note di agnese grieco
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note di agnese grieco
1 NOTE SU ADDÈLA OLE! UN’ALLEGRA IMPUBERTÀ SENZA STORIA 1. “ E tu accorri, eco d’un eco, dai nostri nidi vegetali anteriori alla prima barbarie, dove tu ed io siamo uno solo né uomo né donna, un’allegra impubertà senza storia, finché ci dividono, per chiamarci alla loro strage. Noi, stati al di qua della morte, siamo inferiori ai mortali, però serviamo al gioco dell’aldilà, che li esalta. Perché innocenti della rabbia che li ha legati alla ruota, noi custodiamo il segreto, che loro a sé vietano. Ridomandare la risposta e negarla in eterno è la loro scelta disperata. E come gli attori zingari a smascherare l’infamia della reggia usurpata noi siamo chiamati nel tempo a recitare il delitto. E io diviso da te, nello strappo sanguinoso della nascita. S’imbandiscono le cene funebri, si alzano le croci e le forche, si raccolgono le tribù. E il figlio ucciso e la madre straziata. Fino a che la pazienza capricciosa del destino non torni nella fossa del caso, a decifrarvi le lettere sotterrate, da ricomporre nel nostro unico nome e ci renda alle nostre prime stanze arboree altalene sospese di qua dalla corrente dove il mulino atroce di tutte le allucinazioni non è altro che il giro del nostro scherzo arioso. Noi siamo meno che umani, puri dal vizio della morte. (Elsa Morante, “La smania dello scandalo”) 2 Nel ripensare per la scena alcuni frammenti de La Storia, questa poesia mi ha accompagnato, cullato, anche “fatto paura” con le sue parole magiche e bellissime. E con i suoi pensieri. L’immagine di un mondo di impubertà prima del mondo, di cui forse tutti noi conserviamo, in qualche luogo dell’anima, qualcosa. L’immagine della barbarie della storia. Della caduta. Quella di una monade di figlio/madre, senza sesso entrambe le figure. E ancora l’immagine guida di creature meno che umane, “pure dal vizio della morte”, come specchio ai mortali, ciechi e rabbiosamente attaccati alla ruota del tempo. Elsa Morante ci costringe a guardare oltre i limiti del nostro sguardo. Cattura con le sue parole pensieri astrali, che d’altro canto sono così vicini a noi, familiari, come la nostra ombra. Nella poesia tratta da Il mondo salvato dai ragazzini, una delle opere morantiane più amate da Pier Paolo Pasolini, ritrovo quel nodo insolubile che mi pare innervare un testo come La Storia. Romanzo che è apparentemente e davvero cronaca precisa di fatti. Catalogo di voci, antropologicamente fondate, di avvenimenti. Quindi romanzo terreno. Con le parole ‘nodo insolubile’ alludo alla fusione unica e paradossale, tra due mondi opposti: una visione mistica dell’esistente, che in certa misura lo annulla, e la passione per la vita, per la realtà corporea e bella della vita. Passione nel senso di amore e di patimento. La Storia è narrazione di delitti, ossessivo catalogo di morti, ma anche inno resistente. A che? Alla vita. Alla poesia opposta alla storia. E l’una cosa rende grande e fiammeggiante l’altra. Come nel movimento continuo di un pendolo: “Io sono il punto amaro delle oscillazioni, fra le lune e le maree”, scrive la poetessa Elsa. Pochi scrittori sanno come Elsa Morante trasportare nella pagina una gioia bambina per la bellezza del mondo e al tempo stesso indicare senza vie d’uscita la vanità del tutto, l’assurdo e la barbarie. La colpa di vivere. È nella bellezza, di fondo molto più reale - più reale non più vera - della barbarie, che sta la possibilità di resistere alla colpa. Applicare questo paradosso alla storia del nostro secondo Novecento è stato lo scandalo di un libro “nazional popolare” e manzoniano come La Storia che al suo apparire negli Anni Settanta, è noto, suscitò non poche polemiche, si rivelò un grande successo di pubblico e non da ultimo un atto politico. Non semplice da interpretare. (A questo proposito: “Dimenticare è controrivoluzionario La frase non è di Elsa Morante, è stato Heiner Müller a scriverla negli Anni Ottanta. Il monito del drammaturgo tedesco, irregolare cittadino della DDR, mi è però più volte tornato alla mente mentre lavoravo al progetto Addèla Ole!. E la frase risuonava in tutta la sua ironica inattualità, da “secolo scorso”, novecentesca. Un’ironia racchiusa tutta in quell’aggettivo vagamente demodé: controrivoluzionario. Coltivare la memoria sarebbe quindi rivoluzionario?) 2. E il teatro. Appunto. Il teatro. Tornando alla poesia tratta da Il mondo salvato dai ragazzini: “Noi siamo meno che umani, puri dal vizio della morte”, scrive Morante. A chi possiamo riferire quel noi? La frase vale certo per gli attori - creature a cui per secoli si è, del resto, negata santa sepoltura - quando recitano. È la stessa Elsa Morante a suggerirlo: la 3 libertà degli “attori zingari” che possono smascherare l’infamia della storia, (la “reggia usurpata”), raccontarla in uno “scherzo arioso” che rispecchi il “mulino atroce di tutte le allucinazioni”. Quello della scena è sempre uno spazio salvato, lo spazio senza tempo, al margine della ruota del tempo. In Addèla Ole! l’attrice, Ida Marinelli, è chiamata a recitare/raccontare, ricordare, né viva, né morta, mai realistica, mai vera, ma reale sempre. Figura che diviene trasparente nel farsi attraversare da altre figure. Una voce che è voce di altri. Personaggio senza essere personaggio. Né donna, né uomo. E tutte due allo stesso tempo. Certo non si può “sceneggiare” La Storia. Piuttosto evocare alcuni frammenti, sedimentati nella memoria, frammenti che gettati come sassi in uno stagno provocano ulteriori onde, anelli in movimento, prima di dissolversi. Basta affidarsi alla forza della parola, alle alchimie del verbo. Ed ecco che nella sua camicia a fiori e nel piglio romanesco Nino/Ninnuzzo è un eroe greco, distruttore e gagliardo adolescente – Achille? Nel suo corpo sfiorito, e nell’anima sconsideratemente mite e buona, Ida Ramundo, ebrea, è una Madonna. Useppe, certo, il bambinello divino. La cagna Bella, un’Ideale di mamma, a mostrare, con sapienza da filosofa indiana, quanto sia grande e stracciata la cosiddetta maternità. (Tema, del resto morantiano quant’altri mai, se pensiamo ad altre sue opere, da Aracoeli all’indietro, all’Isola di Arturo.). L’idea di una ‘sacra famiglia’ irregolare, balzata fuori dalle pagine del romanzo storico, mi si è imposta, quasi, facendomi da guida verso il racconto in scena. Veniamo alla musica. In una logica di non sceneggiatura del testo, la voce della cantate Anne Lisa Nathan, offre una possibilità trasversale, non illustrativa, di entrare nel personaggio di Ida Ramundo e di portarlo, anche letteralmente, in scena. Sono partita dalla genealogia: Ida aveva un padre anarchico e “canterino”, che nei suoi giorni felici spaziava da Tosti e Verdi alle filastrocche del paese suo, scrive Elsa Morante, e per madre aveva un’ebrea, veneta, di nome Nora Almagià. Questa è stata per me una traccia su cui lavorare: le “assenze di coscienza” di Ida, stigma del suo carattere e fondamentali per il “procedere dei fatti”, io le ho immaginate piene, fatte, di musica. E in scena, è sempre il canto a rivelare anche quell’identità ebraica, antica, segreta, che Nora Almagià, confessa a malapena ai suoi cari e nasconde al mondo dietro un battesimo che lei immagina normalizzante per la figlia. Attraverso le leggi razziali, il fascismo, la minaccia del censimento, Ida, cresciuta, divenuta rispettabile vedova maestra elementare, ritrova questa sua identità nel terrore. Questo rappresenta però solo una parte della storia. È infatti con altri sentimenti, di fraternità e accoglienza oltre la paura, che l’appartenere al popolo ebraico le viene incontro attraverso le ricorrenti visite al ghetto romano. Per Ida Ramundo, incinta, simile a “una capra dal viso semita”, per dirla con Umberto Saba, il ghetto è anche calda culla. Una greppia? Cristiana. Se vogliamo continuare per via di paradossi. Da tempo il mezzo soprano Anne Lisa Nathan fa ricerca sulla tradizione dei canti ebraici sefarditi e li interpreta: kaddish, ninne nanne, canti per le nascite, canti d’amore, tramandati nei secoli. Con lei abbiamo iniziato il viaggio a ritroso. 4 3. Concepimento e Nascita. E così di nuovo il grido infantile si mescola al bàttito del sangue. Il grumo della ferita lièvita. Il cerchio di ghiaccio si muta nel calore del grembo. Alla prima luce selvaggia, l’alchimia capovolta che mura nell’incarnazione la sostanza dei limbi si piega uguale all’altra, che pare ad una seconda luce il guasto della morte. Ecco la dissoluzione, la polvere delle rocce che si disfa nel mare sanguinoso e la putrefazione meravigliosa dei licheni fra i coralli brulicanti e il montare delle meduse e le stelle che muovono i petali assaggiando con le antenne la luce dai crepuscoli. Sul piccolo estuario si quieta in un lamento di bolle la saliva di schiume. È nata una rosa. QUANNO MAMMETA T’HA FATTO VO’ SAPE’ CHE CE METTETTE? MIELE ZUCCHERO E CANNELLA, MIELE ZUCCHERO E CANNELLA (Elsa Morante, "La smania dello scandalo” ) Nel cuore della Storia c’è la narrazione di un concepimento e di una nascita. E concepimento e nascita, con il loro ripetersi sempre uguali e sempre diversi, sono eventi antistorici per eccellenza, se pensiamo alle “magnifiche sorti e progressive” dell’umana gente. Concepimento e nascita di Useppe sono poi scandalo e paradosso: il figlio di Ida è il frutto della guerra, di una violenza carnale che si fonde alla perdita della coscienza. Il romanzo morantiano pullula di genealogie, ricche di particolari, polifoniche, che si oppongono tutte corali alla povertà di immagini che caratterizza censimenti e burocrazie. In un simile catalogo Useppe rappresenta il miracolo, che è poi il vero scandalo divino. Suo padre, il soldato Gunther, compare come un arcangelo caduto adolescente che annuncia e reca la buona novella e al tempo stesso la stravolge. Con il passo leggero di una trapezista Gunther corre (in un turbinio d’ali spiegate?) lungo le scale dell’alloggio della maestra 5 romana incontrata per caso e su di lei si abbatte con la violenza del soldato, già condannato a morte. Ida sarà la sua ultima donna. Per Ida, lui, forse, il primo uomo. (Se ci affidiamo alle immagini “di febbri e freschezze” e di dono che Elsa Morante nonostante tutto trova per l’atto di violenza perpetrata.) Il bimbo che nasce dallo stupro con una madre che mai, nemmeno per un solo istante, pensa di potersene liberare, è in effetti un piccolo dio. Un re. Poeta. Come altrimenti interpretare la sua incredibile gioia di fronte al mondo che a lui per la prima volta appare, che lui fa apparire. “Cammelli, asini e capre piegano i ginocchi./E su tutte le bocche un solo canto!/dovunque balli conviti e fuochi di gioia! perché la regina oggi/ha dato al mondo un erede al trono". Scrive Morante introducendo l’anno 1941. Useppe è un Buddha che, ci dice Morante, alla sua prima passeggiata, fuori dall’alloggetto in cui è cresciuto, la povertà, il dolore, la vecchiaia, non le avrebbe comunque viste. Da tanto è concentrato sulla luce, rapito dai riccioli danzanti del fratello e dalla infinita ricchezza del vivente così come è. Il male sacro, l’epilessia: il paragone con una figura come quella del principe Miskin mi è venuto spontaneo, tanto più che l’idiota russo usciva dalla memoria delle letture, ma anche dalla mia storia familiare, come un amico. Useppe mi appare un Miskin, se possibile, ancora più puro, radicale, bambino, appunto. Innamorato del fratello, compagno fedele di Bella, ubbidiente pargolo di sua madre. Pieno di amici, lui non conosce nemmeno la solitudine. Tutto meno che minimalista, La Storia, tutto meno che folkloristica e sentimentale, perfino quando lo è. Io credo. Nulla del resto è privato, ne La Storia. Se Pasolini immaginava Alì dagli occhi azzurri approdare alle nostre coste, Elsa Morante con la morte accidentale per suicidio razziale di una vecchia ebrea confusa quale Nora Almagià, evoca già le morti in mare dei migranti, il loro sogno ingenuo della via più breve e libera per arrivare al paese scelto, il denaro cucito da qualche parte, nei vestiti. La poesia delle parole storpiate di Useppe che nomina le cose del mondo è quello che mi piace rimanga prima che lui in Addèla Ole! se ne vada - del resto per la storia è già morto - con il passo da poeta che descriveva Robert Walser, leggero, arioso, lucente. Addèla Ole! in scena non rispetta la cronologia, la sovverte, con lei si diverte, e per questo non vuole finire con la morte. Del resto ricordando La Storia a me accadeva di dare quasi per scontata la fine, come fosse un prologo, il fatto di cronaca in Via Bodoni, per poi saltare ad altri passi, ad altri capitoli. In cui tutti erano ancora vivi. Agnese Grieco