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Dall'icona all'arte astratta
di diego gulizia
Noi occidentali ci siamo così tanto allontanati dalla condizione spirituale all'interno della quale nasce l'icona, che tentare di spiegarla sarà alquanto difficile se non addirittura impossibile. Io non so quale sarà il contenuto della relazione del nostro caro ospite, Prof. Barbas dell'Università di Salonicco (Grecia), sperò, comunque, che i nostri interventi non si sovrappongano e, meglio ancora, non si contraddicano a vicenda. Isaia
Certamente il nostro ospite tratterà l'argomento con molta conoscenza e competenza, avendone il completo dominio, mentre il sottoscritto si limiterà a presentare brevemente l'argomento e a trattarlo all'interno della cornice dell'arte occidentale. In questi pochi giorni in cui mi sono avvicinato allo studio delle icone, ho potuto capire, comunque, che è un mondo tanto meraviglioso e affascinante, quanto a volte impenetrabile, per noi che ormai siamo avvezzi alla lettura delle immagini attraverso lo studio dei linguaggi visivi. Pentecoste
La densità spirituale, che l'apparente staticità ieratica ci comunica, non sempre è decodificabile, lontani come siamo dallo stato d'animo colmo di spiritualità che necessita la realizzazione di un'icona. Tenterò, comunque, dopo una breve dissertazione sulla nascita della pittura iconografica, di spiegare perché noi abbiamo intrapreso un'altra strada e abbiamo abbandonato, anche nell'arte sacra, le icone. L'immagine di Cristo, riprodotta nelle icone, la si fa risalire ad una vicenda narrata dal Vangelo apocrifo di Nicodemo. la Santissima Trinità
Madonna con Gesù bambino
Abgar V "Il Nero", principe cristiano di Edessa, antica città del settentrione anatolico‐mesopotamico (Assiria), attuale cittadina nel territorio di Şanlıurfa in Turchia, ammalatosi di lebbra e avendo sentito parlare di Gesù e della sua capacità di guarire le persone, mandò un messo per andarlo a chiamare, sperando che la sua venuta lo potesse guarire. Gesù all'invito rispose che non poteva andare in quanto era impegnato a compiere le opere per le quali era stato mandato. Promise, comunque, al messo del principe che dopo essere salito in cielo avrebbe mandato un suo discepolo a guarire il suo principe dalla lebbra offrendogli la vita eterna. Dopo essere risorto, Gesù, ricordatosi della promessa fatta al messo di Abgar, inviò l'apostolo Taddeo nella regione del principe. Questi, dopo avere convertito numerosi sudditi, chiese ad un pittore di dipingere il volto di Cristo. Quando fu chiaro che l'artista non sarebbe stato in grado di portare a buon fine il suo compito, Gesù stesso apparve a Taddeo e, asciugandosi il volto, impresse la sua effigie sulla tela (mandylion). Questa fu portata da Taddeo ad Abgar il quale guarì. Poiché venne ritenuta da allora in poi una immagine miracolosa si dice che il principe fece fissare l'immagine sopra una tavola ornata d'oro. Questa immagine di Cristo, detta acheropita e cioè non dipinta da mano umana, la ritroviamo nel VI secolo menzionata dal vescovo Addai di Edessa e dal cronista Evagrio, suo contemporaneo. La ritroviamo al posto del labaro in mano al basileus Eraclio quando salutò e benedisse il popolo cittadino radunato nella piazza antistante la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli all'interno della quale quel lunedì di Pasqua del 5 aprile del 622 aveva assistito alle solenni cerimonie religiose prima di partire per la guerra contro i Persiani. Madonna dei martiri
Il mandylion venne a lungo venerato nella città di Edessa dove lo ritroviamo ancora alla fine del VIII secolo e dove fu venerato durante lo svolgimento del secondo Concilio di Nicea (787) da Leone, lettore nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli. Il 16 agosto del 944, alla morte dell'Imperatore Romano I Lecapeno, l'immagine venne trasportata solennemente a Costantinopoli dal basileus Costantino VII Porfirogenito e fu collocata ed esposta per la venerazione dei fedeli nella chiesa della Panaghia di Faros sino al 1204, anno in cui ad opera dei soldati della quarta crociata, la città venne messa ferro a fuoco e il mandylion scomparve. Madonna Odigitria
Come dice Trubeckoj "questa immagine (il mandylion) è prima di tutto lo stesso Verbo incarnato che si fa vedere nel tempio del suo corpo (Gv 2,21). Così, con l'incarnazione del Verbo, la legge mosaica che proibiva le immagini (Es. 20,4) perde il suo significato, e le icone di Cristo divengono pertanto testimonianze irrefutabili dell'incarnazione divina". Per la tradizione ortodossa anche le immagini della Vergine risalgono all'epoca apostolica e in particolar modo a tre dipinti che l'Evangelista Luca avrebbe fatto della Madre di Dio (Theotokos) come Eleusa (della Tenerezza), come Odighitria (di colei che indica la Via) e come Deisis (della Intercessione). Donadoni, storico dell'arte egizia, ritiene che l'icona sia legata ai dipinti di El‐
Fayyum. Mentre il grande teologo russo Florenskij afferma che tra le icone e l'arte egizia vi è una profonda connessione, ipotizzando che le icone e la tecnica con cui esse venivano realizzate traessero la loro origine dalla pittura egizia. Mandylion
Il legame lo si fa risalire alla tradizione di collocare, in corrispondenza del viso delle mummie egiziane, delle tavolette sulle quali veniva raffigurato il viso del morto in posizione frontale, con gli occhi sgranati. Due di queste tavolette si trovano al museo Benaki di Atene e rappresentano due cristiani, riconoscibili dai segni e dalle espressioni, uno dei quali in posa identica alle donne martiri cristiane, risalenti al III e IV‐V secolo dC. Natività
I primi cristiani della terra del Nilo, infatti, usavano collocare delle tavolette, simili a quelle rinvenute nel deserto di El‐Fayyum nel Basso Egitto, nelle tombe dei martiri e degli asceti, e in seguito tali sepolture divennero luoghi di culto. Per questo motivo, come rileva sempre Florenskij, "l'icona culturalmente e storicamente ereditò la funzione della maschera rituale, elevando al massimo grado questa funzione: quello di mostrare l'eterno riposo e quella di deificare lo spirito del defunto. E avendo ereditato questa funzione, l'icona insieme a essa adottò anche la tecnica particolare caratteristica della preparazione della maschera sacra e i fenomeni culturali connessi, e perciò anche il patrimonio di una millenaria rielaborazione dei metodi artistici. Quindi, vi è storicamente una connessione assai stretta fra l'icona e l'Egitto; qui, infatti, sorse l'icona originaria, e qui sorsero anche le forme di base della pittura delle icone." La differenza consiste nell'uso dei colori, in quanto le pitture funerarie egiziane sono opache, mentre le icone cristiane hanno una gamma cromatica ampia e brillante, con il viso del defunto avvolto dalla luce. Pantocrator
La spiritualità del Cristianesimo Orientale considera le icone come se fossero un riflesso del mondo celeste che si rende visibile all'uomo sulla terra. Il pittore di icone non è mai un artista qualsiasi, ma un iniziato ai diversi gradi dell'ascesi, il quale, conducendo una vita interiore di tipo monastico, ha raggiunto la hesychia – la tranquillità dello spirito – cioè quella condizione interiore vissuta dall'anima, che, immersa nella luce della Trinità, non solo riceve l'illuminazione divina, ma, anche, non prova più alcun turbamento prodotto dall'immaginazione. Mandylion
Vergine della tenerezza
Dipingere un'icona significa dunque pregare, e infatti i monaci che praticano tale arte, mentre dipingono, si coprono il capo con un velo, come durante la preghiera liturgica, proprio perché, come rileva Clement, "le icone, oltre a scandire con ritualità i vari momenti della vita monastica, sono soprattutto preghiera, anzi contemplazione della luce divina". L'icona, come abbiamo detto, non è un ritratto, non è la riproduzione dei tratti fisiognomici della figura rappresentata, essa è "un riflesso del mondo celeste che si rende visibile all'uomo sulla terra", attraverso il lavoro di un uomo che non partecipa alla creazione dell'opera con una propria visione personale, ma che immerso nella luce della Trinità riceve l'illuminazione divina, riproponendo una immagine quasi acheropita, come quella di Cristo impressa nel telo con cui Taddeo guarì Abgar. L'icona è preghiera visiva, non biblia pauperum, come è stata, invece, l'immagine per la chiesa di Roma. Essa appartiene alla stessa sostanza della parola, del verbo, non è la traduzione visiva di un concetto verbale. Per cui, possiamo dire, conoscendo la storia dell'arte che dalla scuola romana di Pietro Cavallini arriva fino a noi, attraverso Giotto, Masaccio e tutti gli altri, che l'arte italiana nasce dall'abbandono della pittura iconografica, in quanto il valore sacrale che in essa è presente, impedisce all'artista di esprimere se stesso e la propria concezione del mondo, che è, invece, conditio sine qua non, per l'esistenza dell'arte occidentale. Volto di Cristo
In effetti, allontanandosi dall'icona, l'artista nel Rinascimento prima scopre le leggi della visione, costruisce i metodi per ottenere la riproduzione sul piano della realtà visibile e si avvale della mediazione della realtà riprodotta per esprimere se stesso e i contenuti del proprio mondo interiore. In seguito, con l'Astrattismo, abbandona anche la stessa realtà, la sua riproduzione e la sua mediazione, per esprimere sempre se stesso e il proprio mondo interiore con le forme pure del linguaggio visivo, abbandonando, cioè, anche la stessa rappresentazione figurativa della realtà.