era ferito. La madre l’aveva
curato e ospitato un po’ più a lungo di quanto richiedesse la
slogatura. Lui aveva passato tutta la fine della guerra al sicuro tra le sue braccia. Si era eclissato il giorno della capitolazione tedesca, lasciandosi dietro una bambina che ancora
non parlava e una giovane donna che non parlava più.
A scuola, con i compagni, Norma-Jean aveva passato l’infanzia a ripetere, a compitare e a giustificare. “Jean” in francese era un nome da maschio, ma in inglese era dato alle
ragazze. Lo si pronunciava “Gin” e tutto questo le rendeva la
vita più complicata: qui “jinn”, là “jeans”. La sua prima decisione d’adulta fu di accorciare la sua identità.
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P studenti avevano avuto il tempo di immaginare altre storie
romantiche: Norma-Jean sarebbe stata americana e soprattutto newyorkese. Si sarebbe innamorata di uno scrittore
francese che viveva lì. La passione sarebbe stata immediata,
in costante crescita, e l’amore perenne. L’anello all’anulare
sinistro della professoressa Varreau corroborava l’insieme
delle supposizioni.
Norma-Jean cominciava sempre il corso in anticipo. Gli
studenti entravano con il contagocce. Quelli puntuali aprivano serenamente la porta, i ritardatari con lo slancio della
cattiva coscienza. E tutti la richiudevano dietro di sé con
un’estrema precauzione che aveva poco a che fare con la vergogna, un po’ con la fascinazione, molto con un sentimento
difficile da inquadrare: una goccia di limone su un labbro
screpolato. All’arrivo di ogni studente Norma-Jean interrompeva il discorso per un ventiquattresimo di secondo.
Incassavano la testa nelle spalle, farfugliavano una scusa e
filavano a sedersi con la schiena curva nel primo banco libero. La qualità del silenzio che circondava le parole di Norma-Jean si perfezionava col procedere dell’anno. La sua voce
scavava nell’aria gallerie che gli uditori imboccavano. Il suono sembrava veicolato senza il supporto delle parole attraverso uno stretto condotto di senso. L’acume scolpiva il vuoto. Gli studenti leggevano sulla sua bocca ciò che era diventato densità e musica.
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ma una ruota intorno a questo unico asse. Tutte le preoccupazioni umane si incontrano in questo fulcro. La vita si può riassumere in uno scampolo più o meno ampio, stampato a motivi
che sono le nostre uniche eternità.
Il primo decennio sembra lungo e denso come un cucchiaio di
antibiotico per bambini, addolcito fino alla nausea. Il gusto
resta in bocca e a volte risale fino al naso. Un fagotto di carne e
ossa passato di spalla in spalla, un piccolo fardello che ignora la
sua traiettoria, a volte abbandonato o percependosi come tale, il
bambino acquisisce i fondamentali: per primo il linguagio, poi
la pulizia. Più in là, si adatterà molto meglio all’incontinenza
che all’afasia. A meno che, divenuto afasico, non sia in grado di
far sapere che ci si adatta più facilmente al silenzio che all’incontinenza. Ma alla fine poco importa, le due cose spesso vanno insieme.
Il secondo decennio è quello di tutti i pericoli. Vivere da stupidi, morire in modo violento. Un’enormità di traumi ha la sua
origine nell’incidente automobilistico della prima fidanzata, nella leucemia del giovane vicino, nell’overdose del figlio della
panettiera o nel coma etilico del bello della classe. Assistiamo ai
primi funerali. Sperimentiamo le prime perdite di senso davanti a tombe troppo piccole. Ingoiamo i primi bocconi di assurdità
dinnanzi a genitori distrutti, anch’essi troppo giovani per morire. Senza aver afferrato il valore della vita, cominciamo a temere la morte.
Nel corso del terzo decennio, all’improvviso, ci si rende conto
che è passato un terzo della vita. Assimiliamo un dato che fino
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tale e tragica. Senza eleganza potrebbe anche essere lenta, dolorosa e antiestetica. Correggiamo allora le nostre abitudini
riguardo alla lettura delle statistiche sulle riviste. Bisogna pensare di smettere di fumare. All’idea di durare, si insedia una certa depressione. Per James Dean l’occasione è persa. Sulla durata, mancheremo per forza di cose di eleganza.
Poi, un mattino, ci si accorge del miracolo. In dieci o quindicimila giorni di esistenza, abbiamo evitato tutti i buchi della
strada: nessun veicolo ci ha travolto, le malattie rare ci hanno
ignorato, i serial killer anche, gli aneurismi hanno scelto il
nostro vicino di pianerottolo, le guerre ci sono passate accanto, i
cancri fulminanti hanno preferito il letto di un parente… Allora, se la meraviglia della bellezza non è stata spazzata via dalle donne che ci hanno lasciato, e il fascino della luce ha perdurato malgrado gli uomini che ci hanno tradito, se nonostante la
meschinità del mondo la nostra testa ha impedito al collo di infilarsi nella corda, allora possiamo immaginare di aver raggiunto
quella che si suppone sia la metà della vita. Quaranta o cinquant’anni. È allo stesso tempo tanto e poco. In preda alla vertigine di essere arrivati lì. Così in fretta e lentamente, e come
uniche conseguenze un tempo di attivazione al mattino rallentato e del tartaro color guscio d’uovo tra i denti: secoli di evoluzione per conoscere le disavventure di un ferro da stiro… e in
più i sogni, e soprattutto il loro ricordo.
Il primo corso della professoressa Vasseur si imprimeva per
sempre nella memoria degli studenti, in particolare il modo
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* e di sguardo che poteva durare diversi secondi… e quei
secondi sembravano un’eternità.
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