Storia dell`arte dell`Asia orientale

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Storia dell`arte dell`Asia orientale
Storia dell’arte dell’Asia
orientale
Lezione di Rossella Menegazzo, appunti di Margherita A. Terrasi
2016-2017 – Primo semestre
B-Notes Blog: https://passionescuola.wordpress.com/
Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 1 – lunedì 3 ottobre 2016
Introduzione
Oriente-Occidente: incontri e scambi attraverso l’arte
Analisi di quella che era l’arte buddhista, dal 1400 che è stato il periodo più fiorente, per poi
passare all’arte orientale prima e dopo la seconda guerra mondiale. Ha condizionato l’arte
dell’Ottocento parigina e ci mostra un mercato nuovo dell’immagine. Dai linguaggi giapponesi a
quelli legati alla stampa e all’editoria. Non si sono mai viste così tante mostre giapponesi in Italia.
Lo scambio in quest’anno è interessante, perché i giapponesi hanno una particolare passione per
la cultura artistica italiana.
L’ambito di ricerca è l’Asia orientale, si sente spesso parlare di “estremo oriente”. Noi andiamo
più nello specifico e lo definiamo come Asia orientale, comprendendo Cina, Corea, Mongolia e
Giappone. Quando parliamo di India, Cambogia, Tailandia, parliamo di Sud Est asiatico.
Affronteremo uno sguardo sul Giappone, come paese, e faremo qualche escursione sulla cultura
cinese e indiana. Il Giappone è l’apice, la punta dell’iceberg, delle conoscenze artistiche europee,
indiane, cinesi, coreane. Tutto quello di cui parleremo sarà un po’ un riassunto di secoli e secoli di
cultura tramandatasi.
Struttura del corso
Unità A e B
Storia dell’arte giapponese dal periodo preistorico Jomon al periodo di Nara.
I testi didattici sono:
- Mason, Penelope, History of Japanese Art, Prentice Hall and Harry N. Abrams, Inc, 2005
(obbligatorio e in inglese). / Per i 6 crediti fino al periodo Muromachi compreso. – Per i 9
crediti fino al periodo Edo compreso. / nota: il volume Murase Mieko, L’arte dei
Giappone, Milano, TEA, 1996 può essere usato a supporto ma non in sostituzione del
Mason.
- Menegazzo, Rossella, Giappone, “I Dizionari delle Civiltà”, Electa, 2007. (a supporto del
Mason, con opere a colori spiegate nei particolari – SUGGERITO A TUTTI).
- Calza, Giancarlo, Genji il principe spelndente, Collana Pesci rossi Electa, 2008.
- Menegazzo, Rossella, Hokusai Hiroshige Utamaro, Skira, 2016.
- Calza Giancarlo, Menegazzo Rossella, Giappone. Potere e Splendore. Federico Motta
Editore, 2009.
- Documenti di approfondimento dal periodo Heian-Muromachi.
- Approfondimento nel volume catalogo della mostra fatta a Palazzo Reale, periodo
Momoyama-Edo.
Unità C
Della terza unità se ne parlerà più avanti.
- Kuki Shūzo, La struttura dell’iki, Adelphi, 1992 (4° ediz.);
- Jun’ichirō Tanizaki, Libro d’ombra, (Tanizaki fa una critica sull’utilizzo della luce
occidentale, la luce bianca. Parla di architettura, ombra e luce, carta e di come una opera
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d’arte giapponese debba essere goduta con la luce che entra in casa da fuori e non quella
elettrica).
Come si svolge l’esame?
Non cambia nulla se non il periodo storico trattato. L’esame è orale, ci saranno domande per
valutare la conoscenza teorica, altre volte a capire se si è immagazzinata la modalità di descrizione
di un’opera studiata sui due volumi, sapere distinguere le parole giapponesi.
Si può preparare un piccolo approfondimento su un tema sorvolato un poco velocemente, o su
un volume trattato. Argomenti di storia dell’arte cinese o giapponese. Un approfondimento orale,
un tema a piacere di cui parlare (facoltativo).
Musei:
Museo Chiossone, Genova.
Museo di arte orientale, Venezia.
Museo Stibbert, Firenze.
Collezione Museo Pigolini e Museo di arte orientale, Roma.
Museo Ghimé, Parigi.
British Museum e Victoria and Albert, Londra.
Boston Museum (collezione più grossa di arte orientale).
MAT (Metropolitan Art Museum), New York.
Tokio National Museum e Edo Tokio Museum, Tokio.
Kyoto National Museum.
Kyushu National Museum.
Chiba Museum.
Museo Bitsui e Museo Idnitsu.
Sito “Associazione italiana degli studi giapponesi”: AISTUGIA.
Ricevimento docente: martedì, verso le 15:30.
A Novembre un convegno che si contestualizza nell’ambito dei 150 anni di amicizia tra Italia e
Giappone, si aprirà con Madama Butterfly alla Scala. Il convegno parlerà del teatro giapponese. Il
maestro lo avremo probabilmente anche in aula.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 2 – martedì 4 ottobre 2016
Alcuni formati e la Preistoria
Abbiamo la Cina, la Mongolia, la Cina Orientale (e la Manciuria), il Taiwan, la Corea del Nord e
del Sud, e il Giappone (diviso nelle grandi isole Honshu e Hokkaido). Vediamo le isole del
Giappone: l’isola di Hokkaido che è l’ultima ad essere stata colonizzata dal Giappone. Sapporo, la
città centrale e Akodate, uno dei porti che sono stati forzati all’apertura da parte dell’Occidente.
Nell’isola di Honshu vediamo Tokio, Nagoya, Kyoto (un po’ come la nostra Venezia), Kobe, Osaka
(per tempo mercato centrale del riso e dello scambio commerciale), Hiroshima, Shikoku, Kyushu e
Nagasaki (uno dei porti aperti), Tsushima, le isolette di Okinawa sopra a Kyushu.
I primi porti che si incontrano sono Nagasaki, Kagoshima, Yokohama, poi la zona di Sendai (zona
colpita dallo tsunami).
A Sud il Mare delle Filippine, a Nord il Mare del Giappone (o mare della Cina, per i cinesi). Ai
confini estremi del continente asiatico abbiamo il primo arcipelago, base comodissima per
l’America ove volesse entrare nel continente asiatico.
Formati classici della pittura giapponese:
- Rotolo verticale (Kakemono / Kakejiko);
Un rotolo che si appende a parete (handing scroll). In giapponese questo oggetto è di
artigianato, essendo prodotto con carta washi e tessuto. La bellezza è data sia dal dipinto
che dal rotolo stesso (kakeru: attaccare, appendere). Di solito ha una cornice costruita in
tessuto, seta, broccato, cotone ed ha una parte centrale di carta. Intendiamo qui un
rotolo da appendere. Può anche avere uno sviluppo completamente orizzontale, ma che
sarà montato a parete in ogni caso in verticale, nulla è dato per scontato.
Fascia verticale superiore incollata, cucita, ad un’altra area e poi un’altra fascia inferiore.
Una montatura fatta di tre zone, che possono essere di broccato con motivi decorativi
diversi e solitamente le due fasce hanno lo stesso motivo, mentre la cornice ha un
motivo/colore diverso. Al centro, tenuto da due bandelle (ichimonji) di carta o di seta
attaccato alla cornice, vi è il dipinto. Alla base vi è il centro del rotolo di legno, nottolo (o
di avorio, o di plastica). Sopra abbiamo due asticelle di tessuto che rimangono
leggermente piegate quando il rotolo è appeso, servono ad inspessire e proteggere il
rotolo. Si può sostituire il nottolo con uno in plastica quando esso è in avorio per
esposizioni esterne.
Il dipinto è disegnato con il pennello, a colori o monocromo. Può essere un’immagine o
una calligrafia (frase, poesia, prosa, messaggio di impatto). Uso di seta o di carta
dipendeva dall’artista, dal committente o dalla scuola pittorica.
Di solito è esposto appeso in una nicchia nelle stanze giapponesi, in occasione di una
visita di determinati ospiti per un incontro (del tè, o letterario), a seconda dell’atmosfera
che si vuole creare.
La produzione pittorica ha spesso forti legami con la natura, soggetti ripetuti in maniera
schematica, con elementi della natura utilizzati come parole chiave: un messaggio
beneaugurale, ad esempio a Capodanno un rotolo appeso con disegnati la gru e il pino.
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Rotolo orizzontale illustrato (Emaki / Emakimono);
(illustrated scroll) Indichiamo il movimento della mano che “srotola”. (E: pittura,
illustrazione, dipinto – Maki: arrotolato, rotolo – Mono: cosa, oggetto). Utilizzati
soprattutto per raccontare storie, tutte le opere giapponesi si leggono da destra a
sinistra quando la scrittura è orizzontale, quando è verticale dall’alto al basso. Possiamo
avere sia un racconto fatto di un’immagine unica separata da elementi naturali, oppure
un dipinto sulla parte superiore e la scrittura nella parte inferiore (i rotoli educativi o
sacri), oppure in cui l’immagine e la scrittura si alternano.
Possiamo averne di raccolti in set, di uno, due o tre rotoli. Inizialmente utilizzati per
trascrivere le sacre scritture, o i primi romanzi. Nel caso che vediamo del Rotolo di
Gengji, abbiamo il titolo del rotolo esterno e all’interno delle immagini che si sviluppano
verso sinistra, la parte già vista viene ricoperta. Il rotolo viene chiuso da un nastrino (che
avviene per ogni rotolo). Si tratta di una fruizione privata, intima, i rotoli sono visti da
poche persone. Un rotolo del genere è un po’ come un libro.
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Paravento (Byōbu);
(Screen) (Byō: una cosa che ripara, fatta di “porta” e “parete”, protegge – Bu: vento) era
un oggetto che riparava nelle stanze dal vento.
Può essere un paravento unico o una coppia di paraventi (a seconda dell’opera). Nel
caso della coppia ne abbiamo uno destro e uno sinistro, il disegno inizia da destra e
termina a sinistra. Ci sono casi in cui l’immagine è osservabile semplicemente in modo
piatto. Perciò si può creare un’immagine totalitaria che una sequenza cronologica (come
un alzarsi in volo e abbassarsi degli uccelli, un cambiamento di stagione: moltissimi
paraventi raccontano le quattro stagioni). Il paravento è un oggetto pieghevole che si
autosostiene. Possiamo avere paraventi a 4, 6, 8 ante, il classico formato è quello a 2 ed
a 6 ante. Quella che vediamo nell’esempio è una coppia di paravento a 6 ante.
Sono stati esportati come oggetti esotici ed utilizzati dagli occidentali come se si
trattasse di dipinti occidentali, ossia esposti come delle grandi tavole (che non è il modo
corretto di guardare l’immagine). La vista era una vista da una seduta a terra, siccome
era un oggetto di design poggiato ai tatami ed era guardato secondo la seduta classica
giapponese.
Il secondo paravento che vediamo ha una narrazione, cronologica, uno degli espedienti
per dare una spazialità indefinita era di disporre gli oggetti nel paesaggio. Abbiamo una
sorta di racconto, da una parte l’arrivo delle navi in un luogo esotico.
La cornice era in tessuto broccato, o carta e intorno una cornice di legno laccato che
tiene assieme lo spessore del paravento. La superfice pittorica può essere di carta e di
seta (quelli su seta sono più brillanti ed una coloratura un po’ più trasparente). Abbiamo
un utilizzo di foglia d’oro, polveri d’oro e color oro.
Tantissimi paraventi sono realizzati non solo da artisti, ma anche da artigiani pittori che
dessero delle immagini classiche, con immagini della natura, con motivi legati a storie,
leggende. C’è un’impostazione schematica e ripetitiva. Sia i soggetti che le tecniche sono
artigianali legate all’arte pittorica. Dalla lavorazione della lacca e dalla ceramica:
bombatura della superfice per rendere più spessi alcuni elementi, fatta con polvere di
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gesso, di conchiglia. Gli artigiani utilizzano i motivi decorativi dei pittori per riportarli in
modo diverso dalla pittura.
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Pittura su porta / pannello scorrevole (Fusumae).
Formato ancora più importante nella dimensione. (E: pittura – Fusuma: porta scorrevole
che divide i vari ambienti della casa giapponese). Una delle classiche pitture imponenti,
sfruttate nei secoli per questo. Inchiostro nero e utilizzo di foglia d’oro.
Prima erano oggetti di arredo, che servivano per creare ambiti di intimità diversi. Stanze grandi,
spazi giostrati a seconda di come si muovevano i fusuma – porte scorrevoli – e di come erano
disposti i paraventi.
Oltre a questi supporti ne esistevano di più piccoli: le pittura su ventaglio pieghevole (sensu, o
ogi, pittura su: ogie), ventaglio rotondo rigido (uchiua, pittura su: uchiuae).
La serialità nelle opere giapponesi è una caratteristica fortissima. In Giappone non c’è
distinzione tra arti maggiori ed arti minori. Spesso chi faceva pittura e calligrafia produceva anche
scatole in lacca ed in altri materiali.
Preistoria
Le epoche prendevano i nomi delle dinastie di imperatori. È un calendario differente dal nostro
che fa riferimento al calendario cinese ed allo zodiaco cinese.
Periodo Jōmon
- Jōmon iniziale 10.000-4500 a.C.
Antico 4500-3000 a.C.
Medio 3000-2000 a.C.
Tardo 2000-250 a.C.
Periodo Yayoi
- 250 a.C. – 300 d.C.
Periodo Kofun
- IV s. – VI s.
Queste fasi possono avere leggere variazioni di datazione. Il periodo Jōmon è differenziato dallo
Yayoi per i forti cambiamenti che avvengono in quest’ultimo. Mentre parliamo del periodo Kofun,
o dei tumuli, parliamo di un periodo che si sormonta già all’epoca successiva.
Jōmon è formato da “mon” (motivo) e “Jo” (qualcosa di fatto a corda), perciò è un motivo fatto
a corda. Il nome fu attribuito da uno studioso americano, dopo i ritrovamenti di motivi fatti in
argilla.
Primo Paleolitico (200.000 a.C.): strumenti in pietra trovati a Miyagi. Non sappiamo se i primi
giapponesi fossero diretti antenati della popolazione Jōmon. Alla fine dell’Era Glaciale (12.000 a.C.)
le isole giapponesi erano attaccate al continente asiatico, qui si capisce la vicinanza della penisola
coreana. Le isole di Honshu e Kyushu e Shikoku non erano altro che un prolungamento della
penisola coreana. Queste due vie a Sud fornivano un facile accesso da Est, la rotta privilegiata era
quella a Kyushu. La copertura delle terre avvenne tra il 10.000 e il 4.000 a.C. Tuttavia fu la cultura
Jōmon a produrre le prime ceramiche. La prima popolazione veniva dalla Siberia, dalla Mongoli,
dal Nord della Cina. Abbiamo due vie di entrata della popolazione in Giappone. Abbiamo dei primi
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scavi vicino a Tokio del 2.500 a.C. Vediamo una figurina in pietra del Jōmon antico (provincia di
Akita). Le più antiche sono a Sud del Giappone, databili attorno al 5.500 e 2.500. Una cultura
ancora pre-agricola. Ce ne rimangono solo dei cocci, oggetti di piccole dimensioni è con una base
arrotondata. I bordi realizzati in modo rozzo. La superfice ondulata e levigata nella maniera più
semplice. I motivi sono a corda. Il vasellame è cotto realizzato all’aperto e realizzato per cucinare,
bollire il cibo.
Le abitazioni del Jōmon Antico sono organizzate in villaggi. Ne abbiamo trovati degli oggetti di
uso quotidiano, utensili, cesti in bambù, paglia e cose ricavate dall’osso. Le case era fatte in una
buca quadrata nel terreno, i tetti erano realizzati con erbe, canne, convergenti verso il centro e
che poggiavano sul perimetro della buca. Non sono molti gli esempi di figurine ritrovate: quella
che vediamo è una sorta di testa con i capelli lunghi, placche e braccia portate al torace. Non se ne
conosce la funzione, poiché non c’è nulla che ci dia un indizio.
Vediamo un esempio di vaso, più consistente, con una lavorazione interessante, della zona di
Kobe, appiattito, non arrotondato, fatto con fibre di pianta. Le decorazioni sono ricche, il bordo è
ondulato e irregolare, con affossamenti più o meno accentuati. Vediamo il motivo della corda,
fibre che si intrecciavano sulla superfice per creare questi motivi. Questo motivo rendeva anche il
vaso molto più forte durante la cottura.
Nel 3.000 a.C. la popolazione si sposta dalle coste verso le montagne, le zone alte e verso Nord,
cominciano a dedicarsi a semplici raccolti ed oltre a lavorare e produrre riescono anche ad
immagazzinare le produzioni. Il vasellame ritrovato ci dice che c’era un tenore di vita stabile: “la
pancia piena dà tempo libero”.
Vediamo una ciotola di terracotta Torihama, da Fukui. Un vaso con ossidi di ferro che danno
una decorazione rosse, con delle figure con il metodo decorativo del precedente periodo, più
articolate. Il focolare è il centro dell’abitazione ed attorno a quest’area si potevano radunare
cinque persone. Venivano esposte figurine in forma fallica o contenitori ritrovati rotti. Questi
ritrovamenti potrebbero essere i primi altari domestici e le prime forme di raduno famigliare
tipiche della cultura giapponese. Produzione ricchissima di vasellame e distinzione della sua
funzione: per il cibo, per cucinare, incensieri, coppe. La funzione a corda ha un effetto più
tridimensionale.
Esempio è il vaso in terracotta, trovato da Niigata. Un cambiamento totale delle tecniche di
produzione, costruita con salamini, listelli d’argilla, abbiamo anche dei punti di aggancio, delle
maniglie. Un contenitore che serviva per cucinare.
Un altro uso era di decorare i vasi secondo la forma antropomorfa. Vediamo un
incensiere/lampada, che ha un’apertura per metterci la mano, ha un volto modellato molto
semplicemente, sopraccigli a forma di rondine e occhi e bocca impressi in profondità. C’è una
lavorazione talmente accurata che si possono distinguere le forme.
Vediamo anche un vaso di terracotta (da Tonobayashi, prov. Di Yamanashi) del Jōmon Medio ci
mostra l’accuratezza stilistica acquisita.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 3 – mercoledì 5 ottobre 2016
Dogu e Haniwa
Vaso di terracotta da Yamanashi, abbiamo un’evoluzione dell’utilizzo dei listelli d’argilla e parti
incise con un’onda che si ripete, lasciando nuda la parte utilizzata per l’appoggio.
Un altro vaso in terracotta da Toyoma sul quale è stata fatta una piena lavorazione, un vasto
abbellimento, probabilmente dedicato all’ambito sacro.
I dogu
Piccole figurine femminili e prosperose, legate al simbolo della fertilità. Molto semplici nelle
forme, con i fianchi e il seno accentuato, con un copricapo molto curioso. Nella provincia di
Nagano. Occhi e bocca sono intagliati.
Un'altra figura curiosa viene da Yamagata, a Nord, ha una strana forma del corpo: indossa un
grembiule davanti ed è inciso nella parte superiore in modo da sembrare indossare dei gioielli e
probabilmente dei tatuaggi. Un volto a semiluna, con solo due forellini per indicare gli occhi.
Completamente abbellito con disegni ricercati.
Una figura antropomorfa in terracotta da Gunma è una forma spigolosa, con delle specie di
maniche e i fianchi che si allargano a U, la faccia a forma di cuore sulla quale sono attaccati i tratti
somatici. Il corpo intero è inciso con linee parallele e cerchiolini, poteva essere una decorazione
legata agli abiti ed a linee di tatuaggi.
Altra figurina di gatto, ha delle incisioni sul volto che indichino i peli del felino e anche segni sul
corpo. Il braccio sinistro è riportato sul petto. Probabilmente un qualche significato legato alle
ritualità.
Un’altra da Saitama ha un corpo che si assottiglia sopra la vita, con i fianchi spigolosi, un
abbellimento totale della superfice del corpo, una capigliatura, o copricapo, dalla forma
complicata, con i lobi delle orecchie con dei cerchiolini appiattiti. Lavorata con un bavero che
scende dal collo, dei fori a V e sotto lavorazione a corde, le spalle allargate e arrotondate.
Un’altra statuine dai pressi di Miyagi, pare un alieno, con dei grandi occhi con delle fessure
tratteggiate al centro, abbellito in maniera ricca e con fori incisi, che indicano dei tatuaggi (il
tatuaggio era legato ai riti).
Il raffreddamento climatico forzò di nuovo la popolazione a spostarsi, dalle montagne di nuovo
alla costa Orientale. Si torna alla pesca e si sviluppano utensili e tecniche adatti. In quest’epoca le
risorse di vita erano insufficienti e la popolazione è diminuita. Le statuite probabilmente erano
possedute da ogni nucleo abitativo per rituali, in corrispondenza con il maggior numero di decessi.
Forse rotte appositamente come rito di guarigione per la parte malata del nucleo famigliare, un
rituale propiziatorio. I dogu avevano quindi questo tipo di utilizzo.
Altre figurine tipiche sono quelle assise sulle ginocchia e si pensa che fosse una posizione di
preghiera: mani giunte, ginocchia piegate, occhi e bocca creati con piccoli rotolini di argilla in
rilievo e punteggiatura, che indica il tatuaggio attorno alla bocca. Abbiamo un abito ben più
consistente è un abito protettivo, un collare e dei copri-gambe con decorazioni evidenti.
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Sono anche state ritrovate piccole creazioni in terracotta del tipo delle maschere che
riproducono il volto umano. Ne vediamo una di Saitama, un disco di argilla piatto, la bocca ricavata
con una profonda incisione orizzontale. Ossidazioni che danno colorazioni differenti.
Un’altra maschera, da Iwate, è un volto che non pare giapponese, ma sembra dell’entroterra
asiatico. Riporta decorazioni su tutta la superfice, linee di tatuaggio o di una maschera portata
dietro la testa.
Menhir, questi ritrovamenti sono di dimensioni importanti, ce ne sono alcuni ritrovati ad Akita
che misurano anche 46 metri, utilizzati come tombe o per le cerimonie.
Le popolazioni del Jomon Tardo si tengono in contatto l’una con l’altra, tanta che nei vasi le
decorazioni si standardizzano. Vediamo un cambiamento totale nella decorazione del vasellame
(vaso da Aomori), più aderente al corpo del cilindro, con la parte bassa più semplicemente levigata
e tutta la superfice rimanente è spianata, resa liscia. La zone di produzione diventa la parte Nord,
Honshu. Si va dalle coppe, ciotole, vasi per cucinare ad uso comune e cerimoniale. Di solito queste
terrecotte sono dipinte con l’ossido di ferro, bruciacchiate, o coperte con una superfice laccata,
con una resina trasparente, questo per diminuire la porosità e come decorazione.
Il passaggio dal Jomon all’epoca Yayoi è un passaggio quasi netto di cui si sa poco e si osserva
solo il cambiamento repentino rispetto alle usanze, si sviluppa un sistema di classi, che è quello dei
clan. Il nome Yayoi deriva da un’area nei pressi di Tokio, ove sono stati trovati i primi resti di
quest’epoca. Vi è un inizio della manifattura del bronzo e del ferro, la coltivazione del riso e lo
stabilirsi di comunità dedite all’agricoltura. Nascita dei granai, dei magazzini per il riso. Si ipotizza
che tutte queste conoscenze siano giunte dal continente asiatico, ma non abbiamo prove di simili
culture asiatiche. Le abitazioni sono su palafitta, mutuate da qualche civiltà umile del continente
asiatico, abitazioni raggiunte tramite scale a pioli. La coltivazione del riso sembra iniziata nell’isola
di Kyushu già dalla fine dell’epoca Jomon. Tuttavia, le tecniche furono sviluppate fino a convogliare
la acque nei campi di riso. Di conseguenza un aumento di villaggi e una diffusione di questa
coltivazione a partire dalla zona Sud-Ovest, Honshu, e via via salendo verso il centro del Giappone.
I primi oggetti ritrovati sono specchi in bronzo, armi, utensili in ferro, probabilmente importati
dalla Corea o dalla Cina.
Vediamo uno stampo per dōtaku, da Osaka, è una campana di cui sono stati rinvenuti oltre 400
pezzi dai siti nella zona di Shikoku, a Sud. Il nome deriva da uno strumento musicale cinese, anche
se in Giappone fu trasformato in una funzione cerimoniale. Un trespolo grande ove le campane
venivano suonate. Le misure vanno dai 10 ai 130 cm. Il corpo di questi è ovale, creato nel processo
di fusione prima una faccia e poi l’altra, incollate infine. La maggior parte presenta dei disegni
geometrici a fasce, con figure umane o animali molto stilizzati, ha una retinatura che divide i lati
della campana e spirali, aree quadrate che dividono le figure.
Abbiamo anche ceramiche che sono prive di invetriatura, hanno forme stilizzate e sono oggetti
d’uso comune e cerimoniale anch’esse. Vediamo dei gioielli di vetro, vasi dal collo allungato,
recipienti per la cottura, giare, coppe, alcune anche con piedistallo. Vediamo degli esempi di vasi
con piede, da Aichi: hanno lavorazioni anche molto ricercate, dipinti in pigmento rosso, incisi
geometricamente, a pettine, altri con rilievi in argilla applicata. Design più semplice ed elegante,
lavorazione al tornio e cottura a fuochi all’aperto.
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Uno dei siti maggiori è stato scavato nel 1989, a Kyushu: oltre 300 abitazioni, la più grande, del
capo villaggio, è su una collina. Sull’altra collina troviamo circa venti magazzini con circa 2000
tombe attorno al villaggio.
Inizia una usanza che da il nome al periodo Kofun, va dal IV sec. fino al VI sec. (epoca storica
giapponese), questo periodo comprende la costruzione di grandi tombe in forma di tumuli,
chiamate kofun (Ko: antico, vecchio – Fun: tomba). I primi grandi tumuli apparvero nell’area di
Kansai: tutta l’area di Kyoto, Osaka e Nara. Da lì si diffondono in tutto il Giappone, ciò fa pensare
ad un potere politico centralizzato in quella zone. L’usanza dei kofun termina con l’introduzione
della cremazione buddhista.
Dagli oggetti rinvenuti nei kofun è evidente la similarità con quelli coreani, dunque si capisce la
continuità dei rapporti con il continente. La forma delle tombe reali ricorda quella dei tumuli. La
manifestazione cinese si mostra nei caratteri tipografici, la scrittura a ideogrammi, che deriva dalle
scritture sacre buddhiste. C’era una grande concentrazione dei kofun nella zone di Osaka e di
Nara, o anche ad Okayama.
Vediamo un esempio di tumulo, tombe dette anche “a forma di serratura”: collina rotonda,
conica, affiancata ad una a forma di triangolo. La tomba era sotto, la camera funeraria interrata
con delle pareti di pietra. Pareti in pietra in cui erano inseriti la cassa di legni e gli elementi
tombali. Gli oggetti sono perlopiù armi in ferro, specchi e ornamenti in giada. Uno dei tumuli più
importanti, tomba del principe Nintoku, a Osaka, completamente coperta di vegetazione,
circondata da un ampio fossato, sulla superfice del tumulo erano distribuite delle statue cilindriche
di argilla, di dimensione importante, di un metro e oltre, chiamati Haniwa (statuine cilindriche di
argilla).
Terreni piani e sempre più grandi ove si costruivano artificialmente questa colline. Una
dimostrazione del potere sempre più incisivo. La forma della tomba del principe ha un’altezza di
27 metri e mezzo per 45 metri di lunghezza, circondata da 3 fossati e copra 158 acri. Su di questo
sono disposti oltre 20.000 haniwa. Una tomba mai stata scavata, c’è solo una piccola parte del
tumulo franata e dalla quale sono stati scoperti tanti pezzi funerari.
Verso la fine del V sec. entrano in uso le tombe a corridoio, come si usava in Corea. Significa che
anziché avere una tumulazione dall’alto, si comincia a costruire un corridoio orizzontale che
conduce alla camera funeraria, ciò implica che essa poteva essere utilizzata a ripetizione per
seppellire morti successive, di una altro elemento del nucleo famigliare. Giunse l’uso di decorare
l’interno della camera con dipinti e incisioni. Quella che vediamo viene dalla provincia di Nara,
Fujinoki: una delle più grandi, il sarcofago contiene i resti di 2 persone e si tratta di un maschio e di
una femmina, di circa diciassette e venticinque anni, alcune ossa sono dipinte di color vermiglio
(rosso), trovati oggetti d’oro, scarpe di bronzo, una cintura d’argento. Forse l’imperatore Sushun.
Vi erano decorazioni con figure animali, draghi, leoni, elefanti. Erano due personaggi della famiglia
imperiale. La camera funeraria era costituita da grandi pareti rocciose, all’interno era posta la
cassa di legno e davanti oggetti tombali come bronzi e offerte che circondavano la camera.
Vediamo gli haniwa (cerchio di argilla), sono cilindrotti di argilla vuoti, infilati nel tumulo. I primi
comparvero a Sakai assieme ai tumuli. Erano posti sopra il morto, sulla cima del tumulo, mentre gli
altri erano distribuiti in forme concentriche intorno al perimetro della montagna del tumulo.
Questa produzione si sposta del Kanto, verso Nord, la zona di Tokio. Le modalità di distribuzione è
visibile in una tomba. Semplici haniwa di forma circolare sono posti attorno a tutto il perimetro di
forma semicircolare. Lungo la testa del tumulo abbiamo una serie di haniwa in forma di animali,
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ecc. Si pensa fossero un’evoluzione delle giare, per sostenere vasi e vassoi con le offerte: sono
terrecotte senza invetriatura cotti da artigiani, i materiali utilizzati sono gli stessi del vasellame di
uso comune. Le forme sono quelle dell’abitazione, di barche, di dignitari o umane riconoscibili,
forme femminili con abbellimenti di gioeilli, equipaggiamenti militari, ecc.
Un episodio riportato in uno dei primi volumi della pubblicazione degli “Annali del Giappone”
racconta di come gli haniwa apparissero realistici alla luce della luna. Hanno una dimensione
importante. Si dice che avessero potuto sostituire il sacrificio umano all’interno della tomba
dell’imperatore. Deriva probabilmente dall’usanza cinese della quale il Giappone è a conoscenza. I
cilindri inseriti nel terreno servivano a tenere compatto il tumulo, servivano a proteggere il
defunto ed accompagnarlo nel suo percorso verso l’aldilà.
Forme molto standardizzate anche se spesso di bella fattura. Nella zona di Tokio si hanno degli
haniwa molto ricercati: figure umane maschili e femminili, che si distinguono per il loro ruolo
sociale, quasi sculture di genere. Vediamo un haniwa con un tetto spiovente. Abbiamo quindi
informazioni su quella che era la forma delle abitazioni dell’epoca, poi riprese nella struttura dei
santuari di epoca successiva.
Vediamo un haniwa a forma di scudo, con il piedistallo, nella zona del Kanto. Poi, uno a forma
di cerco, con il pigmento applicato per rendere il manto del cerbiatto, le gambe il collo e le
orecchie danno vita ad un unico cilindro. Poi uno a forma di cavallo, con tutta la bardatura che ci
informa sulle usanze e sul tipo di tumulo.
Vediamo i primi bronzi, gli specchi, altri oggetti associati ai tumuli. Uno è il lato in cui ci si
rifletteva, mentre il posteriore era decorato con decorazioni concentriche, con un foro che lo
attraversava, per appendere lo specchio. I primi vengono dalla Cina, in epoca Yayoi, dopodiché li si
produce anche in Giappone, sono riprodotti anche localmente. È l’oggetto sacro di Amaterasu,
una dea creatrice del Giappone, la “grande dea che splende nei cieli”: ella si nasconde dentro una
grotta, arrabbiata col fratello, e questo fatto produce il crollo di tutta la piana del Giappone
nell’oscurità. Perciò le divinità si consultano e cominciano a pensare ad una modalità per farla
uscire. Creano danze sciamaniche davanti alla grotta, fanno rumore, le viene detto che fuori dalla
grotta c’è una divinità più bella di lei, viene portato uno specchio su di lei, viene fatta uscire e così
la piana riottiene la sua luce. Abbiamo simboli legati al culto shintoista, un gioiello rotondo e una
spada. La funzione dello specchio è magica, perché riflette l’immagine anche al buio, è il simbolo di
Amaterasu. È utilizzato anche in epoca Kofun come dono per le alleanze tra i capo clan. Le bande
dello specchio di solito sono otto interne e quattro esterne, ricordano la forma ad arco. Altri
specchi riportano invece figure più naturalistiche, legate al mondo vegetale ed animale.
Un altro oggetto, un elmetto in cui si leggono ancora tracce di doratura. Fa parte dei corredi del
defunto.
L’interno di una delle tombe più spettacolari di Fukuoka ha una scena ritratta con dei ventagli
che ricordano quelli regali rotondi che chiudono la scena. Gli elementi sono allineati su tre livelli:
in alto abbiamo una forma di animale, che cavalca verso sinistra, di fronte a questo abbiamo una
barca e sotto a destra una fila di forme triangolari verticali, forse le montagne, sotto un cavallo
trattenuto e sotto ancora delle onde increspate. Questo animale in cima è la rappresentazione di
uno spirito, mentre la scena reale è quella del cavaliere con il suo cavallo, forse uno sciamano,
indicando il viaggio dell’anima verso l’aldilà.
Introduciamo il significato dello Shinto (Shin-To: La Via degli Dei – Do, o Tao: la Via – Shin, o
Kami: Divinità shintoiste). È la religione autoctona giapponese. Solo dall’epoca di Nara, dal 1700
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quando entra il Buddhismo e altri, si sente l’esigenza di identificare lo Shinto come sistema
religioso, non più come una serie di riti famigliari.
Nel 712 è compilati il Kojiki, il primo testo che legittima la natura sacra dell’imperatore,
discendente diretto dei Kami, delle divinità. È anche definito il panteismo che infonde importanza
ad ogni essere della natura. L’essere umano non si pone al di sopra della natura, ma è uno dei
granellini che fanno parte dell’universo. Da allora lo Shinto dovette evolversi per poter convivere,
assimilato o venendo assimilato, dalle altre religioni Europee. Scuole sincretistiche, che
comportavano l’unione di più religioni e la rappresentazione iconografica, fino alla reazione
opposta in cui si chiede la liberazione da ogni ibridazione dello Shinto per tornare agli Dei. Il
movimento sviluppatosi nel periodo Edo portò lo Shinto come religione di Stato, fino al XIX sec.
fino al 1945. L’atto che chiude la seconda guerra mondiale è stato la bomba atomica e l’annuncio
dell’imperatore che dice di non essere più un discendente divino. Dichiarazione radiofonica che
chiude la sconfitta del Pacifico, qui lo Shinto si chiude come religione di Stato.
Nello Shinto non vi è distinzione tra divinità creatrice e Creato, gli stessi Dei sono parte della
creazione e da loro derivano tutte le cose, tutti allo stesso modo hanno in sé la natura divina,
questo spiega il rapporto dei giapponesi con la natura. Noi siamo un pezzo del creato e siamo posti
al di sopra di tutte queste creazioni dell’Universo. Perciò dobbiamo porci secondo quest’occhio,
questo pensiero filosofico. Ogni essere può essere veicolo del sacro.
Alberi, rocce, cascate segnate dalla tradizionale corda sacra (Kumihimo, o Shimenawa), che
indica un luogo sacro ove la divinità può manifestarsi. Sono un segno speciale, una sorta di vuoto
che si crea intorno all’oggetto, all’interno del quale la preghiera può far scendere la divinità.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 4 – lunedì 10 ottobre 2016
I Santuari Shinto
Domani, 11 ottobre non ci sarà lezione, siccome l’ora di Arti visive è stata raddoppiata.
Nella scorsa lezione abbiamo iniziato a parlare dello Shinto. Ci sono diverse pronunce, diverse
vie legate alla filosofia. Shinto è la religione primigenia giapponese. Non c’è distinzione tra la
divinità creatrice ed il Creato. Ciò lo dovremo tenere presente quando ci avvicineremo alla critica
dell’arte. I primi dei che hanno creato il Giappone sono parte della creazione, non sono separati.
Tutti, allo stesso modo, hanno in sé la natura divina. Questo non può che condurre ad un
particolare rapporto con la natura, perché tutto nasce assieme ed allo stesso livello: un luogo, una
cosa, un essere può divenire sacro o essere veicolo del sacro. Se facciamo una qualsiasi
passeggiata in Giappone incontriamo nei campi, o al centro di Tokio, alberi, rocce, cascate, luoghi
delimitati e segnati come “luoghi speciali” dalla tradizionale corda sacra kumihimo o shimenawa,
legata alla dea Amaterasu, perché la caverna nella quale si nascose fu segnata dalla corda sacra.
Vediamo l’immagine di un vecchio albero, ma possiamo vedere anche piccoli pini di forma
contorta, che possono essere considerati come luoghi nei quali le divinità abitano. La corda è fatta
di pianta di riso, con dei coni lasciati cadere verso il basso attaccati alla corda centrale. Pianta del
riso lasciata cadere verso il basso e degli intrecci di carta, che ricordano la forma del fulmine:
quindi pianta del riso (che è il cibo fondamentale, quindi indica la terra) e dall’altra il fulmine (il
cielo, che deve rendere fertile la terra).
Vediamo due piccoli promontori che escono vicino alla costa nelle parti di Hiroshima e sono
appunto due rocce legate l’una all’altra: la roccia grande è considerata la roccia marito e la piccola
la roccia moglie.
Chi sancisce che cosa è sacro: la gente comune come chi è legato ai santuari. Chiunque si leghi
in un qualche modo ad un qualche simbolo naturale. Troviamo questi segni nelle risaie, perché
sono segni di protezione.
È un segno che crea un vuoto all’interno, che da un punto di partenza alla base della creazione
di un qualsiasi santuario. Questa è la modalità più popolare legata all’ambiente naturale. Sulla
roccia più grande vediamo anche un piccolo trespolo: il torii, il portale sacro dell’area Shinto. Di
solito qui troviamo offerte di sale, di frutta, fatte alla divinità. Mentre la corda ci segna il vuoto, il
torii ci fa entrare al suo interno e deriva la sua forma dal trespolo sul quale si posavano gli
uccelletti della divinità che danzò davanti alla grotta per far uscire Amaterasu. Altri oggetti che
troviamo a contorno delle aree sacre Shinto, sono la presenza delle offerte: bariletti di sake che le
fabbriche di produzione portano annualmente al tempio. Poi il gallo, uno degli animali sacri legati
allo Shinto, perché parte di quegli animali che hanno cantato per far uscire la dea.
Il luogo chiave dello Shinto è il Santuario di Ise. Il Tempio buddhista – il Santuario shintoista.
La parola Jingu, i Santuari legati alla famiglia imperiale e i Jinja sparsi anche nella città urbane.
Troviamo una serie di santuari al di sotto delle cascate, perché sono i luoghi della purificazione.
All’introduzione ci si lava le mani e la bocca all’entrata dei luoghi sacri, si usano per questo dei
mestolini. Maestri di arti marziali continuano anche oggi a portare avanti questa tradizione. Il Jingu
ha una parte protetta con dei padiglioni. Ne vediamo la parte interna, il naiku (“interna”). La parte
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esterna è chiamata daijingu e geku. Si tratta di più padiglioni sparpagliati in un’area enorme.
Santuari aggregati, diversi, separati, betsugu.
Il Santuario era il luogo sacro per eccellenza. L’imperatore era il simbolo del Giappone assoluto.
A partire dalle prime schermaglie tra clan si creerà il potere dello Shogun, all’imperatore rimarrà
unicamente il potere simbolico. La divinità del sole (Amaterasu) è rappresentata da tre gioielli
sacri: lo specchio (kagami) – trasferito dal palazzo imperiale a Kasakuinomura e donata ad una
principessa figlia di un imperatore leggendario, Yamatohime (Yamato: Giappone; hime:
principessa) che diverrà sacerdotessa del santuario. Fino a quest’epoca abbiamo un tramandarsi di
principesse che diventano sacerdotesse. Il naiku è costruito interamente in legno di cipresso,
lasciato al naturale, senza alcun tipo di abbellimento e lo stile architettonico è unico: shinmei
zukuri. Un tipo di costruzione architettonica sacra e legata alla famiglia imperiale, questo fino al
1839.
Prevede una divisione in due aree: lo spazio interno e un’area esterna vuota, ove ogni vent’anni
il santuario con tutti i padiglioni viene ricostruito da zero. Questa cerimonia si è svolta l’ultima
volta nel 2013. Un cerimoniale che ripete sempre la stessa struttura del Santuario. Ci sono una
serie di cerimoniali che durano tutto l’anno. Una sorta di regalo, di rinnovamento degli spazi
abitati dalla divinità. Non è mai considerato come un luogo contemporaneo. La forma del
padiglione è rettangolare, che deriva da quella dei granai di epoca Preistorica, risale al III secolo e,
invece, il rito di ricostruzione risale all’imperatrice Jitō, dal 686-697.
Il nuovo edificio non viene considerato come una replica, ma come edificio originale, una sorta
di rinascita secondo il pensiero Shinto. Ciò per venerare la dea del cibo e della casa, la dea legata al
focolare domestico, Meniginomikoto. Il portone di entrata è molto grezzo, di legno e paglia, in
completa sintonia con tutto il paesaggio che lo circonda. Il Santuario è immerso nel bosco.
Vediamo i tetti dei padiglioni centrale: il tetto è a spiovente, che ricorda le strutture degli
antichi granai, sulla cima tutta la lunghezza del tetto è attraversata da padiglioni rotondi e disposte
per tutta la lunghezza. Sottolineato da due aste sottili, anch’esse con piccole decorazioni dorate.
L’edificio è rialzato da terra, su un superfice sollevata da pilastri cilindrici che formano una sorta di
veranda coperta da uno stuolo di cannette. Pilastri disposti sul lato corto dell’edificio. Abbiamo
dieci katsugi, poi i chigi che sono tipici dell’architettura sacra (legni obliqui sul tetto). L’entrata è
sempre posta sul lato lungo e tutti questi edifici sono circondati da un recinto con una strada di
ghiaia.
I vent’anni che separano la ricostruzione sono il tempo che serve per tramandare le conoscenze
architettoniche di generazione in generazione. Non si butta via nulla, tutto è un riciclo e riutilizzo
dei materiali come gesto sacro. Cerimonie che non sono niente altro che una richiesta dell’uomo
per poterle utilizzare, una sorta di ringraziamento alla divinità del bosco che si rende disponibile
per la ricostruzione del Santuario. Ciò si fa ogni volta che si deve costruire qualche cosa. La
apertura del nuovo santuario avviene con la presenza dell’imperatore.
Vediamo un emakimono (rotolo orizzontale) che rappresenta un cerimoniale, con preti e nobili,
che accompagnano l’Imperatore durante la cerimonia di apertura del nuovo santuario.
Il più importante santuario Shinto è l’Izumo taisha. Anche la nascita di questo santuario viene
raccontata nelle cronache. Esso è riconosciuto come luogo di pellegrinaggio per le coppie
innamorate ed è una sorta di benedizione per queste ultime. All’entrata vediamo una corda
enorme, intrecciata, con dei blocchi a semi-cono di piante di riso essiccate che vengono lasciate
cadere e gli shide. Si entra nel padiglione centrale passando sotto allo shimenawa. È un segno
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legato alla mano dell’imperatore che è veicolo del divino. È come se avessimo le dita di una mano
che si protraggono a protezione. Questo si trova sulla sponda occidentale del Giappone, in
provincia Tottori.
Il Meiji Jingu è il Santuario simbolo dell’Imperatore, che ha come stemma il crisantemo. Anche
la fiera dei crisantemi nella stagione autunnale. Il Giappone sa che l’Imperatore non è più la
divinità in terra, ma il legame con lo Shinto è ancora molto forte.
Lo Shinto è un pensiero religioso (non religione), esso è il sentimento del Giappone. Il
buddhismo si è inserito ed ha dato forma a sincretismi con lo Shinto. Lo Shinto si è affermato come
religione di Stato in epoca Edo, ciò ha portato l’utilizzo dello Shinto in guerra, ossia la
partecipazione alla guerra per difendere le proprie divinità. Una presa di posizione netta che va
contro tutto ciò che è straniero al Giappone.
Lo Shinto anche oggi, quando parliamo di letteratura e produzione artistica, non possiamo non
fare riferimento al sentimento della natura trasmesso nel pensiero Shinto. In Giappone si dice che
si nasce shintoisti e si muore buddhisti, questo dice quanto le due cose siano compenetrate. Il
bambino alla nascita è presentato al santuario Shinto, c’è una ritualità con il kimono, una sorta di
compleanno in cui si festeggiano le prime fasce dell’età dell’infanzia. Quando i giapponesi
muoiono vengono seppelliti nei cimiteri buddhisti, perché non esistono cimiteri shintoisti. L’aldilà
è legato al pensiero buddhista non a quello Shinto.
I giapponesi hanno un particolare sentimento per tutta la materia. Essa ha una funzione, ma
dietro tutta una lavorazione legata alla ritualità Shinto.
Un altro dei riti legati allo Shinto, sono le preghiere votive, preghiere legate in fogliettini di
carta, che vengono arrotolati e legati in rastrelliere fuori dai santuari, o nel caso dell’immagine su
un grande pino. Altro segno legato alla preghiera e alla richiesta di protezione da parte delle
divinità è l’ema, la tavoletta votiva, un ex voto. Una sorta di preghiera di protezione, di forza, di
vicinanza alla natura e l’immagine che il Tempio offre sono quelle della coppia di personaggi,
avvolti in un kimono tradizionale stilizzato e legati da nodi, uno rosso ed uno bianco, un augurio.
L’abbellimento esterno è il nodo. In origine questi nodi erano fatti con le alghe essiccate, dietro
viene scritto il proprio messaggio di pronta guarigione.
Vediamo un’immagine di quello che era in origine l’Izumo taisha: si è ricostruito in scala piccola
quello che doveva essere il suo padiglione centrale alle origini prima della distruzione, con una
scalinata gigante, con delle bamboline piccole, per far capire quelle che avrebbero dovuto essere
le dimensioni reali. Il rito della ricostruzione è posteriore rispetto a questo santuario e riguarda la
costruzione attuale, non quella antica. Non c’è niente in muratura in Giappone, per cui non c’è
niente che rimanga intatto. Tutto quello che vediamo in Giappone in realtà non è originale, ma è
stato rifatto come l’originale. La copiatura non è un’azione da cui rifuggire o riguardarsi con critica,
ma fa parte della disciplina di ogni pittore, quindi la copia non era una blasfemia o una razzia
dell’originalità, ma un dare nuova vita. Il concetto di originalità arriva con la nostra pittura, come
anche la distinzione tra arti maggiori o minori.
Epoca Asuka (552-645)
Solitamente si usa indicare l’inizio dell’epoca storica con questa data, che coincide con la
missione del re coreano, Paecke, al sovrano di Yamato. Per chiedere aiuto al Giappone, nella
difesa dallo stato di Silla, che minacciava di sottomettere il resto della penisola coreana. Ciò non
servì perché Silla, con l’aiuto dei cinesi sottomise tutta la penisola. Il re coreano mandò dei regali
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al sovrano di Yamato che consistevano in sculture e testi sacri buddhisti, invitandolo ad adottare
questa grande religione. Quindi il primo incontro con il buddhismo ce l’abbiamo in questa prima
incursione coreana. Questo fatto creò tutta una serie di contrasti tra il clan di Yamato e tutti gli
altri, che trionfarono perché il buddhismo divente una delle religioni adottate in Giappone. Il
buddhismo fece fiorire tutte le promesse culturali che erano latenti. Abbiamo visto le prime forme
Shinto, che si sviluppano dal III al IV secolo, ma la fioritura massima architettonica avverrà grazie al
buddhismo.
Uno degli esempi principali di questo incontro è il complesso templare buddhista, Hōryūji. Esso
si trova nei pressi di Nara, al Sud del Giappone e consiste sul sito di Asuka (da cui prende il nome il
periodo). I Giapponesi erano soliti spostare la capitale alla morte di ogni sovrano, per cui il ruolo
ove era avvenuta la sua morte diveniva tabù, non legato a buoni auspici. Molti edifici venivano
spostati di pochi chilometri e tanti degli edifici appartenenti ad un’area erano spostati in un’altra:
spostati e rimontati. Questo perché gli edifici lignei erano costruiti ad incastro, sia i Santuari che i
Templi.
In origine lo Hōryūji di chiamava Wakakusadera, il principe reggente Shotoku, definito anche
taishi (“ambasciatore”), vissuto tra il 574-622. Fu devastato da un incendio nel 670, si salva solo un
edificio leggermente staccato dal resto e che conteneva una triade del Buddha fatta fondere nel
623, per una grave malattia del principe che si era ammalato nell’anno precedente. La triade del
Buddha Shaka. Commissionata da Tori bushi (“maestro di scultura buddhista” – fosse stato e-shi:
di pittura).
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 5 – mercoledì 12 ottobre 2016
Struttura del templio buddhista
Tornando alla Triade dedicata al Buddha Shaka (Storico). Il tempio Hōryūji venne ricostruito nel
670, subito dopo l’incendio, completato nel 711, in epoca posteriore, Hakuho. Divenne poi la sala
d’oro, la centrale, del nuovo Hōryūji: delle preghiera e ove vengono custodite le sculture. Il tempio
buddhista è segnato dal suffisso –dera (“tempio”), la lettura giapponese di un carattere cinese, che
in cinese si legge –ji. Si assicurò che i templi fossero nominati nel modo cinese, quindi il templio
cambiò nome. Hōryūji significa “Tempio della suprema Legge”. Tutti i padiglioni hanno il suffisso –
in. Ricordiamo la differenziazione di Santuario (shinto) e Tempio (buddhismo). Nei primi complessi
templari vi era un chiostro che univa i vari edifici: la pagoda e il kondō (do: “sala”, “mensa”; konkin: “oro”). Gli edifici che servivano alla vita dei monaci. Questi primi templi buddhisti si rifanno a
modelli coreani. Il corridoio coperto ha un unico portale, erano circondati da un unico corridoio.
Tutti gli altri edifici: quello dei sutra (scritture sacre), la campana che veniva suonata in certi orari
e la sala della lettura, sono tutti esterni rispetto al recinto che circonda i primi due edifici.
Abbiamo pagoda e sala d’oro affiancate, non separate, cambia completamente la disposizione.
Lo Hōryūji si trova a Su delle colline della città di Nara, sovrastata dal Nandaymon, “grande portale
del Sud”. La pianta complessa è asimmetrica e si basa su piante precedenti di altri templi. Il portale
mediano, il Chumon, non è più centrato, ma leggermente spostato. Le pareti formano una sorta di
porticato ed una struttura di due piani, un piano rialzati, con tetti.
Le strutture più antiche sono il kondō, che è stata completata nel 680, poi la pagoda, il Chumon
e una parte del chiostro. Vediamo una veduta del porticato che circonda tutti il recinto, è
importante, con pilastri imponenti ed arrotondati. Piccole travi lavorate a nuvola ed incastrate
nella struttura lignea.
Tutti i tetti sono sostenuti da travature squadrate e con una singola trabeazione. Le travi del
tetto sono a forma di nuvola e danno una sensazione di tridimensionalità. Nel portale esterno
abbiamo due guardiani messi all’interno e sotto il tetto, i niō, i guardiani del tetto, di solito
rappresentati: quello della notte con la pelle molto scura, bocca stretta e denti aguzzi, poi quello
del giorno con la pelle rossa e la bocca spalancata uniō e aniō (letto: uhìo e anìo), il suono imita
quello della meditazione. La pagoda che cos’è? Un reliquiario. Funge anche da diagramma
dell’universo. Rappresentazione simbolica dell’universo buddhista. Realizzato con tegole e
intonaco e che rappresenta cielo e terra: Buddha e esseri umani. Al centro abbiamo un
lunghissimo asse attorno al quale essa si sviluppa verticalmente, simbolo del percorso verso l’alto
che l’essere umano deve fare. Posa sua una base di pietra ove vi è una cavità ove sono riposti i
tesori buddhisti. Questa è a 5 piani, che seguono la salita verticale verso il cielo. Alla sommità del
pilastro centrale, tra la sommità e la punta c’è una struttura di rame, sorin, fatta in una scodella
rovesciata e sopra questo c’è un asse che si sviluppa in verticale. Qui sono attaccati i kurin, i
campanelli che hanno la forma di fiamma d’acqua e di ruota di drago e il gioiello della saggezza
buddhista. La pagoda è niente altro di un riadattamento di quelle che erano le torrette di vedetta
giapponesi, ma lo scopo è quello dello stupa (una specie di edificio a fungo verticale) indiano: i
cinesi lo sostituirono con questo edificio verticale che secondo loro rappresentava meglio il
cammino verso l’alto del fedele.
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Lo stupa trova radici ancora prima della figura del Buddha, II secolo a.C. si usava per metterci le
ceneri dei politici eminenti. Era fatta su un mucchi di sassi nella maniera più semplice possibile,
come commemorazione del defunto. Una sorta di diagramma dell’universo spirituale. Nello stupa
indiano vi erano ceneri dei santi, del Buddha ed era inteso come residenza della divinità, nella
struttura palazzo. Nella pagoda l’apice termina con una scodella rovesciata che ricorda il coperchio
dello stupa e gli ombrelli reali che accompagnavano i re indiani.
Il kondō, la “sala d’oro” è il padiglione dedicato alla preghiera. Struttura completamente lignee,
su una base di pietra rialzata. Delle scalette che ci portano nell’edificio. Di fronte troviamo un
altare vasto come una piattaforma, sul quale troviamo statue dipinte e dorate che rappresentano i
guardiani. Il kondō è una struttura ampia e tozza, con un primo semi-tetto, finto e di abbellimento,
un altro tetto intermedio, sormontato da una piccola verandina. Dei piccoli pilastrini di
abbellimento, con animali semileggendari. Travatura delle ali del tetto, con il leone/cane cinese,
guardiani aniō. La parte superiore ha un dragone, figura di animale semi-leggendario e semidivino. Quell’essere che si alza e si forma dalle acque e si trasforma in pioggia. Uno rappresenta la
tigre ed il leone che crea un vortice d’acqua. I dragoni sono diversi a seconda del numero di artigli
possono essere riferimenti alla figura imperiale, oppure al dragone. Capiamo spesso le
associazione alle famiglie imperiali, o samurai che hanno commissionato la costruzione del
tempio.
Anche queste piattaforme sono quelle in cui il fedele girava intorno in senso orario, sostando di
fronte ad ogni cultura, fermandosi a meditare davanti ad ogni statua. Ciò deriva dalle chatia, le
sale di meditazione indiane: lo stupa e il rito vedico, del camminare in senso orario, in
pellegrinaggio, ripetendo il movimento del sole nel cielo, per assicurarsi un buon raccolto.
I primi templi buddhisti avevano l’altare al centro del kondō, costruiti come le residenze cinesi,
con un architrave orizzontale sostenuto da tre pilastri. Vediamo lo yakushi, sul quale è stata
trovata l’iscrizione del 607, l’anno di costruzione. Abbiamo un’ulteriore distruzione nel 759. Tutti
gli edifici lignei che vediamo in Giappone sono per lo più ricostruzioni. Abbiamo una
stratificazione negli edifici che ce ne fa leggere la storia. Queste sculture sono state fatte dal
maestro Tori bushi (del quale abbiamo parlato anche nella scorsa lezione), di origini cinesi, da una
famiglia di artigiani. Un maestro sellaio e forgiatore, sapeva lavorare il legno e la lacca. Anche il
padre di Tori era un maestro sellaio ed aveva scolpito una scultura per il principe caduto
ammalato. Tori bushi sembra essere stato lo scultore principale del principe Shotoku. Sembra
abbia scolpito il Buddha Shaka per il tempio e anche il Buddha del 607, la statua su cui troviamo
l’iscrizione nel kondō originale.
Tutto l’artigianato della prima epoca impara dalla Cina e dalla Corea!
Nella sala della preghiesa dell’originale era conservata la statua in bronzo dorato, alta2 m e 70,
del Buddha Shaka, datata 606. Buddha assiso, seduto nella posizione classica. È stata
continuamente restaurata ed ha le mani in una posizione particolare, che ha un significato
simbolico. La posizione delle mani di queste figure si chiama mudra, la mano destra alzata, con il
palmo rivolto verso il fedele e la posizione della “non paura”, della “calma”, simbolo di grande
forza interiore. Ogni mudra ha un nome, in questo caso l’abayamudra, in giapponese semuin. La
mano sinistra appoggiata sul ginocchio è un segno di benevolenza, di offerta e accoglienza. Alcune
caratteristiche del Buddha da ricordare!
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1. Una è la protuberanza sopra il naso in corrispondenza del terzo occhio, chiamato urna o
yakugo (il cerchiolino sopra il naso), l’occhio che vede non solo attraverso l’estero, ma capace di
vedere interiormente.
2. Poi la protuberanza cranica a forma di crocchia, chignon o capello arrotolato, il nikkei,
rappresentazione solo simbolica, questo perché chi fa meditazione ha un altro livello di
conoscenza e di comprensione.
3. I capelli sono quasi sempre ricciolini folti e compatti, a forma di lumachella, che si rifà alle
caratteristiche derivanti dalla biografia di Siddarta d’Autama (principe indiano che abbandona il
palazzo del padre per dedicarsi alla ricerca di sé stesso, che alla fine diventerà il Buddha storico).
4. Orecchio allungato, che indica una capacità di ascolto diversa, che va oltre quella sensoriale.
Spesso abbiamo visto il patriarca che inizia la scuola del buddhismo zen e viene rappresentato con
grandi orecchini. Tutte le caratteristiche del principe indiano vengono lasciate un po’ da parte.
5. Il volto non è giapponese, ma ha i tratti somatici ben definiti, naso sottile ed affilato, il volto
allungato, tutte caratteristiche coreane e cinesi.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 6 – lunedì 17 ottobre 2016
Figure sull’altare
Oggi è passata una lista da firmare per ottenere il 30% di sconto su due volumi. Assieme ad
Antonio Marazzi faremo un seminario, approfondimento sul legame dei giapponesi con la natura e
come questo legame sta cambiando.
Facciamo un piccolo tributo a Kengiro Azuma, venuto a mancare questo sabato, uno dei grandi
personaggi dell’arte giapponese in Italia, ha lavorato nella comunità artistica milanese. C’è una
mostra alla Biblioteca di Santa Teresa. L’abbiamo omaggiato parlando dei suoi lavori. Egli ha avuto
una vita da ricordare: nato a Yamagata nel Nord del Giappone e la sua famiglia è di lavoratori del
metallo, artigiani storici, che portano avanti generazioni. Produttori di campane buddhiste spesso
andate perdute durante la seconda guerra mondiale. Quelle che sono anche le produzioni di
questa famiglia sono andate perdute. Kengiro ha vissuto gli anni della seconda guerra mondiale,
era arruolato in marina, perciò destinato a morire, nella zone di Hiroshima, per andare a morire in
un sommergibile, invece dia ha voluto che la sua missione si bloccasse lì dopo il guasto del
sommergibile. È un sopravvissuto nel male perché la loro missione era morire per il proprio
imperatore, per la propria patria e divinità. I sopravvissuti da una missione del genere non sono
guardati bene dal proprio paese, da quel momento si è dedicato all’arte ed ha cominciato, dopo
essersi laureato presso l’Università d’Arte di Tokio, ad insegnare come docente proprio presso
quella università. Il suo desiderio era di conoscere il maestro Marino Marini, in Italia. Ottenne una
borsa di studio per venire in Italia, ma il punto è che in quel momento si doveva studiare per
andare in Franci, quindi studia l’italiano e riesce ad ottenere una borsa di studio che lo porta a
Milano. Alla fine, nel momento in cui deve decidere se tornare a Tokio decide di licenziarsi dal suo
vecchio lavoro ed a cominciare il suo lavoro a Brera. È riuscito a portare la moglie in Italia e da
allora ha sposato il nostro paese, la nostra città, ha sempre vissuto a laboratori aperti, ha avuto
una figlia ed un figlio, che lavorano al Museo di Scienze Naturali e l’altro nell’ambito urbano.
Vediamo le sue opere che si ispirano al pensiero dello Zen: al vuoto. Sono imponenti, pesanti e
di metallo denso, ma con interventi corrosivi che corrodono il metallo, che di l’idea della casualità,
del vuoto, dell’imperfezione. Ha seguito sempre il percorso artistico del suo maestro Marino
Marini. Una delle sue opere, nella zona antistante il cimitero Monumentale, ha preso vita dalla
produzione di piccole gocce di metallo, acquisite da cittadini milanesi, il cui ricavato è servito a
creare il grande monumento.
Egli ha saputo ribaltare il proprio destino ed ha sposato Milano, ricostruendosi la sua vita dopo
il suo fallimento militare. Questo è un pezzo della storia Italia-Giappone. La donna di sabbia è un
capolavoro della letteratura giapponese che è consigliato da leggere, o vedere il film. Su YouTube
ci sono due video con due interviste fatte a questo personaggio.
Riprendendo la lezione precedente, torniamo dentro al Tempio di Hōryūji ed alle sculture
posizionate sull’altare. Abbiamo visto il Buddha la scorsa volta, le sue caratteristiche e le sue
gestualità. Nell’altare del Kōndo abbiamo una seria di statue posizionate in modo da mostrarci
qual era la posizione originaria. La Triade del Buddha Shaka, abbiamo il Buddha Skaka è del 606,
proveniente dalla Asukadera, realizzato in bronzo ed in foglia d’oro (ha subito anche diversi
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interventi, ma è una delle prime sculture buddhiste), di fianco a lui abbiamo due piccoli assistenti,
due figure stanti, i bodi satva. Il Buddha si rende tramite per gli esseri umani per aiutarli nel
cammino dell’illuminazione. Rinunciano alla buddhità per aiutare gli esseri umani nel godimento
del loro cammino. Vediamo esseri più minacciosi, essi sono i guardiani, figure di protezioni che si
trovano ai quattro lati della statua. Vediamo la figura assisa del Buddha Yakushi (Yakushi Nyōrai),
ne vedremo adesso le differenze: esso è una statua bronzea di 63 cm, oltre all’aureola, e fa parte
delle sculture dell’altare. Sul retro dell’aureola c’è un’iscrizione che attribuisce la statua al maestro
Tori Bushi. Alcuni studiosi la ritengono posteriore e quindi la statua è dell’epoca successiva
all’epoca Asuka. Sono diverse anche le linee degli occhi. Le pieghe delle vesti nello Yakushi sono
meno pronunciate. È una figura molto statica e semplificata, nella quale manca il senso di
movimento, se non per queste curve ampie, non profonde. Si pensa fosse in epoca Akuho, per
sostituire alcune statue che sono andate distrutte. Il Buddha Yakushi è definito il Buddha della
medicina e della guarigione. Esso tiene tra le mani una piccola ampolla, associata ad un elisir per le
guarigioni.
Vediamo un terzo Buddha, realizzato nel 623, altezza è di 116,8 cm e rappresenta la massima
fioritura dell’arte di Tori Bushi. Lo vediamo seduto su una piattaforma rettangolare, le pieghe
cadono in una cascata di curve che cadono anche sul piedistallo, una sensazione di movimento
aumentato dal motivo di fiamma dell’aureola che lo circonda, all’interno della quale vediamo delle
fiammelle, dei riccioli che salgono verso l’alto, con dei piccoli Buddha assisi. Ogni figurina è un
simbolo, un elemento che spiega e che aggiunge e cerca di aiutare il fedele a comprendere
concetti difficili da insegnare. Il gioiello sulla fronte è uno dei simboli della saggezza buddhista
dentro un germoglio di loto rovesciato. Tutti questi abbellimenti sull’aureola e sulla tonaca, non
fanno altro che contrastare la tranquilla posizione del Buddha. Si dice che l’Imperatrice Suiko
avesse commissionato questa statua per le pronta guarigione e la rinascita nel paradiso dopo la
morte del principe Shotoku. Sia l’imperatrice che il principe morirono, quindi la statu fu dedicata a
loro. All’epoca la statua Yakushi era la statua principale nel Kōndo, siccome era l’unica che si era
salvata dall’incendio.
Lo stile di questa Triade si rifà allo stile scultoreo cinese dal primo quarto del III secolo (493
d.C.), come le sculture delle Grotte di Longmen, in cui si sviluppa la modalità scultorea di immagini
scolpite direttamente sulla parete rocciosa. Tori Bushi reinterpreta la tradizione di una statuaria
che deve essere vista frontalmente. Vediamo un esempio del 649 d.C. in Cina, a Chongqing. La
modalità scultorea risente della tradizione cinese, perché l’artista era cinese.
Vediamo lo Yumedono, che fa parte del complesso dello Horyuji, un edificio che come la
pagoda è rialzato da una base in cemento, ha un forma del tetto molto particolare. È la Sala dei
Sogni. Al suo interno abbiamo una figura di Kannon, una figura stante, retta, non attribuita
direttamente a Tori Bushi. La sala si trova ad Est del complesso. Custodita per lunghi anni nello
Yumedono, riaperta a fine Ottocento. Avalokiteshvala, è il nome sanscrito della divinità indiana
rappresentata. Capiamo che è una divinità indiana per via delle sete ricchissime, i gioielli che
arricchiscono la figura. Il suo nome diventa Guanin (o Kuanin), Kannon in giapponese. È un bodi
satva. Lo troveremo rappresentato spessissimo, è simbolo della compassione del Buddha, per
questo quando parliamo di Kannon lo troviamo rappresentato con 11 teste, o/e 1000 braccia. Lo
troviamo rappresentato come cavallo bianco, per indicare la prontezza di accorrere in aiuto di chi
è in difficoltà. Esso è una figura rappresentata con le caratteristiche di un principe indiano, con
vesti eleganti ed adornate di gioielli, con capelli lunghi ed arrotolati, con i baffi ed è particolare
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perché poco alla volta diventa una figura femminile, non lo associamo ad un maschio, ma ad una
femmina, un passaggio avvenuto soprattutto dalla Cina verso il Giappone. Questo perché la
gestualità della compassione era sempre più effemminata. Il Kannon dello Yumedono è costituito
da un unico blocco di legno a parte il piedistallo su cui poggia e la parte della veste che si apre
lateralmente, ricavata separatamente e poi aggiunta. Abbiamo la figura centrale del corpo, mentre
l’aggiunta dei pennacchi della veste che fuoriescono. Foglia d’oro applicata che ricopriva l’intera
figura, interamente luccicante. Una cosa che ci fa un po’ ridere adesso, ma noi ci siamo abituati
alla semplicità del legno non colorato, ma in realtà queste divinità erano sempre completamente
ricoperte d’oro e coloratissime. Sulle labbra della statua troviamo tracce di pigmento rosso, tracce
di pigmento nero sulle pupille. Curve e movimento dato dalle pieghe, molto piatte ed aderenti, il
movimento è dato dalle curve sull’aureola e dal motivo di vite che circonda la testa del Kannon.
Poi la piccola ampolla che tiene tra le mani.
Vediamo un altro Kannon, il Kudara Kannon: molto esile ed elegante. Si trova nella Sala del
Tesoro del Tempio. Ha molto in comune con i re guardiani del Kōndo. Figura lignea, figura leggera,
vesti che cadono morbidissime e con pieghe superficiali, mentre si arricciano all’esterno nella
parte più bassa. Quello che gli manca è la tridimensionalità una figura lavorata a tutto tondo, una
scultura lavorata a 360°. Ha una curvatura dolce del petto, poi la forma delle cosce e questa veste
che sembra bagnata ed aderente alla carne. Il legno di canfora utilizzato per questa scultura e il
legno di cipresso usato per costruire il piedistallo sono tutti di provenienza locale e Kudara è il
nome di una regione nella zona Nord di Asuka. L’unica parte in metallo sono la collana che
abbellisce il torace e rispetto ai re guardiani visti prima è molto più semplice e sottotono. La
predella è in forma di fior di loto, una mano protesa in avanti e l’altra che tiene un’ampollina dal
collo lungo.
Miroku bosatsu (Kōryūji), 603. Questo Tempio è associato alla figura del principe Shotoku,
questa statua di legno si pensa di origine coreana. Posa di figura pensante, in posizione seduta, col
torace completamente liscio, una mano lasciata cadere sopra la caviglia, con un ginocchio
appoggiato in basso, la mano è portata al volto, che è sereno ed accenna ad un sorriso appena
percettibile, con lo sguardo meditativo.
Vediamo il Maitreya, al Museo Nazionale di Seul. Completamente coperta in oro, con la stessa
posizione delle gambe, della mano e del braccio. Il volto è un po’ più spigoloso.
Miroku bosatsu, inizio VII secolo, presso il tempio Chūgūji, dell’epoca successiva, che ripete un
modello coreano. Copertura in foglia dorata di una scultura lignea. Questo tempio non era lontano
dallo Hōryūji ed era legato alla madre di Shotoku, trasformato in convento dopo la morte della
madre. È il Buddha del Futuro, che aspetta il futuro in cui nascerà nell’ultima incarnazione per poi
raggiungere l’illuminazione. Notiamo la naturalezza della sua seduta sul piedistallo, con un
movimento molto naturale della mano, poi notiamo la lavorazione lineare e liscia e la faccia dalle
forme morbide. È in legno di canfora.
Altro oggetto interessante dall’Hōryuji è il piccolo santuario portatile Tamamushi no zushi
(Scarabeo del gioiello), esempio più antico esistente dell’architettura buddhista di quest’epoca. Si
trova nella Sala del Tesoro ed è composto da 3 parti:
1. Abbiamo nella parte alta un piccolo Kōndo, sopra una base alta cubica rialzata dal pavimento
da un ampio piedistallo.
2. la seconda parte è un grosso parallelepipedo dipinto.
3. La base.
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Tutte le facce sono dipinte con i bodi satva ed i guardiani e scene narrative buddhiste. I pannelli
e tutte le parti orizzontali aggettanti sono in metallo lavorato a giorno, mentre tutto il resto del
santuario è in regno di canfora e di cipresso. Questo tipo di architettura è quella che precede
quella del Kōndo dell’Hōryuji. Tetto con braccia che si sostengono esternamente, è coperto di
tegole ed ha un timpano con un sistema di travature che si chiama hirimoia, il timpano
soprastante ha 4 ali. Struttura tipica dell’architettura giapponese buddhista della prima epoca. Le
braccia e la trabeazione hanno la forma di nuvola, che si trova solo nelle architetture di questa
epoca. L’altra caratteristica che abbiamo è quella degli shibi, abbellimenti all’estremità del tetto a
forma di coda di pesce, che si trovano anche sui tetti dei castelli di epoca Edo. Forma di pesce,
carpa, o pesce a bocca aperta. Le tegole arrotondate sono applicate sul tetto e seguono la sua
giuntura.
Il nome “Scarabeo gioiello” deriva dai colori iridescenti dello scarabeo, quindi indica la forma
arrotondata e gli intarsi iridescenti. Questi ultimi sono in contrasto con i colori puri: il rosso, il
giallo, il marrone e il verde, su un fondo realizzato con pigmenti e lacca che danno una coloritura
opaca e nera. L’olio ricavata dalla pianta di shisu era utilizzata per ottenere questo colore opaco.
L’altarino doveva suggerire una vera e propria sala della preghiera, perciò vi erano inserite tutte
le figurine dell’altare. Sono dipinti due guardiani sulle porte, i shitemno, i guardiani del cielo, che
sembrano svolazzare nell’aria. Nelle due porte laterali abbiamo 2 bodi satva con dei fiori di loto.
Mentre le parti interne sono decorate con file di piccoli Buddha assisi a suggerire i mille Buddha
del passato.
Vediamo un pannello del reliquiario Tamamushi: abbiamo due monaci che offrono, dei
reliquiari, un incensiere e delle figure che volano nella parte alta, poi abbiamo la raffigurazione del
monte Tsumeru e poi disegni che si rifanno alle vite precedenti del Buddha Shaka prima
dell’Illuminazione. In una delle parabole abbiamo la tigre affamata e il racconto del sacrificio di sé,
il Buddha che verrà, Siddarta, è sul dirupo, c’è una figura che si toglie la parte superiore della
veste. Il Buddha incontra una tigre affamata e si offre in sacrificio, siccome la tigre è troppo debole
per mangiarlo, egli si getta dal dirupo sperando che il suo sangue risvegliasse l’animale. Abbiamo
una narrazione circolare fatta di fogli piatti. Vediamo l’intera sequenza della narrazione come se
avessimo una pellicola che scorre dall’alto verso il basso.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 7 – martedì 18 ottobre 2016
Periodo Akuhō
Mostra fissata il 16 di Novembre (dalle 10:30 alle 14/15:00). La prossima settimana girerà un foglio
per la prenotazione.
Domani avremo il professor Marazzi che farà lezione con noi: un grande antropologo che ci farà
presente il rapporto tra natura e arte dell’Asia orientale.
Akuhō è il periodo dal 645 (Riforme Taika) al 710 (Fondazione di Heijokio – Heijo: riferimento
alla pace; kio: capitale –, attuale città di Nara), e prende il nome dal nengo di quel periodo
(termine dato alle datazioni storiche giapponesi, corrisponde al regno di un imperatore o ad una
determinata capitale).
La capitale Nara comporterà l’insediamento dell’imperatore, del governo, di una capitale
stabile. Fu un’epoca di forte espansione del clero buddhista e dell’arte associata al Buddhismo.
Abbiamo 46 templi nel 624 e nel 694 ne abbiamo 145. In quest’epoca abbiamo una famiglia
imperiale che si rafforza e rimodella il governo su quello cinese. L’imperatore Tenmu e
l’imperatrice Jitō furono due sostenitori del Buddhismo. Ogni abitazione doveva avere un altare
domestico, con immagini buddhiste ed i Sutra. Le Riforme Taika prevedevano la creazione di una
capitale permanente, che avvenne nel 673. La città scelta fu Fujiwara, villaggio nella valle di
Asuka. Quando questa capitale fu voluto i maggiori templi buddhisti furono incorporati nella
pianta della città. Asukadera, Kauaradere, Daikandanji e lo Yakushiji. L’ultimo è stato ricostruito
nella sua forma originale.
Anche lo Hōryūji ha in parte edifici e statue appartenenti a questo periodo, è uno dei centri
massimi del buddhismo oggi, ma ai tempo era uno dei templi minori. C’è un assorbimento forte
dei valori estetici e della cultura Tang cinese. Per questo motivo, a parte la Triade di Shaka, le
sculture vanno dalla fine dell’epoca Asuka fino al periodo del completamento della ricostruzione
successiva all’incendio. I più antichi. Vediamo i guardiani: gli Shitennō, aldilà dell’altare del Kondō
e sono databili circa al 650, sono sempre 4. Ognuno di questi 4 re guardiani è riconoscibile per
alcune caratteristiche. Abbiamo Tamonten che è considerato il “Re del Nord”, la direzione
“infausta” per associazioni fatte popolarmente e culturalmente alle 4 caratteristiche delle 4
direzioni, la zona più esposta agli spiriti maligni, per questo egli tiene in mano un reliquiario e una
sorta di alabarda lunghissima. Zochoten è il “Re del Sud” tiene in mano due alabarde, una corta ed
una lunga. Jikokuten Il difensore dell’Oriente, una gioiello nel palmo della mano e le alabarde
nell’altra. Komokuten è il “Protettore dell’Ovest”, tiene un rotolo completamente chiuso ed un
pennello. Tutti questi guardiani hanno la parte centrale del corpo costituita da un unico tronco di
legno. I piccoli demoni che sul piedistallo, le pieghe degli abiti costruite da parti di legno separate,
scolpite ed aggiunte, la corona in testa ha dettagli d’oro, come la gonna, in metallo dorato.
Abbiamo rimasugli di pigmenti su tutto il corpo di queste figure. Mancanza assoluta di
movimento, tronchi scolpiti in maniera leggera ed appiattita, sono voluminosi e d’impatto. Le
pieghe all’orlo delle vesti si piegano in avanti (come i bodi satva visti ieri).
Altro elemento importante di quest’epoca sono i dipinti del paradiso del Buddha Amida, il
Buddha associato al Paradiso d’Occidente, o Paradiso della Terra Pura. Questo ciclo di pannelli è
dentro il Kondō, la Sala D’oro, che fu distrutta quasi completamente. Per fortuna, prima della
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distruzione, era stata fatta una sorta di registrazione fotografica, con pochi scatti a colori,
importanti perché sono le uniche notizie di questa testimonianza pittorica. Sono dipinti su parete
dell’epoca Akuhō, 12 dipinti sulle pareti del Kondō che rappresentavano 4 figure di Buddha
associati al loro paradiso. Abbiamo 4 lati con i 4 Buddha e le aree parallele, laterali erano occupate
da una figura di bodi satva. Su uno gli studiosi sono d’accordo, ossia sul Buddha Amida
Occidentale: seduto a gambe incrociate su un trono ricco di gioielli, su un sedile molto alto e sotto
di lui le foglie di loto. Alla sinistra e a destra abbiamo due bodi satva, a sinistra il Kannon (figura di
Buddha sulla coroncina) e Seishi, che accompagna sempre il Buddha Amida. La tecnica di
realizzazione è simile a quella dei nostri affreschi, è la tecnica del fresco-secco, la superfice della
parete è coperta di intonaco, costituita da diversi strati di intonaco bianco, dopodiché erano
tracciate le linee e le vesti con delle polveri colorate applicate sulla parete con una mascherina
forata.
Due aspetti tecnici fondamentali sono l’utilizzo del pigmento rosso per realizzare il contorno
delle figure, anziché il classico nero e dal tratto sottilissimo. Esso non mostra variabili di spessore,
come se fosse un’incisione. La linea così perfetta è definita “linea a fil di ferro”.
È un Buddha pieno di abbellimenti, tutti elementi che ci rimandano ai principi indiani. Se
andiamo a guardare lo troviamo nei templi in India. Vediamo motivi decorativi derivanti dagli abiti
indiani: gioielli, cinture, campanelli, pendagli; con una accuratezza che arrivava al dettaglio. Per
tutto il resto, a parte l’eleganza, queste figure si rifanno alla tradizione Tang cinese, importata nel
VII sec., il volto maschile paffuto, mento e sottomento e pieghe del collo che danno la sensazione
della carne.
Sopra il Buddha Amida abbiamo una figura che lo sta accompagnando nel viaggio verso il
Paradiso. Un culto pieno di bellezza, di ricchezza, un paradiso rigoglioso. La figurina con la corona
piena di pietre preziose. Essa era seduta su un piccolo fior di loto. Tutte le figure buddhiste hanno
un piedistallo.
Vediamo uno dei dipinti dello Hōryuji, semi-distrutto dal fuoco, un Buddha assiso, con pieghe
ad onde degli abiti, ma non ne riconosciamo le caratteristiche.
Vediamo un altarino, simile al Tamamushi di tardo VII sec. Tachibana no zūshi. È un piccolo
altarino portatile, con la figura di Buddha Amida al centro, ed ai lati le figure di Kannon e Seishi. Le
figure che lo circondano sono in bronzo dorato (non più in legno!). Poi c’è un altarino in legno, con
delle scene religiose dipinte sulla parte esterna. Abbiamo lo stesso stile di pieghe viste in pittura,
trasposte nella scultura. Il Buddha Amida, oltre ad avere i due bodi satva è rappresentato su di una
nuvola che scende in corsa e su di questa sono sedute decine di figurine di danzatori, di suonatori,
di personaggi rappresentanti la gioia, appartenenti alla sua sfera paradisiaca. È un paradiso che si
ottiene recitando una sorta di mantra, molto semplice, che invoca il Buddha Amida chiamandolo
per nome e il morente deve agganciarsi ad una statuetta del Buddha Amida. I nobili allora
vivevano una vita di poesie, scrittura, estetica e non potevano fare altro che ricalcare il mondo che
avevano vissuto nel Paradiso che avrebbero dovuto raggiungere. Buddha Amida è sollevato in
questo caso su di un fiore di loto, mentre i due bodi satva in piedi. Le figurine sullo sfondo del
paravento hanno vesti svolazzanti.
I riccioli del Buddha sono piatti, aderenti alla testa ed il volto è paffuto, le pieghe delle mani
appartengono ai canino della pittura Tang. Kannon ha delle vesti con sete lasciate cadere, creano
pieghe, il volto è bello tondo.
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Parliamo dello Yakushiji, a Nara. Vediamone la pagoda. Era un tempio voluto dall’imperatore
Tenmu, quando l’imperatrice si ammalò ad un occhio minacciando di diventare cieca. Il –ji finale è
dato dalla nuova modalità di pronuncia del nome dei templi. Siamo ancora in epoca Akuhō quando
lo iniziò, nel 697 si ha la cerimonia dell’“Apertura dell’occhio”. In questo modo la scultura, se
aveva gli occhi disegnati, diveniva una divinità. Perciò nella cerimonia si disegnavano le pupille con
l’inchiostro o si inseriva il vetro. Si trasforma l’oggetto in una icona sacra. Vengono sconsacrate
quando sono esposte nella mostre temporanee, perché negli ultimi anni gli imperatori non fanno
una vita così spericolata e per guadagnare qualche soldo acconsentono a prestare le sculture, gli
oggetti sacri e le pitture ai musei. Al Tokio National Museum ci sono molte mostre iconografiche
del Tempio di Nara (spesso le persone, nonostante queste figure siano state sconsacrate, entrano
alla mostra e pregano davanti ad esse). Nel 697 avviene quindi questa cerimonia, la consacrazione
dello Yakushiji. La capitale Fujiuara e lo Yakushiji ebbero un ruolo fondamentale in maniera
vicendevole. Esso si confermò come templio principale, rispetto ad altri 24 templi nella capitale.
Quando essa è spostata ad Heijokio, il tempio fu spostato tra il 629 e il 630. L’edificio si dice sia
stato ricostruito secondo il modello originale, altri invece ritengono che esso sia stato trasportato
in loco e completamente cambiato rispetto alla piante originale. I monaci erano spostati da un
luogo all’altro. Negli spostamenti anche i nomi cambiano: quello che era l’Asukadera, divenga
Gangoji, ecc.
Lo Yakushiji mantiene una relazione importante con la corte del VII sec.
Il complesso ha, delle costruzioni di epoca Nara, solo la pagoda Est, unico originale. Mentre gli
altri elementi sono stati ricostruiti identici a sé stessi. Cambia completamente lo stile, la forma,
che non si rastrema verso l’alto, ma due livelli un tetto più ampio con un piano camminabile,
un’alternanza di semi-tetti e di tetti. Abbiamo due termini che si riferiscono alla sala centrale: il
Kondō e in quest’epoca una preferenza per Hondō (“Sala centrale” al posto di “Sala d’oro”). La
struttura è posta proprio sulla sala centrale, edificio a 2 piani, al centro del cortile. La pagoda
risultava in secondo piano, perciò non ha più la stessa importanza. Le due pagode si trovano vicine
al porticato perimetrale sul cammino della preghiera. Il nuovo piano architettonico prevedeva
anche una copertura per le assemblee di preghiera, che prolunga la sala della preghiera. Le icone
dorate erano poste al centro nello Hondō. La caratteristica interna dello Yakushiji è il piano rialzato
con la verandina, chiamata mokoshi. Questo da l’effetto di una struttura più compatta, più
massiccia. Essa permetteva una maggior entrata della luce all’interno dell’edificio.
Vediamo le tre immagini scultoree dedicate al Buddha Yakushi, la Triade del Buddha Yakushi,
immagini in bronzo dorato, con Yakushi seduto su una predella rialzata e ai lati abbiamo due bodi
satva: Nikko (divinità legata al sole; Nici: kanji del sole) e Gakko (divinità legata alla luna). Queste
sono due divinità che ci derivano dall’India (Shuriaprava e Kandraprava).
Opere in bronzo dorato e le dorature e aureole rimpiazzate in epoca Edo, che dopo i restauri
originali distrutti da terremoti ed incendi. Una tecnica di fusione a livello elevatissimo, una lega di
stagno ed arsenico, ossidazione del rame. Si tratta di un assorbimento dello stile Tang più maturo.
Il volto è una luna piena, con le pieghe del collo accentuate, torace e spalle ampie. Non esistono
documenti che ne testimonino la costruzione, perciò non ci sono motivi per non ritenere che
appartenessero all’edificio medesimo. Sono sculture lavorate a tutto tondo, perdiamo la modalità
frontale di Tori Bushi, e sono trattate come figure reali, a 360°. I bodi satva hanno una posizione
particolare, quella del tribanga, posizione della “tripla curva”, che dava movimento e distribuzione
nello spazio, una posizione tipica della danza indiana: una gamba leggermente spostata in avanti,
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la spalla spostata in direzione opposta. Sono vestiti con lunghe gonne, foulard di seta, che cadono
come se fossero bagnate ed aderenti.
Il Buddha Yakushi non ha nessun tipo di ingioiellamento, ha delle pieghe molto sottili, ritmiche
e più profonde, naturali. Il braccio sinistro è appoggiato al ginocchio, con le dita semichiuse,
perché il Buddha della medicina solitamente è rappresentato con un’ampolla in una mano,
un’ampolla che è andata perduta. Il braccio destro è alzato nel mudra della predicazione. Il trono
è un grosso parallelepipedo decorato con vari motivi sui lati, vediamo un tralcio di foglie di vite e
sulle fasce sottostanti e verticali un motivo a forma di gioiello. Motivi incrociati anche con quelli
persiani.
Su ogni lato del piedistallo abbiamo altri motivi decorativi che si rifanno ai simboli zodiacali
cinesi, associati nuovamente alle 4 direzioni. Il drago blu, associato all’Est (Cielo), la tigre bianca,
associata all’Ovest (Terra), la fenice rossa, associata al Sud (Rinascita, come le gru) e la tartaruga
attorcigliata al serpente, associata al Nord (simbolo di protezione, la tartaruga immortale dei
10.000 anni).
Abbiamo due figurine associabili ai re guardiani che devono proteggere il Buddha Yakushi.
Questa triade sembra vicina alle figure che abbiamo visto nello Hōryuji. Continuità anche nelle
sculture del vecchio Yakushiji, c’è un dibattito su questa presunta importazione.
Nuova e prima capitale stabile nel 710, trasferimento da Fujiwara a Nara. Dal 710 al 794, in cui
succede che avremo un altro trasferimento di capitale ad Heijankio, l’attuale Kyoto. In questo
periodo si seguono in tutti i ampi i modelli cinesi. Il governo è un sistema centralizzato ed è
adottato il buddhismo come sistema religioso. Il Buddhismo è utilizzato come strumento politico di
coesione del territorio. La burocrazia era divisa in 2 dipartimenti: uno degli affari religiosi legati
allo Shintoismo e uno di Stato che garantisce il governo. Quest’ultimo era suddiviso in 8 ministeri:
4 sotto la sinistra e 4 sotto la destra.
Spesso le persone saranno definite a seconda del loro titolo burocratico. Il sistema urbano era
suddiviso in province, a loro volta suddivise in distretti ed in città. La struttura scelta per la capitale
di Nara è simmetrica, che ricalca quella di Changan, la capitale cinese dei Tang. Heijokio è protetta
sui lati dalle montagne e anche dalle influenze maligne. La città è pensata come una griglia
composta da 10 vie laterali e 9 longitudinali. Le vie laterali si sviluppano da Est, ad Ovest e sono
numerate da Nord a Sud. Nel reticolato quindi si creano delle aree squadrate, chiamate Cho (In
Giappone non esistono i nomi delle vie! Solo il numero). Poi abbiamo i Bo, quartieri numerati dal
centro della città, verso l’esterno. Il palazzo imperiale si colloca nella parte Nord della città, con
una larghezza di 45 metri verso Sud. Era un viale che univa la città da destra a sinistra. Popolazione
globale giapponese stimata di 5 mln, dei quali la città aveva 100.000.
Nella zona sinistra si sviluppa la capitale esterna, chiamata Gekio, per inglobare due tempi: il
Kofukuji e il Gangoji. L’idea di assumere il Buddhismo come religione dell’epoca è rafforzata, per il
motivo che c’era una fortissima epidemia che aveva decimato le classi aristocratiche e spinse
l’imperatore Shomō a far costruire un grande Buddha di Rushana, il Buddha che presiede sopra
tutti i Buddha, che rappresenta la metafora del rapporto tra imperatore ed i suoi governatori
principali. Viene costruito il Todaiji il tempio che lo ospita, e l’inserimento di questo Buddha
catalizzò l’attenzione di tutto il clero della nazione. Nel 642 ci fu la cerimonia dell’apertura
dell’occhio e qui l’imperatore dichiarò di essere al servizio del Buddhismo. Ciò sembra essere in
completo contrasto con la sua discendenza divina shintoista. Di conseguenza, dopo il suo regno,
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l’alleanza Stato-Templi cominciò a vacillare perché le 6 scuole buddhiste divennero sempre più
politicizzate, fino a manipolare tutti gli affari di Stato.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 8 – mercoledì 19 ottobre 2016
Seminario di Antonio Marazzi, Natura e cultura: un rapporto in crisi nel Giappone
d’oggi
La contaminazione è ricca di conseguenze nella cultura giapponese. L’energia nucleare era
prodotta dalla capacità tecnica della società contemporanea di rompere l’elemento primo della
natura. Nel Giappone l’equilibrio e l’armonia erano ciò che si desiderava raggiungere. Questa
rottura di atomi ha sviluppato una gigantesca energia distruttiva. L’uomo si è reso responsabile di
questo evento. Ciò è visto come la riappropriazione della natura in una ricerca di equilibrio che
gli uomini hanno violato.
È possibile intervenire violando l’equilibrio della natura ai fini della società, creando per
reazione questa energia che è la risposta a qualcosa di drammaticamente lacerato, non più visto
come in passato.
L’antropologia si è servita molto dei termini: natura e cultura. Credo sia molto utile vedere che
noi Occidentali pensiamo alla Natura come qualche cosa che sta attorno all’uomo ed abbiamo
un’idea progressista che ciò richieda qualche attenzione particolare, come l’uomo vede quanto fa
male all’uomo distruggere le foreste. Anche qui l’uomo, da sempre considerato qualcosa di
naturale, vede la sua natura come la sua cultura. Ciò che distinguerebbe l’uomo dalle altre specie
animali è che l’uomo è in grado di organizzarsi, manipolarsi. Noi siamo frutto della nostra cultura.
Si dice che l’uomo è al centro delle nostre riflessioni, anche la natura è vista nella prospettiva
dell’uomo.
Le leggi della natura sono inviolabili, le leggi dell’uomo sono arbitrarie. Si cerca di allargare
questa prospettiva ai “non umani”, c’è una dimensione ecologica che influenza molto la
percezione della propria identità.
Andando al Giappone, Natura e Cultura, dobbiamo trattarle a grandi linee. In Giappone
potremmo dire che senz’altro questa separazione non è mai esistita, perché fino a quelli
considerati i fondatori, le divinità, tutte queste cose sono all’interno della Natura. La Natura è
TUTTO ed è lo stesso corpo umano ed il corpo sociale. Questo è Animismo, tutto ha un’anima. Noi
siamo venuti al mondo in quanto c’è stato qualche dio che ha avuto l’idea e noi torniamo a far
parte della natura quando moriamo. Da sempre c’è l’idea che una pietra abbia una data forma
perché vuole dire qualche cosa, che l’acqua faccia rumore per una ragione. Questa mentalità il
Giappone se la porta dentro. Non c’è una singola cosa che venga costruita in Giappone che venga
fatta senza delle piccole cerimonie. Ci si rende conto che quando si scava un attimo nella terra si
entra in un territorio spirituale: se vogliamo costruire una casa dobbiamo pacificare la terra,
chiedere il permesse, perché quel posto è della terra.
In questi giorni di fronte a tutte le bugie e le cose non dette: come Fukushima; la falda
acquifera di Tokio è molto inquinata. Di fronte a questo incubo c’è una parte della popolazione
anziana che sta tornando indietro, vogliono morire nei loro villaggi di origine. Vanno dove ci sono
gli spiriti con cui dialogare. La Natura è piena di influenze spirituali divina e legata agli antenati.
L’appartenenza ad una collettività deve avere al centro un rapporto corretto e purificato,
perché quello che conta è che non si confondano i piani. Una cosa molto evidente è che il mondo
moderno crea in tutte le società un accentramento, però non c’è proporzione. Si fanno dei riti di
purificazione, a Fukushima la dimensione è inimmaginabile per un giapponese.
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Mi è capitato di essere amico di un medico a Tokio e gli capitava che una delle infermiere
dell’ospedale era originaria del Nord del Giappone. Sono stato invitato in questo villaggio, in cui
dagli anni 50 non è passato nessuno, se non gli americani, che erano arrivati ed erano scappati.
Essi hanno un equilibrio di origine antichissima. Si lavavano ed entravano in casa. L’acqua aveva un
significato catartico. Gli Yamagushi erano degli eremiti che seguivano credenze di diversi tipi di
Buddhismo, erano anche in ottimi rapporti con lo Shinto. Sono interessanti perché hanno questa
credenza che sia possibile raggiungere lo stato di buddhità non pensando che la mente ci possa
dire chissà che cosa. Pensano che il fenomeno è la realtà, quindi noi possiamo col nostro corpo
prepararci a raggiungere questa condizione. Da questo deriva che, più che la meditazione come
modo per avvicinarci a questa possibilità della reincarnazione, dobbiamo dedicare il nostro corpo
al confronto con la natura, abbandonare la mente ed entrare in relazione forte con gli elementi
primari della natura: vanno sotto la pioggia recitare mantra, fanno prove di fiducia, se il maestro ti
butta giù da un dirupo appeso per il piede poi ti ritirerà su. Si fa una pire e i legni di questa pira
simboleggiano le ossa umane dei seguaci, ciò rappresenta il contatto sensoriale. Quindi è una
rappresentazione estrema dello spirito arcaico giapponese dei rapporti fisici con la natura.
Si facevano tutta una serie di cerimoniali, e si esponevano al fuoco alcuni scritti religiosi per
purificarli. Ogni cosa ha un suo significato simbolico: le danze e le preghiere vicino al fuoco, il
suono dei campanelli provocato da queste ultime. C’è un sincero desiderio di cercare qualche cosa
che hanno paura che vada perduto. Per avvicinarli io mi sono scontrato continuamente
fisicamente con il capo di questo gruppo, che ho frequentato per molto tempo, era stato un vero
kamikaze, ferito, caduto in acqua e salvato dai pescatori. Sono persone che hanno avuto prove
anche molto estreme. I 6 elementi della terra, dell’acqua, il fuoco, lo spazio, ecc. la vicinanza gli
serve per raggiungere gradi elevati ed esoterici. Loro sono molto dentro in questa pratica di fare
riferimento all’insegnamento del buddhismo. È una delle tante modalità di decodificazione del
buddhismo in chiave giapponese. Tutto questo deve servire in modo che io veda risultati. Sono
tradizioni reinterpretate.
Il sincretismo è stato spesso rimproverato ai giapponesi, siccome quando ci si sposava lo si
poteva anche fare in chiesa alla maniera cristiana e poi si poteva celebrare altri tipi di ritualità più
legati allo Shinto, per poi fare un funerale buddhista.
A differenza degli uomini le donne non erano obbligate a fare l’iniziazione, siccome già
appartenevano a quelle ritualità e non le praticavano anche per quelli che erano i caratteri delle
donne giapponesi. Nello Shintoismo è molto diffusa la pratica di passare una frasca verde sulla
testa delle persone. I mostri gli spiriti e i fantasmi fanno parte anche della tradizione letteraria
folkloristica, sono emanazioni delle realtà silvestri. Ci sono diversi gradi di iniziazione, le vesti blu,
gialle e rosse. Si riconoscono tra di loro per i gradi di iniziazione. Le bambole erano costruite come
amuleti in ricordo delle persone morte, era una forma di esorcismo.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 9 – lunedì 24 ottobre 2016
Epoca di Nara
La mostra è fissata il 23 Novembre. Orario dalle 10 e un quarto, davanti a palazzo reale e procedendo
verso le 14:30. Lezione dentro la mostra. Bisogna iscriversi tramite le liste fatte circolare in aula.
Raccoglieremo i soldi per andare in mostra direttamente lì. 6€ a persona.
Ci vediamo il 10 di Novembre, giovedì, alle 17:30 in aula Magna in Festa del Perdono. Un evento
conferenza in occasione dei 150 anni tra Italia e Giappone, che ci presenterà la cerimonia del tè.
Abbiamo visto come il concetto di sincretismo sia molto forte in Giappone. Le pratiche sono
una commistione di elementi, di cerimonie e di riti, che infondono in sé tutto quello che è legato
all’agricoltura, allo Shinto, poi le pratiche canonizzate che rispondono alle cerimonie ed ai riti
buddhisti.
Il fumo è utilizzato anche fuori dai templi buddhisti, in brucia incensi giganti. Perciò il fumo è
legato anche ad un’altra ritualità. L’immaginario legato a presenze altre, non per forza umane,
sono legate alla spiritualità a presenze legate alla terra. Non c’è un pensiero puro Shinto perché
esso si è subito mischiato con il Taoismo, il Buddhismo ed il Confucianesimo.
Esistono nel teatro questi demoni, questi mostri, che sono l’incarnazione dei sentimenti
negativi. Il demone della gelosia è il più spaventoso sul palcoscenico.
Questo è il tipo di percorso che si immerge nella natura e che risponde a delle ritualità, che
corrispondono allo Shinto ed al Buddhismo.
Nella lezione precedente abbiamo introdotto la capitale di Nara e la sua epoca. In questo
momento storico l’influsso cinese sia fortissimo. Fondamentalmente il Giappone è un bacino che
continua a ricevere, acquisire dall’esterno. Nella parte sinistra del Centro di Nara si è formata una
capitale esterna che inglobasse i templi più importanti. Anche oggi Nara è una delle città più
importanti. C’è stata una decisione politica dell’assunzione del Buddhismo come religione ufficiale
del paese. Imperatore Shomu e la consorte … che decidono di fare una cerimonia e di
commissionare delle statue per assumere il Buddhismo come religione ufficiale.
Abbiamo visto il Buddha centrale, che è la creazione di una metafora di quello che è il rapporto
tra l’imperatore e i suoi governatori provinciali. È fatto costruire il tempio Todaiji e l’apertura
dell’occhio nel 752, sarà una delle cerimonie più importanti e imponenti della storia del
Buddhismo.
Durante questa cerimonia avviene una cosa importante, ossia che l’imperatore Shomu
proclama il suo essere al servizio del Buddhismo, ossia mettendosi al servizio del Buddha, della
Legge e della Comunità Monastica. Una dichiarazione che va a cozzare con quella che era la
discendenza divina della discendenza imperiale. Abbiamo un tempio centrale, quindi, e tanti altri
tempi per ogni provincia. Di conseguenza, dopo il Regno di Shomu, l’alleanza tra i templi comincia
a vacillare, siccome le scuole buddhiste (le 7) si rinforzano con poteri centrali, ognuna separata
dall’altro avendo spinte di potere che trascinano lo Stato nella crisi.
Il termine inglese Septh (“Setta”) è da tradurre come Scuole buddhiste.
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Troviamo in epoca Nara la scuola Jojitsu, che arriva dalla Corea; scuola Hosso, importata anche
questa; la scuola Kegon, che ha al centro il Buddha Shaka; la scuola Kusha e la scuola Rishu, o
anche “Ritsu”.
Ci fu un culmine a queste interferenze religiose nello Stato. Ci fu un monaco che ebbe una
storia con l’Imperatrice Kokhen, 730-758, Dokio cerca di raggirarla per diventare suo successore.
Fortunatamente il clan della famiglia ostacola questo monaco che venne esiliato, ma da qui in
avanti non fu più permesso alle donne di salire al trono, a parte due casi in epoca Edo: la
imperatrici Meisho e Gusakuramachi. Le autorità governative considerarono la possibilità di
spostare la capitale in altro luogo, ove le diffusione dei buddhisti fosse meno ingerente e
controllabile. A Nara, nonostante la forte influenza cinese, furono impilati i volumi Kojiki e Gli
annali del Giappone, che raccontavano della discendenza. La prima importante collezione poetica
intitolata Manyoshu, la raccolta di poesie “dalle mille foglie”: canta i sentimenti dell’uomo, legati
agli elementi della natura. Le 100 poesie dei 100 poeti più famosi. Nonostante si guardi per il
Buddhismo è un periodo in cui comincia a fiorire la cultura tipicamente giapponese. Un altro
tempio costruito è il Kofukuji, uno degli esempi di arte buddhista dell’VIII sec. costruito sotto la
figura di Fujiwara, clan che darà la genesi di tantissimi imperatori in epoca Eyan. Prima del Todaiji,
il Kofukuji è il più grande che abbiamo a Nara. Si trova guardando la città nella parte Ovest. Gli altri
templi importanti sono il templi Gangoji e lo Yakushiji. Per far capire le differenze è di due templi
di differenza. Abbiamo vari ranghi di tempo e in epoca nara il Kofukuji è più importante, dopodiché
si uniranno il Gangoji e Yakushiji e poi il Todaiji.
Fujiwara fu portato al massimo rango del soprintendente di destra, fu abilissimo a combinare i
matrimoni delle proprie figlie con gli imperatori. Aveva una sala del culto, un sutra, un edificio
dedicato alla campana ed ai monaci, c’era una sala centrale, una pagoda a Est. Il hondō
occidentale era al di fuori della sala centrale. Venne retta una sala ottagonale in onore di
Shotokutaishi, che lo aveva fatto erigere. Era un luogo di culto, ma anche un luogo di istruzione. I
monaci vivevano insieme, studiavano seguiti da una guida religiosa, seguendo un sistema
seminariale. C’era la sala della medicina, una clinica, e il giardino del tempio era aperto al
pubblico. Perciò esso aveva un forte ruolo politico sociale. Quello che ce ne rimane oggi non ha
nulla dell’epoca di Nara, abbiamo solo due gruppi scultorei che sono i dieci discepoli di Shaka e dei
guardiani del Buddha.
Vediamo una testa del Buddha originale, non una statua appartenente al Kofukuji, ma rinvenuta
in seguito e poi posizionata all’interno del tempio. Vediamo ancora i tratti molto imponenti.
Vediamo una rappresentazione del Buddha Shakamuni, che esce dal fior di loto, nella vasca,
siamo in epoca Nara. Rappresenta la nascita del Buddha Shaka.
In epoca Nara comincia la tecnica della lacca secca svuotata: Dakkatsu Kanshitsu. Essa consiste
di applicare sull’argilla grezza un tessuto, di solito di canapa, imbevuto nella lacca e uno strato
sopra l’altro vengono applicati fino ad avvolgere l’argilla. Poi si rompe l’argilla interna e si
rimpiazza di una sostanza lignea di sostegno. I dettagli di queste sculture erano aggiunti
modellando un misto di polvere di segatura, di farina, o di incenso, imbevuta di lacca, questo per
dare forma ai particolari delle vesti, del volto, della capigliatura. L’ultimo passaggio era
l’applicazione della foglia d’oro. Ne deriva una scultura molto leggera, trasportabile ed utilizzabile
durante le processioni e anche durevole nel tempo. Questa tecnica è importata dalla Cina ed è
importata solo in epoca Nara. Altra variabile è quella con l’armatura direttamente in legno anziché
in argilla la tecniche si chiama Mokushin Kanshitsu (l’argilla è chiamata Shozo). Quando parliamo
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della lacca, parliamo di un resina estratta da una pianta asiatica, la urushi. Una pianta e resina
molto tossiche, alla quale non tutti gli artigiani riuscivano ad anestetizzarsi, molto spessi si
avevano reazioni corporee tumorali. Anche oggi si tratta di una tecnica molto delicata e difficile,
con moltissimi artigiani che vi si dedicano.
La tecnica scultorea della lacca secca vuota, all’inizio del VII sec. nel caso del fulcro in legno,
abbiamo una struttura lignea iniziale interna ed una copertura di argilla esterna, sopra questa
erano avvolti tra i tre e i dieci strati di tessuto, imbevuti di lacca, stesi e modellati fino a coprire
l’intera copertura in argilla. Prima dell’aggiunta dei particolari, veniva rimossa l’argilla mentre
rimaneva la struttura in legno. Rimane quindi la struttura di tessuto modellato, come una sorta di
mummia. La parvenza esterna è quella di una scultura in lacca, dopodiché andranno aggiunti i
particolari, che escono dal blocco centrale, venivano aggiunti o attaccati con l’aiuto del fil di ferro.
Altri particolari come gioielli e vesti in rilievo, anche i capelli, erano resi con la lacca mischiata a
delle polveri. La scultura, alla fine, veniva coperta nuovamente con una lacca di colore nero e poi
ricoperta con la foglia d’oro ed un composto di argilla sottilissimo, sul quale andavano stesi colla
animale e pigmenti vegetali. La lacca secca con il cuore in legno si sviluppa verso la fine dell’VIII
sec. una evoluzione anche per quanto riguarda le tecniche a lacca secca, fino ad arrivare ad una
struttura con il cuore solo in legno che veniva svuotato al centro, lasciando solo la parte di legno
circostante, in modo da diminuire lo spessore del legno unico per evitare le dilatazioni che
apportavano danno e crepe sulla superfice della statua. Una tecnica che anziché l’argilla utilizza
solo il legno, che mantiene la figura esterna di legno e svuota il legno dal retro della statua per
alleggerirla.
Il Parinirvana è uno dei gruppi scultorei più interessanti, si tratta della morte del Buddha Shaka.
Si trova all’interno della Pagoda dello Hōryuji, è un esempio di grande realismo di questo periodo.
Anticipa i tempi dell’epoca Kamatura. Si trovano intorno al pilastro centrale della Pagoda, ultimo
gruppo di sculture installate nello Hōryuji dopo l’incendio. C’è una differenza nelle forme e nella
realizzazione tecnica. È in bronzo dorato. Tutta la figura di Shaka, che porta la testa all’Ovest, una
mano tesa verso l’esterno, mentre l’altra poggiata sul fianco. Con la solita acconciatura e
completamente coperto d’oro. Mentre le altre figure che lo circondano, dei suoi discepoli più
vicini e quelli più lontani sono realizzati con un’armatura in legno ed una in argilla. I personaggi che
circondano il Buddha Shaka sono immobili e calme, impassibili. Se si guarda il gruppo di monaci
vicino alla testa del Buddha, sono scarni, magrissimi, dei quali vediamo il costato e notiamo le
facce contorte nel pianto e nella disperazione, con la bocca spalancata, che si colpiscono il petto o
sono poggiati con le mani sulle ginocchia. Rappresenta i gradi di consapevolezza degli esseri
senzienti nel cammino verso la Buddhità. Non una morte fisica ma il raggiungimento
dell’Illuminazione. Essi comprendono che si tratta solo di una morte simbolica, mentre gli altri
discepoli non comprendono che il loro maestro sta morendo solo fisicamente, raggiungendo un
altro livello di consapevolezza. L’unico caso in cui abbiamo questa distorsione dei volti, il collo, il
naso arricciato nel pianto. Questo è uno dei primissimi esempi di armatura in legno ricoperto di
argilla.
Tra i partecipanti abbiamo anche una nuova figura, quella di Ashura, una figura che appartiene
alle otto divinità guardiane che accompagnano il Buddha, che viene dall’India, rappresentata con
sei braccia e tre facce ed è una divinità che nasce come divinità indù. Che viene poi assimilata al
Buddhismo perché sia Ashura sia le altre divinità induiste si convertono al Buddhismo dopo aver
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ascoltato il Buddha Shaka che predica, diventando i guardiani della Legge dentro l’altare
buddhista.
Vediamo un guardiano niō, quei due guardiani che si trovano ai due lati del portone dei templi,
questo si trova al tempio Chūguchi. C’è una ricerca molto potente della muscolatura, le ossa, i
muscoli, la tensione nelle mani, le dita della mano sono aperte in completa tensione, con il volto
leggermente girato, il collo molto grosso e questi occhi spaventosamente corrucciati, un naso che
sembra emanare l’aria come se fosse una tigre inferocita. Esseri senzienti ma in parte anche
soprannaturali che vengono di solito assimilati nella scena in cui Shaka predica e nel momento
della morte.
Il Rushana è il grande Buddha solitario.
Vediamo anche una curiosa conformazione di rocce verticali e stratificate in questa grotta che
ci ricorda la pittura nei pannelli dei racconti di Jataka.
Vediamo un Ashura del Kofukuji. Creata con la tecnica della lacca secca, coperta non in foglia
d’oro ma in pigmento, con la cassetta avvolta in tessuto di lino e a sua volta coperta in lacca e di
pigmento. Sono vesti non giapponesi, ma principesche indiane. È una statuina considerata tesoro
nazionale. Le braccia allargate, le altre due aperte verso il torace ed altre due nella tipica posizione
della danza indiana. Le tre facce rosse e coloratissime. Una capigliatura ricca, con i capelli
agghindati in uno chignon e la coda avvolta verso la parte alta del capo. Motivi decorativi bellissimi
che probabilmente in origine erano coloratissimi, essi hanno subito anche candele e fumo, perciò
si sono rovinati.
Religione molto pratica legata ai cicli della natura convertita al Buddhismo e quindi che porta
l’assimilazione delle proprie figure nella statuaria buddhista. I fedeli che già seguivano queste
figure le potevano trovare anche nei tempi buddhisti. Le figure Shinto vengono incorporate in
questo modo.
Vediamo uno dei templi più importanti di Nara e che accoglie il Buddha Hirushana, che presiede
l’imperatore e il suo rapporto con i governatori. Il Todaiji fu costruito su un sito dedicato
all’eremitaggio del monaco Roven, il Buddha di Hirushana è completato nel 789, mentre ci vollero
altri due anni per completare i riccioli sulla sua testa e la doratura della statua. Nell’752 ci fu la
cerimonia dell’apertura degli occhi, alla quale partecipano le autorità governative di corte, i
monaci cinesi e indiani, che dipinsero le pupille. L’aureola è completata nel 771.
La dimensione del Todaiji è di 64 blocchi, un tempio importante e si trova sempre nella zona
esterna di Nara. La pianta originale prevedeva due pagode, di 7 piani, ognuna circondata da un
muro che fungeva anche da un porticato e nel mezzo vi era il complesso dedicato alla preghiera,
con lo hondō detto anche Daibutsu den (sala del Grande Buddha). Vi erano altri porticati che
chiudevano la parte Nord e la parte Sud dei cortili. Lo hondō in questo caso ha un nome
particolare proprio per dire che si tratta della Sala del Grande Buddha. Qui vi è il kodo, la sala della
predicazione, e intorno ad esso ci sono le abitazioni dei monaci. Il refettorio era circondato da un
cortile e da un muro di cinta. Mentre a Nord-Ovest del Daibutsu den vi è lo shosohin, il magazzino
in parte di proprietà del clan imperiale ed in parte appartenente al tempio. A Est, sulla montagna
vi era lo hokkedo, la sala del sutra del loto. Lo hokkedo è la parte più vecchia del Todaiji, quella
costruita proprio sull’eremitaggio di Roven. Prima che l’area diventasse sede del Todaiji era
un’area boschiva preferita dalgi eremiti, per dimorarvi perché era lontana dal centro abitato,
ideale per portare avanti le pratiche ascetiche. Tra le più importanti dimore vi era quella che poi è
diventata il Konshoji, fondato nel 733, eremitaggio di Hōnsu, colui che è diventato il monaco
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Roven (689-773), diventa abate del Todaiji per scelta dell’Imperatore Shomō. Shomō costruì per lui
questo tempio che si chiamava Konshoji in origine, che venne poi inglobato dentro al Todaiji ed
oggi corrisponde all’hokkedo.
Quando parliamo di tempio parliamo di un complesso di edifici, quindi lo hokkedo corrisponde
al primissimo tempietto dedicato al monaco Roven. Chiamata anche Sangatsu do, “Sala del Terzo
mese”, perché avveniva qui la lettura del sutra dell’orto nel Terzo mese.
Rispetto all’originale lo hokkedo è leggermente cambiato perché modificato in epoca Kamakura
(1135-1033), rimodernato con l’aggiunta di una sala e l’unione di due tempi. Tra le sculture più
antiche vi è il Shukongojin, il nome è quello Indu, Vashra, è una figura che incute timore ed armata
di lancia, con la punta a diamante. Realizzata a dimensione umana, davvero imponente e
spaventosa, con la tecnica dell’argilla. Coperta con pigmenti e con foglia d’oro. Abbiamo parti di
rosso vermiglio, di giallo, di blu, che adornano un po’ tutte le parti di tessuto della divisa.
L’armatura è in stile cinese, la veste svolazza sotto l’armatura pesante. È un guardiano del tempio,
con muscoli, vene, pieghe del collo molto evidenti, è in completa tensione. Vediamo una rabbia
pronta ad esplodere. La posizione è perfettamente eretta, i piedi sono ben piantati a terra in una
posizione statica. Questa posizione contrasta con le vesti svolazzanti dietro di sé. Ha una doppia
valenza di leggerezza ed eleganza e di paura. Fa parte della categoria dei personaggi sull’altare
buddhista a guardia del Buddha. Dentro lo hokkedo del Todaiji. Viene esposto una sola volta
l’anno, come il tesoro del tempio e si presume si stato costruito assieme all’hokkedo nel 733.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 10 – martedì 25 ottobre 2016
Il tempio di Ganjin
Tra le figure principali del Tōdaiji abbiamo la figura del Fukukenjaku Kannon, parliamo sempre
della figura di Kannon, già citata: il kannon dalle undici facce o dalle mille (o molteplici) braccia.
Esso è una delle 33 forme che kannon può assumere nelle rappresentazioni iconografiche e
scultoree. Costruito per l’imperatore Shomo, con la tecnica della lacca secca svuotata, ricoperta di
foglia d’oro. Una figura leggere della quale rimane la sagoma esterna come scultura.
Alcune testimonianze parlano dell’allestimento di un atelier dentro il tempio, dedicato alla
realizzazione di sculture buddhiste, sotto la guida dello scultore Kuniaka Kimimaru, figlio di un
coreano, immigrato nel 669 in Giappone e che ha portato avanti la tecnica scultorea. Ha avuto un
ruolo importante nella costruzione del Daibustuden.
Fukukenjaku è “Il laccio mai vuoto”: la capacità di questa manifestazione di kannon di salvare gli
esseri intrappolati nell’illusione del mondo, prendendoli con il suo laccio e trascinandoli verso
l’illuminazione. Il suo potere è rappresentato anche dal terzo occhio sulla fronte e dalle 8 braccia:
2 in preghiera e le altre in movimento con in mano i simboli: il fiore di loto (fiore della saggezza
buddhista – che nasce dalle sabbie sott’acqua per sbocciare in superfice), il laccio vuoto (in questo
caso), poi un bastone del pellegrino. Viso paffuto, mani semplici ed appuntite.
Alle spalle a dare importanza ed a slanciarne la figura consistente abbiamo una grande aureola
tutta intagliata. Fatta di tubicini di metallo che ripetono la figura ovale del corpo di Fukukenjaku.
Dal centro, dietro, abbiamo dei tubicini di metallo che fuoriescono dalla aureola, il suggerimento è
quello della luce. La corona che porta sulla testa è in metallo, lavorata in argento e sulla parte
frontale porta una figurina di Buddha stante. Figura elegante nelle movenze. Se guardiamo bene le
mani sono giunte ma si toccano solo sulla parte del palmo, le dita sono staccate. Un tocco che dà
più leggerezza.
Al suo fianco ci sono i due attendenti, i bodi satva: Nikko e Gakko. Queste figure sono
rappresentate alla maniera di Brachma (Bonten) e Indra (Taishakuten), figure derivate
dall’Induismo. Le troviamo posizionate di fianco a Kannon, ma in origine queste figure con queste
caratteristiche erano parte della tradizione induista. Sono diventati Nikko e Gakko dopo che altre
due sculture furono utilizzate per rappresentare Bonthen e Brashakuthen.
Il Buddhismo è sincretistico in questo momento storico, una forma religiosa capace di
assimilare elementi provenienti da altre filosofie e da altre religioni.
Gli studiosi hanno ipotizzato che non siano nate all’interno dello Hokkedo. Figure molto
aggraziate nel movimento e nel drappeggio delle vesti. Il corpo è definito nelle forme perché
l’abito ricade con delle pieghe molto morbide e poco scavate. La bocca carnosa, piccola e serrata,
gli occhi allungati e semi-aperti, lobi allungati e acconciatura a conchiglia sulla testa.
Vestono una veste di seta con le maniche lunghe. Una manica stretta sotto alla veste, con una
larga che cade fino a sotto al ginocchio. Nikko ha la veste che cade incrociata sul davanti e aperta
sul torace, con la corona sulla testa e il gioiello al centro che tocca appena la fronte. Legato alla
vita ha un nastro decorato con un fiore di loto. Queste due sculture identificate come Bonten e
Taishakuten sembrava che portassero un’armatura nascosta, perciò affiliati come protettori del
Buddha Shaka.
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Gli Shitemno sono figure costruite in argilla con struttura in legno. Superbi, vestono
un’armatura sopra le vesti e portano caratteristiche differenti: uno porta un rotolo, un altro una
spada lunga, un altro rappresentato con una lancia, ecc. Sono in posizione eretta con un piede
sulla testa di un demone ed uno sulla parte dietro. Il demone è il maligno, che vuole intaccare la
legge buddhista.
Komokuten ha un pennello nella mano destra e nella mano sinistra il rotolo delle sacre
scritture. Tiene entrambi i piedi sul dorso del demone. Jikokuten tiene un piede sulla figura
mostruosa. I guardiani dell’Est e dell’Ovest tengono le mani abbassate.
I due guardiani del Sud e del Nord tengono le mani alzate.
Hanno caratteristiche naturalistiche, dolci i loro sguardi e volti, si ritiene che siano stati
realizzati in età Nara. Vediamo l’armatura ben definita nei particolari e nei decori, il copri
ginocchio, il volto ben caratterizzato con un inserto di vetro per le pupille, la muscolatura del viso
corrucciata, in tensione. Lo stile e la modalità sono cinesi.
Zochoten regge la lancia, emana energia pura, butta fuori la rabbia e il respiro.
Tenshi (cielo e terra).
Sull’altare abbiamo Nikko e Gakko, abbiamo 4 re guardiani e 2 figure di Kongō Rikishi. Esse
sono in lacca secca svuotata, dimensioni di 3 metri d’altezza ed una lavorazione di stile scultoreo
molto simile all’altro. Qui si pensa siano stati realizzati nei tardi anni ’50 del 700, quindi
posteriormente al Kannon, più legato agli anni ’40. La lancia è tenuta in una mano e pronta ad
essere scagliata, il gomito in piena tensione, il volto realistico. Sono due figure sempre di
guardiani, che circondano l’altare per proteggerlo.
Vediamo una veduta dall’alto dello hondō del Daibutsuden del Todaiji. La sala del grande
Buddha è stata incendiata durante una di quelle guerre che hanno distrutto grande parte delle
opere d’arte, Genpei. La fase successiva che caratterizzerà la storia dell’arte e dell’architettura sarà
basata su questo periodo. Fatto di 11 campate in lunghezza per 7 di larghezza, 85 metri di
lunghezza e 37 di altezza. Il Buddha di Birushana rasenta i 17 metri di altezza. Quello che si vede
oggi è del 1692, una ricostruzione di epoca Edo, quando abbiamo i samurai al potere e i castelli e i
templi vengono rifatti secondo il gusto samuraico. Vediamo l’architettura tipica dell’epoca Edo. Lo
stile samuraico ha una sorta di finto tetto, le alzate di trabeazione multipla e sull’altare maggiore
intravediamo il volto del Buddha Birushana. Figura sacra centrale del tempio, con corpo in bronzo
fuso in più blocchi, mano sproporzionata, sempre con il palmo rivolto verso il fedele. È squadrato,
che non ha raffinatezza ed eleganza. Aureola a forma di fiamma, con piccole figure di Buddha
sedute su piccole predelle di fiore di loto. Il piedistallo alla base del Buddha ha dei grandi petali
che lo sostengono, sempre in bronzo e se guardiamo l’incisione si può vedere la forma originale
che aveva il Buddha Birushana. Ogni petalo è uno dei universi governati dal Buddha Shaka e dai
suoi bodi satva. Un drappeggio denso che si contrappone al torace completamente liscio. Il collo
con un doppio strato di carne e il volto molto squadrato.
Al Todaiji appartiene anche lo Shosoin: una sorta di magazzino in cui vengono raccolti tutti gli
oggetti utilizzati dall’imperatore Shomo e tutti quegli oggetti per la cerimonia dell’apertura
dell’occhio.
Il Toshodaiji è un altro tempio importante di Nara, che appartiene alla conformazione
principale della nuova capitale di Nara. Vediamo lo hondō. Nel 754 vi è il monaco Jianzen,
conosciuto come Ganjin, egli giunse a Nara per portare il Buddhismo Ritzu. Il Buddhismo si divide
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in Mahaiana e il Vinaiana, egli fonda la Scuola Ritzu, di tipo Vinaiana. Quando arrivano preti
buddhisti delle varie scuole ognuno predica le proprie usanze. Ganjin arriva in Giappone nel 753, a
Nara nel 754. Attraversa il mare e arriva cieco a causa di un incidente di percorso. Nel 755 crea
una piattaforma per le donazioni sacerdotali, presso il Todaiji e molte persone prendono i voti
buddhisti. Preferirà costruire un proprio tempio il Toshodaiji. A partire dal 759, non terminato
prima del IX sec. Completato con le donazioni delle famiglie aristocratiche, prima di tutte la
famiglia Fujiwara. Eretto ad ovest di Nara, vicino allo Yakushiji, occupa solo 4 blocchi, l’area di
culto era lo hondō e il portale di entrata, il porticato che racchiudeva un cortile rettangolare. La
sala centrale della preghiera, lo hondō era larga 7 campate per 4, modificata in epoca di Edo, la
prima campata sul cortile diventa un porticato che media tra lo spazio chiuso della preghiera e
quello aperto per il cortile. Nelle 2 campate centrali c’è l’altare che occupa 2/3 dello spazio.
Abbiamo l’impressione di un edificio statico, dato anche dal tetto reso più spiovente, in l’epoca
Edo. Ha 3 livelli e gradini, tipico di fine epoca di Nara. Abbiamo gli shibi posizionati a coda di pesce,
edificio misto di elementi di epoca Nara e di elementi di epoca Edo.
Le sculture sono realizzate con la tecnica della lacca secca svuotata. Abbiamo il Buddha
Birushana, costruito assieme al tempio ed è l’immagine centrale dell’altare, alto 3 metri, la più
grande scultura di quest’epoca. Come si vede da ciò che ne rimane, purtroppo, abbiamo una
copertura originale in foglia d’oro, lo stile è di una figura carnosa, pesante, con poca attenzione ai
particolari. Il collo è tozzo, quasi non c’è. Il profilo curva verso l’alto e dal mento, con le guance
paffute, gli occhi e le sopracciglia allungati. Le curve della veste cadono irregolari. Dietro c’è
un’aureola in legno con centinaia di minuscole piccole immagini di Buddha assisi. Sui petali di fiore
di loto erano originariamente dipinte figure di Buddha e di bodi satva. Nel 1917, durante i restauri
si scopre una iscrizione in inchiostro con dei nomi iscritti: dei soprintendenti dei lavori: Nuribe
Otomaro (era il responsabile della laccatura), Joufuku (era il monaco che assisteva alla
lavorazione), ecc.
Vediamo la figura di Ganjin in lacca secca vuota dipinta. Ha l’altezza di una persona seduta in
posizione di meditazione e la sua naturalezza la rendono una figura che da un momento all’altro
potrebbe mettersi in movimenti. I colori tenui ne danno il senso di vivacità. Esso è datato 763,
l’anno della sua morte. Primo esempio di scultura ritratto in Giappone. È seduto con le mani
incrociate e nella posizione della meditazione. I due pollici che si toccano, meditazione classica,
con schiena eretta. Le palpebre socchiuse, con lo sguardo di un non vedente. La tecnica della lacca
secca è portata al massimo livello: la forma del volto, le costole, la veste, tutto fatto con
naturalezza e con semplicità ridotta al minimo. La scultura è dipinta con pigmenti che sicuramente
decoravano i motivi della veste a broccato, sul volto il colore della carne. La bocca ha le labbra
leggermente coperte di color vermiglio. Consunto dal tempo. È una delle statue più affascinanti tra
tutte.
Di fine epoca Nara, facciamo un salto in ambito pittorico, tra i tardi anni ’60 e ’70 del 700
abbiamo due opere importanti Kichijoten (Kishoten nel parlato): una divinità indiana associata alla
fortuna, Lakshimi, diventata popolare dopo il 767 ed associata alla divinità per i raccolti e per le
piogge, l’abbondanza. Spesso sostituita dalla divinità Benzaiten. Nello hokkedo del Todaiji c’è una
scultura del 762, alta 2 metri che la rappresenta. Noi vediamo qui un dipinto bellissimo che ritrae
la dea dello stesso periodo. Un dipinto piccolissimo di 52,59 cm considerato oggi tesoro nazionale.
Tutte e due le opere mostrano una donna dai tratti asiatici, molto bella secondo i tratti di bellezza
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dell’epoca cinese Tang. Sopracciglia foltissime e nere, naso pronunciato, bocca a fiore e rossa, viso
paffuto e rotondo. Vesti di una dama di corte cinese, abiti di seta e fruscio di sete e pennacchi che
sembrano muoversi come se lei si stesse muovendo e l’aria ne muove le vesti all’indietro. Non è
ambientato il dipinto, non sappiamo dove si trova, ma la sua figura eterea si libra nell’aria, non
abbiamo nessun tipo di sfondo che ci inserisca il personaggio in un contesto. Ha un fare molto
sereno mentre tiene in mano una piccola gemma sacra. Vediamo anche la ricchezza dei colori. È
un dipinto su canapa, quindi vediamo la trama del tessuto. Colori giallo-oro, inserti che danno
informazioni sul suo status sociale.
Le caratteristiche le troviamo anche in un altro dipinto, un ritratto appartenete alle collezioni
imperiali. Di inizio VIII sec. che rappresenta il principe Shotoko. È il più antico ritratto, con il fratello
più giovane e il piccolo figlioletto. Regge in mano uno scettro, un ventaglio chiuso, che troviamo
sempre in mano agli imperatori giapponesi. Nei secoli, la figura del principe venne venerata come
reincarnazione del Buddha Shaka e di kannon. Perciò è divenuta una rappresentazione semi-divina
e venerabile. Vengono dedicati a lui lo Yumedono ed altri dipinti in diversi templi giapponesi. Una
capigliatura ad asola bloccata sui lati dei capelli, con curve fatte di pennellate ampie, tutti gli
abbellimenti e gli attributi, gli equipaggiamenti della spada e le scarpe. Tutto ci parla dello stile
Tang, 618-907 dell’epoca cinese, è il fulcro e cultura chiave di tutta l’Asia dell’epoca. Ogni zona poi
andrà staccandosi e prendendo forme originali proprie. La storia di queste aree geografiche non è
staccabile.
Altra figura di Yakushi, del 796, del Toshodaiji, lacca secca con armatura in legno. Vediamo due
figure di transizione, probabilmente importate con Ganjin. Vediamo anche il kannon dalle mille
braccia, con questa miriade di braccia che gli fanno da raggera intorno al corpo e da aureola. Fu
trovata una monetina all’interno che apparteneva a quest’epoca.
Vediamo infine un gruppo di 8 dipinti, in epoca Nara, che vennero aggiunti a 4 rotoli cinesi
originali, un formato nuovo rispetto alla scrittura e la pittura giapponese. Il rotolo illustrato
orizzontale (emakimono), era il formato delle scritture sacre. Questo rotolo, questo sutra è il
rotolo detto Eingakyo, ovvero sutra illustrato delle cause e degli effetti: illustra la vita del Buddha
Shaka, da quando lascia il palazzo del padre, fino al momento in cui dopo anni di meditazione
davanti alla roccia, raggiunge l’illuminazione, poi alcune scene tratte dalle sue vite precedenti.
Caratteri cinesi, kanji posizionati in maniera regolare, con la parte superiore del rotolo occupata
dall’illustrazione. Abbiamo l’incontro di Siddarta con il vecchio, le sue scelte prima di diventare
Buddha Shaka. Elementi che vanno dal marrone, al giallo ed al verde. Elementi calligrafici ed
abbiamo la scena racchiusa dall’elemento della montagna, con l’incontro che avviene al centro di
tutto. I passaggi avvengono con degli elementi di rocce che racchiudono una scenetta dall’altra.
Sopra la testa di Siddarta ci sono tutta una serie di presenze che sono degli inferi, che escono fuori
dal mondo della morte e che provano a corrompere il suo stato meditativo. Vediamo altre 2 scene
distinte dal passaggio del ruscello. Da una parte abbiamo la continuazione della narrazione,
dall’altra un espediente iconografico che divide un racconto dall’altro tramite elementi naturali.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 11 – mercoledì 26 ottobre 2016
Shōsōin e periodo Heian
Oggi completiamo l’epoca Nara. Vediamo un approfondimento sul Shōsōin, ovvero il magazzino
al quale abbiamo fatto riferimento. Vediamo il complesso del Tōdaiji. Lo Shōsōin è un edificio
lungo, il magazzino per il riso, il riso raccolto dal governo per tassazione. Esso indica tutta l’area in
cui sta questo magazzino, oggi ci rimane solo l’edificio legato al Tōdaiji. 14 metri in altezza. È
suddivisa in tre settori: la parte Nord, parte Mediana e la parte Sud.
Alla morte di Shomo, l’imperatrice regala al tempio centinaia di oggetti di uso secolare, che
danno informazioni sulla vita di corte dell’epoca. Tra fine 600 ed inizio 700. Tutto questo è
conservato nell’edificio che funge da magazzino, nell’area Ovest del Daibutsuden. È sotto la
gestione dell’Agenzia degli Affari Imperiali, è passata sotto la giurisdizione dello stato.
È interessante lo stile Azekura, o anche stile a granaio, costruito in travi di cipresso giapponese,
sono travicelle tagliate in sezioni angolari, che sovrapposte l’una all’altra danno una forma a zig
zag. Si incrociano i ceppi da un lato con quelli dall’altro, sono ad incastro. L’effetto finale è una
superfice tridimensionale a zig-zag, mentre abbiamo la superficie piatta del legno. Pilastri poggiati
su pietre a base irregolari, costruzione fatta appositamente per riparare meglio ciò che vi è
custodito. La parte centrale completamente liscia è stata un’aggiunta successiva. Pannellata con
travi intagliate e messa orizzontalmente. Tegole curvate e semicilindriche. Anche le pietre su cui
poggiano i pilastri sono state elaborate per bloccare l’umidità permeata dal legno, erano di forme
irregolari. È naturale che i magazzini siano rialzati, per impedirvi l’accesso di insetti, animali e
qualsiasi elemento che potesse rovinarne il contenuto.
Risulta essere stato agibile dal 761, mentre tra 1883 e 1953, dopo che fu costruito un altro
magazzino in cemento dedicato alla collezione, ogni anno gli oggetti venivano esposti fuori, per
dare avvio ad una “cerimonia della disinfestazione” (Mushiboshi), disinfezione degli insetti
effettuata annualmente nelle abitazioni, nei magazzini e negli edifici pubblici. Come corrispettivo
odierno della cerimonia esiste l’esposizione annuale temporanea di questi tesoro presso il Museo
di Nara. Essa è un’usanza rituale che troviamo rappresentata anche su paravento, è un soggetto
classico della pittura.
Cosa ci sta dentro? Abbiamo un tesoro vastissimo, oltre 9000 oggetti appartenenti a questa
collezione: strumenti musicali, specchi, ciotole e piatti di bronzo, oggetti di grande valore artistico
e culturale. Nella sezione Nord abbiamo gli oggetti dedicati al Grande Buddha Birushana
dall’imperatrice, che erano gli oggetti utilizzati dall’imperatore. Nella parte Sud abbiamo gli oggetti
sacri. I primi sono registrati nel Registro dei Tesori Rari della Nazione. Sono gli oggetti che Shomo
utilizzò per la cerimonia di apertura degli occhi.
Vediamo una coppa in ceramica, realizzata con una invetriatura sottilissima. Ha delle macchie
di colore e qualche accenno di rosso dato dall’ossidazione, vediamo la gocciolatura
dell’invetriatura. Si vede la materia e si intravede la porosità della ceramica. Si trova nella parte
Sud ed appartiene quindi agli oggetti del tempio. Questa area ospita 57 pezzi di ceramica, tutti
cotti come questo. Ceramiche chiamate Shōsōin Sansai: piatti, coppe, contenitore per cibi e
bevande legati al tempio.
Vediamo un’altra coppa in vetro verde.
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Gli specchi erano di diverse forme ed in bronzo. Vediamo la lavorazione molto ricercata, sia nei
colori, che nella forma plurilobata.
Un altro specchio in madreperla, con il bordo in argento, che misura circa 30 cm. La forma è a
fiore, di 8 petali, solo accennati. Esso si trova nell’area Nord. I motivi intarsiati sono di fiori e di
foglie di diverse dimensioni. Pietruzze colorate: rosse, verdi, blu, bianche e gialle. Il tutto si
sviluppa concentricamente, alternando figure geometriche ad altre più naturalistiche.
Vediamo un altro specchio in nickel, ha un diametro di 27 cm circa. Anch’esso registrato come
uno dei tesori più antichi dello Shōsōin. Cerchi ben definiti e con spaziature lasciate nella
decorazione. Cerchi concentrici che alternano fiori interi e foglioline/insetti. Rosso, verde, ambra e
pezzetti molto piccoli di turchese e lapislazzuli.
Vediamo una scatola di lacca nera con motivi dipinti di verde, bianco, madreperla. Motivi che
arrivano dalla Persia, con agganci floreali.
Vediamo altra scatola in legno intarsiata e lunga 44 cm e mezzo per 28, alta 15. Essa si trova
nel Medio Shōsōin, scatola lunga con i piedini di sandalo e avorio, composta anche di legno, oro e
stagno. Era la scatola ove erano inserite le donazioni al Buddha. Le gambe sono poggiate su un
altro ripiano.
Vediamo un piccolo tavolino, con le gambe a nuvola (la nuvola del dragone cinese). Piccola
tovaglietta in seta dipinta, un cotone bianco lavorato a broccato, con colori graduali. La fodera è in
seta verde. Tecnica a legatura, in Giappone utilizzata per creare nodi di pochi centimetri che dà
l’effetto a macchia di cerbiatto. Uso della cera in vari punti affinché non siano intaccati dalla
tintura.
Un servizio di 5 piatti in bronzo, piatti da tavola per cibo. Una lega di bronzo, fatto con rame e
stagno. Il colore di partenza è simile a quello dorato e dal suono molto brillante. È un tipo di lega
particolare usato in Giappone in quest’epoca.
Oggetto in legno laccato, una scacchiera. Giochi da tavolo che diventano veri e propri oggetti
d’arte. Anche il gioco delle conchiglie.
Vediamo un brucia incensi, il piatto si trova nel Medio Shōsōin e misure 39x22 ove erano
briciati gli incensi all’interno del tempio. Oggetto ad uso cerimoniale. I leoni sono in bronzo dorato
ed abbiamo un grosso tranello. Era utilizzato come un grosso braciere. Un contenitore in bronzo
ed oro, con una sorta di motivo floreale ed arabescato, più simile alle decorazioni indo-persiane
rispetto a quelle giapponesi. Otto lobi, il manico a forma di fiore di loto. Si pensa che il contenitore
sia un oggetto più tardo. È lavorato a giorno, con ampi spazi tagliati, metallo appiattito e poi
dorato. Oggetto ad uso rituale per le cerimonie.
Vediamo una casacca, una sopravveste appartenente alla parte Sud dello Shōsōin,
appartenente all’ambito teatrale delle cerimonie buddhiste, oppure una casacca da lavoro. È in
canapa, si chiama sopravveste Ho, color cremisi brillante, che è invisibile siccome vediamo delle
fasce vuote oggi. Stampa a riserva con la matrice. Collo stretto e manche strette, di casacca da
lavoro da teatro.
Altro oggetto bellissimo è un Biwa, un liuto a 5 corde, in legno con decorazioni in madreperla.
Appartenente agli oggetti dati dall’imperatrice. Deriva da uno strumento a corde indiano. L’area
dove batte il plettro c’è un dipinto di paesaggio intarsiato in madreperla. Fisionomie centro
asiatiche. Sopra un cammello. Vediamo anche un albero. Sono tutti soggetti riscontrati anche nelle
statuine delle tombe Tang cinesi. Degli uccelletti che svolazzano intorno alla palma. Vediamo la
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parte alta e più stretta decorata con motivi floreali: fiori plurilobati. Il cuore delle foglie è realizzato
in tartaruga. Un oggetto tra i più antichi e rari.
Uno stendardo in seta con un bodi satva assiso.
Una maschera per gigaku, essa ha caratteristiche non giapponesi, ma centro asiatiche, che
somigliano alla beltà dello stile Tang cinese. Il volto rotondeggiante e paffuto. Maschere o
importate, o costruite su modello di quelle centro asiatiche cinesi. Erano utilizzate nelle danze e
nelle performance teatrali. Abbiamo flauti ed altri strumenti musicali, tutti utilizzati dalla corte di
Nara per i rituali. L’ultima performance di gigaku, di danza ed esibizione teatrale, è nell’epoca
1600 e 1700, in epoca Edo.
Vediamo il Rokechi no byobu, un paramento realizzato con tintura a riserva con cera, un
soggetto diviso in due parti: un albero ed un pappagallo appoggiato su un tronco e con una foglie e
un fiore nel becco, un piccolo cerbiatto. Si tratta di un tessuto filato in Giappone e stampato ad
imitazione delle tecniche di tintura cinesi. Era applicata la cera e poi il tessuto era stampato con i
pigmenti. Abbiamo questa forma di fenice di una donna in stile cinese che suona un flauto. Uno
dei tesori più antichi.
Un altro tesoro è un set di 6 dipinti, originariamente realizzati sui pannelli di un paravento, che
ritraggono una donna, possente di dimensioni, sotto un albero su una roccia. L’oggetto è chiamato
Torige ryujo no zu byobu “Beltà sotto gli alberi”. 752-756, la data la vediamo da un ritaglio di
carta. Il supporto è di carta trattata con pigmento cartaceo. Volti e corpi di queste figure sono
dipinti con colori vivaci, mentre abbiamo i contorni e le vesti realizzate con inchiostro nero. Oggi
ce ne rimane poca traccia. In origine ad abbellire vi erano piume di pavone applicate sulla carta.
L’abbellimento donava colore e tridimensionalità tattile al dipinto. Queste figure ci testimoniano
l’usanza di come erano ritratte le figure femminili. Figure grassocce con le guance sempre rosate,
le sopracciglia nere molto spesse e gli occhi allungati, la bocca piccola. Vediamo altri due pannelli
con le stesse caratteristiche.
Periodo Heian
Comincia a decadere l’influenza cinese sulla cultura giapponese. Dal 794 al 1185.
Prima fase (794-894)
Dopo la morte dell’imperatore Shomō, la figlia aveva creato uno scandalo, perché si era fidata
di un monaco delle sette scuole buddhiste, che aveva suscitato su di lei una forte ingerenza
amorosa ed aveva tentato un colpo di Stato. Egli fu esiliato ed ucciso. Da quel momento in poi non
è più dato alle discendenti femmine di salire al trono. Questo ci dimostra la potenza che le scuole
buddhiste avevano cominciato ad esercitare nel periodo di Nara. Per questa ragione nel 784 si
decise di spostare un poco la capitale, cosa che non cambiò nulla. La nuova capitale è Heian-kyō
(odierna Tokyo), capitale della pace e della tranquillità. Affiancata dal fiume Kamo e il fiume
Katsura. Capitale imperiale fino al 1868. In questo periodo si andava sviluppando una nuova forma
di Buddhismo, una corrente importata dalla Cina e di ispirazione Indiana e di forma esoterica, solo
per iniziati. Un Buddhismo difficile, accessibile a solo chi si avvicina a quella via. Le personalità più
importanti furono due monaci: Saichō, che prende il nome postumo di Dengyō Daishi. Nome dato
a quelle figure di monaci o religiose che poi diventano divine. Un monaco ordinato a Nara, ma che
aveva studiato in Cina nell’804, studia presso la scuola Tiāntái, che prende il nome dal monte. Una
volta tornato in Giappone forma un monastero sulla cima della montagna Yei, zona attraversata da
un fiume. Il complesso templare Henriahuji. Scuola Tendhai, un terreno fertile per tutte le scuole
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successive, perché non è una scuola selettiva, ma che abbraccia tutto ciò che proveniva da
qualsiasi scuola.
Essa si basa sul Sutra del Loto, una delle scritture sacre per eccellenza. La credenza che ogni
essere umano abbia in sé la natura del Buddha e che possa raggiungere l’Illuminazione. Prendono i
voti un centinaio di fedeli. L’imperatore aveva fondato la nuova capitale di Heian-kyō. Gli spiriti
maligni sono distrutti da un luogo sacro sulla montagna. Un piccolo centro religioso che deve
neutralizzare tutte le tendenze negative. La struttura urbanistica rimane quella di Nara. 4
chilometri e mezzo per 5 chilometri. I 4 blocchi centrali a Nord sono occupati dal palazzo centrale
del Governo. I due templi principali sono il Toji, prima pagoda che si vede quando si arriva a Kyoto,
e il Saiji. Si trovavano sul lato Sud della città. Oggi Kyoto si è leggermente spostata verso Est ed è
centrata sul fiume Kamo. Ricostruzione del 1855. Il piccolo monastero non rappresentava un
pericolo per la corte. Tuttavia in seguito i rapporti degenerano e ci fu un contrasto Stato-religione.
Il secondo monaco importante per quest’epoca è uno dei più mitizzati e affascinanti della civiltà
giapponese. Si Kukai (poi Kobodaishi). Aveva studiato in Cina e si era spinto fino all’India. Sembra
abbia studiato anche il sanscrito e proprio per questa sua conoscenza sarebbe da attribuirgli
l’invenzione dell’alfabeto fonetico giapponese. Era un poeta, scultore. Un grande speculatore e
pensatore. A lui si deve la scuola Shingon (“Insegnamento della vera parola”), Buddhismo
esoterico. Tutto basato sul Dainichikyo e sul Kongochokyo (-kyo è il suffisso di “insegnamento”).
Sul monte Koya, zona Sud di Osaka. Il suo tempio sul monte si chiama Kongobuji. Nell’823 egli
ottiene di costruire u tempio nella capitale, il Toji.
La scuola Shingon diventa la scuola dominante di questo periodo. I concetti si sviluppano in
India nel I e nel II secolo, arrivano in Cina all’inizio del 700 ed in Giappone nell’800. In sintesi si
basano sulla “non dualità” del Buddha. Il suo corpo fenomenico, il Buddha Shaka, e quello
trascendentale, il Buddha che verrà, sono una unica manifestazione. Tra gli oggetti di culto c’è il
Mandala Ryōkai (letto “Mandara”), “Diagramma dei due mondi”. In sanscrito significa “cerchio”, il
“diagramma dell’universo spirituale” che può essere immaginato, scolpito o in forma
architettonica, o rappresentato come dipinto. Possiamo accompagnare il fedele con delle sculture
che ricordino il diagramma dell’universo.
Questo che vediamo è una rappresentazione di Ryōkai Mandala, uno dei due dipinti che
compongono il Mandala dei due mondi. Una rappresentazione pittorica, di inchiostro dorato ed
argento su seta, realizzato intorno all’830 e conservato nel tempio Jingoji di Kyoto. Il fulcro
dell’insegnamento Shingon è un’altra manifestazione del Buddha, sempre rappresentato dentro il
Mandala come figura centrale. Esso è il Buddha Dāinichi. Al centro di tutte le rappresentazioni di
Mandala.
Il lavoro più antico è il Mandala del Jingoji, con oro argento e colore sul damascato rossoporpora. Si dice che questi Mandala fossero stati eseguiti da Kukai stesso, tra 829-833, in risposta
alla richiesta dell’imperatore Junna che regna tra 823 e 834. Sono due Mandala antecedenti quelli
del Toji, che sono del tardo IX sec. Vediamo una differenza nella figura, nel particolare del Dainichi.
Questo Mandala è chiamato anche Takao Mandala, il più antico. Vediamo le linee dorate di
contorno, ha una fisionomia diversa rispetto a quello del Toji: la modalità di rappresentazione dei
tratti somatici. Vediamo il particolare della figura di Fudōmyō-ō, compare come guardiano
nell’epoca Eyan, la figura dell’inamovibile, l’immobile, spaventosa, con denti aguzzi, acconciatura
indiana, circondato da fiamme rosse che lo invadono. Lui stesso è dipinto con il colore rosso. La
paura che incute è dettata dalla forza interiore, perché inamovibile, la sua potenza interiore è
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sottolineata. La potenza di questi Mandala è data dalla figura sia del Dainichi, che nel Fudōmyō-ō
è la possanza tracciata con una linea sottilissima con quella tecnica “a fil di ferro”. Lo stile è ancora
lo stile Tang di epoca Nara, siamo in un momento di transizione.
Vediamo il Dainichi che è contenuto Taizōkai Mandala della Toji. Mettiamoli a paragone. La
figure più minuta, perché rappresentata come una figura un po’ più in tensione, rispetto a quella
rilassata di epoca Tang, con il contorno del corpo e delle vesti tracciati sempre con il “fil di ferro”,
ma in colore rosso, e abbiamo una maggior piattezza, maggior bidimensionalità. Non c’è un
modellamento delle figure, sono molto colorate, ma anche molto appiattite. Il corpo è
completamente irrigidito, lavorazione della forma del torace, con una linea semplificata. Un
ricerca un po’ più dettagliata dei movimenti nel Takao Mandala.
Vediamo il primo Mandala del Toji, realizzato con colore su seta: policromo. Fa parte di un
Ryōkai Mandala, un doppio Mandala: Taizokai e Kongokai. Quando parliamo di Mandala parliamo
sempre di una coppia. Sono due dipinti diversi, che hanno due forme diverse.
Vediamo il Taizokai, realizzato nella seconda metà dell’800 e si trova all’interno del Toji.
Possiamo tradurlo come “Mondo del Grembo” e descrive l’apparenza fenomenica dei tanti aspetti
della natura del Buddha, tante teste e tante braccia che indicano la carità, le espressioni terrifiche
indicano il potere di combattere e di soggiogare il male. È composto di aree rettangolari: un
quadrato centrale che contiene una forma di fior di loto, un cerchio centrale con il Buddha
Dainichi, con altre piccole emanazioni di piccoli Buddha su fiori di loto, ed altre aree contenenti
esseri diversi. Poi ve n’è una più ampia, ed un’altra. Due aree superiori e due inferiori. Una
quadrangolare che racchiude tutte queste aree. Aumenta la dimensione delle aree mano a mano
che ci allontaniamo, il Mandala è la rappresentazione dell’universo spirituale. Sono pochi quelli
che riescono ad arrivare all’Illuminazione, sono tanti che si perdono nei gradini di consapevolezza
precedenti. È diviso in 12 aree (o corti) disposte in ordine concentrico per esprimere le diverse
sfaccettature della natura del Buddha e di quella umana, dal punto di vista della compassione del
Buddha. Dainichi, il supremo, siede al centro nell’area degli otto petali e le mani nel mudra della
meditazione, abbiamo immagini di Buddha e tra i petali figure di bodi satva. Nei rettangoli che
separano abbiamo altre manifestazioni: area del Sapere Universale (le forze interiori che
incanalano le forze individuali), corte della Saggezza (la parte bassa), i 5 Re della Saggezza
Suprema, aree racchiuse da altre aree rettangolari: i reggitori di bashra (il potere dell’intelletto), i
reggitori del fiore di loto, (simbolo della purezza originale), i bodi satva e nel 4° strato le figure di
guardiani, tante perché sono i protettori della legge, dell’insegnamento e del Buddha. Nel Taizōkai
il simbolo è il fiore di loto, il simbolo della compassione. Il fior di loto, con gli 8 petali e il Buddha
Dainichi al centro, questi dipinti sono opere che vengono appese ed usate dal fedele per essere
visualizzate ed utilizzate con una certa cerimonia, che avvicina. Vediamo che è ingioiellato il
Buddha, proprio come una divinità indiana. In basso vediamo dei mostri, dei demoni spaventosi, il
Fudo seduto su delle rocce delle costruzioni di pietre, circondato da fiamme, con denti aguzzi e
occhi fuori dalle orbite. Sono i guardiani del Mandala, sempre a protezione del Buddha. Vediamo
Fugen importante bodi satva, siamo nell’area laterale sinistra adesso, vediamo altre figure di
piccoli bodi satva.
Vediamo il Kongokai, il secondo che completa il Mandala del Toji. Esso significa “Mondo di
Diamante”, ricorda le sfaccettature infinite di un diamante, che rifrangono la luce in tante
sfaccettature. Abbiamo il Buddha Dainichi, che sovrintende, diventa un tutt’uno, il simbolo della
non dualità tra Buddha umano e Buddha come manifestazione. Consiste di 9 rettangoli, uno
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spettro che si rifrange come un diamante, una grande luce emanata su tutto l’universo. Tutti
questi sono esseri illuminati, al centro, in alto il Buddha Dainichi, con costruzioni quadrangolari ai
lati e cerchi che si ripetono a croce, che creano un altro cerchio che si suddivide in aree triangolari.
Al centro di ogni cerchio abbiamo altri Buddha circondati da altri bodi satva, manifestazioni
diverse del Buddha, emanazione dell’Illuminazione dall’alto verso il basso.
Il Dainichi di questo Mandala è rappresentato con le mani nel mudra che rappresenta il “pugno
della Saggezza”, implica l’indice della mano sinistra, in questo caso, dentro il palmo dell’altra mano
chiusa. Nel Kongokai Mandala il simbolo è il vashra, lo scettro di diamante che indica il diamante
della saggezza. Oggetto che spesso troviamo anche come oggetto cerimoniale del Buddhismo.
Tutti e due questi Mandala sono gli esempi più antichi dipinti, con colori brillanti che rimangono
ancora preservati. Copia di un set arrivato in Cina per volere dell’imperatore Montoku, portati
nell’889 in Giappone.
Il credente si metteva davanti al Mandala, visualizzava i simboli del mondo spirituale ed
imparava il mistero del corpo e delle parole. Inizialmente si cercava un rapporto personale tra
discepolo e Mandala, dando un fiore al discepolo che lo lanciava sul Mandala e questo fiore
cadeva nel punto in cui avrebbe dovuto mettersi il fedele. Questo era un codice di comportamento
che permetteva di lasciare ai monaci qualcosa di bello.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 13 – lunedì 14 novembre 2016
Periodo Heyan
Non ho preso appunti della lezione-seminario del giovedì 10 novembre sul Buke sado, la cerimonia
del tè, perché ho partecipato come assistente e fotografa.
Visita del 23 novembre, per la mostra di Hiroshige: abbiamo 4 gruppi alle 10:15 alle 12:30. A
Palazzo Reale, il portone.
Riprendiamo dal periodo Heyan, ove ci eravamo lasciati. Avevamo introdotto il Buddhismo
esoterico e ci siamo soffermati sulla modalità pittorica legata al Buddhismo Shingon, che ha al
centro, come figura di culto, il Buddha Dainichi, rappresentato nei mandala. Abbiamo visto una
copia (Ryōkai: Taizōkai, apparenza fenomenica di aspetti della vita del Buddha, il potere di
soggiogare il male; Kongokai, il mondo di diamante) di mandala conservati presso il Kyōōgokukuji
(il vecchio nome del Tōji). Il Buddha Dainichi è il Buddha supremo dello Shingon, ed è figurato
seduto nel mezzo ed accompagnato da altre figure che si dividono nelle 4 direzioni e nelle diverse
manifestazioni (figure di bodi satva, figure protettrici, ecc.). Tutte le figure che compaiono nel
mandala sono illuminate, ma si distinguono tutte dalla visione del Buddha.
Nel centro del mandala Taizokai i colori sono brillanti e vivaci, come quelli della pittura classica
giapponese, con abbellimenti sul capo del Buddha, con le varie sfumature e forme, che richiamano
le forme scultoree. Poi vediamo gli angoli più esterni, il fulcro dei petali e il Fudō-ō, una figura che
entra di questi tempi nell’arte, “l’Inamovibile”, il protettore dell’altare. Vediamo Fugen bosatsu,
rappresentato come un monaco candido. Negli angoli più esterni le figure si infittiscono, con altre
figurine svolazzanti su piedistalli di loto.
Nel secondo mandala, il Kongokai, l’impostazione dello spazio sulla seta quadrata, non è altro
che la ripetizione di quadrati geometrici che rifrangono le diverse realtà e verità come le facce di
un diamante. Abbiamo ancora il Buddha Dainichi. 9 rettangoli, aree, corti separate. Ciò
simboleggia la saggezza che pervade l’universo. Al centro in alto vi è l’assemblea della Buddhità. Al
centro di ogni area vi è una figura di Buddha circondato da bodhi satva. Vediamo che la posizione
del Buddha è quella del pugno della saggezza. Il simbolo di questo mandala è il bashra, uno scettro
del comando, con una impugnatura centrale e con dei denti alle estremità. I due mandala del Toji
sono i due esempi più antichi che ci sono rimasti intatti, copie di un gruppo di mandala fatto fare
in Cina dall’imperatore Montoku, portato in Giappone da un prete della scuola Tendhai, chiamato
Henchin.
Questi erano strumenti che servivano al credente come aiuto per trovare la via
dell’illuminazione. Attraverso l’osservazione. Si instaurava poi un rapporto diretto tra fedele ed
oggetto. Il fedele lanciava un fiore contro il mandala, la divinità che veniva toccata dal fiore era la
propria divinità che l’avrebbe accompagnato nel proprio percorso. Al fedele veniva insegnato un
mudra ed un mantra da recitare per prepararsi alla meditazione.
Vediamo l’elefante bianco sotto il Buddha, e altre figure di bodi stava, come riflesso della
saggezza del Buddha. Il bordo in basso a sinistra ha simboli del bashra, con i due denti che si
chiudono come in una sorta di gancio.
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Altre forme di rappresentazione le vediamo in Ryuchi (Nagabodhi). Cosa sono questi dipinti?
Insegnamenti non verbali che sottolineavano l’importanza del rapporto tra l’allievo ed il maestro.
Kūkai fece rifare due dipinti danneggiati durante il viaggio ad un pittore giapponese. Si tratta di
monaci seduti in meditazione: Ryuchi è un allievo di Nagaryuna. Il simbolo di tutti i patriarchi. Non
una rappresentazione del personaggio ma dell’incarnazione del Buddhismo. Il monaco ha la testa
rasata, le sopraccigli folte, la bocca dipinta con il colore rosso, la veste dal rosso brillante, nella
mano sinistra tiene un lembo di tessuto e nella mano destra un libro, simbolo dell’insegnamento. Il
monaco è seduto su un piedistallo e il contorno è disegnato a fil di ferro, con una pennellata
precisa. Colori piatti e privi del naturalismo cinese. Il ritratto cinese è legato al ritratto religioso e di
tipo spirituale, che deve rappresentare ciò che la persona è stata in vita. Questo tipo di
coincidenza con la parte interiore ad un certo punto si scontrerà con il ritratto fotografico di fine
‘800, quando in Giappone arriverà la fotografia. Quel termine di verità apparteneva al ritratto di
questo tipo, perciò non si poteva paragonare con il ritratto giapponese.
Vediamo l’interno del Kōdo (Sala di lettura), nel Tōji di Tokyo. Kūkai aveva previsto un mandala
scultoreo fatto di figure che andavano poste sull’altare. La costruzione avvenne solo dopo la morte
di kukai . tutte le sculture sono quasi a dimensione umana e rappresentano il Buddha, i bodhi
satva, i Nichi-ō gli Shitemnō, la figura di Taishakuten e Boishonten
Al centro abbiamo il Buddha Dainichi, circondato da 4 bodhi satva, figure divine entrate nel
Buddhismo Shingon proprio in questo periodo. A Est 5 bodhi satva della Saggezza, a Ovest i 5 re
della Conoscenza Suprema e a Sud il Fudō Myōō, “l’Immobile”, il re della conoscenza suprema più
importante degli altri. Ai 4 angoli dell’altare ci sono i guardiani. Fudō Myōō è una figura nuova.
Vediamo una rappresentazione mista che doveva facilitare l’entrata delle nuove divinità.
All’origine le figure erano rivolte verso Est e verso Ovest, in modo che il fedele potesse porsi a
diretto contatto con ognuna di queste divinità. Il Fudō Myōō ha una grande fiamma rossa alle
spalle, come un’aureola infuocata. È una scultura lignea, dipinta con pigmenti coloratissimi, che
misurava 173,2 cm. L’idea di Kukai era di circondare la figura di Fudō con altri myōō secondari.
Solitamente seduto su una conformazione rocciosa, una costruzione di mattoni. Tiene un laccio
nella mano sinistra ed una spada nella mando destra. Capelli raccolti in una treccia, i denti aguzzi,
gli occhi grandi che non guardano il fedele, si percepisce una tensione. L’impressione è di forte
calma. Fiamme, fuoco, la rabbia e il tutto in una compostezza del corpo che indica immobilità, per
via del controllo.
Vediamo una rappresentazione su un rotolo orizzontale, vediamo la differenza rispetto alla
rappresentazione scultorea, molto più vivace ed espressiva. Vediamo che poggia su di una
conformazione rocciosa.
La tecnica per realizzarlo è simile a quella di realizzazione dei bodhi satva. Testa e piedistalli
sono scavati nel retro per evitare che si scavassero delle crepe per l’umidità e l’avambraccio e le
ginocchia sono uniti dopo essere state lavorate separatamente. La parte superiore del corpo è
lavorata con la lacca, che permette una lavorazione più dettagliata. La tecnica è simile a quella
della lacca secca con cuore in legno. Fudō è costituito da una lavorazione a blocchi di legno
assemblati. Originariamente tutti i myōō erano coperti dalla conchiglia tritata, la troviamo
ovunque nell’arte, quando i pittori volevano risaltare i piumaggio, o altri particolari bianchi. Il
bianco d’ostrica è un bianco perlato e brillante. Coperto in lacca e dalla foglia d’oro. La tecnica ha
differenze da quella precedente, dato che le figure sono massicce, voluminose e più sensuali delle
figure rappresentate nel Buddhismo di Nara.
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Vediamo una figura di myōō realizzata in legno di cipresso. Queste figure sono importate da
immagini pittoriche da Kukai, durante il suo viaggio Cina-Giappone. Tramandata nel Buddhismo
Shingon. All’inizio dell’epoca Heyan si diffondono due tipi scultorei:
Ichibokutsukuri (tecnica con un unico blocco di legno): in questo tipo di scultura lo scultore
deve già avere in mente l’obiettivo finale per scegliere il pezzo di legno, ed p fondamentale tutta
una ritualità per questo tipo di scultura. La scultura non nasce nel momento in cui si scolpisce il
legno, ma nel momento in cui nasce l’albero in cui si dovrà scolpire. L’azione kitori è la fase della
scelta dell’albero, poi l’arabori (scolpire, scavare) è la sottrazione di quelle parti di legno non
necessarie per la scultura, poi la fase kosouri la fase finale e quella dello shiageru (finire) che è
quella in cui sono segnati i particolari e la copertura in foglia d’oro.
Il punto debole è la facilità di frattura della superfice. Il fatto di avere un blocco unico di legno
porta ad una facilità di rottura superficiale rispetto all’umidità ottenuta nel nucleo centrale di
legno. Per questo si procede con una evoluzione della tecnica che prevede lo scavo del blocco, o
da sotto, o da dietro, creando fori o cavità, che assottigliano la figura, rendendola più leggera,
togliendo il nucleo centrale che assorbe l’umidità. La scultura è finita quindi scavando a livello
della schiena, svuotando la scultura e ritappandola. Altra modalità è il taglio della scultura
seguendo le venature del legno, aprirla, scavarla e richiuderla.
Seconda tecnica è lo Yosegitsukuri (scultura composta dall’assemblaggio di più parti di legno):
la lavorazione della parte della testa, la superiore, poi l’anteriore, poi gli arti. Ogni parte è
preparata a sé e poi assemblata. Poteva essere scolpita in una sorta di catena di montaggio,
accelerando il tempo e la quantità di produzione scultorea.
All’interno del Tōji abbiamo figure create con ambe due le tecniche. Lo Yakushi Nyorai, che
abbiamo visto, è alto quasi più della dimensione umana e si trova all’interno del tempio Jingoji,
costruito nel 793, da Wakekiyomaru. È la figura del Buddha della guarigione. Ha un drappeggio
netto ed affilato, con drappi simmetrici tra cresta e parte scavata. Il drappeggio è più aderente
nella parte del busto e cade al centro delle cosce. Questa aderenza profonda delle pieghe si legge
la forma del tronco originale. In mano ha l’ampolla della Medicina, mentre la mano destra si trova
nel mudra della calma. È messo in piedi frontalmente con i piedi appoggiati sul fior di loto. La
spalla sinistra è più alta di quella destra ed è scolpita in un unico blocco di legno, il legno inoki.
Vediamo alcune crepe che si sono aperte longitudinalmente e dovute alla enorme massa di questo
legno. Il legno è il materiale più facilmente reperibile in Giappone. È un’epoca in cui si torna alla
concezione del tempio legato alla cultura di montagna, con forma asimmetriche, pavimenti fatti di
tavole e il tetto fatto in legno, anziché in tegole. C’è una volontà, una necessità del ritorno alla
semplicità della natura, sentendo la divinità Shinto che sta nel legno. C’è un’estrema attenzione
alla spiritualità del materiale, una rivitalizzazione del Buddhismo pulito, dopo la sporcizia del
potere e della corruzione di epoca Nara. Questo Yakushi rappresenta questo sentimento religioso:
è una statua semplice e vicina allo spirito Shinto. Allontanamento dai canoni cinesi a favore di una
spiritualità autoctona, cosa che respireremo in tutti i campi. Sul volto di Yakushi rimangono tracce
di colore, il nero sulle pupille, il blu sui capelli, rimane intatto con le venature del legno l’intero
corpo non dipinto.
Si percepisce un’influenza continentale, dalla Cina, per i volti paffuti. Più si percepisce la
materialità del legno, più si percepisce la spiritualità. Ci sono statue buddhiste che utilizzano
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materiali emaciati e porosi senza avere una statua finita, incompleta. Ne esistono diversi casi, di
modo che la natura parli.
Engekokuzo è un’altra figura di guardiano che entra in quest’epoca nel pantheon buddhista. In
questo caso parliamo di una scultura in Yosegitsukuri. Figura carnosa, di tradizione continentale,
con predilezione per scultura lignea.
Uno degli esempi più belli di tempio di montagna, che si intende con legame con l’ambiente, è il
Muroji. Si perde dentro al bosco, luogo considerato di buon auspicio dal monaco Genkyo. Questa
roccia gigante scavata, con la figura del Buddha Miroku (Storico) è la prima raffigurazione prima di
entrare al tempio. Gli edifici si sviluppano sul fianco della montagna, alle pendici del fiume Muro.
Una pagoda a 5 piani, sulla cima del monte. Dell’epoca sono originali solo il kondo e la pagoda, di
inizio epoca Heyan. Tetto di paglia sottile e completamente immerso, con un piccolo spazio
davanti immerso nel verde.
Vediamone il kondo, che ha subito diversi ritocchi nel tempo. La posizione rimane unica,
scavato in un recesso scolpito nella montagna, realizzato in maniera semplicissima, secondo le
modalità dei santuari Shinto, nella comunione di natura-scultura. 3 blocchi per 1 di profondità,
nella parte centrale del kondo c’è un altare centrale, ove erano posizionate 5 sculture in forma
eretta. Struttura in legno semplice rispetto ai templi di tradizione cinese. La pagoda è la parte più
antica ed è di dimensioni piccolissime, è la metà di una pagoda normale ed è staccata dagli altri
edifici, dopo aver scalato 1000 gradini sulla montagna. Il colore rosso la fa risaltare.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 14 – martedì 15 novembre 2016
Seconda fase Heyan
Vediamo la Seconda fase del periodo Heyan (894-1185). C’è un’abbondanza di colore e la
natura è lo specchio del sentimento umano. La corte dei Fujiwara, che rese Kyoto un punto di
riferimento fondamentale, fu il centro per la civiltà di epoca Heyan.
Ci si stacca completamente in questo momento dal modello cinese. Il Giappone elabora un
proprio stile culturale ed estetico, si interrompe il rapporto tra Corea e Cina e si ricollega quella
che è definita Yamatoe (pittura di Yamato). Termine fondamentale per tutta la storia della pittura
giapponese. In quest’epoca abbiamo anche le prime grandi raccolte poetiche. Abbiamo centinaia
di poemi con fulcro il sentimento umano e la natura, l’amore come condivisione, come empatia
con l’uomo e con la natura. Qui si pongono le basi letterarie e poetiche di tutti quegli elementi
della natura che saranno utilizzati nei secoli successivi come elementi pittorici.
Kinotsunayuki, scrittore di una delle più grandi antologie, Kokin wakash, dice che “La poesia del
Giappone ha per radice il cuore degli uomini”, la natura è protagonista del sentimento umano. Se
il sentimento lo voglio esprimere lo esprimo con il canto della natura. È un atteggiamento molto
diverso da quello occidentale, una simbiosi con la natura. L’uomo fa parte della natura,
comandando e mettendola a propria disposizione. Quando parlo di natura io parlo di me come
elemento parte di questo sistema.
I dipinti in stile giapponese vennero realizzati soprattutto per il palazzo imperiale e per queste
prime commissioni si diffusero rapidamente tutte le tradizioni pittoriche Yamatoe. I committenti
erano di nobile classe. Venne istituito nel ’36 un Edokoro, un ufficio per la pittura, che
sopraintendeva alla cure dei dipinti curati per il palazzo imperiale.
Il potere si prolungò fino al XII sec. dando il nome Fujiwara al periodo. Erano utilizzati termini
come Kampaku, dittatore civile. Gli imperatori erano spesso 14enni che erano affiancati da
reggenti, che li potevano controllare. Una politica di matrimoni, creazione degli Shoen, terreni dati
in proprietà ad aristocratici, o a templi buddhisti che producevano queste ricchezze. Fu permesso
un periodo di pace in cui fiorirono le arti, la musica, la poesia, la scrittura dei sutra, ecc.
La poesia in questo tipo di società assunse un ruolo fondamentale, diventa un linguaggio
proprio. Non è elitaria, ma è il linguaggio con cui i nobili si parlano, si lanciavano versi alla persona
che si aveva di fronte. La prosa raggiunge livelli insuperati. Il Genji è il primo romanzo psicologico
della storia. Si percepisce tutto il senso della pittura e della creazione artistica giapponese. È
l’opera che segna il clou della cultura giapponese. Scritto da una dama di corte.
In quest’epoca furono costruiti moltissimi templi, che seguivano non più il gusto cinese, ma
quello della corte. La ricchezza, l’abbondanza. Tutto è estetica, ogni gesto della vita quotidiana e la
natura riflette i sentimenti come uno specchio. Le abitazioni nobiliari sono definite Shinden
Tsukuri (Costruite secondo lo stile Shinden). Diversi spazi, padiglioni, collegati tra di loro tramite
corridoi aperti, un ampio giardino con laghetto e corsi d’acqua sotto le verande. Questo affinché i
nobili avessero a disposizione tutta la bellezza del paesaggio giapponese. Vi erano gli alloggi della
prima moglie, Kita no Kata (la persona del Nord). Poi le cucine i magazzini, ecc. A Ovest potevano
esserci le abitazioni delle altre mogli, o concubine, con un piccolo giardino, o piccoli laghetti, o
piccoli paesaggi costruiti.
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Le donne era relegate all’interno dei piccoli shinden, i padiglioni, circondate da tendine,
tendaggi, paraventi, da kimono, da ventagli, da barriere estetiche che le tenevano nascoste dalla
vita esterna. Si potevano mostrare solo al padre ed al marito. Si dedicavano alle arti, alla
calligrafia, alla lettura di romanzi, alla scrittura, alla pittura, alla musica. È in questo contesto che
nascono i nikki, i diari di corte. C’è un bum di produzione letteraria proprio per mano delle donne,
che vivono nella corte imperiale. A livello di letteratura, onogatari (romanzi) e nikki (diari).
Influenza dei busti di Fujiwara. Importante era lo Ojoji. Modello per tutte le altre costruzioni,
distrutto nel ’48 da un incendio. La struttura, utilizzata per lo Ojoji era quella dello Shinden
Tsukuri. Collinette artificiali, alberi, piante, tutte intorno all’edificio. Edificio più grande era il
tempio dedicato al Buddha Amida, 9 statue del Buddha in 9 dimensioni.
Honichinaga morì nel ’47 con dei nastri che lo legavano al Buddha Amida, recitando il mantra
che invitava il Buddha. Il Buddhismo Shingon era incomprensibile alla maggior parte delle persone.
Grazie a questa ricchezza rigogliosa, si sviluppa un tipo di Buddhismo, per il quale bastava recitare
il mantra, guardare verso Occidente, ove sarebbe arrivato il Buddha e l’attesa della morte. Questo
è il Buddhismo della “Terra pura”. Uno dei predicatori fu il monaco Kuya, tra 903-972. Monaco
della scuola Tendhai, la scuola sincretistica che assimila tutte le forme di Buddhismo. Egli fu un
predicatore principale, che insegnava ai fedeli a pregare il Buddha Amida.
Genshin codificò il culto con l’Ojoyoshu, predicando un paradiso colorato, ricco come la vita di
corte, il Buddha Amida che scende ed il cerimoniale Raygo. Il Nembutsu come unica forma di
preghiera e il cerimoniale del Raygo.
Ci rimane il bellissimo tempio del Byōdōin, che ha la sala centrale Hōōdō, la Sala della fenice
(Hōō: fenice – Dō: Kondo, sala). Vicino al fiume Uji, voluto anch’esso da Fujiwara Honichinaga, nel
998, ereditato poi dal figlio. Utilizzato per 25 anni come residenza estiva e solo successivamente
convertito come tempio, dagli Horinichi nel 1052. È costruita la sala della fenice dedicata al
Buddha Amida. La totalità dell’edificio riprende i canoni dello Shinden tsukuri. La discesa del
Buddha è rappresentata dall’interezza della scultura. La costruzione è pensata per essere riflessa
sulle acque del laghetto, che stanno di fronte. Il tetto ad un piano, anche se in apparenza sembra
un edificio a due piani. Quando l’intero edificio si riflette sull’acqua compare come Paradiso di
Amida. C’è tutto un immaginario ripreso architettonicamente. I due corridoi coperti suggeriscono
l’idea delle ali di una fenice aperte. Un richiamo anche al suo nome. L’interno della Sala della
fenice contribuisce a questa idea. Vi è una piccola spiaggia di ghiaia che circonda il tempio. Le
finestre a campana si rifanno allo stile cinese. Palafitte. Vediamo il simbolo imperiale del
crisantemo, simbolo imperiale dell’epoca.
Al centro vi è la grande statua del Buddha Amida Nyorai. Compare attraverso una grata ai fedeli
dello Byōdōin. La scultura del Buddha Amida è gigante, una figura assisa. Rappresentazione del
Buddha con le gambe incrociate con il piedistallo a forma di loto. Dietro vediamo musicanti e
danzatori volanti. Si intravedono e decorano tutta la parete alle spalle della scultura. L’interno
delle porte di questa sala è completamente dipinto: una ricreazione del Paradiso di Occidente.
Tutto esprime il concetto di Raygo. Questa scultura è stata realizzato dallo Jocho, intorno al 1053
ed è uno scultore che segnò i nuovi canoni estetici della scultura dell’epoca. Un personaggio
innovativo. Gli furono assegnate tutte le sculture dello Byōdōin, fu definito “Maestro dell’Occhio
della Legge”. Non abbiamo sculture create di sua mano. Solo dagli artigiani del suo atelier. Egli
crea un canone nuovo per le proporzioni delle sculture. La testa, dal mento all’attaccatura dei
capelli diventa l’unità di misura per creare le proporzioni del corpo. La tecnica che utilizza è la
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yosekitsukuri. Quindi abbiamo diverse parti di legno che vengono combinate. 53 pezzi di legno
combinati. Non si potevano scolpire i dettagli in maniera profonda, perciò si rimane con una
scultura superficiale. Questa però è una caratteristica che dona un senso di leggerezza e di
eleganza. Abbiamo un dinamismo nella tecnica yoseki: si potevano realizzare le sculture in atelier.
È seduto su un piedistallo di loto, al centro nel mudra della meditazione, con lo sguardo aperto,
assente. Alle spalle abbiamo una grossa aureola completamente dorata, che sale in alto a trovare
un altro oggetto scultoreo, un baldacchino quadrato, che sovrasta la statua, a forma di fiamma,
con intagli ricchissimi. Una caratteristica che deriva dalla tradizione indiana e quegli elementi
regali dei principi. I bodhi satva sono rappresentati su una nuvola, nella posizione del Buddha
Dainichi. Le pupille e i baffi sono disegnati con inchiostro nero e tutta la scultura è coperta d’oro.
La posizione delle mani, molto geometriche, la piega della veste.
Vediamo uno dei danzatori che stanno alle spalle di Amida, sulla parete. Piccole figure in piedi,
oppure assise su nuvole. Sono quasi delle ninfe celesti, figure che derivano dal pantheon indiano e
sono le figure più eleganti di questo periodo. I piedi sono in posizione asimmetrica. La spalla va in
direzione opposta a quella del tribanga. Lunghe sete tra le mani, che dà il senso di leggerezza di
queste statuine.
A completamento della rappresentazione dell’Amida Raygō ci sono i pannelli dei 9 tipi di
accoglienza in Paradiso a seconda della pietà espressa nella vita. Temi legati allo stato ed
all’avanzamento della conoscenza. Per il Paradiso vi era una lunga iscrizione, tutti questi pannelli
però sono stati rimossi ed oggi sono mostrate delle copie fedeli. Il tema che si legge solo in piccoli
pezzi sono Amida che scende dal Paradiso d’Occidente per accogliere il morente, ma accanto a
questo soggetto abbiamo anche il mito del paesaggio. Le prime forme di rappresentazione
Yamatoe. La pittura inizia come piccoli elementi paesaggistici, inseriti in contesto religioso.
Vediamo Buddha che scende da una nuvola, poi vi è un edificio, ove si trova una figura che sta per
morire ed ha evocato il Buddha, che scende e viene a prenderlo. I colori rimasti sono un verde
malachite, rossi aranciati, gialli, era una pittura molto colorata. Vediamo dei musicanti con liuti tra
le mani, dei monaci che si rifanno alle figure dei principi indiani.
Vediamo pochi particolari del paesaggio appartenente ad uno dei pannelli della Sala della
Fenice. C’è una prevalenza di colore verde, marrone e inchiostro nero. Un paesaggio collinare e
verde, con un piccolo bosco con pini, piccole casupole circondate da pini, canne di bambù, una
presenza d’acqua, paesaggio che appare come quello di Kyoto. Non più paesaggi cinesi, quindi, ma
paesaggi autoctoni. Vediamo i cavalli, la morbidezza e la rotondità delle linee. Paesaggi che si
indentificano con il Paradiso del Buddha Amida. Il culto di Amida è il prolungamento delle
ricchezze terrene.
Amida Raygō vuol dire “accogliere e venire giù” è una discesa benvenuta. Questo genere prese
piede nella pittura. Abbiamo 3 rotoli verticali nel tempio Hokkeji ed un altro in un tempio presso il
monte Koya. Questi anticipano e succedono il Raygō della Sala della Fenice. Una rappresentazione
simmetrica del Buddha Amida. Un simbolo regale è sempre il fiore di loto. A destra c’è un giovane
celestiale, anche lui sopra una nuvola che tiene una bandiera come ad annunciare l’arrivo del
Buddha Amida. La posizione del Buddha è completamente frontale e rigida, realizzata sempre col
contorno a fil di ferro, una traccia di pennello molto più veloce e libera negli altri. Troviamo
un’elegantissima policromia di verdi e di rosso. Amida, nel dipinto, precede i due laterali, aggiunti
separatamente e successivamente, anche se il supporto in seta è simile per tutti e tre i dipinti.
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Quella del monte Koya è la raffigurazione di Raygō più importante che ci rimane. Una
raffigurazione classica, con Amida seduto frontalmente che guarda al fedele posto di fronte al
dipinto, la figura completamente coperta d’oro, in posizione a gambe incrociate, guarda
l’osservatore dritto negli occhi. Il tutto è sostenuto da una leggera nuvola biancastra (grigio
lavanda), che si sfilaccia mano a mano che il Buddha scende dal suo Paradiso. Di fronte abbiamo i
due bodhi satva, su nuvolette si sfilacciano come una sorta di fumo. Abbiamo un piedistallo a
forma di lodo che Amida porta per portare il fedele in Paradiso. Ai lati del Buddha Amida, abbiamo
Gizo (uno dei bodhi satva più amati dal popolo, lo troviamo nelle statuette lungo le vie, perché è il
protettore dei viandanti e protettore dei bambini mai nati), con il capo rasato. Poi Nagaryuna,
altro monaco già citato, uno dei patriarchi del Buddhismo in epoca indiana. Poi altri preti, monaci,
bodhi satva, danzatori, un corteo gioioso. Di solito Amida è girato di tre quarti nei Raygō classici,
nel mudra raygō-in. Il raygō veloce è rappresentata con il Buddha che obliquamente scende.
Oltre alla rappresentazione sacra della discesa del Buddha Amida, abbiamo rappresentazioni
del paesaggio autoctono: una roccia con degli alberi e delle foglie autunnali. Una delle prime
forme Yamatoe, inserita in ambito religioso. Siamo in un’opera posteriore a quella dello Hōōdō e
lo capiamo.
Il Buddha Amida è sempre un po’ statico e la sua eleganza è data dagli elementi. Le espressioni
dei volti sono caratterizzati dalla gioia e del movimento. I piedi hanno le dita che si muovono a
ritmo di musica.
Vediamo Amida yamagoshi raygō (raygō con il Buddha che appare da dietro le montagna). Al
tema religioso prevale quello del paesaggio. Prevale lo yamatoe. Il verde malachite e il marrone ci
dà il movimento delle colline.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 15 – mercoledì 16 novembre 2016
Lo Yamatoe
Ringrazio per gli appunti Alessia Galbusera.
Dipinti della morte del Buddha Shaka:
2 sono al Kongōbuji:
1. Morte di Shaka; 2. Shaka che si rialza dalla tomba. (entrambi della seconda metà del VIII
sec.).
Primo: La morte di Shaka coincide con il raggiungimento del Nirvana. Il Buddha giace su una
tomba di legno, circondato dai discepoli (bodhisatva e rappresentanti degli 8 diversi livelli di
conoscenza). Si raffigurano le diverse concezioni della morte. Tra essi si riconosce Maitreya (il
Buddha futuro), grazie al pallore della pelle. È sereno, perché consapevole che la morte di Shaka
conduce all’illuminazione. I monaci, invece, piangono disperati, perché non accettano la morte. Ci
sono anche animali: un leone rannicchiato. Questa scena richiama il mandala: Buddha al centro e
altre figure dei vari livelli di conoscenza che si sviluppano attorno a lui. In alto a destra, sopra le
nuvole: Maya, madre di Shaka, guarda il figlio morire. Tiene una falce di luna in mano.
Secondo: inchiostro su seta. Shaka risponde al dolore della madre e degli altri esseri rialzandosi
dalla tomba, e spiega il significato della sua morte, ossia l’uscita dal ciclo della reincarnazione. Ai
piedi del Buddha c’è una folla disperata. Shaka è seduto con le mani giunte, circondato da una
grande aureola. Le figure su questa sono di dimensioni minori ed hanno un sottile contorno a fil di
ferro.
Vediamo una scatola laccata con decorazione floreale in polvere d’oro.
In questo periodo si tende a rappresentare il paesaggio circostante, il cambio delle stagioni ecc.
dapprima solo nei dipinti religiosi, poi in un genere pittorico dedicato solo al paesaggio.
Nascono anche nuove tecniche pittoriche: lo Yamatoe (termine per distinguere la pittura
giapponese da quella cinese - Karae), che deriva [come già detto] da Yamato: area circostante a
Nara, nome dell’antico Giappone; ed –e: pittura.
Questa tecnica sfrutta colori brillanti sui rotoli e i paraventi. I soggetti sono narrativi e
paesaggistici. Abbiamo scene di città e di vita quotidiana (secolari, non legate alla religione).
Nel XII sec. questi elementi si fondono in un unico racconto: nell’emakimono, ossia il rotolo
orizzontale illustrato.
Vediamo la “Biografia illustrata del principe Shōtoku”: nell’XI sec. il principe inizia ad essere
venerato: gli si dedicano dei templi, le cui pareti sono decorate con scene della sua vita. Nasce
usanza dei racconti dipinti, Etoki (narrati a voce da alcuni monaci).
Un esempio di questi rotoli era conservato nello Horyuji, del 1069: i dipinti di seta appesi alle
pareti della Edono (Sala della pittura). In origine rotoli, poi appesi a paraventi rigidi, oggi sui
pannelli. Il pittore, Hata Chitei, era itinerante. Questi dipinti raffigurano scene della vita di Shōtoku
in ordine geografico (non cronologico), più tutte le narrazioni circondate dal paesaggio, in
sequenza di piani sovrapposti (composizione verticale con montagne per cornice, simile alla
pittura Tang cinese).
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Il punto di vista è obliquo, ci permette di vedere dall’alto, attraverso aperture, cosa accade
negli edifici. L’esempio della tecnica Fukinuki yatai, quella del “tetto scoperchiato”, caratteristica
dei rotoli dipinti.
La biografia di Shōtoku è un progetto di nipponizzazione della pittura secolare.
Senzui Byōbu è un paravento singolo a 6 ante, fatto in inchiostro e colore su seta. Ritrae un
uomo anziano, forse poeta Hakurakuten (Bū Jui, nome cinese). Qui è seduto su un tappeto di
pelliccia, davanti a una capanna, in mano tiene un pennello sporco d’inchiostro, quasi avesse
appena finito di scrivere. Il poeta si isola dalla società, ma continua a insegnare ai suoi allievi. Egli
era stato cacciato perché si era espresso troppo direttamente all’imperatore. La sua poesia era
amatissima per i mobili d’epoca Heyan. Il paravento, realizzato per il Tōji di Kyōto, era usato per
cerimonie di iniziazione dei monaci. Passaggio dalla pittura religiosa alla decorazione dello stile
Yamatoe.
Vediamo un ventaglio pieghevole con temi di pitture di corte (personaggi con capelli neri e
capelli che toccano terra), più una scrittura sacra (sutra).
Vediamo una scrittura in prosa o poesia su carta con insetti d’oro, è utilizzata una calligrafia
kana (scrittura giapponese) – Hiragana: scrittura giapponese in corsivo; Katakana: sillabario
fonetico per trascrivere i termini stranieri. -, prenderà il nome di “scrittura a filo d’erba”.
Nel 1156 ci furono delle lotte per la successione al trono tra famiglia imperiale e i Fujiwara. La
battaglia di Hagen, proprio in quell’anno, e di Haiji, nel 1160. I clan militari di Taira e Minamoto
aiutano le varie fazioni. Tutto sfocia nella guerra civile di Genpei (1180-1185). Vincono i
Minamoto, con Minamoto Noioritomo, primo Shōgun che trasferisce la capitale a Kamakura. In
questa epoca abbiamo illustrazioni del romanzo Genji o dipinti su rotoli dei 36 poeti mortali. Tutto
su sete finissime e decorazioni preziose. 33 sutra trascritti, tra cui Heike Nokio in 34 rotoli copiati
dai Taira Kyomori e donati al santuario di Itsukushima (1164).
Santuario di Itsukushima: sorge su palafitte, completamente circondato dall’acqua. Ingresso
con un tori di un rosso brillante, sotto cui le barche passano per entrare al santuario. Furono
commissionati degli elementi del santuario Shinto, più quelli del tempio buddhista (quindi vi era
sincretismo).
Konjikidō (Sala dorata del Chūsonji), era dedicata a Buddha Amida, nel 1124. Unica Sala
sopravvissuta di un complesso di 40 sale. Ospitava anche le tombe della famiglia Fujiwara.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 16 – lunedì 21 novembre 2016
Emakimono e il principe Genji
Oggi chiudiamo l’epoca Heyan, con la pittura su rotolo orizzontale illustrato (Emakimono), in
inglese è “Hand scroll”. Alcuni fondamentali sono stati realizzati proprio nella seconda metà
dell’epoca Heyan.
1. Il primo è lo Choju giga (Choju jinbutsu giga – letto “ghiga”). È un rotolo di caricature animali
che si comportano come esseri umani.
2. Il secondo è il rotolo del racconto del Principe Genji.
3. Poi il terzo, lo Shigisan engi emaki, storia leggendaria della fondazione di un tempio.
4. Ban Dainagon eutobia.
Sono tutti realizzati da un’equipe. C’è il sumigaki, l’artista che traccia la linea di inchiostro del
disegno. Poi abbiamo diversi pittori che lo affiancano e che applicano colori. I calligrafi, che
tracciano le calligrafie, traendole dai testi dei romanzi dell’epoca. Uomini di lettere che scelgono
con coerenza i brani, i versi da riportare nel rotolo illustrato. Il sumigaki tracciava poi i dettagli dei
volti, per completare l’opera.
Riprendiamo il Chōjū giga della seconda metà del XII sec. Si trova presso il Kōzanji, di Kyoto.
Possiamo avere più rotoli, in questo caso 4 rotoli. Offrono caricature di animali e di persone, con
un tratto veloce e con tocchi comici, se non ironici. È un racconto allegro. Per immagini, continuo,
senza interruzioni di testo, né poesie. Passano dall’una all’altra senza alcun testo. Tracciate solo
con inchiostro nere e il fondo è su carta. Soggetto sono gli animali che si comportano come esseri
umani, conigli e rane, che danzano, tirano con l’arco, c’è una volpe con la coda che va in fiamme.
C’è una sorta di cerimonia buddhista in cui abbiamo una scimmia con la sua tonaca da prete e
sull’altare abbiamo una rana seduta nella posizione di meditazione, con un piedistallo di foglie di
banano. Un Buddha seduto. Tutta la comunità di animali raccolta in cerchio alle spalle. Potrebbe
essere una critica al clero buddhista. C’è una volpe intabarrata, una scimmia quasi commossa con
la mano portata al volto.
Oggi questi due primi rotoli risultano con parti mancanti e montati nel modo sbagliato. Si crede
che originariamente fossero tre rotoli, più tardi ridotti a due. Abbiamo restrizioni e lacune che nei
periodi si sono allargate. Il set quindi si è ridotto, lasciandoci solo i due rotoli di questa prima
parte. Gli altri due sono più tardi e realizzati in un modo diverso, da una mano diversa.
Si pensa che sia stato dipinto da un monaco stesso, che ha utilizzato ironia pera la sua scuola
religiosa. Vediamo un rotolo semplice, quindi, con nottolo (corda che si avvolge intorno a legare il
rotolo), scritta, si srotola e man mano che lo si guarda lo si riavvolge.
Vediamo lo Shigisan engi emaki, realizzato nella seconda metà del XII sec. Chōgoshōnshigi di
Nara. Narra della fondazione del tempio Shigisan. Stile Otokoe, cioè “pittura maschile”. Che
distinguiamo dall’Onnae, “pittura femminile”. Un unico artista che ha tracciato tutte le figure.
Luoghi naturali, un contorno con inchiostro grigio scuro. Tocco di colore trasparente che non
nasconde i contorni. Questa tecnica permette di creare figure in movimento, di grande
espressività, i cui movimenti sono espressi attraverso alla linea calligrafica nera.
Vediamo una scena tratta dal primo di una serie di 3 rotoli: vediamo il monaco Myoren, che sta
vicino ad un contadino ricco ed indica al servo una ciotola per le elemosine che è caduta tra le
onde del fiume. Sullo sfondo l’architettura del tempio. Questo stile molto espressivo, fatto di linee
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quasi calligrafiche, in cui il colore è dato, ma lascia a nudo le linee di contorno, facce molto
dettagliate. La tensione delle mani, le dita dei piedi in movimento. Questo è definito stile Otokoe.
Vediamo il rotolo del Genji. Questo rotolo illustra il racconto di Genji. Dobbiamo parlare del
romanzo “Il racconto di Genji”, anche il primo romanzo psicologico della storia della letteratura.
Scritto da una donna in Giappone. Apre una scia di tutta una letteratura autoctona. Il Genji
Monokatari (Il racconto di Genji). Quando parliamo di rotolo illustrato, parliamo di un rotolo
illustrato che è realizzato quasi cento anni dopo la realizzazione del romanzo.
Il rotolo illustrato è il massimo documento pittorico a soggetto secolare dell’epoca Heyan.
Illustrazione pittorica e calligrafica, che rappresenta la più importante storia letteraria, scritta da
una dama di corte, Murasaki Shikibu (Murasaki: viola – uno dei colori più affascinanti per i
giapponesi; shikibu: il ruolo del padre nella corte). Murasaki dimostrò con la sua opera tutte le
possibilità letterarie della lingua giapponese. Era utilizzata in tutti i campi ufficiali della vita. Fa
un’analisi ricca e complessa dei personaggi. Per arrivare a tanta accuratezza psicologica bisognerà
arrivare a Proust.
L’intreccio ruta attorno agli amori ed ai successi del principe “splendente” Genji. Egli doveva
apparire come l’ideale umano della sua raffinatissima cerchia. Scritto attorno al 1008, una serie
forse di 10 rotoli orizzontali, che raffiguravano episodi del libro, intercalati da rarissime calligrafie.
Il ritratto viene a far parte della pittura, già lì è vivo e presente nella scrittura di Murasaki, ma la
rappresentazione realistica ce l’avremo solo a partire dall’epoca Kamakura. Quando un secolo
dopo il Genji è illustrato nel formato del rotolo, i volti erano ancora tutti uguali e stereotipati. I
moti dell’anima erano percepibili dall’espressione del volto e dalla massa e posture dei corpi in
relazione alle architetture circostanti.
La paternità di quest’opera non fu unica, e ciò lo vedremo nell’ossidarsi di alcuni colori. Ciò
indica un lavoro di equipe. La critica sembra orientata ad attribuire i rotoli a mani femminili. Così
parliamo di Onnae. Confermando una supremazia culturale che le donne avevano già in campo
letterario e di altri titoli. Si dice che si ebbero 5 sumigaki, 5 pittrici diverse, che hanno tracciato i
contorni e anche le calligrafie. Che ci rimangono in 20 dipinti e 28 fogli calligrafici, di 20 rotoli
iniziali. Avevamo oltre 360 fogli ed oggi ce ne resta pochissimo. Non abbiamo più il Genji in
formato rotolo, ma tutte le immagini che ci rimangono sono staccate dal rotolo. Il tutto secondo la
tecnica più preziosa e più elegante che si possa immaginare nella storia dell’arte giapponese. Carta
con inspessimenti. Sono utilizzate scaglie d’oro e d’argento, nuvole, fiori, coloriture a mano, il
tutto come sfondo a pezzi calligrafici, che trascrivono parti del romanzo. Lo stile calligrafico è
quello a “filo d’erba”, il sōgana: scritti in maniera sottilissima.
Nella prima immagine abbiamo una pittura alquanto rovinata. In alto a desta una veranda
coperta dai muschi e dalle sterpaglie. Vediamo il principe preceduto da Korenuzu, che lo porta
all’abitazione di una dama, una figura femminile decadente, con volto sciupato. Una dama
dimenticata da tutti, che vive solitaria in questa casa sciupata e Genji presta una visita a costei. La
solitudine, la separazione dal mondo, l’inoltrarsi in uno spazio vuoto, ci parla dei sentimenti dei
personaggi. Non abbiamo sentimenti ed emozioni Otokoe, ma un posizionamento degli elementi
naturali e dell’architettura, che dialogano con la figura degli esseri umani presenti. Capiamo che
sono figure maschili della corte, perché hanno abiti con maniche ampie e una lunga gonna
pantalone (perché gli abitanti di Heyan erano considerati “persone tra le nuvole”), che aveva una
sorta di strascico.
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Vediamo l’unico pezzetto (cap. 16) che ha un disegno di paesaggio del rotolo che ci rimane.
Vediamo il carro di Utsusemi e quello di Genji. Il paesaggio, le montagne verde malachite. I due
carri si incontrano qui. Un paesaggio montano che si rifà a quello giapponese della zona di Kyoto,
con riferimento al lago Byua. Vediamo tutto ciò che accade nel paesaggio. Elementi sovrapposti
fino alla parte alta del dipinto. È un punto di vista sentimentale, che predilige la scena più sentita e
ci rende partecipi di tutto quello che accade attorno a quella scena.
Genji è il paradigma di tutte le qualità umane. Per lui ciascuno è contraddistinto da un legame
particolare con una stagione dell’anno. La prima parte sono le parole di Genji “Spero mi resterà un
po’ di tempo per quelle cose che mi piacciono veramente […]”. Mette in bocca a Genji tutta una
considerazione sul comportamento delle persone legato alle stagioni. Non si può convincere
qualcuno sulla maggiore bellezza di una stagione rispetto ad un’altra. Fa tutta una descrizione del
paesaggio innevato, mettendo in bocca al principe Genji tutta la bellezza di quel paesaggio.
Tutti i personaggi del principe Genji hanno un nome di fiore, di profumo e di colore. Compare
anche l’architettura dei giardini come arte progredita. Troviamo dissonanza tra sentimento, uomo
e natura. Vediamo da un’immagine il giardino, pieno di dame di corte. Tutti i giardini dei nobili
dovevano ricostruire il passare delle stagioni e rispondere ai sentimenti più intimi delle persone
che vi abitavano.
Da questi pezzetti si può capire tutto lo sforzo compiuto dagli esteti e dagli uomini d’arte per
perseguire questa compenetrazione tra ambiente umano ed ambiente naturale. Troviamo il fulcro
del sentimento umano che caratterizza il Giappone. È il riassunto di tutti quelli che sono le qualità,
gli usi ed i costumi di epoca Heyan.
Vediamo una parte calligrafica, una di quelle che ci sono rimaste. Tutta la carte è abbellita da
scaglie e polvere d’argento, da scaglie d’oro, poi macchioline nere, che in realtà è argento
ossidato. Una calligrafia che leggiamo da destra a sinistra, in hiragana (sillabario fonetico). Ogni
singolo segno è legato all’altro in una sorta di catena. Abbiamo un ritmo aperto tra ogni colonna
calligrafica. Questo ritmo va affollandosi fino a che la calligrafia non si sormonta. Questa modalità
è un’espediente del calligrafo che infittiva la trascrizione per trasmettere l’impeto del racconto.
Non vi è nulla di slegato dall’immedesimazione anche grafica con il contenuto del romanzo.
Vediamo le cortine nobili, in broccato, che servivano a limitare gli spazi privati. Noi abbiamo
sempre un punto di vista sopraelevato. Vediamo una stanzetta, in cui vediamo le cuciture dei
tatami. Tende che suddividono gli ambienti. Vediamo chi sta nelle stanze accanto ad origliare.
Sono ambienti che avevano pochissima privacy. Le linee ci suddividono le varie aree del disegno.
Questa tecnica che vedono togliere il tetto e le pareti, sono fukiyukinatai “tetto scoperchiato via”,
un espediente pittorico che permette al lettore di essere partecipe a 360° del racconto. I colori
sono piatti, senza sfumature. Riempiti, che coprono tutti i contorni tracciati. Una tecnica di colore
piatto definita Tsukurie, “pittura costruita”: rosso, verde malachite, blu lapislazzulo, bianco gofun
e sopra vengono tracciati i piccoli particolari dei volti: un gancetto per il naso, due trattini per gli
occhi, hikimeagihana. I tratti erano omologati per tutti i personaggi, maschili o femminili. Nei
maschi a volte vediamo i tratti dei baffi o del pizzetto. Nelle dame di corte vediamo i capelli lunghi
fino a terra, poi strati di vesti aperte come un fiore schematizzato, senza che si possano leggere le
forme del corpo. I maschi li riconosciamo per il copricapo alto e nero sopra la testa e il loro abito
(casacca, giacca e gonna-pantalone). Il capo rasato era quello dei monaci.
I sentimenti vengono espressi attraverso le posizioni dei personaggi l’uno nei confronti
dell’altro e con il posizionamento degli elementi architettonici. Le pareti, i pannelli, le tende, i
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divisori interni, sono utilizzati per esprimere metaforicamente i sentimenti dei protagonisti
illustrati. I colori e i motivi sono scelti per sottolineare lo stato d’animo e l’atmosfera che si sta
creando. Il sentimento cardine del Genji è quello definito Mono no haware (Mono: cose; haware:
empatia). Il sentimento convogliato dagli artisti, in cui l’essere umano si specchia nella natura, che
parla al posto dei personaggi. Altro è il Karma, secondo la religione Buddhista: la concatenazione
di eventi causa-effetto. Tutte le gelosie e le invidie, i sentimenti buoni o cattivi si riflettono nella
vita delle persone. Non è peccato, perché esso non esiste nella cultura giapponese, ma è un
sentimento che può diventare tanto cattivo da uccidere. C’è una scena in cui vediamo proprio
questo aspetto, nel capitolo di Yugiri e la gelosia di Kumoi (cap. 39). Kumoi è gelosissima, perché
pensa che la lettera che Yugiri abbia in mano una lettere di una amante. Vediamo una scatola da
calligrafia, in mano ha un rotolo. Kumoi arriva dietro di lui come un fantasma. Questa storia sarà
travisata anche in delle messe inscena teatrali, come il fantasma di Kumoi.
Vediamo un’altra scena bellissima, perché ci parla di come la natura, la musica, la posizione dei
personaggi, sia un’informazione su ciò che stiamo leggendo. Noi potremmo fare una lettura
dell’opera unicamente percependola da questa scena. Sul terrazzo vediamo Yugiri, che suona il
flauto lasciatogli in eredità da un caro amico, Genji era appena rientrato dall’esilio al quale era
stato costretto dalla matrigna. I due quasi formano un cerchio, immersi nei propri pensieri. C’è un
vortice di sentimenti, dati da conseguenze, che uniscono i due personaggi, anche se essi sono
divisi dalla trave e dallo scorrere delle linee verde malachite dei tatami, sui quali sono seduti.
Come un fotogramma bloccato di un movimento filmico, in cui sono stati colti in quell’attimo. C’è
anche il grigio argento della luna che adesso è opaca e offuscata dal tempo, con delle vesti
trasparenti appoggiate sulla veranda. In questa intimità c’è tutto il segreto delle loro vite.
Altra bellissima scena è Murasaki morente (cap. 40), vediamo dentro la stanza le cortine chiuse
sull’esterno e anche una figura maschile seduta con le spalle che danno alla veranda. Vediamo che
la natura stessa è piegata nella desolazione, autunnale o invernale, con delle curve tracciate
artigianalmente e la curva del corpo del personaggio maschile che ne risalta le forme. L’uomo
tiene in mano un ventaglio semichiuso, lei ha un volto viola, perché il bianco utilizzato si è
ossidato. Il volto abbassato è coperto dalla mano del kimono: gesto di scherno, di timidezza, o
finta timidezza, o il pianto e la disperazione. Lui è il principe Genji, che sta seduto di fronte a
Murasaki, la donna che ha amato per tutta la vita, circondandola di cure. Linee trasversali,
inclinatissime, che formano una specie di corridoio. Che rendono più incalzante la vicenda.
Murasaki sta morendo di un male misterioso, che nessun taumaturgo conosce, e sembra quasi
smaterializzarsi. Genji invece è una figura imponente, pesante. I colori si fanno sempre più intensi,
sempre con le stesse caratteristiche. Cogliamo le abitazioni dell’epoca, i mobiletti di lacca, i
tavolini bassi, i motivi decorativi dei personaggi. Vediamo campiture di colore sovrapposte,
perché da una parte davano toni intensi di colore, dall’altra parte erano i pentimenti dell’artista,
perché se quest’ultimo voleva cambiare il disegno, ci disegnava sopra, lo tsukurie, appunto. I volti
stereotipati, perché in quest’epoca non c’è la necessità di far immedesimare i lettori nei
personaggi. Probabilmente chi vive in quest’ambito sa anche di chi si tratta. Si favorisce
l’immedesimazione con i nomi dei personaggi in ambito nobile. Chi fruisce e chi crea l’opera sono
in un ambito ristretto e che condivide gli avvenimenti, non c’è una necessità di personalizzare e
anzi si evita di farlo. Quasi tutte le rappresentazioni dei personaggi sono ruotate, noi le vediamo a
¾ e la postura del corpo ci parla del loro sentimento.
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Storia dell’arte dell’Asia orientale
Lezione 17 – lunedì 28 novembre 2016
Ritratto ed epoca Muromachi
Torniamo all’epoca di Kamakura. Epoca di totale cambiamento. Dal 1185 si configura un nuovo
governo basato sugli Shogun. Minamoto sarà il primo ad essere incoronato Shogun
dall’imperatore, a Kamakura. In questi primi anni vi sono parecchie opere di ricostruzione. Si
forma un tipo di architettura e di produzione artistica che risponde al gusto ed alla filosofia zen ed
all’aristocrazia di spada.
1. Aristocrazia guerriera: samurai.
2. Nobiltà di corte: discendenti degli imperatori, o varie famiglie nobili che si sono unite alla
famiglia imperiale.
Sobrietà, possanza, semplicità totale, il tutto è dato senza decori dalla potenza della struttura
architettonica. Giardini particolari, nati per supportare il percorso meditativo della filosofia zen, i
karesantsui, i giardini secchi (secco-montagna-acqua: il paesaggio secco di rocce, sassi o ghiaia).
Oltre questi giardini secchi, abbiamo la cerimonia del tè, l’arte della composizione dei fiori, con
regole di simmetria e semplicità. La calligrafia, lo shodo. Tutte discipline indicate come –do (=via –
via di sperimentazione in una dottrina che non ha scritture, ma è diffusa oralmente). Lo Zazen
(seza=seduta) è il sedile, poltrona zen. Il monaco Chogen è una figura chiave, che ha portato avanti
lo stile daibutsuyo, stile che vediamo utilizzato nel Tōdaiji. Stile che si unirà attraverso l’apporto
scultoreo della scuola Kei ed arriverà al suo massimo splendore (carattere realistico che
caratterizza l’epoca di Kamakura).
Vediamo una scultura ligne che è uno degli esempi più belli del realismo di questa scultura. Non
solo sculture religiose, ma anche figure secolari come quelle del monaco Chogen. Scolpito per i
servizi dei funerali del monaco. Legno di cipresso, realizzata con la tecnica yosenitsukuri. Vediamo
ancora il rosa della pelle e il nero che copre l’intera veste da monaco. È una persona anziana,
provata dalla meditazione e dalla vita. Pupille realizzate con l’incastro di due cristalli. In mano
tiene il tipico rosario buddhista, il chuzo. Intento a recitare l’invocazione del Buddha Amida.
Questa scultura probabilmente è stata realizzata dagli scultori della scuola Kei. Il realismo in
ambito scultoreo lo ritroviamo anche in ambito pittorico. Sarà una caratteristica assoluta
dell’epoca Kamakura: la fioritura del ritratto.
Un nuovo approccio al ritratto, non più personaggi codificati, ma una forte esigenza di
riconoscere, i personalizzare il ritratto. Signori, guerrieri che vogliono fissare la loro immagine su
dipinti e su di opere pittoriche, per lasciare traccia di sé nella storia. Cambia l’approccio al ritratto.
Lontano, ben dopo rispetto al ritratto psicologico che abbiamo trovato nel Genji. Non abbiamo
quello stesso tipo di approfondimento, dovremo aspettare l’epoca Kamakura, per averlo.
Uno dei dipinti più preziosi è quello che ritrae Minamoto no Yoritomo (di Fujiwara no
Takanobu – 1142-1206). Abbiamo qualche esempio anche precedente, ma sono casi rari di
personaggi idealizzati. Non c’è più una ritrattistica di tipo rituale, non più un’estetica idealizzata
legata alla vita di corte. I segnali vogliono essere ricordati come fondatori di domini, come
conquistatori. Questo dal più grande ai samurai di rango inferiore.
Questo dipinto è la parte pittorica di un kakemono, un rotolo verticale, del XIII sec. realizzato su
seta. Si tratta di un pittore di corte imperiale, noto proprio per la ritrattistica. Come vedete la
figura di Yoritomo è avvolta di nuovo in una veste formale, di broccato nero, con piccoli motivi
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floreali che vediamo in piccoli punti della veste. Linee spezzate che lo avvolgono, noi non leggiamo
il suo corpo, ma solo il suo volto, spuntano i simboli del potere, la cintura in vita, poi lo scettro da
cerimonia, bacchetta di legno sottile (un programma del cerimoniale che doveva avvenire). Era
tenuto vicino alla bocca, come un ventaglio. Un oggetto che segna il rapporto tra me e ciò che sta
davanti a me. Il triangolo nero, che è il contorno. Non vediamo quasi nulla del suo corpo se non il
volto. È l’unico punto colorato che vediamo. Unico segno rivelatore della passione. Immagine di
freddo, di potente, che dà l’autocontrollo.
Tra figura Yoritomo al massimo del suo potere, un ritratto che non vuole rappresentarne le
sembianze, ma vuole mettere a nudo l’anima. Si fa alla ritrattistica cinese, ove “ritratto” significa
“cogliere l’anima”. 1188, tradizionalmente, ma si ritiene negli ultimi anni di essere piuttosto tardo
(XIII sec.), successivo alla morte di Yoritomo.
Un altro dei grandi di queste battaglie è Taira no Shigenori, del XIII sec. Anch’esso simile,
distinguibile come figura a gambe incrociate. Con scettro e impugnatura della spada visibili. Ha un
punto rialzato sulla nuca, un copricapo nero. Baffi e pizzetto sono dettagliati e descrittivi dei
personaggi.
Il ritratto dei monaci è molto diffuso. Vediamo un ritratto di Myoe Shonin, del XIII sec. che
definiamo anonimo, ma che viene tradizionalmente attribuito a Jonin. È un dipinto su rotolo
verticale, realizzato con inchiostro e colore su seta ed ha una dimensione importante. Shonin
significa “il santo”. Vediamo la sua figura tra gli alberi, lunghi fusti che si intrecciano. A sinistra
abbiamo il rosario e l’incensiere appesi ai rami dell’albero. Vediamo un movimento di fumo che sal
verso l’alto. È un ritratto realizzato su un modello cinese dei dipinti di Arat, i grandi maestri legati
alla tradizione buddhista. Ha un segno che si rifà al segno calligrafico, con continuità pittorica,
linee molto diluite. Contrasta con la minuziosità di descrizione del volto. Arrivavano anche ad
utilizzare la punta di un pelo di pennello per definire questi particolari piccolissimi.
Per il tempio Kazaniji furono commissionati due rotoli:
1. uno che racconta la storia di due monaci legati a questo tempio e a quest’opera. Un tratto
calligrafico e molto drammatico anche in questo caso. Una corrispondenza con la realtà.
1299, un’altra piccola illustrazione che tratta la biografia di uno dei monaci nella predicazione
del buddhismo della Terra Pura. Abbiamo un pezzettino di questo rotolo. Si sceglie il rotolo
orizzontale per narrare le varie vicende di questo monaco, che diventa un racconto educativo.
Abbiamo due figure importanti: Honen, che porta avanti il Buddhismo Amida di tipo Jodoshu;
Shinran; Jodoshinshu; Ippen, noto per aver inserito nella predicazione la recitazione di chiamata
del Buddha, una danza estatica, quasi sciamanica che provocava una sorta di trans.
Abbiamo 12 rotoli che parlano della vita di Ippen e un testo che accompagna le pitture. Un
monaco artista che si chiama Eni e un altro monaco che scriverà i testi. La forma è molto più vicina
ai rotoli di epoca Heyan, con una stilizzazione delle vedute e dei personaggi, ma anche un tratto
dei volti più simile a quello del Genji Monogatari. Poi la prospettiva dall’alto.
Vediamo un altro ritratto religioso, di un monaco, Genjo Sanzo. Un monaco itinerante, un’altra
delle modalità di conduzione del percorso buddhista che si sviluppa in quest’epoca. Predica in
Giappone il Buddhismo della scuola Hosso. Con come fulcro il tempio Yakushiji. Sono monaci legati
alla storia dei grandi templi. Si capisce la figura del monaco itinerante con in mano tutti gli oggetti
per le elemosine. I sandali da viaggio e le caratteristiche continentali. Tratti somatici
completamente diversi, che si rifanno all’ambito indiano piuttosto che giapponese.
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Vediamo il ritratto di Sanko Kokushi, maestro dell’imperatore Godaigo. Questo tipo di ritratto,
seduto su una grande poltrona appartiene a tutti i ritratti dei maestri zen. Monaco seduto, con la
propria veste buddhista, non la tonaca, ma di un prete affiliato ad un tempio. Motivi dettagliati.
Con il bastone dell’insegnamento, con le scarpe messe da parte e i piedi nudi. Un ritratto che
troveremo da quest’epoca in avanti. Monaci o figure dei patriarchi del passato che hanno portato
l’insegnamento zen. Lo chiamiamo Chinzo: una delle forme classiche della pittura zen.
Poi abbiamo il mandala pittorico, un sincretismo nuovo, una commistione di eventi che
appartengono a diverse religioni. Il mandala del cerbiatto, Kasuka Shika Mandara. Animale sacro
che troviamo camminare libero per tutta la città di Nara. Fa parte dell’iconografia buddhista,
appunto. La presenza di una tipologia di pittura legata allo Shinto e l’immagine rotonda con le
striscioline di carta che pendono che si riferiscono allo specchio. Commistione che è un mandala
che parla dell’universo buddhista ma nel quale vengono utilizzati simboli shintoisti. Processo di
sintesi è l’approccio che ha avuto alle religioni, ma anche alla scrittura, all’architettura e a livello di
vestiario, accogliendo tutta la moda occidentale. Nelle arti troviamo questo approccio anche nei
secoli successivi. Quando dicono che il Giappone ha perso la sua anima è solo una facciata, perché
se andiamo a cercarlo l’animo, esso non è stato toccato quasi per nulla.
In scultura abbiamo uno sviluppo del ritratto secolare, inteso come ritratto non appartenente
all’ambito religioso, abbiamo uno sviluppo delle due tecniche della manipolazione del legno legate
alla scuola Kei. Anche nella scultura ritroviamo la stessa forza espressiva. Il Buddhismo risponde
alle esigenze della classe guerriera. Anche i santi legati al Buddhismo e le divinità possono essere
ritratti con espressioni che ne mostrano il carattere e le funzione salvifica. Abbiamo una
caratterizzazione più personalizzata.
La scuola Kei, che è una bottega che fa parte di Kyoto, deriva dall’insegnamento del maestro
Jocho, lo scultore della scultura di Amida dentro il Byōdōin (che aveva creato un nuovo canone).
Da questo fiorisce lo sviluppo della scuola dei Kei. Fioriranno a sevizio della ricostruzione del
Todaiji di Nara. Commissioni di opere di iconografia tradizionale, ma poi anche opere che
rispondono alle novità di quest’epoca.
Vediamo il monaco Genpin. Personaggi con occhi di cristallo, con la fronte corrucciata. Fanno
parte del tempio Kōfukuji (Nara, 1189).
Vediamo il Kongo rikishi, il re guardiano (di Jokei, 1190-91). La tensione dei nervi e della
muscolatura, con la tensione sprigionata dal volto. Simbolo di questo rinnovamento.
Di Kaikei (oltre il 1185-1220) un Amida Nyorai, attorno al 1201 (Hyogo, nel Jodoji), un Amida
classico, che risponde alla richiesta legate a questo tipo di Buddha, con una figura in legno dorato,
massiccia e liscia nel corpo. Non trattato in modo realistico, ma che torna all’interno della
modalità per trattare le figure religiose.
Tuttavia si va avanti quando si parla di figure secolari. Vediamo un’altra figura di Amida, fa
parte della collezione del tempio Saishoin (di Nara, XIII sec.), risponde alla tendenza nuova.
La scuola Kei è la scuola che viene appuntata come scuola a cui verranno commissionate un po’
tutte le opere di commissione. Kōkei ebbe l’incarico di ricostruire tutte le statue distrutte e tutti i
complessi templari nella zona di Nara. Questi artisti quindi diverranno sempre più importanti
segnando la fortuna della scuola Kei.
Durante le guerre, tutte le sculture erano state fatte fuori. Si era risentito dell’influenza cinese
dei Tang. La scuola Kokei risentirà di questo stile di scultura.
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Vediamo una piccola figura di Bodhi Sattva, con la veste itinerante con le fasce nere. Attribuito
a Kaikei. Maggiore naturalismo rispetto alle figure precedenti. Vediamo un’altra piccola figura, con
fisionomie elegantissime, con il fiore di loto. Tutta l’iconografia religiosa appartenente allo stile
della scuola Kei. Andrà avanti per generazioni: Kokei, Unkei (1100-1200), Kaikei (discepolo di
Unkei, anni 80 del 1200).
Di Unkei vediamo uno degli assistenti del Buddha del Kofukuji. Semplicità delle fisionomie e
nell’abito. Un’altra figura sempre bianca e nera, trattata come una figura umana della quale si
vogliono caratterizzare il carattere, la calma, la fermezza, accanto a Seishin, una figura più aperta
alla predicazione che fa coppia con l’altro. Tutte e due opere di questo grade artista, che
raggiungerà la maturità dello stile della scuola Kei.
Vediamo delle grandi movimentazioni, interesse per il movimento delle vesti e delle posizioni
dei corpi delle figure. Un kongorikishi che ha l’espressione spaventosa del volto, atteggiato in
un’espressività esagerata. Controllo dei movimenti pronti a scoppiare in un moto di potenza.
Figure minacciose dei re guardiani, con gli occhi di vetro che danno maggior risalto alle figure
feroci. Rilievi molto profondi, con vesti molto fluttuanti, con uno stile che risponde al carattere di
questi dominatori del Giappone.
Ankoku Doji è una figura mista cinese-Shinto-buddhista rappresenta una figura di dignitario, di
burocrate, con un guardiano dell’inferno. Colui che segnava i nomi delle persone che dovevano
passare per l’inferno. Un demone, con volto e abito definiti in maniera molto naturalistica.
Fudo Myoo l’immobile, che abbiamo visto anche più stilizzato. Questo è un’ulteriore sviluppo
delle sue sembianze in epoca Kamakura. Ha sempre il laccio e il bastone tra le mani, che sono i
suoi simboli mantenuti nel tempo (in questo caso perduti). Il punto di appoggio è stato sostituito
da un piedistallo.
Vediamo una figura di Kannon, mista alla figura di Fudoo Myoo. Kannon dalle mille braccia, con
una veste un po’ terrifica, che si avvicina al Fudo Myoo.
Inushin, una figura di cane che accompagna il Buddha sull’altare. Si rifà alla nuova modalità più
realistica e potente.
La figura che abbiamo visto rappresentata pittoricamente dei grandi signori della guerra viene
trasposta anche in sculture. Figure politiche e militari rappresentate con questa forma scultorea
leggermente più stilizzata con abiti cerimoniali e nella stessa posizione vista in pittura. Apparenza
rotonda di volti e corpi che fanno pensare che siano state scolpite verso la metà del 1200.
Inserimento negli occhi delle pupille, un volto già segnato dalla vecchiaia in Minamoto no
Yoritomo, lo scettro tenuto tra le mani, ma una stilizzazione geometrica della gonna pantalone
larga. Tutto è molto statico, con una sorta di blocco di legno potente.
Vediamo il Daibutsu di Kamakura, il grande simbolo della città. Gigante in bronzo. Cavo
all’interno. Anche questo fa parte delle costruzioni nuove dell’epoca Kamakura.
Si sviluppa tutta una serie di oggetti e di arti applicate all’ambito guerriero-militare. Nascono le
varie tipologie di armature, diverse di epoca in epoca. Nell’epoca Muromachi ce ne sarà uno
sviluppo più forte. Fatte di placchette di legno, con un filo fatto passare che le tiene unite. Elmetto
che acquisisce forme diverse a seconda della posizione all’interno della gerarchia, della posizione
sul campo di battaglia. Tanti elmi con forme strepitose. La figura del samurai entra nella fine
dell’epoca di battaglie e si avvicina all’epoca Edo. Tutti quelli che sono gli equipaggiamenti militari,
le impugnature di spade, la guardia di spada, la sella del cavallo, le staffe e le bardature, tutto
diventa oggetto di alto artigianato.
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Vediamo una sella completamente dipinta in oro, con un motivo di fiore di ciliegio.
Periodo Muromachi (1333-1588)
Evoluzione segnata dall’ibridazione sempre più forte dello stile giapponese con lo stile cinese,
soprattutto all’interno dei templi zen. L’abbiamo visto nello spazio chiuso dell’Engakuji. Uno degli
elementi più importanti che ebbero effetti di trasformazione sulla cultura giapponese. Ci porta
nell’estetica del Giappone che noi oggi conosciamo. Scuola Uabi e Sabi, danno vita ad un’estetica
austera, di semplicità, che darà vita a quell’attitudine ed estetica verso gli oggetti segnati dal
tempo, una non perfezione che sottolinea la bellezza dell’oggetto.
Vediamo un saggio sull’ozio scritto da un monaco in questi anni, che parla della nuova estetica
legata alla non permanenza, alla povertà ed alla semplicità. I giardini assumono importanza
assoluta. Vediamo due luoghi che saranno il fulcro di tutta una cultura in epoca Muromachi.
1. Il padiglione d’oro, Kinkakuji (Kin=oro);
2. Il padiglione d’argento, Ginkakuji (Gin=argento).
Due luoghi legati ad una stessa estetica, che diventerà la culla dell’estetica di epoca
Muromachi. L’area boschiva e il laghetto che circondano il padiglione, eretto nel 1398. Costruito
come luogo di riposo e di passatempo, solo in seguito questa residenza si trasforma in tempio. Il
suo nome di tempio inizialmente è Rokuonji, dopo la morte di Yoshimitsu. Affacciato su questo
laghetto artificiale con una struttura a tre piani, completamente ricoperto in foglia d’oro.
Diventa Kinkakuji dopo che un ex Shogun vi si ritirasse. Ritrova la modalità che gli imperatori
utilizzavano ritirandosi in vita privata. Viene ampliato e rimarrà tale fino al 1950 viene distrutto da
un incendio doloso da un monaco impazzito. Ricostruito nel 1955. Negli anni ’80 è rifatta la
copertura d’oro. Riaperto nel 1987.
Ritroviamo caratteristiche dello stile Karayo. Padiglione a 3 piani con un semi-tetto a metà ed
un tetto sovrastante più piccolo. Si ispira all’architettura di un chiosco sull’acqua cinese. Il primo
piano era dedicato al relax, alla contemplazione della natura. Chiuso con porte scorrevoli. Il
secondo piano, come vediamo, ha una forma che rientra, come una “L” che viene chiusa da pareti.
Il lato sul lago è quello su cui si affaccia questo terrazzo un po’ più ampio. L’ultimo piano è quello
più stretto ed aveva la funzione di tempio. Luogo dedicato alla preghiera, in particolare al culto di
Amida. Le reliquie del Buddha di Kamakura. Ultimo piano è quello del tempio, ha le stesse finestre
a forma di campana, con questo reticolato di listarelle di legno, tipico dello stile cinese Karayo.
Architettura dove Yoshimitsu incoraggiò la cerimonia del tè, incontro di scambi di poesie tra poeti.
Qui fiorisce il teatro Nō, legato alla figura di Zeami, che portò alla codificazione del teatro Nō.
Vediamo la veranda.
Vi è l’intrusione di produzione di angoli di rocce. Ricreate in alcuni angoli di giardino. C’è una
commistione di elementi. Giardini verdi, e giardini secchi, che poi saranno privilegiati di qui in
avanti.
Vediamo adesso il Ginkakushi, o sala del Buddha, o Padiglione d’argento. Costruito nel 1489. In
origine prende vita da un piccolo tempietto chiamato Jishoji. Luogo eretto da Yoshimasa, il nipote
di Yoshimitsu. Se lo fa costruire anche lui come residenza di ritiro, che diventa nuovamente tempio
dopo la sua morte. Jishoji è il vero nome del Ginkakushi. Abbiamo pagodine e piccoli padiglioni che
si sparpagliano in tutto il bosco, nel complesso sulle montagne. In realtà è un padiglione a due
piani, il secondo era dedicato alla preghiera per il Buddha Kannon. Questa era la parte che doveva
essere ricoperta d’argento (copertura mai fatta). Fu acquisito da Yoshimasa, nel ‘65, mentre quasi
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tutti i padiglioni sono stati completati. Semi-tetto che sorregge il terrazzo del secondo piano e il
tetto principale a 4 ali. Il piano terra è di nuovo utilizzato per la contemplazione sul giardino.
Accanto al Kinkakushi abbiamo visto che c’erano parti di giardino bellissimo. Finestre a forma di
campana. Andamento curvilineo del tetto e del corrimano, nello stile cinese. Poi un altro edificio
sull’altro, che si chiama Tougudō, una stanza di 4 tatami, la più antica stanza per il tè fatta
costruire da Yoshimaza. La piccola sala si chiama Dojinsai. Fatto su modello della sala di Amida del
Saihoji, a Kyoto. Considerato il tempio del muschio, perché è un giardino di solo muschio
verdissimo, che riprende il paradiso d’Occidente del Buddha Amida.
Il karensansui è il giardino spoglio fatto di pietre e ghiaia. C’è una stilizzazione assoluta del
paesaggio con i soli sassi. Notiamo questo giardino semi-secco e grandi rocce che ricordano i
giardini nello stile cinese, con grandi rocce che ricordano il paesaggio montano e le varie presenze
degli elementi della natura resi simbolicamente. Vediamo il percorso, circondato piccole pietre.
Abbiamo l’essenza della natura.
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