QUI - Scuole di Vacallo

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L'UOMO DEL CARBONE
Era un posto ai piedi di una montagna altissima: era così alta che nessuno aveva mai
visto la sua cima sempre nascosta da nuvole strane, dei cirri che parevano gendarmi.
Era un posto dove vicino passava un ghiacciaio. Proprio così, dalla montagna
scendeva una lingua di neve e di ghiaccio che entrava nel bosco e scendeva fin dentro la
valle sottostante e si fermava solo vicino alla chiesetta e al cimitero del paese più alto. I
larici, i sorbi, le drose e i faggi che avevano osato crescere proprio a fianco di quel
ghiaccio perenne se ne stavano lì intirizziti, più bianchi che verdi, con l'aria spaventata di
chi ha appena combinato una marachella, con la faccia di chi sembra di voler chiedere
scusa al mondo per essere nato nel posto sbagliato, per aver osato crescere dove forse
non avrebbero dovuto.
Era un posto lugubre. Le notti erano così scure che non si riusciva a vedere le proprie
mani nemmeno a metterle davanti agli occhi. I faggi avevano rami che sembravano
trasformarsi in braccia pronte a rapire chiunque fosse passato di lì, i larici mossi dal vento
ondeggiavano come fantasmi in pena. Anche i lupi avevano paura e tutta la notte
ululavano nelle tenebre per tener lontani gli spiriti cattivi. Gli orsi, così grandi e grossi e
feroci, se ne stavano nel fondo delle loro caverne, vigliacchi e tremanti.
Era un posto dove solo osavano le aquile. Quando sul far del mezzogiorno nel
fondovalle l'aria cominciava a scaldarsi lievemente e risaliva lungo i ripidi fianchi della
montagna, loro aprivano le immense ali e si facevano trasportare verso l'alto. Erano uccelli
maestosi e solitari dal canto melodioso e struggente; di fuoco erano i loro occhi che tutto
vedevano: guai se qualcuno si fosse trovato a camminare sotto il loro volo fatto di giri
concentrici.
Era un posto di sentieri che salivano e scendevano dalla montagna. Erano tanti
sentieri: andavano e venivano nella boscaglia, salivano e scendevano e a seguirli non si
arrivava da nessuna parte. Prima o poi i rododendri afferravano per le gambe e
camminare diventava impossibile. Quelli che erano entrati, in quel labirinto, si erano persi
e se non li aveva trovati l'aquila di giorno, o l'orso astuto, ci avevano pensato i lupi quando
erano calate le prime tenebre della notte. La selvaggina era abbondante, ma in quel bosco
maledetto i cacciatori finivano per essere trasformati in prede e ormai erano anni che da
quelle parti non ne giungevano più.
Era un posto dove un solo sentiero era quello giusto e solo lungo quel sentiero non ci
si perdeva. Come gli altri andava e veniva dalla boscaglia, saliva e scendeva, però a
seguirlo era piacevole: il freddo era meno freddo, il buio meno buio e ogni cosa che si
vedeva o incontrava era piacevole da guardare, era una meraviglia da gustare. A prima
vista era un sentiero come gli altri, ma aveva un cuore, un cuore vero, un cuore di carne
viva che pulsava e che sapeva trasmettere calore. Quando si camminava in questo
sentiero si sentiva il pum pum del proprio cuore e le gambe correvano da sole, salita o
discesa, senza fatica, al ritmo del pum pum. Trovare questo sentiero era però impossibile,
solo potevano riuscirci gli uomini con un cuore puro e senza nessuna macchia, uomini
senza desideri e senza paura, uomini generosi e con la sola voglia di rendere un po' più
bello il mondo; ma da quelle parti uomini così non ne capitavano più da un pezzo, da anni
e anni gli unici piedi umani che calpestavano quel sentiero erano quelli di Giovannone.
Era il posto dove abitava Giovannone, dove era arrivato tanti anni prima e vi aveva
costruito la sua baita.
Giovannone era un gigante impressionante per l'altezza e per tanto che era brutto.
Tutto in lui era fatto male: i capelli sembravano gli aculei del porcospino, il naso era una
canappia, il labbro sporgeva come se avesse appena baciato la ventosa per sturare i
lavandini e quando rideva due denti marrone era tutto ciò che si poteva vedere, la barba
nerissima e pungente come il ginepro sembrava la scopa che usano gli operai comunali
per pulire le strade, le gambe erano storte e, anche se le teneva chiuse, all'altezza delle
ginocchia le lepri si divertivano a saltarci in mezzo passando da una parte all'altra. Quello
che più impressionava in lui era la gobba. Era talmente grande da sembrare un letto
matrimoniale e in effetti, volendo, ci si poteva anche stendere sopra in due. In confronto il
faccione e tutto il corpo, sebbene enormi, parevano troppo piccoli per via della
sproporzione.
Era nero Giovannone. Era nero per via del fatto che era l'uomo del carbone. Aveva
passato la vita in mezzo al fumo a produrre carbone. A poco a poco, negli anni, il fumo e
la fuliggine gli erano penetrati sotto i pori della pelle, si erano solidificati, erano diventati
parte stessa della sua pelle. E già, la pelle di Giovannone non si sarebbe nemmeno detto
fosse veramente pelle: era come toccare la parete di un vecchio camino con tre dita di
fuliggine incrostata sopra, era come la carta vetrata per lisciare il legno, era come
accarezzare la grattugia che la mamma tiene in cucina per il formaggio.
E il nero? Non era come quello degli africani che luccica al sole quando la pelle è
imperlata di sudore; il suo era un nero cupo che non avrebbe mai riflesso nessuna luce,
era un nero dalla cui crosta non usciva più neanche una goccia di sudore. In effetti,
Giovannone, come i cani, sudava solo attraverso la lingua e anche un po' dalla pianta dei
piedi.
Il suo era un nero sporco, così sporco che anche l'acqua ne aveva paura: piovesse o
nevicasse o s'immergesse in qualche ruscello, gli scivolava via sopra e non restava mai il
bagnato. Certo che questo era un bel vantaggio per uno che viveva sempre all'aperto, al
sole, al vento, alla pioggia, alla neve, al troppo freddo e al troppo caldo. L'unica cosa che a
Giovannone dava un po' fastidio era la tempesta, per via del rumore che faceva quando gli
batteva sulla pelle nuda, era come il tec tec insistente quando i chicchi di grandine
colpiscono le tegole di un vecchio tetto.
A vederselo lì davanti così nero e brutto era difficile figurarsi che tanti anni prima
anche Giovandone fosse stato un bambino bianco e rosa, un infante carino e indifeso
attaccato alla sua bellissima mamma, un cosino che, come tutti i nascituri, mettono
commozione a chi li guarda. Eppure era così, doveva essere così, come per chiunque. Ma
cosa gli era mai successo? Sopra la sua gobba era raccontata la sua storia, una storia
tremenda che nessuno avrebbe voglia di rivivere uguale.
Giovannone era nato tanti e tanti anni prima. La gente del paese che c'era lì dove
finiva il ghiacciaio, aveva sempre saputo che nei boschi abitava l'uomo nero, l'uomo del
carbone. A qualcuno gli era anche parso di vederlo sparire furtivo tra gli alberi quando la
domenica andava a spasso fin dove finiva la strada che attraversava il villaggio e
incominciava la fitta boscaglia.
C'era comunque stato un tempo in cui anche Giovannone aveva abitato in quel
villaggio, ma era stato molto prima. Gli abitanti di adesso erano i nipoti dei nipoti della
gente tra cui aveva vissuto. Di quelli che aveva conosciuto quando era nato, ormai non
c'era più nessuno, tanto lui era vecchio. Era vecchio come il cucco: forse l'aria pura e il
cibo sano e genuino che si procurava nel bosco gli avevano permesso di resistere a tutto
e per così tanto, come una quercia antica... Solo la gobba di anno in anno era cresciuta
fino a renderlo deforme.
All'inizio era stato anche lui, come tutti, un bel bimbo paffutello e dolcissimo. Viveva
felice con la sua mamma e il suo papà. La sua mamma faceva delle buonissime
marmellate con i frutti di bosco e il suo papà andava nella foresta con gli altri uomini del
paese a produrre carbone. Erano felici e si volevano bene. Quando fu un po' più
grandicello, Giovannone seguì il suo babbo e gli altri uomini per imparare il mestiere del
carbonaio. Era di primavera e la neve si era quasi tutta sciolta, gli uccelli ci davano dentro
come matti a cantare e sui larici le gemme cominciavano a rompersi permettendo agli aghi
di ricomparire con il loro verde tutto nuovo. I carbonai avevano preparato un largo spiazzo
dove avrebbero messo la pigna di legna da trasformare in carbone e di fianco avevano
costruito la loro casa. Prima avevano piazzato dei pali, poi dagli abeti avevano staccato
delle grosse pezze di corteccia. Era il periodo che sotto la corteccia la linfa aveva
cominciato a scorrere rigogliosa. La linfa è come un'acqua con dentro dello zucchero che
diventa colla quando secca: messa la corteccia tra un palo e l'altro ogni pezzo si era così
saldato assieme proprio grazie alla linfa che seccava e, dentro le pareti della baracca, non
passava più né aria, né pioggia, né neve. Finita la casa i carbonai avevano messo mano
alle scuri e alle seghe e avevano cominciato ad assalire gli alberi. Qua e là nel bosco era
tutto un riecheggiare di tac tac. Erano le scuri che inesorabili colpivano il legno degli alberi
appena sopra le radici e con il loro tac tac scavavano una tacca profonda fino a metà. Poi
boscaioli lavoravano dalla parte opposta alla tacca con delle grosse seghe. Si mettevano
uno per lato e tiravano ciascuno dalla propria parte. Grr, grr... e piano piano i denti della
sega tracciavano un solco profondo nel tronco. Alla fine c'era uno schianto, un boato, un
tonfo: l'albero ormai morto era disteso per terra. Rami e tronchi venivano tagliati in pezzi
lunghi uguali, poco più di un braccio. I pezzi più grossi venivano ancora smezzati o
squartati per il lungo e poi portati nello spiazzo vicino alla casetta. Ci voleva molta arte e
pazienza per accatastarli nel modo giusto appoggiandoli verticalmente ad un palo
centrale... alla fine tutto quell'enorme panettone veniva ricoperto di terra ed era pronto per
la fase finale: il palo al centro veniva tolto e nel buco che restava si introducevano ginestre
incendiate. Poco alla volta il fuoco si impadroniva della catasta. Era un fuoco con molto
fumo e niente fiamma perché la terra non permetteva all'aria di entrare nella catasta. Con
poca aria il fuoco bruciava lentamente, più che altro era un calore che toglieva l'acqua alla
legna, cioè la linfa che c'è dentro: alla fine il legno era tutto nero, era carbone, pesava
meno, ma poteva ancora bruciare come e più di prima. In fin della fiera veniva portato in
fondo alla valle dove si apre la vasta pianura: per le locomotive e i bastimenti che
solcavano il mare era il cibo ideale.
I boscaioli sputavano sulle mani e giù colpi di scure e sudore; sgobbavano come matti.
Giovannone era ancora troppo giovane per quei lavori e lo lasciavano vicino al capanno a
preparare il cibo. Lui riempiva di acqua il paiolo di rame e lo metteva sul fuoco finché
bolliva, poi piano piano versava dentro farina di granoturco continuando a rimestare. Dopo
più di un'ora la polenta era cotta: rovesciava allora il paiolo sopra un asse, lo toglieva e ...
una bella montagna gialla, fumante e profumata era pronta per essere mangiata. I
carbonai mangiavano polenta il mattino, a mezzogiorno e anche la sera. Per companatico
mandavano giù la saliva impastata con il fumo della carbonaia. Qualche volta, con delle
trappole ricavate da rami ricurvati ad arco, catturavano piccoli uccellini: li spiumavano e li
davano a Giovannone da buttare a cuocere con la polenta che diventava così molto più
saporita, ma a lui questa cosa faceva un'enorme impressione.
Al ritmo del tac tac delle scuri, l'estate era passata veloce e i primi freddi dell'autunno
erano giunti inesorabili portati dal vento notturno che scendeva dal ghiacciaio. L'acqua che
Giovannone metteva nel paiolo il mattino ormai era ghiaccio puro e per sciogliersi sul
fuoco impiegava un bel po'. Quell'anno, assieme al freddo, giunse anche l'influenza; la
grippe nel linguaggio dei carbonai. A quei tempi non c'erano ancora gli antibiotici come ai
nostri giorni e, se la grippe era particolarmente cattiva, si poteva anche morire. Di tutte le
grippe che si erano viste, quella fu di sicuro la peggiore di quel secolo: la chiamavano
asiatica. La presero quasi tutti e chi la prese ne morì. I carbonai si spensero ad uno ad
uno come fossero le candele dimenticate accese in chiesa dopo la messa.
Giovannone si ritrovò solo. Il sentiero per ritornare a casa sua era irriconoscibile dopo
la prima neve caduta; e comunque il villaggio di sicuro era solo un villaggio di morti.
Stranamente la grippe non lo aveva nemmeno sfiorato, ma solo nella foresta come
avrebbe potuto cavarsela? Quella notte il fuoco nella baita si spense e il Gelo cominciò a
cucire sulla sua pelle nuda, una pelle che era ancora bianca e rosa e tenera e liscia come
il velluto, una camicia di ghiaccio. Il cuore spaventato rallentò e il sangue nelle vene non
sapeva più come scorrere. Proprio in quel momento la sua mamma, che era giunta
davanti al portone dove San Pietro decideva chi poteva entrare in Paradiso, si girò verso
la Terra e lo vide. Si girò, lo vide e volle tornare da lui, ma San Pietro l'afferrò per i capelli.
Si accorse il Padreterno di ciò che succedeva e gli disse di lasciarla andare. E lei corse
via.
Correva, fuggiva,
Curreva, fuieva
....
...
sperduta, - avvilita,
sperduta, - abbelluta
piangendo, tremando,
chiagnenno, tremmanno,
impaurita, - spossata
impauruta, - sbattuta
correva, correva nelle ombre
curreva, curreva 'int' a ll'ombre
del silenzio della sera.
e dint' 'o silenzio d' 'a sera.
E, senza sapere dove stesse andando,
E, senza sapé cchiù addò ieva,
correva, correva...
curreva, curreva.
Fino a che - all'improvviso Nfi' a che - tutto nzieme uh, Dio!... si sentì
uh Dio!... se sentette
mancare il terreno sotto i piedi...
mancà sott' 'e piede 'o tterreno...
e cadde dal cielo...
E 'a cielo cadette...
Scendi, scendi, poveretta
che - nella notte piena di stelle sembri una farfalla notturna
con un tremore di ali...
Scinne, scinne, puverella
ca -'int' 'a notte chiena 'e stelle na palomma 'e notte pare
cu nu trièmmolo 'int' 'e scelle...
Scendi in terra, farfallina,
supera monti, supera il mare,
vola, scivola, scendi... Va,
l'aria è tua. Ti porta il vento
se ti stanchi e t'abbandoni...
Quante miglia stai percorrendo?
Un minuto e ne percorri cento quante altre, per arrivare!...
...
Scinne nterra, palumella,
passa 'e monte, passa 'o mare,
vola, sciùlia, scinne... Va,
ll'aria è 'a toia. Te porta 'o viento
si te stracque e t'abbandune...
Quante miglie stie facenno?
Nu minuto e nne faie cientoa quant'ate, p' arrivà!...
...
« Bambino!
Bambino mio!
Sono qui!... Mamma è tornata!... »
« Ninno!
Ninno!
Sto ccà!... Mamma è turnata!... »
(SALVATORE DI GIACOMO)
Lo vide, il suo amato figlio, quando ormai il ghiaccio l'aveva tutto avvolto. Tremando e
piangendo, impaurita e disperata, lo depose sopra la carbonaia che stava fumando. Il
ghiaccio si scioglieva in acqua e l'acqua a contatto con la carbonaia sfrigolava. Alla fine
emerse Giovannone: era stato talmente tanto tempo senza respirare che era diventato blu
come il cielo quando scurisce a sera nelle belle giornate. L’alba di un nuovo giorno stava
spaccando le ombre della notte scura e s'intrufolava silenziosa dentro le fronde degli
alberi. Ormai, per quella povera mamma, il tempo di andarsene di nuovo, e per sempre,
era arrivato in modo definitivo. A chi poteva affidare il suo povero figlio? Tutto attorno alla
carbonaia era il Fumo e lei pregò il Fumo. Era talmente straziante la sua disperazione che
il Fumo la volle ascoltare facendosi più bianco che poteva. Tornò in cielo la mamma e il
Fumo l'accompagnò per un lungo tratto. L'accompagnava lento e intanto la cullava, dolce
dolce.
Da quel giorno il Fumo con Giovannone si comportò come un padre: gli insegnò il
mestiere del carbonaio e tutti i segreti della foresta e persino a parlare con gli alberi e gli
animali. Con gli anni aveva poi imparato ad abbattere solo gli alberi che erano troppo
vecchi e stanchi di vivere: erano loro che lo pregavano affinché li trasformasse in carbone.
Anche gli animali, quando non erano più in grado di cavarsela da soli, andavano da lui
pronti a farsi trasformare in bistecche e salami. E così Giovannone era diventato vecchio
vivendo in perfetta armonia con tutta la foresta e con i suoi abitanti.
Certo che, restando tutto il tempo nel bosco, Giovannone avrebbe anche potuto
annoiarsi. Gli alberi gli parlavano, gli animali gli parlavano, ma onestamente non
permettevano delle grandi conversazioni. Se un cervo s'avvicina e saluta, di certo può far
piacere, però non è che ci sia molto da dire.
-Ciao.
-Ciao, come va?
-L'erba questa mattina era un po' troppo bagnata di rugiada.
-Potevi aspettare che si alzasse il sole, prima di brucarla.
-Avevo troppa fame, solo che ho esagerato e ora faccio fatica a ruminarla. Ci vediamo.
Tutti i giorni erano le solite cose: un po' poco per spassarsela.
Tuttavia, durante i lunghi anni lontano dagli uomini, aveva pure conosciuto la musica
che era nel mormorio felice e baldanzoso dell'acqua del ruscello che scendeva dalla
montagna. Oddio, non era proprio solo lo scroscìo ad incantarlo... anche, ma oltre quello
aveva scoperto uno strano fenomeno. Mentre ascoltava il ruscello, si divertiva a guardarlo
aprendo e chiudendo velocemente gli occhi... Ad un certo punto capitava che vedeva
l'acqua perfettamente ferma. Si concentrava allora sulle singole gocce e le vedeva
ingrossarsi come delle grandi bolle che restavano sospese nell'aria. È un esercizio facile
che tutti i bambini del mondo sanno fare se solo ci provano, ma a Giovannone capitava di
andare oltre. Dentro quelle bolle riusciva a scorgere degli strani piccoli esseri, dei folletti
verdi che suonavano, con flauti di legno, una musica celestiale. Certe volte quelle
apparizioni sparivano, come fossero delle lampadine che si spengono, altre volte invece i
folletti uscivano dalle gocce e lo accompagnavano ovunque per diversi giorni, suonando,
cantando e ballando. Dapprima Giovannone non credeva che fossero veri, pensava che
erano solo frutto della sua immaginazione. Di nascosto loro gli facevano una quantità di
scherzi: gli nascondevano l'ascia, gli rubavano la farina della polenta, gli bucavano il
paiolo e il tetto del suo rifugio e altre cose atroci. A furia di ricevere scherzi, alla fine
dovette rassegnarsi a credere che erano reali. Era talmente buono e paziente che riuscì
addirittura a farseli amici e loro arrivavano anche senza che lui guardasse le gocce del
ruscello. Venivano così, perché volevano, senza più fare scherzi; che gusto c'è, infatti, a
fare dispetti ad uno che non si arrabbia? Questi incontri col tempo furono una vera fortuna.
La sera, quando si sedeva a fumare la pipa, arrivavano i folletti a tenergli compagnia.
Raccontavano un mucchio di storie i suoi amici folletti e, a volte, facevano pure dei
pettegolezzi sulla gente del mondo intero. Infatti, loro possono girare indisturbati tra la
gente, vedere tutto, sentire tutto e nessuno li vede. Come mai sono quasi sempre
invisibili? È una cosa strana e non c'è una risposta sicura. Molto probabilmente la gente
non riesce a vederli perché si rifiuta di ammettere la loro esistenza. Per i bambini è
diverso, loro li vedono quasi sempre quando sono in giro. Capita a volte che qualche
bambino veda il folletto andando a passeggio, o magari anche al supermercato, e lo dica
alla mamma. La risposta è sempre la solita:
-Ma cosa dici? I folletti non esistono, sono solo inventati dentro le storie...
A furia di sentirsi ripetere queste frottole dai grandi, alla fine anche i piccoli non ci
credono più e perdono la capacità di vederli... e a volte capita perfino che ci vadano
addosso. Alcuni bambini addirittura, appena smettono di crederci, si dimenticano anche
del tempo in cui li scorgevano normalmente. Eppure quanti ruzzoloni per colpa di un
qualche folletto dispettoso che fa lo sgambetto nel bel mezzo di un gioco!
Giovannone non usciva quasi mai dal bosco, eppure grazie ai folletti sapeva i
pettegolezzi su tutti: il Mario aveva baciato la Romina, il Giuseppe aveva comperato la
nuova auto in leasing, il piccolo Samuele aveva disubbidito e ora non poteva più vedere la
televisione per una settimana, al signor Besucchi gli era salita la pressione e alla signora
Palmira dava fastidio il colesterolo. Spesso sparavano anche un sacco di frottole, però
erano divertenti. Il bello del bello era quando tiravano fuori le storie: ne sapevano di tutto il
mondo e le raccontavano molto bene. Giovannone, sul far della sera, appena dopo
mangiato, fumava la sua pipa, caricata col carbone invece che col tabacco, e li stava a
sentire finché si addormentava: sognava la sua mamma e di lui che diventava ancora
bambino con la pelle bianca e rosa e senza la gobba, sognava e il fumo della sua pipa
saliva al cielo con i suoi sogni e accarezzava i piedi della sua mamma. Lei rideva ed era
felice.
Come tutti sanno i folletti sono piccoli esseri viventi del bosco, giocosi e burloni che
uno scherzo lo pensano e un altro lo combinano: forse è per questo che non tutti li amano.
Però, quando si avvicina il Natale, il lavoro che svolgono per Babbo Natale lo fanno
veramente bene. Intanto spiare tutti i bambini del Mondo per scoprire se fanno i bravi e
marcar giù su un foglietto tutti i dispetti, bugie e disubbidienze che combinano, non è mica
facile. Poi, per quelli bravi, bisogna procurare tutti i regali e caricarli sulla slitta; piccoli
come sono fanno veramente una gran fatica con certi pesi! Infine devono andare lassù nel
Grande Nord, nella tundra sconfinata percorsa da tempeste di neve, e cercare le renne.
Quando le si è trovate, bisogna ancora convincerle a tirare la slitta: sono bisbetiche,
inventano mille scuse e prima di farle ragionare bisogna discutere per delle ore. Ogni
anno, prima che la slitta possa partire, tutta la fregola dei folletti finisce in uno stress
peggio di quello dei maestri quando gli allievi non ubbidiscono.
Giovannone, il Babbo Natale lo incontrava tutti gli anni. Per lui era solo un vecchio
pazzo. Ogni anno lo vedeva uscire dalla nube che ricopriva sempre la vetta della
montagna e venir giù a rotta di collo dal pendio ghiacciato: davanti c'erano le renne, degli
strani animali che sembravano un po' i cervi maschi del suo bosco prima che in inverno
perdano le corna, e dietro una slitta stracolma di roba. Sopra, come se nulla fosse, Babbo
Natale era stravaccato, quasi dormisse, incurante del pericolo. Giovannone aveva sempre
paura che le renne inciampassero in qualche passaggio difficile o precipitassero mentre
costeggiavano cenge e burroni e allora chiudeva gli occhi, ma loro non sbagliavano mai e
nel tempo dello sbadiglio di un gallo passavano via davanti alla sua baita sollevando un
gran nuvolone di fuliggine, cenere e neve tutto assieme.
Un giorno che Giovannone era lì che controllava il fuoco della carbonaia, chiudendo o
aprendo i buchi nella terra che la ricopriva in modo da regolare l'entrata di aria e quindi la
forza del fuoco, gli comparve davanti una bellissima bambina. Gli venne un colpo e la pipa
gli cadde per terra. Da dove poteva venire quella bimba che aveva sfidato gli animali feroci
della foresta e tutti gli intrighi degli alberi? La guatò: i suoi occhi erano neri neri e profondi
e mostravano segno di non aver paura di nulla. -Perbacco, era proprio perché non aveva
paura che aveva trovato il sentiero con il cuore ed era arrivata fin lì!- pensò Giovannone.
Quella bambina così piccolina aveva avuto più coraggio di tanti grandi, anche più coraggio
dei cacciatori che erano entrati nella foresta, baldanzosi con i loro fucili carichi, ma poi
avevano finito per farsela sotto. Stava per chiederle qualcosa, ma fu la bambina che parlò
per prima:
-Ciao, sei tu Giovannone?
-Sono io, chi ti ha parlato di me?
-Mi chiamo Siria e il mio nonno mi ha parlato di te. È il Giovannino e fa il fabbro nel
villaggio. Mi ha detto che solo tu puoi convincere Babbo Natale a fermarsi anche nel
nostro paese qui sotto a lasciar giù qualche regalo come fa con tutti gli altri bambini del
Mondo.
-Beh, forse tuo nonno si sbaglia. Io, quel tuo Babbo Natale, lo vedo solo di sfuggita e
non ho mai avuto occasione di parlargli.
-Però il mio nonno Giovannino ha detto che tu sei molto amico di tutti i folletti della
foresta e che se parli con loro puoi mettere a posto le cose. Anche noi siamo bambini
come tutti gli altri, facciamo quasi sempre i bravi e non è giusto che ci sia questa
ingiustizia mondiale.
-Hai ragione, vedrò cosa posso fare. Domani vedrò di passare da tuo nonno e gli darò
una risposta. Intanto sali pure sulla mia gobba, che ti riporto a casa.
-Non è necessario, - disse la bambina, -quelli che non hanno paura di niente come
me, trovano sempre un sentiero con un cuore; lungo quel sentiero corrono e corrono a
perdifiato e alla fine arrivano sempre dove devono arrivare.
Detto fatto la bambina mise le gambe in spalla e scese verso il paese con dei balzi
che pareva una lepre o un capriolo in fuga.
Quella sera stessa Giovannone parlò con i folletti del bosco. Chi disse una cosa, chi
ne disse un'altra... alla fine parlavano tutti assieme come i signori della politica quando
fanno i dibattiti in televisione. Verso mezzanotte però un'idea se l'era fatta e andò a
dormire tranquillo: all'indomani avrebbe avuto qualcosa da raccontare al Giovannino!
Il giorno dopo, sul far della sera quando tutti sono a cena, giunse nel villaggio. Da
quando era andato via da bambino e poi la sua mamma e il suo babbo erano morti, non ci
aveva più fatto ritorno. Erano passati un'infinità di anni e il suo villaggio non gli sembrava
ormai più il suo villaggio, talmente era cambiato. In fondo alla via sentì un deng deng e
capì dov'era la fucina del fabbro. La raggiunse e spiò dentro dalla finestra. Giovannino era
così piccolo che non arrivava nemmeno al tavolo. In compenso aveva le braccia
muscolose e talmente lunghe che toccavano terra. Dentro la forgia c'era del carbone
acceso e Giovannino girava con una mano una manovella. Di sicuro quella manovella
faceva arrivare aria sul carbone, perché lo si vedeva diventare sempre più rosso. Con
l'altra mano serrava una pinza che gli serviva per tenervi un ferro che veniva appoggiato
proprio in mezzo al carbone incandescente: si vedeva il ferro diventare prima rosso e poi
bianco. Come era bianco al punto giusto, Giovannino lo tirava fuori, lo appoggiava
sull'incudine e gli picchiava giù dei colpi impressionanti con un grosso martello. Quando il
ferro perdeva calore e ridiventava rosso, veniva rimesso dentro la forge, e poi di nuovo
deng deng... con il martello. Alla fine il ferro aveva preso la forma di una scure. Giovannino
aspettò che a contatto con l'aria si facesse di un bel rosino e, a quel punto, mise il bordo
della nuova scure per un attimo nell'acqua, la tirò fuori, la rimise sulla forge per rifarla
diventare bianca, la tolse e aspettò che raffreddando il bianco si facesse oro lucente... lo
immerse di nuovo nell'acqua: ora era una scure dalla tempera perfetta.
Giovannone entrò:
- Salve compare, ti ho portato un bel sacco di carbone per la tua forge.
- E io ti ho preparato una scure nuova per il tuo lavoro. Vieni qui e facciamoci una
bella fumatina.
- La pipa me la sono portata, ma...
- Lascia perdere, prendi una presa del mio tabacco cubano: vedrai che non hai mai
fumato niente di meglio!
- Questo di sicuro...
Si sedettero, misero il tabacco nel fornello della pipa, lo compressero al punto giusto
con i loro pollici neri, accesero un fiammifero, aspirarono golosi e dopo un po' il fumo
diffondeva la sua fragranza in tutta l'officina. Per qualche tempo se ne stettero zitti
assaporando il piacere della fumata, poi Giovannone espose il suo punto di vista:
- Quando Babbo Natale giunge dal Grande Nord, che è ancora più in su della
Finlandia, passa la montagna, scende dal pendio e le renne sono ancora freschissime,
vanno troppo veloci, non si fermano perché non fanno in tempo a frenare. Bisognerebbe
convincerle a rallentare con un qualche trucco, magari con un po' di fieno o meglio ancora
con un po' di sale sui davanzali della finestre: infatti, come tutti gli animali erbivori, sono
molto golose del sale. Per Babbo Natale invece bisognerebbe fargli trovare un bellissimo
albero. In particolare lui adora quelli decorati con i disegni dei bambini. Inoltre quelli che ci
possono mettere una buona parola, come il solito, sono i folletti. La loro festa è il 6 di
dicembre: se durante quel giorno, o anche dopo, vedono i bambini vestiti da folletti che
fanno delle danze, sono felicissimi e di sicuro riescono a far fermare il Babbo Natale con i
suoi magnifici doni.
Giovannone tacque. Continuarono a fumare ancora per un po', i due Giovanni, finché
il tabacco finì. Vuotarono le pipe picchiandole a rovescio sul pavimento, se le rimisero in
tasca e si bevvero ancora un bel grappino per scacciare il freddo della notte. Giovannone
si mise sulla gobba la scure che l'altro gli aveva regalato e partì. Sull'uscio si girò un'ultima
volta e disse:
-Allora, intesi?
-Intesi, - rispose l'altro.
Da quell'anno in poi, il 6 dicembre, i bambini di quel villaggio danzano vestiti da folletti,
fanno i bravi fino al 24, preparano un bellissimo albero pieno di fantasia e di bontà, e la
notte della Vigilia sui davanzali lasciano un pochino di sale per le renne.
Vicino a Vacallo c'è una valle che si chiama Val Cudriga. Nei tempi antichi, quando
faceva molto più freddo, da lì veniva giù un ghiacciaio. Ora non c'è più, ma quella è
sempre la strada da dove passa Babbo Natale. Se sali in alto al paese dove finisce Via dei
Larici, trovi un sentiero. Poco più sopra c'è un posto che si chiama Pian Giuvin. In quel
posto ci sono molti sentieri e tra di loro ce n'è uno che è quello giusto, perché ha un cuore
di carne viva, un cuore vero, un cuore che fa pum pum... Se lo segui troverai un masso
scuro; in verità non è un masso scuro, sembra solo un masso scuro: in realtà è
Giovannone che è ancora lì con la sua pipa chiusa tra i suoi due denti marroni. Sta fermo
e non si muove solo per non spaventare i bambini; ma è proprio vivo come me e te e,
quando non c'è nessuno, se ne va in giro per il bosco come se nulla fosse. Solo non fa più
su il carbone, perché ai nostri giorni non lo usa più nessuno. Se lo vedi salutalo e
ringrazialo per aver convinto Babbo Natale a fermarsi anche a Vacallo.