Da Rovereto all`Europa: così aprirò il Mart ai visitatori di

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CULTURA
"Da Rovereto all’Europa: così aprirò il Mart ai
visitatori di domani"
Nato come museo territoriale, oggi il museo della città trentina vuole passare le Alpi. Il direttore Cristiana Collu
spiega un successo che unisce storia e filosofia, analisi ed emozione
DI ENRICO AROSIO
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Se la globalizzazione
dell’arte ha un volto e
un corpo, ebbene,
potrebbe incarnarsi
nei colori chiari, nello
sguardo ferreo e nelle
braccia tatuate di una
donna vestita in nero
curatoriale (ma non
sempre) che a prima
vista parrebbe
all’incrocio tra la
parigina e la danese. E
invece è nata in
Sardegna da famiglia
con radici barbaricine,
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10 ottobre 2014
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si è formata a Cagliari,
Madrid e Sydney, ed è stata proiettata da una buona stella nel
Trentino della cultura altamente sovvenzionata.
Anche solo fisicamente Cristiana Collu somiglia molto, e non
somiglia affatto, al Mart che oggi dirige. Passata la boa del
decennio, il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento
e Rovereto si ritrova, nel ricco Nord-Est, a fare i conti con la
crisi del sistema Italia; e a difendere, nondimeno, il suo status
di polo d’eccellenza. Di recente sono accadute un po’ di cose. Al
posto del presidente Franco Bernabè è arrivata una donna di
Confindustria, Ilaria Vescovi; e nel consiglio di
amministrazione un tedesco-milanese, l’editore Carlo
Feltrinelli. Lo staff, oggi, è largamente presidiato da donne, dal
settore mostre alle relazioni esterne all’amministrazione.
Oltre a Casa Depero, il museo roveretano ha annesso anche la
Galleria Civica di Trento, sempre sull’asse modernocontemporaneo, per cui oggi il Mart è uno e trino. Dopo un
debole 2012, nel 2013 si è risaliti a 180 mila visitatori, e
quest’anno (misurato a fine agosto) si viaggia su un più 20 per
cento. L’area educazione ha coinvolto 35 mila studenti. Non
sono mancati i visitors soprendenti, da Massimo D’Alema a
Kengo Kuma, astro dell’architettura giapponese. Ma la
danarosa Provincia autonoma ha ridotto il contributo da 6 a 4,8
milioni l’anno, e Cristiana Collu è lì che combatte: allargando i
linguaggi, e le collaborazioni in Europa. Con “La guerra che
verrà non è la prima”, ambiziosa mostra che apre il 4 ottobre e
dura un anno, il Mart a cosa ambisce: a stabilire un nuovo
modello espositivo?
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Per cui “La guerra che verrà” slitta avanti e indietro, sposta gli
sguardi, tesse relazioni tra temi e tempi. Metodo audace, che
non nasconde la voglia di stupire, come il biplano francese
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Ecco il perché di un approccio narrativo complesso, che
dall’arte tocca il vissuto, il simbolico, la politica, la propaganda.
Non sarà una mostra di soli Balla e Severini, per capirci.
Cristiana Collu, poi, sul Novecento ha idee sue: «C’è chi dice
che inizia nel 1913, come Alain Badiou, e si domanda se si
chiuda col 2000: forse no, Badiou va ben oltre il “secolo breve”
di Eric Hobsbawm». Non è nuova ai filosofi, Cristiana Collu.
L’anno scorso, per la mostra “L’altro ritratto”, ha chiamato a
curarla da Parigi Jean-Luc Nancy. Non si conoscevano, per lei
lui era «il libro sul mio comodino»; Nancy ha accettato subito.
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Collu premette: «Per ragioni geografiche e - uso una parola
discutibile - identitarie, il Mart è anzitutto un collettore di
istanze di tipo storico. Su questo territorio ci sono competenze
e memorie familiari. Occuparci del tema guerra nel 2014 è stato
inevitabile. Sapevamo dal principio che non si può parlare solo
della Grande Guerra, ma bisogna proiettarsi sull’oggi».
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appeso sopra l’ingresso al museo di Mario Botta. Del resto
Collu ha un eloquio singolare: teoretico, più che “artistico”.
Frasi come: «La mostra deve dire la verità»; «Non temiamo di
essere scabrosi»; «Non edulcoriamo la violenza, ma ci apriamo
alla speranza»; «Il rapporto tra speranza e oblio non è
scontato». E quando ragiona su come esporre la complessità di
cent’anni di conflitti usa l’immagine dell’alternarsi di bosco e
radura, e il termine «Lichtung», che evoca Heidegger.
Qual è, in generale, l’idea di museo che il Mart vuole esprimere,
nel 2014? «La parola è la stessa», risponde, «è cambiato il
modello. A me preme che un’istituzione del territorio dialoghi
con l’Europa; che non tenga lezioni di storia dell’arte, perché
un museo non è un manuale; e che si apra alle nuove
generazioni, i visitatori di domani. Un museo di successo oggi
deve comunicare prossimità e familiarità». Ovvero? «Il
visitatore deve entrarci con l’idea di ritornare a qualcosa che ha
frequentato da piccolo, lo ha emozionato, divertito. Che possa
dire: “Fa parte della mia esperienza”».
Il museo, dunque, come polo culturale e, insieme, attore
sociale. Collu ama una definizione del curatore inglese David
Thorp: «Mi aspetto che un’istituzione artistica del XXI secolo
sia flessibile, sincera, democratica, multiculturale,
contraddittoria e audace. Splendida quando è ricca, eroica
quando non ha denaro». Una macchina come il Mart, che
consuma 6 milioni di euro l’anno, dà lavoro a un centinaio di
persone ed è anche fisicamente ben tenuta, è anzitutto una
declinazione dell’autonomia come principio politico. La
Provincia copre l’80 per cento dei finanziamenti, il modello è
quello. Ma diversamente dal Museo del Novecento di Milano, il
Mart non ha un main sponsor privato. La novità è che direttore
e Cda vorrebbero aumentare la quota di entrate da partner
esterni.
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L’arte rimarrà il linguaggio principale. «Ma se metti l’arte in
relazione col mondi in cui vivi capisci di più», dice Collu, che
poi cita uno dei più ardui pensatori italiani, Giorgio Agamben,
secondo il quale, per veder meglio la nostra realtà, non
dobbiamo stare nel cono di luce del nostro tempo, ma metterci
un poco in ombra. Un’altra convinzione del direttore arrivato
dalla Sardegna è la rinuncia a curatori interni, o principali: il
curatore è scelto ex novo, di volta in volta. Inoltre, è meglio
tenersi distanti dall’eccesso di specialismo, perché oggi (diceva
Flaiano) «anche il cretino è specializzato». A lei è caro il tema
dell’eredità: comunicare non solo ciò che abbiamo ricevuto, ma
lasciare a nostra volta le letture del nostro tempo a chi verrà:
«Qui si gioca la partita», scandisce la signora, che si è formata
sull’arte tardo medievale ma si è poi sempre più avvicinata al
gran circo delle espressioni contemporanee. La fulminazione,
racconta, avvenne in quel di Madrid, durante le ricerche per il
dottorato. Una mostra al Reina Sofia, “Cocido y crudo”, il cotto
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e il crudo, ispirata alle teorie di Lévy-Strauss. «Lì ho pensato di
poter fare questo mestiere».
Allargarsi al contemporaneo, si sa, comporta rischi. I margini
sono spesso sfuggenti, gli esiti arbitrari: la confusione col
sistema moda, il flirtare con la logica mediatica, il farsi
strumento di interessi finanziari, vedi i casi ovunque dibattuti
del “fenomeno Koons” o del “fenomeno Hirst” o del “fenomeno
Cattelan”. Proviamo a stuzzicarla sul fatto, spesso sottaciuto,
che nel sistema espositivo italiano, il moderno (diciamo 19001945) fa numeri di molto superiori al contemporaneo. E qui
s’intuisce che Collu teme insidie, e si limita a dire: «Il moderno
resiste e piace perché è consolatorio. Sembra risolto. Ci si va per
riconoscere, e rimane l’innamoramento». Davanti al
contemporaneo invece che ci succede? «Sul contemporaneo
siamo più all’erta, perché ci rimette in discussione. Ma, per
quanto sia giusto non consumare tutto in modo acritico, non
possiamo rinunciare a esprimere il nostro tempo».
Viene in mente Karl Kraus: «Anche la vecchia Vienna una volta
era nuova». Chiudiamo dunque con i buoni propositi per
l’avvenire. La Casa d’arte Depero va benino, ma i numeri (25
mila visitatori 2013) potrebbero crescere. «Vorremmo animare
di più l’offerta, un po’ di sperimentazione, qualche resident
artist, ricerca del suono o dell’immagine digitale, come sarebbe
piaciuto a Depero». Come rilanciare l’identità della Galleria
Civica di Trento, il terzo polo gestito dalla piccola Rovereto?
«Suggellando una sorta di patto con la città, su un percorso di
storia del Novecento, fino a oggi, con quattro mostre l’anno».
Nel 2015, per esempio, sono in arrivo “Il mio corpo, il tuo
conflitto”, e l’astrazione oggettiva degli anni Sessanta-Settanta.
Quel che ancora manca, al sistema Mart, è una quota
consistente di visitatori stranieri. Sarà cruciale riuscire a
intercettare una parte del poderoso flusso di turisti tedeschi e
centroeuropei che calano in Italia dal Brennero. Abbattendo,
per così dire, il “Muro del Garda”, un sistema turistico
conchiuso nei suoi riti vacanzieri. Non solo grigliate, Bardolino
e windsurf, insomma. Anche un po’ di art, meglio se al Mart
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