rivista di letteratura / 3
Transcript
rivista di letteratura / 3
rivista di letteratura / 3 Giugno 2011 in copertina: Donna che scrive - Jan Vermeer - 1665 Cari lettori, siamo giunti al terzo numero de L’Amanuense. Speriamo vi sia piaciuta la nuova veste grafica che abbiamo cercato di migliorare, prestando più attenzione ad alcuni particolari, nel tentativo di offrirvi una rivista sempre migliore. Gli autori, già noti e non ai lettori, ci presentano nuovi ricordi e nuove storie. Un doveroso grazie alla Buzzi Unicem S.p.A. per il generoso contributo. Non ci rimane che augurarvi una buona lettura. La redazione Indice Racconti di Sebastiano Viancino Io conosco il futuro di Piero Peretti Passione videogiochi di Enrico Falabrino Orazione in lode dei frati di Pier Franco Irico Musica: la modernità della sua funzione sociale di Jacopo Falabrino Correnti d’aria di Emma Pretti Teresa di Mario Balocco Quando la vita non sempre sorride di Mariangela Tavano L’uomo che si dimenticò di vivere di Roberto Paulato W la leva W i tiròn di Remigio Buzzi Madamin dal prüm pian di Rita Tavano Sebastiano Viancino, 9 anni La dea Ghirlanda All’inizio, prima del tempo, sulla Terra, le notti erano buie e senza Luna. La bellissima dea Ghirlanda aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi e la coda da sirena. La luce le piaceva molto, infatti di giorno era sempre allegra, invece di sera era molto triste perché non c’era la luce della Luna. Allora, una notte, andò sul monte Olimpo a chiedere a Zeus se poteva far nascere la Luna, ma costui rifiutò e la dea Ghirlanda tornò sulla Terra per riposarsi, ma non riusciva a chiudere occhio. Finalmente si addormentò e, ad un tratto, i suoi capelli cominciarono a brillare. Improvvisamente una ciocca di capelli si staccò dalla chioma, volò in cielo e così nacque la Luna. Ora le notti sono illuminate dalla luce della Luna grazie alla bellissima dea Ghirlanda. Mago Mirtillo Mi chiamo Mago Mirtillo e ho nove anni. Vivo in una villa segreta che si chiama “La Villa delle magie”! Io possiedo anche un laboratorio pieno di sostanze chimiche e pozioni magiche. Tempo fa volevo apprendere la magia da un libro, ma non ce l’ho fatta, allora sono andato dal Maestro Pizza e ho imparato tutta la magia in due anni. Il Maestro Pizza aveva i capelli rossi come un pomodoro, gli occhi neri come le olive e la sua pancia era rotonda come una pizza! Un giorno, uscito dal mio laboratorio, sono andato nel bosco a prendere dei mirtilli e ho visto un branco di lupi che correva verso di me, allora ho fatto la magia “Pietrificum!”: il branco si è pietrificato. Mentre continuavo a raccogliere i mirtilli sono arrivate delle lepri con i denti a sciabola; questa volta ho applicato la magia “Teletrasportus!”. Ho teletrasportato quelle lepri lontano dalla mia città. Ho dovuto fare questa magia perché avrebbero potuto azzannarmi, lasciare il veleno e in pochi secondi sarei morto. Le conseguenze delle mie magie sono positive perché così la mia città non può più essere invasa da lupi e lepri dai denti a sciabola. Piero Peretti “IO CONOSCO IL FUTURO...” Che mio bisnonno Pietro, in gioventù, fosse un pochino “birbone”, lo raccontavano in molti. Egli era soprattutto “famoso” per i suoi scherzi a volte un poco pesanti, anche a carico dei Carabinieri Reali che spesso lo inseguivano a causa delle sue (ora diremmo quasi innocenti) bravate, ma non solo... Ebbi la conferma del suo comportamento quando, durante una delle mie ricerche nell’Archivio Storico del Comune di Palazzolo, mi capitò tra le mani un documento che così recitava: “ Comune di Palazzolo Vercellese, 7 settembre 1888. Il Regio Sindaco, visto l’articolo 102 n.8 della legge 20 marzo 1865, ecc...ecc... vista la nota in data d’oggi del Sig. Pretore di Trino, dichiara che Luparia Pietro di Giuseppe e Poy Teresa, di anni 26, contadino, ammogliato con prole, nato e domiciliato in questo Comune, fece parlare un poco di sé e tenne sin qui una condotta un po’ riprovevole. Che se laborioso nei giorni feriali, nei festivi si ubriaca, schiamazza e attaccabrighe. Fu già condannato per furto, ferimento e clamori notturni, e perciò è capace di delinquere in linea di furti, specialmente se in preda al vino e spinto dai cattivi compagni che frequenta.” Un quadro non proprio esaltante del suo comportamento, nonostante si riconosca che era un lavoratore, ma purtroppo il vino... Ma qual’era la colpa per la quale aveva subito una condanna? Beh, aveva rubato, nel bosco, due fascine di legna da ardere... ed era stato visto dalla guardia! Ad ogni modo lo si poteva definire una “testa calda”, almeno in anni giovanili. Quello che racconto ora è un episodio a lui attribuito e sono certo che sia realmente accaduto. Essendo un bracciante e dovendo, per così dire “sbarcare il lunario”, ossia mantenere se stesso e la famiglia, anche in una stagione in cui i lavori nei campi erano terminati, prese una decisione: venuto a sapere che a Genova cercavano buone braccia per lavorare all’ampliamento del porto, si convinse di andare in quella città, per guadagnare qualche soldo. L’inverno era alle porte, e doverlo superare senza il becco di un quattrino, era un problema non da poco. La sua partenza voleva dire raggranellare qualcosa e togliere alla famiglia una bocca da sfamare (la sua!). I debiti che si sarebbero fatti durante la brutta stagione potevano poi essere saldati in primavera. Partì con un compagno, anch’egli nelle sue stesse condizioni. Presero una carriola, con sopra due pale e due zappe (attrezzi che potevano servire per il lavoro a Genova) e si diressero a piedi, avventurandosi per una strada lunga e sconosciuta. Di notte chiedevano ospitalità in qualche cascina e dormivano nei fienili o nella stalla. Per mangiare si arrangiavano con un poco di quello che trovavano: un po’ di latte e una pagnotta riuscivano sempre a rimediarla, magari facendo qualche piccolo lavoro per i contadini che li ospitavano. Così, passo dopo passo, superarono le colline e raggiunsero le montagne. Un giorno, lungo il loro tragitto, si imbatterono in un vecchio frate e con lui percorsero un tratto di strada. Il vecchio chiese dove fossero diretti e loro risposero che la meta era Genova... per lavorare al porto. Iniziarono poi a parlare della mancanza di lavoro e che per questo motivo molta gente, povera e disperata, si imbarcava per le Americhe per cercare migliore fortuna. Nonno Pietro disse che loro avevano intenzione di ritornare alle famiglie, passato l’inverno, e che non volevano imbarcarsi. E poi il nonno aggiunse: “fra pochi anni ci troveremo nel nuovo secolo...e si spera che porti migliori prospettive.” Il frate li guardò corrucciato e disse: «Poveri ragazzi, io ve lo auguro, ma temo che il nuovo secolo non porti nulla di buono, anzi vi dico che ci sarà una grande guerra che voi neppure immaginate, con milioni di morti, tante lacrime e tanta distruzione...e poi magari si dovrà ricostruire tutto! E allora chissà! Purtroppo...io conosco il futuro...». Dopo questa previsione li salutò e prese un’altra strada. I due uomini rimasero scossi dalle parole del frate e continuarono il loro cammino commentandole con una certa perplessità e preoccupazione. Dopo poco tempo incontrarono una giovane zingara che si affiancò a loro offrendo le sue arti divinatorie, scambiando i viandanti per due poveri contadini sempliciotti e ingenui. Per pochi centesimi era disposta a raccontare il loro passato. Nonno Pietro le disse che non erano interessati: il loro passato lo conoscevano già! Allora la zingarella, sempre più insistente, disse che, sempre solo per pochi soldini, era in grado di prevedere il futuro. A quel punto il nonno si fermò di colpo e le disse: «Davvero? E sai anche prevedere il futuro prossimo?» «Certamente» rispose la ragazza, «quello è ancora più facile!» Improvvisamente nonno Pietro le diede un sonoro ceffone. Al che la zingara stupita e dolorante si lamentò: «Ma siete matto, perché mi avete dato uno schiaffo?» «Scusa, ma se tu veramente conosci il futuro avresti dovuto prevedere che io ti avrei dato un ceffone! Non ti pare?» La poveretta si allontanò a gambe levate! Mentre i due uomini ridevano a crepapelle. Emanuele Luzzati, Pulcinella e i Carabinieri Enrico Falabrino PASSIONE VIDEOGIOCHI Al giorno d’oggi i videogiochi sono una tra le principali forme di intrattenimento per i ragazzi e hanno raggiunto dei prezzi esorbitanti (i giochi per console next-gen costano dai 55 agli 80 Euro). Esistono diversi generi di videogame. Azione e avventura (Devil May Cry), sparatutto (Call of Duty), avventure grafiche (Monkey Island), survival horror (Resident Evil, Alone in the Dark The New Nightmare), stealth (Metal Gear, Splinter Cell) e la lista potrebbe ancora continuare. Ora, però, voglio parlare dei cosiddetti “giochi dimenticati”, giochi che hanno emozionato i ragazzi di una volta e di come vengono visti e considerati al giorno d’oggi. I videogame nacquero negli anni settanta del XX secolo come distrazione per la gente dai problemi e dalla depressione che dilagavano in quel momento. Gli ideatori vollero immergere la persona nel (suo) loro? mondo, facendola partecipare a una vera e propria odissea. Per questo la prima console casalinga, che utilizzava cartucce intercambiabili, venne chiamata “Odessy”. Ma i videogiochi iniziarono a prendere veramente piede solo una decina di anni dopo. Nel 1983, infatti, uscì in Giappone il Nintendo Famicom (family computer), meglio conosciuto in America e in Europa come Nintendo Entertainment System (NES). Il sistema era venduto con un gioco divertente: il poi famoso “Super Mario Bros”. All’inizio degli anni novanta, la società conosciuta come SEGA entrò in competizione con la Nintendo e la campagna pubblicitaria della nuova compagnia puntava sul fatto che il SEGA GENESIS fosse una console A 16 bit, mentre il NES ne aveva solo 8 quindi il nuovo prodotto aveva una grafica e un suono migliore. In risposta, la Nintendo produsse il Super Famicon (Super Nintendo Entertainment System, Super Nintendo, Super NES, SNES), anch’esso a 16 bit. Questa competizione diede inizio alla cosiddetta “guerra dei bit”che portò l’interesse e la scelta dei giocatori a essere legato al numero dei bit. In questo modo, la gente iniziò a pensare più alla grafica che non al gameplay di base. Questo modo di vedere, purtroppo, è ancora diffuso anche oggi. Infatti, il gioco può anche essere mediocre, ma se la grafica è “super pompata” viene considerato comunque oggetto di ammirazione, mentre i giochi in Old-Style sono lasciati sugli scaffali e considerati quali semplici giochini. Fortunatamente, sta avvenendo un certo “ritorno al passato” e si ripropongono molte serie di videogames esattamente come erano venti o trent’anni fa: Megaman Powered up, Megaman Maverick Hunter X, Castlevania the Dracula X Chronicles, New Super Mario Bros , Bionic Commando Re Armed, ecc. Questa riproposta è riuscita a stupire non solo i vecchi giocatori, ma anche quelli attuali e, spero, anche quelli del futuro. Per questo ritengo che il miglior slogan per qualsiasi forma di intrattenimento potrebbe essere: “riscoprite i classici, non ve ne pentirete”. Concludo, ringraziando sentitamente la mia professoressa Cristina Merlo per la revisione del mio testo. Pier Franco Irico ORAZIONE IN LODE DEI FRATI (CHE NON CI SONO PIU’) L’altro giorno, mentre ero in cortile, un frate mi ha sfiorato. Erano mesi, forse anni che non ne vedevo uno così da vicino. Era solo, piccolo e la coda non era rossa sicché doveva essere una femmina, così per lo meno ci avevano spiegato una volta. Quando l’ho scorto ho cercato di seguire il suo volo, fatto a sbalzi, pensando si posasse su un qualche ramo per riposarsi. Al contrario, ha compiuto un paio di giri poi se ne è andato e chissà a quest’ora dov’è. Il frate di cui parlo non ha niente a che vedere con il religioso in tonaca, sandali e cordone bianco in vita, bensì mi riferisco alla libellula, semplicemente, che da noi in dialetto viene appunto chiamata “fra”, frate. Un insetto della famiglia degli ortotteri, con l’addome allungato, quattro sottilissime ali membranose e reticolate che si aprono a libro, onde il nome. Come detto, era da tempo che non ne incrociavo uno e oggigiorno il vederlo diventa un avvenimento da raccontare: sai, oggi ho visto un frate (n’cö ieü vist in fra). Certo, una volta il cielo era pieno di frati e noi non si faceva neanche caso. Tanti anni fa una signora torinese che incontrai per caso da queste parti mi domandò: “Cosa sono quegli insetti? Pungono?” Forse a Torino non si erano mai visti. In estate sui fili tesi per i panni, sui cancelli, sulle grondaie, sulle (poche) antenne tv, ovunque c’era posto i frati si posavano. Si fermavano per riposarsi o per scaldarsi al sole? Non si è mai saputo. Quando erano immobili abbassavano le ali: era quello il momento adatto per poterli prendere. Quanti giochi abbiamo fatto con i frati, spesso anche crudeli! Gli si tagliavano le ali e poi li si metteva nei pressi di un nido di grosse formiche, era una lotta impari da gladiatore contro i leoni e vincevano sempre le formiche. Un altro barbaro svago era di farli combattere tra di loro in un vasetto di vetro. Ma il passatempo più originale (anticipatore degli sms?) era quello di scrivere minuscoli biglietti, legarli con un filo sottile alle code dei frati e liberarli. I messaggi erano infantili, tipo: sappiamo dove è nascosto un tesoro, ecc. Chissà dove li portavano e se qualcuno li ha mai letti? Erano anche utili i frati. Si nutrivano di piccoli insetti, di moscerini che qui non mancavano. Ma a loro volta erano cacciati dagli uccelli, dai pipistrelli o dai pesci quando si posavano sui fili d’erba di uno stagno. Vi svelerò un segreto raccapricciante: molti di noi ragazzi mangiavano il corpo dei frati in quanto si diceva contenesse tonno. Che schifo a pensarci ora! Poi, poco alla volta, i frati sparirono quasi completamente e non saprei dire con precisione quando ciò ebbe inizio. Fu colpa, si disse, dell’uso della chimica nelle risaie. Fatto sta che non si videro più nei nostri cieli, a parte rare colonie attorno a piccoli corsi d’acqua in campagna. Per fortuna (o purtroppo?) siamo cresciuti anche noi e non abbiamo più avuto bisogno dei frati per i nostri passatempi che hanno preso altre strade. Però i bambini che sono venuti dopo di noi non li hanno visti e non sanno quello che hanno perso. Oggi si divertono con i videogiochi per i quali non c’è bisogno di correre tanto. Sapessero com’era interessante osservarli da vicino, prendendoli per le delicatissime ali, esaminando per bene quei loro occhi grandi e rotanti, le pinzette nere sulla bocca che usavano per cacciare le prede, le minuscole uova poste sotto il ventre della femmina e le lunghe zampette (quattro, sei?) che si attaccavano a ogni cosa, la coda gialla o rossa che curvava a uncino. Non vedremo più le frotte di ragazzini in pantaloncini corti che all’oratorio, nei prati o nei cortili di casa si appostavano silenziosamente per poter catturare il frate più ambito: quello con la coda rossa. Quando riuscirò a vederne un altro? Ritorneranno? Ps. Vi era anche una sottospecie del frate, una libellula simile ma più piccola e di colore scuro, che da noi si chiamava “mogna” (monaca). Mark Morton, Lamb of God Jacopo Falabrino MUSICA: LA MODERNITA’ DELLA SUA FUNZIONE SOCIALE La musica, fin dall’antichità, in particolare nella Grecia dei secoli V e IV a. C., è stata considerata la forma d’arte per eccellenza, superiore anche alla scultura e alla pittura, grazie, soprattutto, al suo valore sociale. Dopo più di duemila anni conserva ancora la sua funzione, sebbene sia stata relegata da molti a un grado di considerazione inferiore. E’ innegabile, per esempio, che, in varie occasioni, la musica riunisce milioni di persone, aumentando la coesione sociale. Oggi, poi, per mezzo di internet e della televisione, tutti possono sentirsi partecipi di eventi, ai quali, altrimenti, non avrebbero accesso. Si pensi solo ai festival che si svolgono annualmente nel mondo. Tra questo, fondamentale importanza ha il “Download Festival” che, ai primi di giugno, richiama al Donnington Park, nel Regno Unito, pubblico da ogni nazione. Sull’enorme prato che circonda il palco, centinaia di migliaia di fan, per cinque giorni consecutivi, ballano, si scatenano, bevono e mangiano al ritmo della migliore musica hard rock e heavy metal, condividendo la stessa splendida passione. Tuttavia, se si desidera comprendere a pieno l’eccezionalità di questa arte, è consigliabile provare direttamente l’emozione di suonare uno strumento all’interno di un gruppo. Fortunatamente e, in un certo senso, orgogliosamente, dispongo di tale possibilità e sono in grado di dimostrare che mi aiuta a affrontare i problemi della comune vita sociale. Far parte di una band, infatti, è come essere membri di una azienda: si deve svolgere il proprio lavoro, confidando nelle capacità dei col- leghi. Quando studio i pezzi a casa, mi concentro soprattutto su ciò che devo personalmente imparare, ma non posso prescindere dall’operato degli altri; se il batterista non conosce al meglio la sua parte, difficilmente la mia esecuzione sarà perfetta. Lo stesso accade nei gruppi più famosi. Qualora si crei un clima di sfiducia reciproca tra i componenti, viene meno anche l’alchimia che crea i capolavori. Perché i lavori dei Lamb of God, quintetto groove metal statunitense, sono sempre ottimi e ricchi di ispirazione? Il loro segreto sta nell’affiatamento e nella fecondità del confronto, oltre che, ovviamente, in una preparazione tecnica adeguata. Altro aspetto da non sottovalutare è che, attraverso i testi musicali, vengono trasmessi molti messaggi significativi, mescolati all’armonia delle note, quasi si trattasse della medicina amara, addolcita col miele, della quale parlava Lucrezio nel proemio del suo “De rerum natura”. Al giorno d’oggi, i Rage Against the Machine, gruppo californiano, costituiscono un esempio evidente di tale fenomeno. Questi quattro ragazzi di Los Angeles sono riusciti, a partire dagli anni novanta, a diffondere gli ideali comunisti tra i giovani della West Coast, obiettivo di per sé impossibile negli Stati Uniti, senza abbandonarsi, però, a noiosi comizi. Per concludere, la musica costituisce, spesso, un mezzo di riscatto sociale, come nel caso dei Black Sabbath, band dell’inizio degli anni settanta originaria di Birmingham. Infatti, il cantante, Ozzy Osbourne, prima di raggiungere la vetta delle classifiche, aveva più volte toccato il fondo nella vita, dedicandosi a svariati “furtarelli” e finendo anche in prigione. In modo diverso, si riscattò il chitarrista Tony Iommi, ex operaio che aveva perso due falangi in un incidente in fabbrica, creando uno stile personale così affascinante che qualcuno dichiarò di volersi mutilare per ottenere gli stessi suoni. Tuttavia, c’è chi ritiene che la musica sia solo una forma di intrattenimento, tra l’altro assai dispendiosa, che, a volte, conduce i fan a manifestazioni di violenza. Come rispondere? Innanzitutto quest’arte è una delle più antiche e profonde espressioni dell’animo umano – tesi dimostrata da ricerche antropologiche – e, comunque, non risulta più costosa del cinema, spesso ritenuto, a torto, più importante di qualunque spettacolo musicale. Per quanto riguarda la violenza che rovina alcuni eventi, bisogna considerare la tendenza comune a accontentarsi di analisi superficiali e di stereotipi. Infatti, nei cosiddetti mush pits, specie di danze quasi rituali che possono parere risse, mai alcuno è morto, mentre questo accade e non di rado negli stadi. Mi sembra, in conclusione, di aver dimostrato abbastanza chiaramente l’importante funzione sociale che la musica ancora svolge, sperando di aver convinto coloro che non la tengono in gran considerazione, a rivalutarne il valore e l’efficacia. Emma Pretti Correnti d’aria Fuori il vento di novembre soffia con insistenza, i bambini si agitano e la classe diventa ingovernabile; tutti si voltano continuamente verso la finestra dell’aula oppure sbirciano da quelle del corridoio - ne abbiamo una proprio di fronte alla porta - e chiedono di andare ai servizi praticamente ogni dieci minuti. Una mattinata d’inferno. La campanella ha suonato e il suo richiamo s’è perso in mezzo a rumori turbolenti di bambini che corrono, si azzuffano, cadono a terra e strillano. L’intervallo sarebbe già finito ma nessuno accenna a sedersi, tutti sganasciano merendine e guardano dai vetri il nostro viale che viene maltrattato da far pena. Il sole intiepidisce le superfici dei banchi vicino alla finestra mentre fuori c’è lo spettacolo dei passanti: quei pochi che camminano piegati in avanti con le spalle a guscio, sembra si tirino dietro un carrettino. Il vento soffia deciso, senza sibili o fischi, non si lamenta neanche, porta un rumore di fondo come il mare. Appoggiato al banco vicino la finestra un bambino dice: - Sembrano mille ruote di camion che vengono avanti – - Duemila cavalli al galoppo – suggerisce un altro - Diecimila – aggiunge quello che arriva appena al davanzale - Perché diecimila ? – gli chiedo pensando di metterlo in difficoltà - Perché mio papà dice che adesso “ duemila “ non sono più niente Intanto fuori il vento strappa le foglie secche, alza la polvere e combina il tutto con strascichi di carta e sporcizia raccattata intorno ai bidoni dell’immondizia. Folate d’aria fredda e pagine malridotte prendono la rincorsa, si alzano, volteggiano briose e leggere. Sto sgranocchiando crackers appoggiata al bordo di un banco più indietro e contemplo il panorama dal secondo piano: volano per aria cose che senza il vento neanche avremmo notate, per esempio tutto l’arredo e corredo autunnale, rinsecchito e croccante…………… I bambini si schiacciano contro le finestre, pronti a farsi soffocare dal caldo del termosifone e puntano il dito sui vetri: - Guarda questo! – - Guarda quello! – - E questo cos’è? – - E’ la mazza ferrata di uno gnomo… uno gnomo guerriero! – - Non ci sono gnomi guerrieri – - Sì, che ci sono – certifica lo studioso di gnomi, con la sua faccia dura e mascellosa – L’ho letto – L’altro non gli crede e borbotta: – Non è vero – Uno sbuffo radente adagia uno di quei cosi fuori sopra il davanzale, e lì nella cornice dell’infisso resta fermo, al sicuro. Un piccolo flagello dal ciuffo scomposto si alza sulle punte dei piedi, allunga una mano per aprire la finestra - gli riesce difficile, ma a lasciarlo lì per un po’ ce la farebbe, così intervengo, lo scosto, apro e raccolgo quel cosino misterioso. Lo porto dentro tenendolo per il gambo; sì, ha un gambo secco, e attaccata ci dondola una pallina come una ciliegia, un po’ più grossa di una ciliegia, una ciliegia grossa e arrabbiata, tutta puntuta come il riccio di una castagna. Il suo colore non piace a nessuno, così scuro e polveroso, ma la fissano attenti. - E’ quasi brutta – esclama una bambina orgogliosa dei suoi capelli biondi – Punge? – - Non poi così tanto – dico tastandola con le dita – Direi che si difende, piuttosto . E’ un cosino brutto e prezioso. La cassaforte di un albero che si trova forse molto più lontano, chissà dove. - Vedete, dentro... – e lo sollevo fino alla testa perché possano osservare tutti – ci sono cose importantissime. Contiene i semi dell’albero. - Notate – e la faccio ruotare prima a destra e poi a sinistra – qui, sotto queste punte, questi aculei… perché sono proprio come degli aculei …- Aculei? – - Si, è una nuova parola per dire punte o spine…Sotto queste punte ci sono dei tagli. Questa pallina che fa quasi paura è come un frutto. Quando è matura si aprono i tagli vicino alle punte.. – - Aculei! – qualcuno suggerisce per dimostrare che mi ha ascoltato e ricorda. - Si, come ho detto… da questi tagli potranno uscire i semi, quando questo forziere cadrà a terra. Oppure il vento lo staccherà per trascinarlo lontano, facendolo volare e poi rotolare… perché vedete, è scuro come se fosse di legno e invece è leggerissimo – e lo faccio ballare sul palmo lasciando che mi punzecchi e metta in mostra la sua simmetria – Il vento per lui è come un autobus, lo usa per muo- versi in giro, ovunque può portarlo. In primavera i semi conosceranno il loro destino: se saranno un albero oppure no - Dove sono i semi? – chiede Ciuffo scomposto, che m’interroga muovendo delle labbra rosse tagliate come se sorridesse, anche quando sta serio.. - Sono qui – lo sbatto sulla mano e ne escono tanti pallini - Sono questi granelli: guardate – abbasso il braccio e faccio vedere: scrutano tutti, quelli da dietro allungano il collo, fanno per spostare le spalle degli altri e farsi avanti, trovano resistenza e qualcuno si prende uno spintone. Forse non c’è molto da esaminare, solo una spruzzata di granelli color ruggine dal peso inconsistente, minimi come cacche di mosche; se non fosse per il solletico e il raschietto che fanno muovendoli col dito, non sapresti di averli, eppure presentano una incognita e suscitano un vivace interesse. Spiego senza una particolare intenzione didattica – in fondo mi sono già arresa a prolungare l’intervallo per tutta l’ultima ora – seguo solo ciò che i semini mi urlano, schiamazzano dentro la mano; il fatto che io li senta significa soltanto che li percepisco per come sono realmente, vivi e impazienti di esprimersi in qualche modo, in un qualsiasi modo il mondo glielo permetta. Vitali, non materia inerte; energia innata, promettente. Devono avere una vocina minuscola e acuta, questi zinzini, ognuno di loro la getta verso di me più sottile e penetrante; mentre li scuoto e li rimescolo dentro il palmo, i bambini mi si schiacciano contro a semicerchio, mollano dei gran pestoni e qualcuno reagisce male. Le zuffe si fermano se solo alzo gli occhi. Il fruttolo tenebroso pende ancora dalle dita della mia destra, vuoto e ingrugnato. Gli do un giro veloce come a una trottolina, giocherellando, poi lo deposito tra le mani grassocce dell’Esperto di gnomi, che si sta muovendo irrequieto e accaldato; con un gesto nervoso subito cerca di strappargli il gambo e si accorge che è ostinato. Lancia uno sguardo interrogativo e tenta di nuovo; il gambo non cede, lo gnomologo si stupisce. Semi e bambini. Intenzioni ferme ai blocchi di partenza, Centinaia di migliaia di bruscoli gettati nell’ordine delle possibilità: a mucchi, a sacchi, con la speranza che qualcosa rimanga, attecchisca, si ancori a terra e imbocchi la sua strada lunga e scabrosa. Poco viene accolto, molto scompare. E tutta questa profusione di energia, intenti, speranze, è sparsa sulla terra come in mare e in cielo. L’universo ne registra ogni secondo a vagonate. Le briciole sulla mia mano e i frugoli dentro quest’aula rappresentano altrettante probabilità per il futuro. La malinconia viene dal fatto che gran parte dello slancio finirà tutto nello scalpitare di intenzioni che mancano il bersaglio, il ribollire di una schiumetta che sfrigola e svanisce. Quanti cadranno al posto giusto, sopra un terreno fertile, e troveranno le giuste condizioni per sviluppare e crescere, e il cielo si comporterà con loro in modo benevolo? Pochi. La maggior parte rotolerà per aria e sopra i tetti, si adagerà su cornicioni, rami, corde da biancheria, si fermerà sopra terrazzi e cortili; prendendo la rincorsa infileranno qualche porta aperta che sembra promettere chissà che sbocco, e invece scivolerranno sul pavimento di marmo di un ingresso anonimo e inospitale. Fragilità e insensatezza che ha un che di umano e travolgente. L’impatto della nostra vita spintonata dal caso che ci predilige o condanna in maniera sventata e pazzoide, pur restando saldamente legato alle ferree leggi della natura. Come il vento. Le testoline si agitano intorno a me. - Da dove vengono i semini? – la bimba con gli occhiali rotondi mi aveva già posto la domanda, ma era stata coperta dagli altri che avevano scherzato e riso tra loro per un sacco di altre cose che c’entravano poco o niente. Ora alza la voce sopra tutti e si fa valere. - Da dove vengono? Dagli alberi – rispondo - Ma quali alberi? – - Ah, beh, non saprei… è uno strano corpuscolo. Può essere di una pianta qui vicino, dietro la scuola, o lontano, un parco o giardino molto più lontano, chissà…- Sono di quegli alberi dietro nel cortile della palestra – c’è qualcuno che non ha voglia di fantasticare tanto: prima faceva il giullare ma adesso parla sicuro di quello che dice, così facendo alza un vespaio. - E’ delle piante sul viale – - No, di quelle nel viale vicino a casa mia – - Del cortile di mia nonna. Ce n’è uno che fa cadere questi ricci uguali - Non sono ricci – - Li ho visti attaccati ai rami qui davanti – - No, ti sbagli , non sono di questi alberi – lo contraddico - Non saprei dirvi – ammetto – chissà il vento da dove li ha presi – Voglio chiudere il discorso. La botanica è una materia che mi trova incompetente, a malapena conosco le piante che annaffio di tanto in tanto, quando mi ricordo, dentro i vasi di casa mia; e poi non vorrei specificare troppo, riuscirei solo a cancellare quel senso di mistero e spazio e profondità e materia che si può intravedere. Passo in mezzo a loro e mi allontano dalla finestra, gli lascio il resto dell’ora; trovo un banco più indietro, mi ci appoggio e torno a guardare fuori mentre sgranocchio l’ultimo cracker salato. I bambini si sono rinchiusi sotto il davanzale e non fanno che spintonarsi cercando di tirare indietro chi sta davanti. C’è ancora spettacolo da vedere: vento e nuvole e uccelli che si muovono in modo buffo. Il sole ha tepore, il cielo emozione; l’aria solo scariche d’irrequietezza. La marmaglia si scuote tutta dai banchi alle finestre, trascina sedie, fa cadere roba per terra, ridacchia e si diverte anche così: oggi li vedo stimolati, ce ne sono che sembrano grilli salterini, appoggiati al davanzale prendono slancio e saltano sostenendosi sulle braccia hop e giù! come stantuffi. Si sono divisi in due gruppetti, uno alla finestra, gli altri un passo più indietro, ma anche così riescono a scontrarsi, si spingono e si strattonano; qualcuno guarda per aria, altri osservano il viale e la strada. Svolazzano cartacce e sacchetti di plastica mentre gli uccelli fanno una gran fatica e non riescono a tenere la direzione. Qualcuno addirittura viene spinto nella nicchia della finestra, frena ad ali aperte per non sbattere contro i vetri, i bambini se lo vedono improvvisamente così vicino al naso che indietreggiano impauriti; poi ridono facendo chiasso e gridolini. Da dietro il tetto di una rimessa spunta la cima di un bel pino scuro. L’abete sconvolto agita i rami che oscillano. Finisco il cracker giusto in tempo per accorgermi di quel che sta facendo Ciuffo Scomposto: la canaglia, già pronta in punta di piedi, si è lanciato di nuovo verso la maniglia della finestra, ha visto posarsi sul davanzale una di quelle mazze-ferrate-per-gnomi e vuole raccoglierla. Ce la fa, apre e si sporge. Sono subito al suo fianco, gli sollevo il braccio teso e lo tiro indietro; pochi istanti prima di richiudere sento arrivare da sotto una bestemmia confusa, mista a implorazione. Probabilmente è anche riuscito a lanciare di sotto qualcosa. Non voglio saperne di più e do un giro secco alla maniglia. Uno dei bambini fa segno col dito giù in strada, ha visto e spiega: - Gli è caduta la bici con tutte le borse! – A quanto pare Ciuffo è innocente. Da come il compagno se la gode immagino che il guaio sia capitato a una persona anziana, che adesso impreca e si muove rattrappita coi nervi a fior di pelle. Ne ho abbastanza anch’io; è una bolgia che devo ricomporre. Mi piacerebbe poter buttar lì qualche parolaccia secca, di pronto effetto, per ammutolirli di colpo; mi limito ad attraversare la classe con un’espressione severa. - E adesso, vogliamo sederci, per favore!! – faccio risuonare da muro a muro, mentre apro e chiudo la porta per controllare un rumore che va a perdersi da un’aula all’altra. Farsi ubbidire non è come dirlo; perché mi prendano sul serio non guardo in faccia nessuno, giro verso la cattedra con gli occhi dritti alla lavagna, Il Ciuffetto reclama. – Perché non andiamo fuori anche noi..?! – Anche Noi! – come se tutti fossero usciti per strade e campagne e adesso sgambettassero nei vortici d’aria. Tutti che volano e frullano con le loro sciarpe e i cappelli, guardando giù, meravigliandosi e ridendo. Un lunapark di sbuffi e soffioni. E’ la visione di Ciuffettino. - Non siamo ancora sotto le vacanze di Natale – rispondo – quando andremo a far visita a un laboratorio di pasticceria. Siamo solo a metà novembre ma mentalmente mi sento già piuttosto protesa verso il Natale, anche se presto arriva e presto se ne va; sarà che non vedo l’ora di mettere almeno una pausa tra uno strazio e l’altro di questo lavoro. - Ma ci manca poco – mi fa notare un bambino che mangiando si è sporcato il grembiule, pulendosi le dita proprio sul davanti. Non ho nessuna voglia di puntualizzare, anche perché avrà senz’altro fatto i suoi conti prima di parlare e sarebbe una battaglia persa. C’è elettricità in ogni angolo e un rumoreggiare contento e diffuso. Si agitano sopra le sedie, strisciano il banco per accostarlo a quello del compagno, cadono matite e gomme; in fondo alla classe due con la testa sotto il banco, fanno combattere dei mostriciattoli tra loro. Mi do all’improvvisazione - Dunque…prendete il quaderno…- lascio che li tirino fuori da sotto e li sbattano schiaffeggiando il banco - … e parlatemi del vento, di come vi è sembrato, di come l’avete visto, che cosa avete provato guardando fuori; a cosa può servire secondo voi; pensieri ed emozioni, in sostanza. Ciò che avete pensato e immaginato per quel poco che vi ho detto – - Ci aiuti ancora un po’…! – implora lamentosa la piccolina pallida che ha starnutito tre volte di fila mentre parlavo. - Non voglio dirvi più niente. Scrivete quel che avete visto, pensato, sentito, Le vostre impressioni insomma. Sul momento mi è sembrata una grande idea, un guizzo che avrebbe magari portato a un risultato sorprendente, un prodotto del tutto creativo. Poi non so, alla fine mi sono accorta che sarebbe stato meglio lavorarci un po’ sopra, spendere qualche suggerimento in più per inquadrarli meglio, magari leggere prima un brano, una poesia. Il Ciuffo ribelle ha infiorato la pagina di errori e ha concluso: “ Il vento mi pare un amico giocone. Se gli chiedo, vedi che anche lui tifa per la mia stessa squadra di calcio.” Mario Balocco TERESA Erano tempi duri. Da soli tre anni era terminata la Prima Guerra mondiale in cui milioni di persone avevano perso la vita. Teresa abitava in piazza Garibaldi, nello storico edificio dell’ex castello trasformato in abitazione. Occupava due stanze: una adibita a cucina, l’altra a camera da letto. Era vedova, da molti anni viveva sola, il marito, muratore, era morto ancora giovane. Rimasta sola, Teresa, per guadagnarsi il pane, faceva la sarta, mestiere da lei imparato frequentando le monache salesiane. Aggiustava pantaloni, vestiti; confezionava gonne e qualche abito. In questo modo cercava di guadagnare il poco che le serviva per vivere. D’inverno non le mancava la legna per la stufa grazie alla sua amica Angelina che abitava di fronte a lei, divise solo da un lungo corridoio che tagliava tutto il palazzo. Il marito dell’amica era socio della Partecipanza dei Boschi e, come molti altri Trinesi, il suo unico lavoro d’inverno era quello di andare nel bosco e procurarsi la legna che gli spettava in qualità di socio. Teresa e Angelina si volevano bene, si facevano compagnia. Passavano quasi tutto il giorno a casa di Teresa discutendo: mentre una lavorava, l’altra ne ammirava le capacità. A volte Angelina aiutava l’amica in piccoli lavori di cucitura e, soprattutto, le garantiva la legna. Era la fine di novembre. Una mattina Teresa si svegliò tutta agitata con il cuore che le batteva forte forte. Sembrava che le volesse uscire dal petto: aveva sognato suo marito che le annunciava un loro prossimo incontro. Tutto era come vero e non frutto di un sogno. Scese dal letto, accese la stufa e si preparò del latte caldo. Dopo essersi lavata e pettinata corse da Angelina e, ancora in piena agitazione, le raccontò quello che aveva sognato. “Sembrava proprio vero Angelina, mio marito mi diceva – Stai tranquilla Teresa, presto saremo di nuovo insieme”. “Non agitarti, capita a tutti di fare brutti sogni, specie quando si è digerito bene”. Teresa si calmò. Verso le dieci uscirono per fare la spesa: il pane, un po’ di companatico e della frutta. Tornata a casa, si preparò la minestra per il mezzogiorno. Dopo pranzo si mise a lavorare, doveva finire dei pantaloni. Nel frattempo arrivò l’amica e, parlando e lavorando, passò il pomeriggio. Verso le sei, Teresa guardò dalla finestra: era buio e vi era tanta nebbia, una tipica serata di novembre. Nonostante tutto indossò il cappotto, si mise in testa uno scialle e uscì per andare alla messa delle sei in parrocchia, forse, pregando, le sarebbe passato del tutto quel senso di oppressione che le gravava sullo stomaco fin dal suo risveglio. Anche se era buio e faceva freddo, la strada per arrivare in parrocchia era breve. Bastava attraversare la piazza, svoltare a sinistra per corso Cavour e, giunti alla chiesa di San Domenico, girare a destra, imboccare la galleria in fondo alla quale, a destra, si trova la chiesetta di San Pietro Martire, dove, di fronte all’entrata, appesa al muro, vi è una croce di legno venerata dai Trinesi. Chi le passava davanti non poteva fare a meno di toccarla e di farsi il segno della croce. Così, sempre, faceva anche Teresa. Dopo questa tappa si arrivava in via Irico, di fronte alla porticina per la quale si accedeva alla parrocchia. Quella sera di nebbia che non permetteva di vedere a tre metri di distanza, Teresa non incontrò anima viva lungo la strada. Passò davanti alla chiesa di San Domenico per infilare la galleria illuminata solamente da due deboli lampadine. Teresa non si accorse della pre- senza di un uomo addossato alla porta della chiesa. Costui, un mendicante senza fissa dimora, indossava un lungo mantello nero e un enorme cappello. Era giunto a Trino proprio quel giorno: un uomo fuori di testa. Nella sua mente sentiva con insistenza una voce che lo incitava a uccidere. Sembrava che la testa gli si spaccasse. Si era appoggiato alla porta della chiesa, gli era difficile respirare. Poi vide passare una donna che camminava in fretta. Teresa era quasi vicina alla croce quando sentì un colpo e un dolore alla schiena. Si voltò e vide l’uomo avvolto nel mantello che con un coltellaccio la colpì al petto. Sentì un gran dolore, capì che era giunta la sua ora, capì che il marito aveva ragione. Allungò la mano e toccò la croce, poi, lentamente, si accasciò ai piedi di essa lasciando una lunga scia di sangue che dalla croce arrivava a terra. Mariangela Tavano QUANDO LA VITA NON SEMPRE SORRIDE Erano gli anni quaranta, la guerra imperversava: bombardamenti e morti erano ovunque all’ordine del giorno. Alla periferia di Biella, c’era un borgo di case popolari. Si conoscevano tutti. Alcuni lavoravano in fabbrica, altri in campagna. Erano persone semplici. C’era una famiglia di venditori ambulanti. Avevano due figlie. La prima bruna e gli occhi neri, Adele. La seconda biondina e gli occhi azzurri, Mariuccia. Vedendole insieme non sembravano sorelle, ma erano molto legate l’una all’altra. Adele aveva una bellissima voce. Studiava canto e divenne una mezzo soprano di successo esibendosi in importanti occasioni. Anche Mariuccia studiava musica, pianoforte, ma, ben presto, si innamorò del suo insegnante. Fu un amore a prima vista. Erano molto felici di stare insieme. Lui aveva qualche anno più di lei e la circondava di premure. I genitori, con non pochi sacrifici, comprarono un pianoforte a Mariuccia. Quando suonava molte persone del vicinato si affacciavano alle finestre per udire quei suoni armoniosi. La guerra continuava il suo brutale percorso. Mitragliamenti, bombardamenti di giorno e di notte, ovunque morti e feriti. Le stagioni si susseguivano. Era un bel giorno di primavera, tutto sembrava tranquillo. Il sole limpido nel cielo invitava a uscire: si sentiva il profumo dei fiori appena sbocciati, le montagne facevano corona al piccolo borgo. Mariuccia e il suo fidanzato decisero di andare a fare una passeggiata in bicicletta. Il sole filtrava tra i capelli biondi e Mariuccia era bellissima. A un tratto si sbilanciò e cadde facendosi male al ginocchio destro. Sembrava una semplice botta, una cosa da nulla. Purtroppo, dopo qualche giorno, il ginocchio si gonfiò. Il dottore assicurava che tutto si sarebbe risolto in poco tempo. Le cose non andarono così. Il male era sempre più opprimente; per la ragazza iniziò un lungo peregrinare da un ospedale all’altro. Un brutto giorno, era settembre 1941, le diagnosticarono un tumore maligno: le avrebbero dovuto amputare la gamba. I genitori e la sorella caddero nella più grande disperazione. Con tanta forza e determinazione, accompagnata dall’amore del suo fidanzato, affrontò l’operazione. Dopo una lunga degenza in un ospedale di Torino, venne il giorno del ritorno a casa. Momento drammatico: bisognava affrontare la vita in un modo totalmente diverso da quello di prima. Anche questa volta, l’amore dei suoi familiari e del suo fidanzato le diedero la forza di continuare il suo cammino. Dopo breve tempo, appoggiandosi a una protesi tornò a camminare e a suonare il piano. Era tornata la ragazza allegra di una volta. Una sera fu invitata da una famiglia di vicini che volevano festeggiare il suo ritorno alla vita. Aveva solo sedici anni. Era alta; indossava un vestito di velluto nero con un collettino bianco che ne illuminava il viso. Era uno splendore. Si sedette al pianoforte e, insieme al suo fidanzato, suonò per tutta la sera. Purtroppo questo momento felice durò poco. Cominciarono altri disturbi. Il suo corpo cominciò a gonfiare in tutte le parti. Il tumore continuava il suo percorso. Combatté contro le sue sofferenze con tutte le forze e fino all’ultimo. Dopo nove mesi di angoscia, Mariuccia se ne andò, lasciando la sua famiglia nella più grande disperazione. Ma il tempo scorre inesorabile, così come la guerra con tutte le sue selvagge violenze. Adele si era trasferita a Milano dove, nonostante il grande dolore per la sorella, otteneva successi nel suo lavoro. Aveva, inoltre, incontrato l’amore. La persona che amava le dava appoggio e sicurezza: era ritornata un po’ di serenità. Ma, anche per lei, durò poco. Il suo amore dovette partire per il fronte russo. Il distacco le straziò il cuore. La guerra era spietata: divideva amori e famiglie. Adele si accorse di aspettare un bambino, frutto del loro grande amore. Non sapeva se essere felice o disperarsi. Tenne il segreto. Non parlò con i suoi genitori per timore di non essere capita. Continuò a cantare fino a quando il suo stato non divenne evidente. Nacque una bella bambina che chiamò Maria Grazia. Doveva continuare a lavorare, non poté restare con la sua bambina, dovette affidarla a una “balia”. La guerra proseguiva. Sul fronte russo i nostri soldati combattevano eroicamente, ma la steppa e il gelo li inghiottì. Il papà di Maria Grazia fu uno di questi. Adele venne informata della tragedia dai genitori del fidanzato. Disperata tornò alla sua famiglia stringendo al petto la sua creatura. Padre e madre rimasero sbigottiti. La mamma, ancora incredula, prese in braccio il fagottino. Mariuccia era tornata. Maria Grazia fu cresciuta dai nonni con tutto l’amore di cui furono capaci, con tutto l’amore che li accompagnò fino alla loro morte. Sola, Maria Grazia si trasferì a Milano, dalla sua mamma, con dolore lasciò il piccolo borgo biellese dove, felicemente aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza. A Milano iniziò a vivere un’altra vita, sembrava felice. Si innamorò, si sposò presto, ebbe un bel bambino che chiamò Giovanni in ricordo del nonno. Purtroppo il marito si rivelò un poco di buono, poi ebbe un incidente mortale e Maria Grazia rimase sola, piena di debiti e di difficoltà. Con tanta volontà riuscì a venirne fuori. Adele le fu molto vicina, ma, quando la vita non ti vuole sorridere…Improvvisamente mamma Adele morì per una banale influenza, ma Maria Grazia non si abbatté. Prese in mano la sua vita e quella di Giovanni, ma, dietro l’angolo, l’aspettava l’ultima battaglia. Fu colpita da una grave infiammazione renale. Si sottopose alla dialisi per ben dieci anni. Viveva la vita giorno per giorno con il conforto di suo figlio e aspettava il trapianto. Era il 2 maggio, alle 11 di sera, squillò il telefono, dall’altro capo una voce la informava che si era trovato il rene compatibile. Per l’ennesima volta lottò, affrontò l’operazione e tutto si risolse felicemente. Sono passati molti anni. Oggi Maria Grazia è una vecchietta felicemente circondata dai suoi cari. Ma perché la vita non sempre ci sorride? Ho voluto raccontare questa storia perché l’ho vissuta in prima persona. Le protagoniste erano mie cugine prime, Maria Grazia mia cugina seconda. Per ovvie ragioni i nomi sono fittizi. Roberto Paulato L’UOMO CHE SI DIMENTICO’ DI VIVERE Ora mi sembra quasi una storia di paese tramandata di padre in figlio, una di quelle che mio padre mi raccontava quando ero piccolo pendendo dalle sue labbra mentre mi narrava. Ma non è così. La mia fantasia scorreva fluida di pari passo con quella dei miei coetanei quando ai giardini della stazione improvvisavamo lunghissime partite a pallone rincasando in tempo per la cena. Era estate e non s’andava a scuola, a sera, un bel bagno tiepido ed appena finito di cenare, che gli occhi mi si chiudevano per la stanchezza, mio padre mi domandava di come avessi trascorso il pomeriggio mentre lui e mia madre lavoravano in negozio. Ricordo mia madre indaffarata che, ultimate le pulizie in cucina, veniva da me per accarezzarmi ed augurarmi la buona notte; mai le sue raccomandazioni bastavano per contenere la mia vivacità, come mio padre mi raccontava, perché il mio piccolo mondo non era fatto solo di giochi e scuola, ma anche di curiosità: capire e osservare, comprendere e sognare soprattutto. Ricordo noi piccolini a metterci l’anima correndo a perdifiato per calciare il pallone, le discussioni accese che nascevano imitando i nostri idoli calcistici: pura teatralità. In pantaloncini corti e scarpe da ginnastica, a dorso nudo sotto il sole estivo, accatastavamo le magliette sull’erba verde e rasata dei giardini della stazione per evidenziare gli inesistenti pali delle porte, e poi c’era quell’uomo trasandato ma simpatico che sempre s’offriva di fare da arbitro e ci separava nelle frequenti baruffe mentre giocavamo. Un pomeriggio non lo vedemmo più. L’ultima estate in cui lo vidi nelle vicinanze dei giardini era sempre da solo e vestito uguale con addosso quello spolverino marrone chiaro ed i pantaloni, a zampa d’elefante scuri in velluto, rattoppati quasi ovunque; calzava scarpe sformate e scalcagnate, la sua folta barba incolta copriva interamente la sua faccia sulla quale spiccavano gli occhiali, spessi come fondi di bottiglia inforcati sul naso rosso e paonazzo. Trattenuti da un cappello a chiazze verde militare si intravedevano a malapena i folti capelli arruffati. Non avevo timore di lui, lo vedevo come un bambino, solo più grande e grosso di me. Passa il tempo e vola in fretta, veloce per me che brucio gli anni della mia giovane vita ed ancora mi compare lui, quasi vestito uguale, barcollante e sempre solo, vorrei parlargli e chiedergli se si ricorda di me. Sono con la mia prima fidanzatina Monica e lo vediamo a pochi metri da noi, siamo mano nella mano e stiamo uscendo dalla Trattoria del Tram, abbiamo prenotato lì per la cena dell’ultimo anno alle scuole medie e ce lo troviamo di fronte. Lo saluto domandandogli se si ricorda di me. Mi risponde di sì. Scorgo nel suo volto sempre più nascosto dalla barba un sorriso dolce e sincero che si tramuta rapidamente in digrignare di denti. Si rivolge a noi dicendo quasi adirato: “Siete giovani, vi tenete per mano, ma non sapete nulla dell’amore. Ma cosa perdo a fare il mio tempo con voi?” Riprende la sua furiosa e sbruffante camminata allontanandosi da noi. Altri anni che passano e cresco, ho appena finito il servizio militare e sono nella mia rovente adolescenziale esistenza Punk, squadrato male in paese ed etichettato, ma la mia strafottenza calpesta ogni occhiataccia che ricevo. Non m’importa nulla e rido ai loro sguardi carichi di disgusto. Torno in treno da Torino per un salto alla Ricordi, ho comprato vinili ed il biglietto per rivedermi i Ramones, la seconda volta. Arrivo in stazione e scendo al volo saltando i pochi scalini della carrozza del treno, passo davanti alle panchine di legno marroni e ancora lui, lo riconosco. Nel muro alto l’orologio scandisce il tempo ticchettando ed in sottofondo dall’altoparlante annunciano che il treno da cui sono sceso proseguirà per Alessandria. Io lo fisso avvicinandomi e dietro gli spessi occhiali intravedo i suoi occhi venati di rosso e questa volta mi riconosce lui per primo, si rivolge a me dicendomi: “Sei cambiato ragazzino, vuoi anche te fare la Rivoluzione? Scordatelo, trovati un lavoro sicuro, sgobba e metti su famiglia, abbassa la testa e corri come questo treno che sta partendo!”. Rimango zitto notando una bottiglia in vetro, ormai vuota, senza nessuna etichetta. Dalle sue poche parole il suo alito mi trasmette che è vino di pessima qualità. Entro al bar della stazione ed il Maio Duce, dietro al bancone, baffoni neri e dolcevita granata, con la sua possente presenza e sempre poco loquace, scambia poche parole in merito alla stagione in corso del F.C. Torino 1906. Compro un pacchetto di Rizla azzurre ed una bottiglia di Cortese bianco del Piemonte, pago ed esco dal bar per portare la bottiglia a “lui”, gliela porgo, gradisce e ringraziandomi mi dice d’andarmene, me ne vado domandandomi che razza di vita abbia fatto in questi anni. Arriva un inverno siberiano in stile Dottor Zivago con neve e gelo a non finire, dopo aver passato qualche ora al bar sono in piazza Garibaldi e nonostante il tempo inclemente la voglia d’uscire c’è. Pochi minuti fuori dal bar con Simona, la mia più cara amica, rischiamo il congelamento perché lei è fumatrice, io no, ma l’accompagno fuori volentieri. Guardiamo la piazza invasa dalla neve e mentre parliamo dalle nostre bocche e dai nasi si materializzano nuvolette; le grondaie fuori dal bar e l’insegna hanno ghiaccioli affilati ed appuntiti, sentiamo un rumore vicino alla cabina telefonica rossa, un tonfo seguito da un’imprecazione, sembra che qualcuno o qualcosa arranchi nella neve, forse un cane randagio che scava in cerca di cibo? Ci avviciniamo lasciando solchi ed impronte sulla strada ancora da liberare: un corpo a terra, pesante e fradicio. Facendoci forza lo rimettiamo in piedi, è lui, ancora lui, la barba imbiancata dalla neve ed il cappello che da terra raccolgo, sempre il solito ma con evidenti segni d’usura, bucato e sfilacciato. I miei occhi s’incrociano con i suoi per pochi secondi e ripiomba a terra privo di sensi con la faccia tra la neve, chiamiamo l’ambulanza che con difficoltà arriva e lo portano via. Il giorno dopo parlo con i miei genitori di lui e loro mi dicono che non ha nessuno, famiglia oppure parenti, è un mistero di come viva in una fatiscente casa alla Cappelletta fuori Trino con le imposte sempre chiuse indipendentemente dalla stagione in corso come se fosse lui stesso a non voler dichiarare la sua presenza a questo mondo. So che dopo la degenza ospedaliera lui è tornato a casa ed una mattina, per il solito giro con Birilla, mi presento fuori da casa sua, sull’altro lato della strada del viale lunghissimo, con gli alberi spogli, i rami rinsecchiti ridotti a scheletri che per inerzia s’erigono sostenendo esili la neve abbondante. Lo vedo uscire da casa sua ingobbito e con fatica camminare, fuma una sigaretta imprecando prima di buttare nel cassonetto la spazzatura, lo saluto con un cenno della mano e mi riconosce, gli domando come va ed immediatamente mi risponde: “E come vuoi che vada amigo? Nevica, fa freddo e non me ne importa nulla!”. Gira i tacchi aprendo la porta di casa sua con uno scricchiolio degno d’un film dell’orrore ed infilando la chiave nella serratura entra borbottando. Rimango per qualche attimo fuori da casa sua e poi ce ne andiamo verso il centro, è a casa, sta bene, è vivo. Ora e’ arrivata l’estate torrida ed afosa, fine agosto con la festa patronale di Trino in corso. Come al solito non sono molto mondano, sono dalle parti di San Michele con Birilla per il consueto giro del dopo cena, camminando sudo e penso ai fatti miei, mi squilla il cellulare e, mentre Birilla mi tira via, lo sfilo dai pantaloni della tuta senza badare a chi mi chiama, è Marco, un caro amico che vive proprio alla chiesetta di San Michele, è agitato nel parlarmi e casualmente, siccome sono in zona sua, lo rassicuro che a minuti sarò lì da lui; arriviamo e le luci sono accese illuminano casa sua e l’atrio della chiesetta. La sua cagnona Aran abbaia all’interno della casa, Marco e’ inginocchiato accanto ad un fagotto a terra accasciato sotto il porticato, ecco ancora una volta lui, lo riconosco subito, invecchiato e sciupato con gli occhi suoi azzurri opachi. Mi inginocchio accanto scostandogli i capelli sporchi e sudati dalla fronte imperlata di sudore, Birilla s’accuccia e guaisce, Marco non parla e mi fissa sbigottito. Sfilo i suoi occhiali appannati e con voce soffocata mi dice :”Ora sai di me, questo e’ il capitolo finale dell’uomo che si dimenticò di vivere, l’uomo che da tanto di quel tempo aspettava di morire da scordarsi del perché vivesse ed ora che la morte e’ venuta a prendermi, domani leggerai di me sui giornali!”. Lo caricammo nell’auto di Marco per portarlo al volontariato, nessuna ambulanza e casino, nel rispetto d’un uomo che ci morì tra le mani. Tornai a casa con Birilla salutando Marco, avrei voluto ubriacarmi ma non lo feci. Passarono giorni strani, carichi di pensieri su un uomo che scelse l’anonimato per vivere la propria vita ai margini della mia città spesso venendo etichettato come pazzo, alcolizzato e mina vagante. Raccontai tutto ai miei genitori di come alitò i suoi ultimi attimi di vita quella sera . Vista la mia riottosità nel leggere i quotidiani locali ormai a livello di oscenità scandalistiche, lo feci ugualmente, prima d’andare al lavoro, acquistai un giornale. In prima pagina la sua foto uguale a come lo ricordavo in questi anni strani, con la sua presenza che casualmente andava e veniva. Mentre con le mani toccavo la sua foto in bianco e nero sul giornale, una luce azzurra prese vita dalla sua foto e tra le mani un piacevole formicolio si fece strada; sorrisi come un bambino e lo vedevo ai giardini della stazione e la sua voce alle orecchie m’arrivò, dolcemente mi diceva: “Finalmente una bella notizia sul giornale, ora non sei più un ragazzino, vivi e ricordami con un sorriso ed una bottiglia di vino!”. Lessi poi il resto dell’articolo sul giornale: lasciò in eredità una somma immensa di denaro per la ricostruzione e riapertura dell’istituto Casalegno da utilizzare per orfani, ragazzi e ragazze, con futuri incerti e rischiosi, che vivono in strada. Penso a lui ora in una notte serena, un uomo qualunque, un bicchiere di buon vino per ricordarlo e dirgli semplicemente: grazie, viandante solitario. Remigio Buzzi W LA LEVA W I TIRÔN Mi piace ricordare un periodo dei miei vent’anni che si viveva e praticava essenzialmente nei paesi di quei tempi. Era la cosiddetta”LEVA” e cioè il “ RECLUTAMENTO” ossia la disposizione mediante la quale lo Stato provvedeva alla scelta ed alla raccolta di uomini atti alle armi , nonché alla determinazione dei loro obblighi di servizio alla Patria. I “ TIRON” erano i giovani ventenni che tramite visita medica ed attività a cui si erano impegnati venivano reclutati ed assegnati ad un corpo d’arma più attinente alle loro caratteristiche fisiche e conoscitive. Questo succedeva dopo l’unità d’Italia, mentre prima, fatta una scelta di sanità corporea e dei vari impegni, i rimanenti tiravano a sorte un numero che, secondo il valore della scala numerica, se veniva qualificato basso ….il soggetto doveva prestare il servizio militare o altri servizi allo Stato allora imperante. Così i meno fortunati che a sorte tiravano un numero basso erano arruolati. Da ciò venne il detto : “ l’ho tiralu bass” che si ripeteva ogni qual volta la sorte non era amica e ci riservava qualcosa di poco piacevole. Premessi questi dati riguardanti LEVA e TIRON posso ora inoltrarmi nei ricordi personali e non solo, di quanto avveniva in quei tempi. Il periodo di leva allora durava un anno che era quello dei ventenni. Cominciava quando, dopo la visita ed i festeggiamenti, cessava il periodo dei ventenni precedenti. S’iniziava con la preparazione delle cerimonie, festeggiamenti, brindisi, pranzi, balli, sfilate con banda in testa, ricerca della Madrina, bandiera, fiori ed altre cose e visite per dare compiutezza agli ardori dei vent’anni. Poiché la visita medica si faceva generalmente nei primi mesi dell’anno, la conclusione dei festeggiamenti avveniva poco dopo e così con l’inizio della Primavera partivano i preparativi per i festeggiamenti della nuova leva. E qui cominciava il bello! In quei tempi non erano molte le occasioni di convivialità e quelle poche poi erano essenzialmente famigliari quali nascite, matrimoni e purtroppo anche funerali. Così con gli ardori primaverili iniziavano le riunioni per decidere il percorso dei festeggiamenti. Dapprima ci ritrovavamo in pochi ed erano essenzialmente coloro che avendo avuto fratelli maggiori erano più a conoscenza di come e quando agire per il meglio. In primis era necessario conoscere bene il numero dei coscritti, anche di coloro che non risiedevano più a Trino e di coloro che purtroppo ci avevano lasciato. Infatti il numero era cosa considerevole in quanto più si era, minore sarebbe stata la quota per le spese generali di rappresentanza e ci avrebbe permesso di fare cose grandiose. Giunti ad avere una certa quantità di partecipanti si poteva prevedere quale fosse la somma a disposizione e di conseguenza come e dove spenderla. Con questo primo bilancio era necessario avere un cassiere che conteggiasse in modo accurato e diligente le entrate e le uscite in modo da non incorrere in sprechi e mancanza di fondi al momento dovuto. La ricerca della Madrina non era cosa facile perché non era un obbligo come il reclutamento ma una gentile concessione della famiglia che dava la propria figlia come unica rappresentante femminile a quel nugolo di giovanotti e poi generalmente provvedeva e regalava la bandiera ed anche qualche brindisi. Questo era compito non facile da affrontare in quanto bisognava lavorare tramite conoscenze, amicizie, sorelle, madri senza scontentare nessuno e cercando il meglio. La ricerca dei ristoranti per i due pranzi era cosa lunga complessa in quanto uno era per i soli coscritti e l’altro invece con invitati. Riunioni a gogò anche nei vari ristoranti per conoscere e scegliere menù, tempi, prezzi e disponibilità varie. Era un continuo esaminare: portate, vini, saloni e così chi abbondava in antipasti era a corto di locali, chi aveva saloni era corto con i vini, poi in uno l’ arrosto e verdure era imbattibile, ma l’altro serviva una finanziera sublime, ma anche dei dolci, caffè e “pussa cafè” bisognava tenerne conto,. Così dopo varie sedute, incontri, parole parole e parole ci si affidava ad una decisione che, se non sempre accettata da tutti era quantomeno condivisa in maggioranza. Per la banda la cosa era più semplice in quanto era unica in Trino e quindi toccava a lei, ma si tirava un po’ sul prezzo e sui vari percorsi del corteo. Per le orchestre delle serate danzanti era un po’ più difficile perché a quei tempi Trino offriva vari complessi e quasi sempre si dipendeva da orchestrali parenti o amici di alcuni Tiron con facilitazioni di prezzo. A questo punto era pressoché tutto compiuto salvo piccole correzioni o varianti cercando di completare ogni cosa al meglio e …..così si aspettava di sapere la data esatta per la visita medica che avrebbe poi dato inizio allo svolgimento di quanto preparato. Infatti la visita medica al distretto militare di Vercelli era la prima formalità per sapere chi era abile o riformato, dopodiché s’iniziavano i festeggiamenti in fine settimana e i primi giorni della successiva. In quei giorni tutto il paese era nostro per i percorsi lungo i portici e dintorni, risuonavano canti, evviva e strofe non proprio gentili come “ Qul teston ad qul testa pla l’ha fami abile a fa ‘l suldà” però eravamo orgogliosi della nostra completezza ventennale. La giornata clou era la Domenica: appuntamento al bar prescelto con aperitivo, fiore all’occhiello foulard al collo e pettinatura perfetta; una delegazione andava a prendere la Madrina e con Lei la Bandiera ritornava al bar …..con nuovi brindisi! Ormai tutti erano presenti . Arrivata la banda ed inquadrati alla bell’e meglio si sfilava per le principali vie e poi in Chiesa per la Santa Messa della leva celebrata dal Prevosto in forma cantata, musica dall’organo e benedizione della Bandiera. Seguiva poi il corteo con fiori al Cimitero per chi non era più con noi, nuovo aperitivo e primo pranzo solo per la leva. Più che un pranzo era uno schiamazzo continuo con evviva, canti, discorsi e…bevute; nel pomeriggio nuove sfilate per Trino ed alla sera ballo della leva con numerosa partecipazione della parte femminile che aggraziava la mascolinità. Balli, canti evviva con gioiosa partecipazione di giovani, meno giovani ed anche anziani. Era una vera e sentita convivialità. Il giorno dopo ancora festa con pranzo ed invitati dove ognuno cercava di averne in maggior numero. Il tutto però si svolgeva in modo più congeniale ad un pranzo con invitati. Ormai i festeggiamenti erano finiti e si tornava al lavoro, allo studio, alle proprie occupazioni; rimaneva ancora in funzione parte del comitato per riassumere quanto avvenuto e…..quanto era rimasto, ma più di una volta so che fu necessario mettere mano al portafoglio per assolvere la lista spese. Ancora oggi per me sono un ricordo felice la giovinezza, la fratellanza rinata dopo il periodo scolastico e l’unione creata e festeggiata ogni decennio. Uscivamo dal periodo di guerra e sentivamo voglia di ritornare a tempi che, se ancora duri, si prospettavano migliori di quelli passati. Oggigiorno, essendo ormai arrivato agli anni 80, quando c’incontriamo, ci salutiamo e scambiamo volentieri due chiacchiere ritornando sempre ai ricordi di quei tempi e con la speranza che i nostri figli e nipoti possano trascorrere giorni come finora la vita ci ha concesso. Ormai non mi rimane che prendere bene il fiato e cantare.”W L’3 W L’1 W LA LEVA DAL 31" Henry Matisse, Femme au Chapeau Rita Tavano Madamin dal prüm pian A ‘la ciamavu la “madamin” da posta o par dabôn. Nel primo caso era un epiteto scherzoso che si dava alle bambine per significare una donna vezzosa, agghindata e importante, non una del popolo: “ta smei ‘na madamin”. C’erano poi le vere “madamin”, donne sposate o vedove di ceto elevato per nascita o acquisito con il matrimonio. Erano donne elitarie, solitamente di riflesso, che appartenevano a una classe borghese ricca oppure, se decadute, ne conservavano l’appellativo che, attribuito quando erano giovani signore, mantenevano anche da vecchie. Erano: la moglie dal dutur, dal cumendatur , dal prufesur, d’l’ingegné, d’l’avucat, dal sindi dal pais, la padrôna d’la caºina ….. Era riservato inoltre a chi, proveniente da Torino o da altra città importante, ne aveva acquisito le maniere raffinate sia nel porgere che nel vestire. Il titolo, si fa per dire, era già una distinzione: implicava rispetto e riverenza specialmente se pronunciato da chi non era della stessa estrazione sociale. Tra “madamin” ci si conosceva ed era un onore od un onere potersi frequentare. C’era sempre la “madamin” più altolocata che sapeva di esserlo anche se si preoccupava di non farlo vedere e solo se intelligente di non farlo pesare. Mi piace ricordare tra realtà e immaginazione, le varie tipologie di “madamin” come fosse una analisi semiseria dei caratteri di alcune donne, del loro vissuto interiore o delle loro convinzioni. Mi immagino il tipo introverso, protettivo nei confronti della famiglia e dei privilegi falsi o reali che creava quell’aura data dal nomignolo al quale si rimaneva coerenti anche in momenti di difficoltà di cui però la gente non doveva sapere. Un figlio scapestrato od un consorte poco fedele questo genere di “madamin” non lo accettava e, fingere che sempre andasse tutto bene all’interno delle mura domestiche, doveva essere un gran peso tanto da invidiare la mondina espansiva che pubblicamente inveiva su quell’ubriacone di suo marito. Poi c’erano quelle per le quali il ruolo del marito era la cosa più importante e veniva prima di ogni altra cosa, tutto si doveva fare in funzione del buon nome del coniuge, del suo successo professionale e sociale. Nessun dubbio le sfiorava, procedevano con spirito di sacrificio, senza cedimenti. C’era la “madamin” spesso troppo sola in casa che finiva col passare da padrona a sottoposta ai “consigli” della persona di servizio oppure quella che non vedeva l’ora che quest’ultima le riportasse le notizie che si dicevano al lavatoio o alla roggia per confermare che mai a lei sarebbero successe “certe” cose. Ci sarà stata anche la “madamin leggera” che, approfittando degli impegni del marito, si consolava altrimenti ( e nulla sfuggiva agli occhi dei vicini…. discreti). Una buona “madamin” era donna pia, fedele, almeno all’apparenza, alle consuetudini religiose e ai comandamenti della chiesa e, se non poteva partecipare alla “pursiºiôn”, faceva senz’altro parte di qualche confraternita contribuendo almeno, se non con la presenza, con laute offerte. Ma le popolane che stavano al gioco per necessità o dovere, si prendevano la consolazione di scherzarci su e, di fronte a interpellanze ironiche che qualche buontempone faceva loro sotto casa, del tipo: A iè la “madamin”? Rispondevano: Sì…. la “madamin” dal prüm pian… la sta nên qui l’è ‘nda sta via Specia chi t’la ciama e così via… E se lo straccivendolo o l’arrotino le chiamava: - Signoraaaa! La risposta poteva essere: Sì… “la signora delle Camelie…” (con riferimenti non tanto al romanzo di Alexandre Dumas figlio a cui si era ispirato Giuseppe Verdi per “La Traviata”, quanto all’opera così scandalosa e, anche per questo motivo, molto conosciuta dalla gente comune).