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F. PALOMBI, Jacques Lacan, Roma, Carocci, 2009, pp. 199, € 16,80.
Scrivere di un autore complesso e dibattuto come Jacques Lacan (1901-1981) è
impresa difficile. Se poi l’idea fosse quella di fornire un’interpretazione semplificata, le attese rischierebbero di essere tradite. Fortunatamente quella di Fabrizio
Palombi non è una semplice biografia, benché spesso si parta da spunti anagrafici
per introdurre nodi problematici, e neppure un riepilogo delle imprese scientifiche dello psicoanalista parigino, ma il tentativo riuscito di ripensare la complessità
di un autore e di restituirla in poco meno di duecento pagine. Il risultato finale è
Jacques Lacan, un testo chiaro ma non banale, perché riesce a farsi comprendere
pur mantenendo nella struttura e nei contenuti tutta la problematicità dell’autore
a cui è dedicato. La lettura che Fabrizio Palombi, docente di Epistemologia delle
scienze umane e sociali presso l’Università della Calabria, propone dello psicoanalista francese, è frutto del lavoro di un ventennio durante il quale lo studioso ha
proposto corsi universitari e pubblicazioni su Lacan e sui temi legati alla sua figura.
E se occuparsi di Lacan è «un lavoro da compiere su se stessi», come afferma Foucault
citato nella quarta di copertina del libro, allora la sfida diviene interessante e accettarla significa non solo andare al fondo di problemi legati alla psicoanalisi, ma anche
occuparsi di linguaggio, di arte, di rebus e di topologia. A ognuno di questi aspetti
Palombi dedica spazi dettagliati, ricchi di citazioni e di illustrazioni.
Già nelle prime pagine del testo vengono tracciate quelle che diverranno le direttrici del volume. L’introduzione si proclama parziale nel duplice senso del termine: da una parte incompleta, perché «offrire una lettura introduttiva di Lacan
equivale a proporre un ossimoro» (p. 9), ma anche in quanto «la parzialità ha il carattere di un’indicazione metodologica; si deve attingere alla propria esperienza
culturale ed esistenziale per trovare domande e interrogativi da filtrare attraverso
il testo dello psicoanalista francese» (p. 9).
Questi filtri vengono subito confessati dall’autore: la fenomenologia, attraverso la quale si adotta un «atteggiamento descrittivo, analitico, che mira a separare
le stratificazioni di senso» (p. 14), e la teoria della conoscenza, passaggio fondamentale per esaminare il rapporto tra conoscente e conosciuto.
L’architettura del libro prevede in apertura una «breve storia della ricerca di
Lacan», nella quale vengono ripercorse le fasi salienti della vita dello psicoanalista
accompagnate dalla sua attività scientifica e impreziosite dal resoconto dei rapporti
che egli ha stretto con le personalità dell’epoca. Non bisogna infatti dimenticare
che Jacques Lacan ha avuto la fortuna e l’abilità di intessere relazioni con personaggi di primo ordine del secolo scorso: Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Maurice
Merleau-Ponty e Pablo Picasso, per citarne alcuni. Da conoscenze e domini diversi è riuscito a trarre linfa vitale per le proprie argomentazioni psicoanalitiche. È il
caso di quanto è avvenuto col surrealismo, movimento che «si prefigge di fondere
le dimensioni del sogno e della realtà, tradizionalmente considerate contradditto-
Bollettino Filosofico 26 (2010): 537-555
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673936
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rie, in una surrealtà in grado di comprenderle entrambe» (p. 14). Da tale corrente
Lacan ha tratto spunto per le sue considerazioni in merito al funzionamento simbolico dell’inconscio. All’interno di quest’ultimo si confonderebbero in modo
produttivo i pensieri col materiale linguistico attraverso cui sono veicolati, allo
stesso modo di quanto avviene in molte opere degli artisti surrealisti, basti pensare
a buona parte della produzione pittorica di Salvador Dalì (1904-1989). Sostituire
le gambe di un tavolo con quelle di un manichino, per riprendere l’esempio proposto da Palombi (p. 14), significa causare un cortocircuito e mettere in discussione proprio le categorie di significante e significato, che Lacan riprende dalla
tradizione saussuriana.
Il testo di Palombi è attraversato da alcune linee guida che tengono insieme le
argomentazioni e il fil rouge è costituito dal linguaggio. Tale questione è difatti
fondamentale nel percorso di Lacan e proprio dal celebre linguista ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913) egli riprende e amplifica la critica al rigido referenzialismo, ribaltando però il rapporto tra immagine acustica (significante) e
concetto (significato). Ad avviso dello psicoanalista francese il significato scivola
incessantemente sotto il significante e la «loro “discordanza” è un effetto della scissione del soggetto che Lacan estrapola da Freud e sintetizza con il simbolo $ del
soggetto inconscio» (p. 51). In riferimento al complesso rapporto che lega la teoria psicoanalitica al linguaggio e che condurrà Lacan a coniare il termine «linguisteria» per indicare lo specifico linguaggio dell’inconscio (p. 50), non bisogna sottovalutare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» (p. 49) ed è quest’ultimo a descrivere uno dei tre domini fondamentali nella teoria di Lacan, rappresentati dal simbolico, dal reale e dall’immaginario. Il reale individuerebbe
sempre uno scontro, è ciò che non funziona e che fa ostacolo, il simbolico è ricondotto al linguaggio e quindi a coppie concettuali opposte che operano per presenza-assenza, mentre l’immaginario rimanda al problema dell’immagine riflessa allo
specchio e dell’ideale dell’io.
Particolarmente produttiva ed emblematica, rispetto al rapporto linguaggioinconscio, è l’analisi che Palombi riprende e commenta, all’interno del capitolo
«Retorica ed enigmistica», del celebre lapsus freudiano «Signorelli-Botticelli-Boltraffio». Attraverso tale esempio si ha una prova clamorosa del fatto che «il metodo di decifrazione del linguaggio inconscio trova il suo modello nel rebus, nel quale immagini, lettere o altri simboli vengono accostati allo scopo di indicare parole
e comporre frasi dotate di un senso diverso rispetto alle cose rappresentate» (p.
58). L’eclettismo di Jacques Lacan fa sì che egli scorga vie terapeutiche anche e
soprattutto in metodi diversi dalla psichiatria. Nella sua tesi di dottorato del 1932,
intitolata Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, è evidente la novità del suo metodo di approccio: la tesi è «il resoconto di un’indagine psichiatrica
basata su colloquio clinico, verbali, incontri con i familiari della paziente, prove e
materiali raccolti fuori del tradizionale setting individuato da Freud» (p. 19). Si
tratta più precisamente della storia di Marguerite Pantaine (1892-1981), meglio
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conosciuta con lo pseudonimo di Aimée, ed è il tentativo di «interpretare la paranoia uscendo dall’organicismo psichiatrico» (p. 19). Lo stesso Salvador Dalì, dalle
colonne del primo numero della rivista «Le Minotaure» apprezzò molto il contributo lacaniano.
Uno dei punti di rottura che Lacan introduce rispetto all’analisi freudiana è
rappresentato dalla variabilità del setting analitico. Stando al metodo praticato dagli psicoanalisti di scuola freudiana, le sedute dovevano avere una durata precisa e
fissa. Lacan sostiene che la seduta vada interrotta ogni qual volta venga toccato dal
paziente un punto cruciale e ciò avviene anche in riferimento alle teorie sull’aprèscoup e sul tempo logico, che Palombi analizza nel capitolo intitolato «Il senso di
uno stile». Le novità apportate da Lacan nell’analisi, in particolare quelle riguardanti la seduta variabile, causeranno non pochi problemi allo psicoanalista francese, che nel 1963 sarà escluso dalla SFP (Società Francese di Psicoanalisi), e fonderà
nel 1964 una propria scuola di psicoanalisi che prenderà il nome di Scuola Freudiana di Parigi (EFP).
Riprendendo le categorie psicoanalitiche fondamentali della teoria di Lacan,
ovvero il reale, il simbolico e l’immaginario, pare utile segnalare l’approfondimento che Palombi offre all’interno del capitolo “Specchi”, in merito al terzo di
tali registri, l’immaginario, il quale «presiede al complesso fenomeno della costituzione dell’Io a partire dallo stadio dello specchio» (p. 26). In particolare il soggetto umano si istituirebbe a partire da alcune mancanze costitutive, come quella
dettata dal fatto che non possa vedere il proprio volto se non indirettamente, come appunto nel caso della propria immagine riflessa su uno specchio. «Questa dinamica rivela che il soggetto non possiede mai un’identità piena e definitiva in
quanto non sorge da un’unità coerente e organizzata, ma dall’ambivalenza» (p.
92). Per questo motivo quando il bambino a partire dai sei mesi di vita inizia a osservare allo specchio il proprio volto, fonda una «dialettica dell’identificazione
con l’altro» (p. 93) che lo condurrà a inseguire la propria immagine ortopedizzata
senza mai raggiungerla.
Il testo di Palombi si fa più tecnico nei capitoli dedicati al problema della topologia e dello schema ottico. Lacan utilizza la topologia, che si occupa delle «proprietà delle forme che non cambiano quando un oggetto viene stirato o distorto»
(p. 104), per indagare in che modo l’inconscio possa essere esso stesso soggetto a
distorsioni e rovesciamenti. Nello «schema ottico» vengono riprese le questioni
dello stadio dello specchio e viene ricostruito e commentato nel dettaglio il dispositivo lacaniano del vaso di fiori rovesciato. L’argomentazione ritorna su un registro più propriamente filosofico nell’ottavo capitolo, in cui viene analizzato il testo di Lacan Kant con Sade (1963), all’interno del quale lo psicoanalista francese interpreta la licenziosa trama della Filosofia nel boudoir (1795) del Marchese de Sade
(1740-1814), applicandola alle teorie kantiane contenute nella Critica della ragion
pratica (1788) e alle topiche freudiane.
Il capitolo conclusivo, “Matemi e sinthomi”, si occupa dell’ultima parte della ri-
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cerca di Lacan, in cui abbozza una «struttura quadripartita dell’inconscio» (p. 154),
nella quale trovano spazio, anche graficamente, i tre registri fondamentali della
sua teoria psicoanalitica.
Jacques Lacan ha ancora molto da dire alla cultura contemporanea e il testo di
Fabrizio Palombi ha senza dubbio il merito di stimolare la ricerca su un autore così
complesso e rilevante.
DAVIDE BRUZZESE
S. CAVELL, Little Did I Know: excerpts from memory, Stanford California, Stanford
University Press, 2010, pp. 558, € 27,31.
Cos’è la filosofia? Quale deve essere il tono di una pagina filosofica? Che cosa rende
filosofico il racconto della vita di un filosofo? È a partire da interrogativi come questi
che l’americano Stanley Cavell ha costruito l’edificio portante della sua opera filosofica. Fin dai suoi esordi teorici infatti, l’autore di Must we mean what we said? (1969) e
di The Claim of Reason (1979) si è interrogato sulle condizioni di possibilità della filosofia stessa, inseguendo l’immagine pura e universale di quella che egli definisce la
‘voce’ del filosofo, ossia ciò che si caratterizza come pretesa a parlare a nome di altri
e come esercizio di rappresentatività generica – dire ‘noi’ a partire da ‘io’ – all’interno di una comunità (passata, presente, futura, linguistica, filosofica, artistica) di
riferimento. Simili presupposti sottendono la necessità intellettuale di un confronto
sistematico e continuo con la riflessione autobiografica, al fine di poter attestare il
legame indissolubile esistente tra filosofia, autobiografia e una certa predisposizione
ordinaria all’arroganza, estrinsecabile nell’idea secondo la quale ogni filosofia, per
essere riconosciuta e accettata come tale, deve farsi portatrice di un claim: una presunzione sistematica della voce, espressa dall’uso universalizzante della prima persona plurale. Modelli filosofici fondamentali per Cavell, in tal senso, sono i cosiddetti
filosofi del linguaggio ordinario, ossia il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e J.L.
Austin, quest’ultimo suo effettivo maestro, incontrato per la prima volta nella primavera del 1955 in occasione delle William James Lectures ad Harvard. Ma non si può
non annoverare nella cerchia delle personalità influenti alcuni autori afferenti al bacino teorico americano, come Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, massimi propugnatori di quel trascendentalismo che impregna le fondamenta dell’identità filosofica di Stanley Cavell. Ebbene, sedici anni dopo A Pitch of Philosophy. Autobiographical Exercises (1994), opera interamente dedicata all’intersezione tra filosofia
e autobiografia, viene data alle stampe la stesura definitiva dell’autobiografia vera e
propria di Cavell: Little Did I Know: excerpts from memory, datata 2010 – il primo capitolo del testo era già apparso in Critical Inquiry nell’estate del 2006. Little Did I Know
si compone di quattordici capitoli (parti), scomposti a loro volta in una serie di paragrafi, ognuno dei quali recante una data e un titolo. Le date non sono quelle relative