Scarica un estratto del libro
Transcript
Scarica un estratto del libro
Omero 18 Lydie Salvayre Non piangere Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala Titolo originale: Pas pleurer © Éditions du Seuil, 2014 © 2016 L’Asino d’oro edizioni s.r.l. Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma www.lasinodoroedizioni.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6443-354-7 ISBN ePub 978-88-6443-355-4 ISBN pdf 978-88-6443-356-1 Copertina di Massimo Fagioli Avvertenza delle traduttrici Nell’originale, a caratterizzare la tipicità della parlata di Montse – la protagonista, madre dell’io narrante –, concorrono almeno due elementi. Accanto ai termini presi di peso dallo spagnolo, vi è la declinazione secondo la grammatica francese di alcune parole spagnole o l’uso improprio di espressioni idiomatiche francesi. Nell’atto di tradurre si è cercato di lavorare allo stesso modo con l’italiano, ma anche di riprodurre – per quanto possibile, nel gioco delle equivalenze e delle compensazioni inevitabile in traduzione – le caratteristiche stilistiche più ardite (spesso ai limiti della riconoscibilità) dell’impasto linguistico che l’autrice ha scelto per i dialoghi per ragioni squisitamente musicali, oltre che sentimentali; del resto, al ‘fragnol’ di Montse, al suo ritmo, alle sue valenze politiche, oltre che affettive e intertestuali, la critica ha prestato molta attenzione, sottolineandone la rilevanza drammaturgica. Proprio questo tessuto di valori testuali si è cercato di rispettare, nella speranza di aver aggirato il più possibile l’insidia dell’esotismo che spesso svilisce questi arditi esperimenti linguistici e stilistici. 5 Dal punto di vista grafico si è ritenuto essenziale rispettare la scelta autoriale di omettere i segni diacritici che di norma individuano le battute di dialogo. Infine, per tutte le citazioni tratte da I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos che ricorrono nel romanzo, si è utilizzata l’unica traduzione italiana esistente, quella di Giacinto Spagnoletti, risalente al 1953 (Mondadori, Milano 1992). Nella maggior parte dei casi la si è riportata fedelmente, con poche eccezioni dovute a variazioni introdotte dall’autrice o a rari, taciti, emendamenti. 6 ¿De qué temes, cobarde criatura? ¿De qué lloras, corazón de mantequillas? Cervantes, Don Quijote (II, 29) NON PIANGERE PARTE PRIMA Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’illustrissimo monsignor vescovo-arcivescovo di Palma di Maiorca, con un gesto della veneranda mano su cui brilla l’anello pastorale, indica ai carnefici il petto dei poveri ‘cattivi’. Ce lo dice Georges Bernanos. Ce lo dice un fervente cattolico. Spagna, 1936. La guerra civile sta per scoppiare, e mia madre è una povera cattiva. Una povera cattiva è una povera che non tiene la bocca chiusa. Il 18 luglio 1936 mia madre apre bocca per la prima volta. Ha quindici anni. Abita in un paesino sperduto in cui, da secoli, un pugno di latifondisti costringe tante famiglie come la sua a vivere nella miseria più nera. Nello stesso momento, a Madrid, il figlio di Georges Bernanos, indossata l’uniforme azzurra della Falange, si accinge ad andare a combattere sulle barricate. Per alcune settimane Bernanos resta dell’idea che l’arruolamento volontario del figlio nelle file nazionaliste sia fondato e legittimo. Le sue simpatie sono note a tutti. Ha militato nell’Action française. Ammira Drumont. Si dichiara monarchico, cattolico e cu- 13 stode delle antiche tradizioni francesi, oltre che intellettualmente più vicino all’aristocrazia operaia che non all’odiata ricca borghesia. Pur trovandosi in Spagna quando scoppia la rivolta dei generali contro la Repubblica, non si rende immediatamente conto dell’entità del disastro. Ma ben presto deve arrendersi all’evidenza. Vede i nazionalisti procedere all’epurazione sistematica di tutti i sospetti, con il beneplacito degli alti prelati che, fra un assassinio e l’altro, concedono loro l’assoluzione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ormai la Chiesa spagnola è diventata la Puttana dei militari epuratori. Nauseato, Bernanos assiste impotente all’infame connivenza. Poi, con un grande sforzo di lucidità che lo costringe a rinnegare le convinzioni di un tempo, decide di mettersi a raccontare la straziante realtà di cui è testimone. È uno dei pochi, nel suo schieramento, ad avere il coraggio di farlo. a mis soledades voy, de mis soledades vengo. Il 18 luglio 1936 mia madre, accompagnata da mia nonna, si presenta al cospetto dei señores Burgos che, avendo cacciato di casa la loro domestica perché puzzava di cipolla, ne stanno cercando una nuova. Al momento del verdetto, don Jaime Burgos Obregón si gira verso la moglie con un’espressione soddisfatta e, dopo aver squadrato mia madre da capo a piedi, sentenzia con un’arroganza che lei non ha più dimenticato: Ha un’aria davvero umile. Mia nonna lo ringrazia come se le avesse appena fatto un complimento, io 14 invece, mi dice mia madre, non ci vedo più dalla rabbia, la prendo come una offesa, come una patada al culo, figlia mia, una patada al culo che mi fa fare un soprassalto di dieci metri, che mi rivolta il cervello che dormiva da più di quindici anni e mi facilita di capire (io: mi aiuta a capire), mi aiuta a capire il senso delle palabre che dice sempre mio fratello da quando è tornato da Lérima. E così, quando scendiamo in strada, mi metto a gritare. Ha un’aria davvero umile, lo capisci che cosa vuol dire? Bassa la voce, per l’amor del cielo, implora mia madre che è una donna docile. Vuol dire, avevo il sangue agli occhi figlia mia, vuol dire che sarò una serva stupida e obbediente! Vuol dire che accetterò tutti gli ordini di doña Sol senza protestare e che le laverò il culo senza protestare! Vuol dire che offro tutte le garanzie di una perfecta idiota, che non dirò né chus né mus davanti a niente di niente e non causerò mai nessuna molestia di nessunissimo tipo! Vuol dire che don Jaime mi pagherà, com’è che dici tu?, quattro soldi, e io dovrò pure dirgli muchísimas gracias con quell’aria così umile che mi dona tanto. Signore Gesù, mormora mia madre allarmata, bassa la voce, così ti sentiranno tutti. Io allora grito ancora più forte: Non me ne frega niente se mi sentono, non voglio fare la sguattera dai Burgos, meglio andare in città a fare la puttana! Per l’amor del cielo, mi supplica mia madre, non dire barbarità. Non ci hanno fatto neanche sedere, le dico indignata, non ci hanno dato la mano, all’improvviso mi recuerdo (io: mi ricordo), all’improvviso mi ricordo che ho un voltadito e che ho il pollice bendato, sì, va bene, un giradito, però non correggermi sempre, altrimenti non ce la farò mai. Allora mia madre per cercare di apacigarmi mi ricorda con voce sussurrata i 15 tanti vantaggi che mi esperano se verrò assunta: terrò vitto, alloggio e vestiti sempre puliti, terrò la domenica libera per andare a bailare la jota sulla piazza della chiesa, mi daranno il mio bel salario e il mio bel premio a fine anno, così potrò farmi il corredo e magari mettere da parte qualcosa. Davanti a quelle palabre esclamo: Meglio morta! Dios mío, sospira mia madre lanciando mirade angustiate sulle due file di case che affiancano la stradina. Allora mi metto a correre come una loca verso il granaio. Per fortuna il giorno dopo è scoppiata la guerra, e così non sono mai dovuta andare a fare la serva né dai Burgos né da nessun altro. La guerra, figlia mia, è cascata proprio a fagiano. Stasera mia madre guarda la televisione, e l’immagine di un uomo che si rivolge al presidente della Repubblica, vista di sfuggita sullo schermo, le ricorda all’improvviso l’entusiasmo di suo fratello José di ritorno da Lérima, quella sua impazienza giovanile e quell’ardore che lo rendevano così bello. Ed ecco che d’un tratto le torna in mente tutto, la frase di don Jaime Burgos Obregón, l’euforia del luglio del ’36, la scoperta entusiastica della città e il volto dell’uomo che ha amato alla follia e che io e mia sorella, fin da piccole, abbiamo sempre chiamato André Malraux. Mia madre si chiama Montserrat Monclus Arjona, un nome che sono felice di far rivivere e di strappare per un istante all’oblio al quale era destinato. Nella storia che mi accingo a raccontare non voglio introdurre, per ora, nessun personaggio inventato. Mia madre è mia madre, Bernanos è l’autore, così degno di stima, dei Grandi cimiteri sotto la luna e la Chiesa cattolica è l’infame istituzione che fu nel ’36. 16 fuente es mi vida en que mis obras beben Mia madre è nata il 14 marzo 1921. In famiglia la chiamano tutti Montse o Montsita. Ha novant’anni quando comincia a rievocare per me la sua giovinezza in quell’idioma misto e transpirenaico in cui è solita esprimersi dacché, più di settant’anni fa, è stata catapultata per puro caso in un paesino del sud-ovest della Francia. Mia madre era bella. Dicono che un tempo aveva quel particolarissimo portamento che le donne spagnole acquisivano a forza di reggere il cántaro in equilibrio sulla testa, un portamento che oggi hanno solo le ballerine. Dicono che incedeva diritta come una nave e flessuosa come una vela. Dicono che aveva un corpo da diva del cinema e che nello sguardo le si leggeva la bontà del cuore. Adesso è vecchia, ha il viso segnato dalle rughe, il corpo decrepito, l’andatura insicura e vacillante, eppure i suoi occhi sprizzano giovinezza, e al ricordo della Spagna del ’36 sono attraversati da un lampo di luce che non avevo mai visto prima. Soffre di disturbi della memoria e ha perso per sempre le tracce di tutti gli eventi che ha vissuto dalla guerra a oggi. Ma conserva assolutamente intatto il ricordo di quell’estate del ’36 in cui accadde l’impensabile, di quell’estate durante la quale, dice, capì cosa significava vivere, e che fu senza dubbio l’unica avventura di tutta la sua esistenza. A volte mi capita di pensare che, in fondo, è come se per mia madre niente di quello che lei stessa, negli ultimi settantacinque anni, ha considerato reale sia realmente esistito. 17 Stasera la ascolto per l’ennesima volta frugare tra le ceneri della giovinezza perduta e vedo il suo viso animarsi, come se tutta la sua voglia di vivere si fosse concentrata in quei pochi giorni dell’estate del ’36, in quella grande città spagnola, come se per lei il corso del tempo si fosse fermato in calle San Martín, il 13 agosto 1936 alle otto del mattino. La ascolto sciorinare i suoi ricordi e intanto leggo I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos che mi offrono un quadro più completo e più cupo di quello stesso periodo. Cerco di decifrare le ragioni del turbamento che questi due racconti suscitano in me, un turbamento che temo possa condurmi dove non avevo nessuna intenzione di andare. Per essere più precisa, è come se dentro di me si fosse aperta una diga di cui ignoravo l’esistenza e da cui ora, a mano a mano che la rievocazione procede, tracimano sentimenti contraddittori e, francamente, piuttosto confusi. Mentre il racconto di mia madre sull’esperienza libertaria del ’36 mi suscita nell’animo una sorta di meraviglia, di gioia infantile, le atrocità descritte da Bernanos, ritrovatosi faccia a faccia con la notte degli uomini, con il loro odio e con la loro furia, contribuiscono ad accrescere il mio timore che prima o poi a qualche stronzo venga in mente di riproporre certe idee malsane che credevo sopite ormai da molto tempo. Quando all’età di quindici anni mia madre, accompagnata da mia nonna, va a proporsi per il posto di domestica, doña Pura, la sorella del succitato don Jaime Burgos Obregón, seduta tutta impettita sul bordo di una sedia dall’alto schienale di cuoio, sta leggendo esaltata l’editoriale della prima pagina dell’“Acción Española”, il suo giornale preferito: «Finalmen18 te un giovane generale ha preso il comando della Grande Spagna, che rischiava di sprofondare nella democrazia e nel socialismo, ed è intenzionato ad arginare l’invasione bolscevica. Rispondendo all’appello di questo straordinario trascinatore di folle, altri generali si sono radunati senza esitare intorno a lui, e le coalizioni nazionaliste si sono risvegliate dal loro lungo letargo. Ma riusciranno la ragione, l’intelletto, l’amor patrio e l’eroismo ad avere la meglio sui bassi istinti e sugli appetiti bestiali che il governo di Mosca ha fatto salire al potere, nella speranza di avvelenare così tutta l’Europa mediterranea?». La domanda con cui si conclude l’articolo getta doña Pura in uno stato d’angoscia tale da causarle un repentino attacco di palpitazioni. Doña Pura è soggetta spesso a questo tipo di attacchi. E sebbene il medico le abbia raccomandato di evitare le contrarietà che glieli scatenano, i suoi sentimenti patriottici le impongono di leggere regolarmente il giornale dei nazionalisti. È mio dovere, dottore, dice con un filo di voce. Doña Pura trascorre i giorni seguenti in preda al terrore di vedere la sua casa saccheggiata, le terre espropriate e il patrimonio distrutto da José, il fratello di Montse, e dalla sua banda di ladri. Tanto più che Maruca, la moglie del droghiere, le ha confidato in un orecchio che gli anarchici, durante le loro scorrerie, compiono sanguinose rapine, sventrano le monache dopo averle violentate e profanano i conventi con orribili sozzure. Da allora doña Pura si immagina che facciano irruzione in camera sua, strappino dalla parete il crocifisso d’avorio che veglia sul suo letto immacolato, trafughino lo scrigno decorato a smalto in cui custodisce le sue gioie e si abbandonino, Signore Gesù, a efferatezze indicibili. Ciononostante, doña 19 Pura continua a salutare i genitori di quelle teste calde ogni volta che li incontra. Ha davvero un gran cuore! Ma non appena cala la sera, si china sull’inginocchiatoio e implora il Cielo di proteggere tutti i suoi cari da quei selvaggi che non hanno rispetto di niente e di nessuno. Crepino! Non ha ancora finito di pronunciare quella parola che già arrossisce per la vergogna di aver espresso un desiderio simile. L’avrà sentita il buon Dio, che a quanto dicono è dotato di un udito soprannaturale? Domani andrà a confessarsi da don Miguel (il parroco del paese, che ancora non ha tagliato la corda), e lui le prescriverà tre Ave Maria e un Padre nostro, il cui effetto benefico sulla sua coscienza è quasi più immediato di quello di una compressa di aspirina. È risaputo che all’epoca, qualunque fosse il crimine commesso da un cattolico ai danni di un rosso, con armi bianche, armi da fuoco, manganelli o spranghe, se il cattolico in questione faceva atto di pentimento prima della preghiera serale si ritrovava all’istante senza macchia né colpa: evidentemente, in Spagna, le deroghe celesti avevano del miracoloso. Doña Pura riprende la sua invocazione e adesso prega la santissima Vergine Maria perché ponga fine all’ardire di quegli sfrontati che offendono a morte il buon Dio. Doña Pura è convinta che attentare ai suoi beni equivalga a offendere a morte il buon Dio. Nessuno meglio di lei sa cosa offende a morte il buon Dio. Appartiene, infatti, a quel gruppo di persone che, in paese, con un’eloquente abbreviazione, vengono chiamate fachas. Facha è una parola che, pronunciata con la ch spagnola, fa lo stesso identico effetto di uno sputo. 20 I fachas in paese sono una minoranza e sono tutti convinti che: l’unico rosso buono è un rosso morto. Mio zio José, il fratello di Montse, è un rosso, anzi per la precisione un rosso-nero. Da quando la sorella gli ha raccontato della visita in casa dei Burgos, non riesce a tenere a freno la rabbia. Nessun rosso, nel ’36, riesce a tenere a freno la rabbia. E meno che mai ci riescono i rosso-neri. José è convinto che sua sorella sia stata offesa. La Spagna del ’36 pullula di gente offesa. Ha un’aria davvero umile! Ha un’aria davvero umile! Ma chi si crede di essere quel cabrón! Se ne pentirà amaramente quel sinvergüenza! Gliela faremo rimangiare la sua schifosa frase del cazzo! Gli tapperemo la bocca, a quel burgués! Da quando è tornato da Lérima, José non è più lo stesso. Ha negli occhi il riflesso di visioni inaudite, ineffabili, e sulle labbra parole che provengono da un altro mondo e che fanno dire a sua madre Questo non è mio figlio. Ogni anno, fra la raccolta delle mandorle a maggio e quella delle nocciole a settembre, José va a tagliare il fieno come lavoratore stagionale in una grossa proprietà nei dintorni di Lérima, facendo una fatica che va ben oltre le sue forze e percependo in cambio una paga irrisoria che lui, però, è fiero di regalare ai genitori. Da quando aveva quattordici anni, consuma le sue giornate nei campi, lavorando dall’alba al tramonto. La sua vita è 21 questa. E non ha mai immaginato neppure per un attimo di metterla in discussione, né ha mai immaginato neppure per un attimo che sia possibile vivere in un altro modo. Ma quell’anno, quando arriva a Lérima insieme a Juan, trova una città scossa dalle fondamenta, trova princìpi morali stravolti, terre collettivizzate, chiese trasformate in cooperative, bar che riecheggiano di slogan, e su ogni viso legge un’allegria, un ardore, un entusiasmo che non dimenticherà mai. Scopre allora parole nuove e audaci che conquistano il suo giovane animo. Parole immense, altisonanti, incandescenti, sublimi, le parole di un mondo che sta per nascere: libertà, rivoluzione, fratellanza, collettività, parole che pronunciate in spagnolo, con l’accento sull’ultima sillaba, ti arrivano dritte in faccia come pugni. E ne resta incantato come un bambino. Gli vengono in mente cose a cui non aveva mai pensato prima. Cose spropositate. Impara ad alzare il pugno e a cantare in coro Hijos del Pueblo. Grida insieme agli altri Abbasso l’oppressione, Viva la libertà. Grida A morte la morte. Si sente vivo. Si sente migliore. Si sente al passo con i tempi e ha il cuore in tumulto. D’un tratto capisce che cosa significa essere giovani. Non lo sapeva. Si dice che avrebbe potuto morire senza saperlo. E si rende conto di quanto sia stata grigia la sua vita, fino a quel momento, e miseri i suoi desideri. 22 In quell’impetuoso soffio nero percepisce qualcosa che, non avendo a disposizione un’altra parola, chiama poesia. Torna in paese con la bocca piena di frasi ampollose e con un fazzoletto rosso e nero intorno al collo. Con un’eloquenza febbrile dice al suo uditorio (composto, per il momento, solo dalla madre e dalla sorella) che a Lérima ha visto sorgere l’alba di un giorno luminoso (José ha una naturale predisposizione al lirismo), che la Spagna è diventata finalmente spagnola e lui spagnolissimo. Quasi tremando, dice che bisogna sbarazzarsi del vecchio ordine che perpetua la servitù e umilia gli uomini, dice che la rivoluzione ha iniziato a farsi strada nei cuori e nelle menti e che un domani si estenderà a tutto il paese e poi a tutto l’universo. Dice che presto non sarà più il denaro a decidere le sorti del mondo e a fare la differenza tra gli uomini, e che un giorno Il mare saprà di anisetta, dice la madre irritata. e che un giorno non ci saranno più ingiustizie, né gerarchie, né sfruttamento, né povertà, le ricchezze verranno messe in comune e tutti E tutti andranno in vacanza col papa, taglia corto la madre sempre più esasperata. e tutti quelli che tengono la bocca chiusa da quando sono nati, quelli che prendono in affitto la terra da quel cabrón di don Jaime, che ce l’ha tutta lui, quelli che lavano il culo a sua moglie e le lucidano le pento Dio ti perdoni! esclama la madre che ormai ne ha fin sopra i capelli. si ribelleranno, combatteranno, si affrancheranno da ogni forma di schiavitù e do 23 Te la do io la schiavitù! sbotta la madre. Sono le sette, è meglio se vai a dar da mangiare alle galline. Ti ho preparato il secchio. Ma José è un fiume in piena, e le galline, impermeabili alle idee di Bakunin, dovranno aspettare ancora un po’ il loro pastone. Da quando è tornato da Lérima, José è un fiume in piena e passa senza soluzione di continuità dai momenti in cui sbraita e freme di rabbia (e allora non si contano i coño, gli joder, le puñeta e i me cago en Dios) a quelli di sublime esaltazione. La mattina tuona contro i ricchi cattivi, un pleonasmo, come dice lui (ha imparato il termine leggendo “Tierra y Libertad”), dato che tutti i ricchi sono cattivi: quale patrimonio, infatti, non è stato rubato? Impreca contro gli approfittatori amici di don Miguel, che ben presto sentirà spirare sotto le sottane il vento gelido della rivoluzione (gli viene da ridere al solo pensiero), contro quel ladrón di don Jaime Burgos Obregón e contro gli altri affamatori del popolo, e soprattutto contro il capo della ghenga nazionalista che si è autoproclamato capo della rivolta: il generale Francisco Franco Bahamonde, che José insulta a volte con un linguaggio piuttosto colorito (che qualcuno potrebbe definire volgare), dandogli del nanerottolo incula-preti, del bastardo, del marcio schifoso, del figlio di puttana, dell’assassino che se solo lo prendo lo appendo per i cosiddetti, altre volte invece in stile logico-politico-bakuniano, definendolo alleato oggettivo del capitalismo e nemico di classe del proletariato, il quale peraltro è due volte vittima: innanzitutto della diffidenza del governo repubblicano, in secondo luogo della repressione franchista. 24 Ma se, di mattina, il suo cuore è una polveriera pronta a esplodere, di sera José sogna a occhi aperti una realtà favolosa e promette alla sorella Montse un mondo in cui nessuno sarà mai più servo né proprietà di un altro, in cui nessuno alienerà mai ad altri quella parte di sovranità che è sua di diritto (frase presa in prestito da “Solidaridad Obrera”), un mondo giusto e bello, un paraíso, al solo pensiero ride per la felicità, un paradiso in terra in cui si potrà amare e lavorare liberamente e allegramente, in cui Non vedo, lo blocca Montse sforzandosi di non ridere, come potrei in pieno gennaio raccogliere le olive, liberamente e allegramente, con le dita gelate e la schiena a pezzi. Tu farnetichi, gli dice dall’alto dei suoi quindici anni. L’osservazione di Montse interrompe per un attimo la sfilza di mirabolanti promesse che José ha in programma di realizzare, ma poi lui riattacca con la stessa foga e lo stesso fervore. E in fondo in fondo Montse è felice di sentire suo fratello immaginare un futuro in cui nessun uomo sputerà addosso a un altro uomo, in cui negli occhi di nessuno si leggeranno più paura e vergogna, in cui le donne saranno uguali a Uguali per cattiveria? gli chiede Montse con un’aria maliziosa. Uguali per cattiveria e anche per tutto il resto, dice José. Montse sorride e in segreto approva con tutta sé stessa il modo che ha José di esprimere a parole concetti a cui fino ad allora nessuno aveva mai dato voce, spalancando così davanti a lei un mondo sconosciuto e vasto come una città. Le piace a tal punto ascoltare José che approfitta di ogni pretesto per stuzzicarlo. E allora lui diventa filosofo (fra tutti è questo il suo José preferito) e partorisce frasi sublimi 25 sull’arte dello spossessamento. Montse: l’arte di cosa? José: dello spossessamento. Montse: sarebbe a dire? José: sarebbe a dire che possedere un oggetto, una casa, un gioiello, un orologio, dei mobili di mogano, qué sé yo, significa diventarne schiavo, significa volerseli tenere a tutti i costi, significa aggiungere nuove forme di schiavitù a quelle alle quali non possiamo sottrarci. Nelle comuni che fonderemo, invece, tutto sarà nostro e niente ci apparterrà, comprendes? la terra sarà nostra, così come la luce e l’aria, ma non apparterrà a nessuno. José è elettrizzato. E alle porte delle case non ci saranno né catenacci né chiavistelli, non mi credi? Montse beve avidamente tutte quelle parole di cui arriva a capire poco o niente, ma che le fanno bene anche se non sa perché. La madre, esausta, spera che tutto quel farneticare tipico della giovinezza lasci presto il posto a quello che lei chiama: il senso della realtà, ossia, in altre parole, la vocazione alla rinuncia. Questo è il suo desiderio segreto. Questo è il desiderio segreto di tutte le madri, in paese. Le madri sono dei mostri. Faremo la rivoluzione e annienteremo i nazionalisti, si esalta José, Fuera los nacionales! Fuera! Fuera! A Palma di Maiorca, dove in quel periodo vive Bernanos, i nazionalisti hanno già cominciato a dare la caccia ai rossi, i quali però, su un’isola così tranquilla, militano in partiti moderati e non hanno partecipato in alcun modo al massacro del clero. Da quando è stata dichiarata la guerra santa, da quando gli aerei fascisti vengono benedetti dall’arcivescovo di Palma in abito talare, da quando la fornaia gli fa il saluto romano ogni volta che lo incontra, da quando il gestore del bar, rosso 26