Bestiario, I, 11, La morte di Pietro Aretino
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Bestiario, I, 11, La morte di Pietro Aretino
Bestiario, I, 11, La morte di Pietro Aretino | Mattia Cavagna Il tempo era scaduto, e alla data stabilita Tungdal si presentò dal suo compare, per costringerlo a saldare il suo debito e quello, che non aveva contanti, insistette perché restasse a pranzo con lui e gli apprestò un lauto banchetto. Tungdal si sedette, posò la sua ascia accanto allo scranno e cominciò a mangiare di gusto, lanciandogli delle occhiate di collera. Ma la divina misericordia mise fine a quell’appetito e Tungdal fu colpito a morte da un colpo invisibile. Prima di morire rivolse una preghiera alla moglie del suo compare e le disse: “Donna, custodisci la mia ascia, perché io sto morendo”. E cadde disteso, e l’anima abbandonò quel corpo inerme. Questo l’inizio del suo favoloso viaggio nell’aldilà. Filippo sembra entusiasta del mio racconto, e mentre sorseggiamo il “resentino”, quell’abbondante sorso di grappa versato nella tazza ancora calda, che conserva qualche traccia caffè, lo stereo suona il ritornello di Elio e le Storie Tese “lascia l’ascia di guerra e accetta l’accetta dell’amicizia” e scoppiamo in una risata, dondolandoci sulle sedie, in bilico, all’indietro, come Pietro Aretino. Le voci delle ragazze, dalla cucina, ci giungono attutite, eppure ci separa solo una mezza parete. Contempliamo in silenzio le nuvole di fumo che si innalzano verso il soffitto malva e le sue moulures così parigine. Questo soffitto che sto per lasciare per sempre, dopo tanti anni. Filippo apre una succulenta parentesi sulle tapas che ha degustato in Spagna e poi torniamo a parlare di Tungdal, di Bosch, del Prado, di Madrid, di Bruxelles, e poi di Venezia, e infine di un suo eventuale ritorno alle origini, nella sua Verona. Un po’ lo invidio, ma allo stesso tempo sono elettrizzato all’idea di trasferirmi in Belgio, in un paese sconosciuto, in una nuova realtà bilingue, autonoma, piena di contraddizioni e di birra, proprio come Bolzano, la mia città natale. Ma ecco che un tuono squassante ci fa trasalire. Non mi ero nemmeno accorto che il cielo si era rannuvolato. La lampada si spegne, la porta fa “slam”, i cannoni fanno “beng” e per un attimo rimaniamo al buio, in silenzio. Anche le voci dalla cucina sembrano scomparse e la musica di Elio si è fermata. Adesso lo udiamo chiaramente, la tempesta sta saccheggiando Belleville, le raffiche di vento scagliano la pioggia contro le finestre. Tiro un profondo respiro, dal naso, guardando la porta del bagno, con la coda dell’occhio, ma avverto solo un piacevole odore di grappa e di caffè. Immagino un grifone gigantesco, che attraversa la tempesta, maestoso, ammantato di mistero, tagliando il vento con le sue ali. Forse se ci alziamo e andiamo alla finestra potremmo vederlo per l’ultima volta. Ma non ne abbiamo nessuna voglia e restiamo a dondolarci sulle sedie, in bilico, all’indietro, come Pietro Aretino. Bestiario, IV, 11, Continuazione | Johnson & co. Ad un certo punto la mia attuale futura moglie dorme sulla mia spalla mentre io guardo un film che non consiglierei a nessuno. La breve notte insonne ci riporta indietro e sei ore in avanti, e quando atterriamo a Parigi non ho chiuso occhio. Dormo in taxi e poi a casa, per tutto il pomeriggio. Poi usciamo a cena, mangiamo e dormiamo qualche giorno, poi mentre Berlusconi e Bossi vincono le elezioni incontro Mattia al Pantheon per una birra e per decidere come finire e come ricominciare, insieme cerchiamo di mettere, su due colonne di più e meno, pregi e difetti relativi della città nuova di Lovanio, dove se ne andrà, e di Montreal, da dove torno. Ad esempio, per la sua, birra e cioccolato sono +, umidità e meteorologia -, architettura -, vicinanza a Bruxelles +, dipartimento +, divertimento-, patate fritte non siamo d’accordo, costo della vita + (visto che costa meno), popolazione (molto vagamente, i belgi) io mi astengo, popolazione (più precisamente, fiamminghi, valloni e altri) +. Ci dedichiamo con solerzia a più-meneggiare lungamente il suo futuro, esaminando svariati indicatori. Poi gli spiego perché, da Montreal, torno. Non so se per sempre, ma adesso torno. Mi sporgo. Mi sbilancio. Per ora, gli dico, dovrò muovermi, anzi credo di usare la parola “spostarmi” in continuazione. Per qualche mese, per questa ricerca che faccio, dovrò spostarmi in continuazione. Tornerò a Verona a casa dei miei, aiutandoli a scrostare la vecchia tappezzeria; rivedrò qualche amico e scaricherò voracemente gli aggiornamenti relativi a qualche mese di vita di ciascuno, li abbraccerò e berremo vino in giardino o nella nuova casa di Tommaso. Scenderò a Bologna a cercare Marco e Valerio, a mangiare con loro sui colli, andremo a salutare Guido. Lavorerò a Venezia facendo avanti e indietro in treno prima di trovare una stanza vicino al Ghetto, con un architetto ed un veneziano che mi accompagnerà in barca nella bocca della balena e nelle sue viscere, un martedì pomeriggio. Conoscerò in treno Martina che fa teatro, legge i Demoni e sta tornando a Londra, c’era andata a trovare un’amica e ci vive ormai da sei mesi. Non ci scambieremo né numeri né e-mail. Alle 9.16 di una mattina a Venezia, due o tre ponti prima dell’ufficio, un piccione morirà in volo e cadrà come corpo morto cade, venendo a schiantarsi su quelli che sarebbero dovuti essere i miei passi; lo aggirerò e lo aggirerà dopo di me una giovane madre col passeggino, dirà che schifo per fortuna non ci è caduto in testa, le sorriderò mentre il suo bimbo sorpreso e mezzo addormentato farà pipì nel pannolino. Andrò una settimana a Madrid a trovare la più cara amica e a mangiare il miglior couscous del Lavapies, quindi di Madrid, quindi di Spagna, rivedrò Cesar y Pelon con il suo nido di cicogne in testa. Passerò un’ora davanti al Giardino delle Delizie di Bosch, a fissare la visione di Tondalo e precisamente il cancanguro accanto alla giraffa, pronto a schizzare nel Prado e ad ingaggiare con il mio orsetto di peluche, simbolo della città, una feroce battaglia per decidere chi mi guiderà nel Vecchio Continente. Mi avrà aspettato a lungo. Io aspetterò l’estate spostandomi in continuazione, chiedendomi che senso ha, pensando di smettere. Nel frattempo avrò una futura moglie, una ex futura moglie, poi ancora una futura moglie, una direttrice, una ex direttrice, un futuro capo progetto, un futuro collega, un ex futuro collega, un futuro lavoro, un’agenda con mesi di cose da fare e poi fatte, un ex futuro lavoro, numeri di telefono scritti a matita, delle responsabilità dei problemi delle soluzioni, una ex casa una nuova casa una stanza, appuntamenti, una ex stanza, la stanza di qualcun altro, un divano, un’altra casa, un progetto, una tracheite, un altro futuro progetto, un ex futuro progetto, un progetto futuro, un ventaglio di possibilità che si apre e si chiude da un giorno all’altro, che fa aria, che non la fa più, che si apre e si chiude come un piloro, come la gola della balena nel Pinocchio di Comencini, forse, come uno sfintere, come una pupilla; possibilità che pulsano e si spalancano e si richiudono come i varchi spaziotemporali che ti risucchiano quando vogliono, nei film. Così avrò una città, un’altra, un’altra ancora, biglietti di treno in tasca, indirizzi, indizi, tracce, piste, biglie, fretta, sonno, tempo, biglietti di aereo in tasca, andata e ritorno, andata semplice, una borsa, una valigia, mi sposterò in continuazione. Tornerò a Parigi sulle tracce del sacro, Joseph Beyus e il coyote, io e il cancanguro, incontrerò Mattia a Belville per una birra e per decidere come finire e come ricominciare. Bestiario, III, 11, Transito | Valerio Cuccaroni Il Maestro morì qualche mese dopo la nostra ultima visita ed io, che avevo già lasciato Bologna, ormai saldamente nelle mani di Guazzaloca il macellaio, per Ancona, mi rifugiai a Parigi. Là mi aspettava Mattia, seduto ad ammirare il panorama di tetti blu e la piramide da una finestra del Louvre. Parlammo a lungo, mentre passeggiavamo nei supermarché o sedevamo nei bistrot o nel suo studio spalmavamo foie gras su fette di baguette addolcite dal Bordeaux. Un giorno prese un pullman da Berlino e venne a trovarci Marco: tutti e tre andammo al Centre Pompidou e scoprimmo il sangue del poeta, il testamento d’Orfeo e altre fantasticherie strabilianti di Cocteau. Infine, in una fine d’anno, arrivò Filippo e brindammo, ballando lungo un boulevard, al nuovo anno, a un anno nuovo, chissà quale, di quale calendario. Quando venni a sapere che a Bologna avevano preparato un rito in memoria del Maestro per rievocare i suoi pensieri, le sue parole, i suoi testi, decisi di tornare, almeno per un giorno, almeno per quel rito. Non presi posto però in un vagone letto, decisi di salire sull’ultimo treno per l’Italia, fermarmi a Ventimiglia e ripartire all’alba con un Espresso. Così, dopo aver attraversato la Francia da Nord a Sud, scesi nella città di confine. Al confine. Tra un territorio e l’altro. Tra la vita e la morte. Passai per quel passaggio, varcai quella porta, buia come la morte, pronta a rischiararsi come la vita e viceversa. Pensavo forse proprio a questa equazione di matematica essenziale, quando mi ritrovai nel bel mezzo di un orinatoio a cielo aperto. Tappandomi il naso e socchiudendo le palpebre, chissà se per impermeabilizzarmi ancor di più, lo superai, scoprendo all’improvviso, dopo aver di nuovo aperto bene gli occhi, un ponte. Al di là del ponte sorgeva la città vecchia, modellata pietra su pietra sul dorso di una collina. Mi avviai, convinto che avrei potuto mangiar qualcosa da qualche parte e scrivere pensando al Maestro, da lui ispirato. Commosso salii sul ponte e vidi un cigno. Un cigno: mai visto un cigno camminare su un ponte, come un umano. Da dove era arrivato? Per lui quella roccia sospesa per aria che noi chiamiamo ponte non era un ponte. Ai cigni i ponti non servono. Qualsiasi essere umano che lo avesse osservato camminare, però, non avrebbe potuto fare a meno di scambiarlo per un proprio simile, soltanto più piccolo del normale, con un paio d’ali e di zampe in più, ma non così differenti dal proprio paio di braccia e di gambe. Anch’io lo umanizzai. Quando si fermava per riposarsi, però, ritornava un cigno. Guardai di nuovo il fiume e ne vidi un altro. Non era più un miracolo quel cigno sul ponte: era volato dal fiume e sembrava essersi perso. Nessuno in quel momento poté dirmi se era un gesto abituale o se davvero si fosse perso e quello fosse uno sbaglio di natura. Allora io pensai che quel cigno fosse il Maestro morto e subito rinato in quel goffo uccello maestoso. Quando cercai di avvicinarmi per parlargli, volò via, con le sue grandi ali piumate. Bestiario, I, 10 E-scatologia | Mattia Cavagna Prendendo l’aperitivo con Jean-Michel mi resi conto che per lui l’escatologia è una specie di scatologia elettronica, cioè l’atto di parlare di cacca e pipì su Internet. Forse è anche per questo che decisi di dedicare la mia ricerca allo sviluppo delle concezioni escatologiche del medioevo, dalla letteratura apocrifa alla letteratura visionaria, alla letteratura allegorica. E cominciai a leggere alcuni manoscritti latini e alcuni manoscritti francesi. Ma i manoscritti erano pieni di errori, perché i copisti, poveracci, erano molto stanchi. Allora ho cominciato a confrontarli, parola per parola, per capire chi aveva copiato da chi e poter scegliere così il manoscritto migliore, quello di cui mi potevo fidare. Adesso ho trent’anni e il mio libro sull’escatologia medievale non è ancora finito. Ma lo sarà presto. Nel frattempo insegno all’università, un corso di letteratura francese medievale. “Ma a che cosa serve ?” Mi chiede Jean-Michel, che cammina alla mia destra, con aria un po’ ingenua. “Ma a che cosa serve ?” insiste Claire, che cammina alla mia sinistra, e il suo tono è assai più provocante. Stiamo attraversando la Senna, sul Pont-au-change, verso l’Ile de la Cité, e io comincio a innervosirmi, perché questo argomento l’ho già affrontato più di cinquecento volte. E ricomincio con la solita apologia delle arti liberali, della letteratura, della musica, della filologia, le arti che rendono l’uomo libero e non lo rendono servo. “Quindi non servono a nulla e soprattutto a nessuno ! Non servono come non serve sognare, come non serve leggere un romanzo, come non serve imparare una canzone a memoria. Come non serve sapere cosa significa ‘ciao’ o ‘signore’ o ‘onorevole’. Come non serve conoscere il nostro passato, per poter capire un po’ del nostro presente. Come non serve mantenere viva la nostra memoria, che tanto non serve più, tanto c’è google”. Mi affanno perché non riesco ad esprimere quello che vorrei. Sono cose di cui si parlava spesso, quando ero studente, quando ho cominciato ad alimentare questa incomprensibile passione per i manoscritti medievali. Trascrivere. Analizzare le varianti. Ma allora si trattava solo di un esercizio, per ottenere un diploma. Laurea, master, dottorato. Adesso è tutto diverso. Gli studi sono finiti e sono pagato dalla società per insegnare e per fare ricerca. E adesso il qualunquismo di chi giudica inutile quello che faccio diventa più aggressivo e violento. Continuiamo a camminare in silenzio e penso quanto vorrei che Marco, Filippo e Valerio fossero qui al mio fianco. Ci siamo riuniti da poco a Bologna, in un’occasione poco felice: il funerale del nostro vecchio professore, del nostro maestro. Con un gesto rapido mi sfioro la coda dell’occhio e rispedisco al mittente una lacrima che vorrebbe manifestarsi in un momento poco opportuno. I miei due compagni hanno l’aria perplessa, vedo i loro sguardi che si incrociano e noto una punta di sarcasmo. Cerco di darmi un contegno, tiro un lungo sospiro, a pieni polmoni, e all’improvviso mi giunge alle narici un forte odore di urina, acre, dolciastro, penetrante, tanto forte che mi fa pensare a un risotto con gli asparagi. Eppure questa volta lo accolgo con piacere, quasi con sollievo, chiudo gli occhi e sorrido, impercettibilmente. E-scatologia? google? cacca e pipì? Riapro gli occhi ed ecco che un’ombra gigantesca si riflette sull’asfalto e avvolge le nostre tre sagome. Loro due alzano lo sguardo e rimangono agghiacciati, Claire lancia un grido ed entrambi si piegano sulle ginocchia, coprendosi il volto con le mani. “E’ un grifone – spiego senza scompormi – è una specie di incrocio tra un’aquila e un leone e si nutre assai volentieri di esseri umani”. Non ho finito la frase che il mostro plana su di noi in picchiata, aprendo gli artigli. Istintivamente mi abbasso anch’io, piegando le ginocchia, ma lui ha già afferrato i miei due compagni, Jean-Michel e Claire, e sta già volando via, verso il tramonto, scomparendo in un’immensa voragine oscura. Bestiario VI, 10, Civetteria | Johnson & co. La biblioteca chiude alle nove stasera e mi restano ancora un paio di cose da fare, non ho voglia di passare in studio dopo, per finire: é meglio che mi sbrighi, allora prendo il portafoglio e chiedo alla ragazza riccia e agghindata, seduta a qualche seggiola da me, di dare un’occhiata alla mia roba cinque minuti, se non le dispiace. Lei dice sì, tranquillo, sono qui. Siamo solo io e lei, qui, nella sala di lettura. Allora dico grazie, mi metto la giacca e mi infilo in ascensore, piano terra, vado in bagno. Di fianco a me urina un ventenne enorme. Mi sciacquo le mani ed esco dalla biblioteca, fuori nevica da tre giorni, si vive sottoterra. Prendo il tunnel che porta al padiglione centrale, incrocio una amica che mi invita domani sera ad una cena, penso di sì, te lo confermo domattina, devo assolutamente finire una cosa entro domani, la saluto e proseguo il corridoio fino al padiglione C, prendo le scale fino al terzo, salgo in dipartimento al café e compro un’insalata e un succo di mela. Il café di Antropologia é praticamente vuoto il venerdì sera, il dipartimento é vuoto, solo in qualche studio la luce é accesa. Mangerò dopo mi dico, scendo le scale e mi sono dimenticato di prendere il caffè porca miseria, dimenticarsi il caffè al café, sono un idiota, allora cerco affranto una macchinetta automatica, depongo le mie monetine e torno sorseggiando questa brodaglia adagio in biblioteca. Mi fermo al piano terra ancora, nella saletta informatica non c’é quasi nessuno, ne approfitto per sbirciare in fretta le mail : Tommaso mi scrive che domani prende il biglietto, arriva ad ottobre e si ferma due settimane prima di andare a trovare la zia a Chicago. Rispondo « ottimo, ti aspetto », Giulia mi chiede se mi ricordo quello che le avevo detto al telefono, se glielo ridico, Phil ci chiede se domenica pomeriggio va bene per vedersi con gli altri « per me va bene, quando vuoi». Altre mail nemmeno le apro, rispondo ai ragazzi che mi chiedono ma quanto ci metti, quando finisci, sbrigati che consegnamo : « me ne manca una, l’ultima, questo fine settimana ve la mando, al massimo domenica sera ve la mando. Promesso, vi bacio in bocca ». Chiudo la mail. Salgo con l’ascensore e ritorno in sala di lettura, la riccia non c’é, magari é in bagno penso, ma mentre mi avvicino, sul tavolo non ci sono più nemmeno le sue cose, devo essere stato via più di cinque minuti penso. Mi rimetto a leggere, volto la pagina e c’é un bigliettino con scritto « ti ho preso un libro » un numero di telefono e un nome. Penso « ma pensa ! », ci penserò più tardi, quando torno a casa la chiamo. D’accordo. Ci penso più tardi. Vorrei pensarci più tardi, invece dietro di me qualcuno bisbiglia « pssssssssssssssss … ehi… pssssssss » mi volto e c’é una civetta, surrogato vezzoso di Minerva, epifenomeno distratto che mi distrae, appollaiata – con mio sommo sbigottimento – sullo scaffale accanto a “Entre Paradis et Enfer. Mourir au Moyen Âge”. « Ti ha fregato un libro, quella ! », afferma ruotando il capo di almeno 90°. La guardo perplesso dico « ma dai ?! ». « Sì » io» annuisce civettuola, sbattendo le ciglia « l’ho vista « E tu cosa hai fatto ? », proseguo incuriosito. « Vieni, te lo mostro » Non le dico del biglietto, mi alzo, la seguo, lei svolazzando mi guida verso le toilettes delle signore, e come recitando redarguisce me e gli assenti : «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità. » Si posa un istante sullo stipite, aspetta che la raggiunga e « entriamo » dice, facendo così con la testa, « é qui dentro » e mi indica una delle tre porte blu, io mi chino per verificare ma non vedo i piedi di nessuno, allora spingo la porta : lei é rannicchiata in un angolo, ha un occhio pesto e i capelli arruffati davanti alla faccia, é imbavagliata e legata mani e piedi, ha perso i sensi. Mi volto verso la civetta, le dico « ma sei scema ? e chi ti ha aiutato ? » chiedo, alludendo forse a mitologici comprimari, che magari sono ancora nei paraggi. Lei non risponde, dice « ho visto che ti ha fregato il libro, non si fa così! » « Certo, se me l’avesse rubato, disgraziata, invece mi ha lasciato un bigliettino, con un numero di telefono e un nome… » « Ma sicuramente sono falsi » spiega la civetta « e comunque non l’avevo visto, il biglietto ». « Diffidente… violenta e diffidente » « Allora controlla » « Certo che controllo » dico, e mi chino sulla ragazza, la scuoto per farla rinvenire, pronuncio il suo nome una due volte, lei apre gli occhi caccia un gridolino, cerco di calmarla e lei si mette a piangere « No no non é il mio vero nome – dice tirando su con il naso – ma il numero é giusto ». Siamo solo io e lei, nel bagno delle signore, lei non é messa tanto bene, la slego, l’aiuto ad alzarsi, si lava la faccia senza fare domande, le offro un po’ di succo di mela, scendiamo di sotto, verso il metro. L’accompagno a casa.