Promozione del benessere e della qualità della vita
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Promozione del benessere e della qualità della vita
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 Promozione del benessere e della qualità della vita II ruolo dell'educazione nel contesto scolastico Paolo Ballarin Si può sopravvivere sul sentiero della conoscenza solo vivendo come un guerriero. Perché l'arte del guerriero consiste nell'equilibrare il terrore dell'essere uomo con la meraviglia dell'essere uomo. CARLOS CASTANEDA Introduzione Questo lavoro si propone di analizzare i concetti di benessere e di qualità della vita (QdV), considerando il ruolo dell'educazione scolastica quale possibile ambito di promozione degli stessi. Gli interrogativi dai quali queste riflessioni prendono le mosse riguardano il ruolo che la psicologia può rivestire nell'ambito della promozione della QdV. Ben consapevole dell'ampiezza dei medesimi e per nulla intenzionato a tentare un'analisi esaustiva, vorrei in particolare considerare il ruolo che alcuni concetti della psicologia umanistica possono rivestire in questo ambito, nello specifico all'interno del contesto scolastico e della formazione degli insegnanti. Il concetto di gratificazione dei bisogni, così come quello di autorealizzazione, ben si adattano infatti alla concezione di salute come ottimale equilibrio psico-fisico dell'individuo nel suo ambiente e anche ad un'idea di costruzione autonoma e creativa di qualità della propria vita. Ben si adatta quindi alla promozione del benessere e della QdV così concepiti la formazione di operatori scolastici che considerino l'insegnamento e l'educazione non come trasmissione di nozioni né di specifici valori e nemmeno come addestramento al cambiamento esclusivamente in funzione dell'adeguamento ad una società in continua trasformazione, quanto piuttosto come processo di facilitazione della attualizzazione delle potenzialità, attitudini e inclinazioni di ogni persona. 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 Benessere e QdV. Cenni all'evoluzione storica del concetto di benessere e dell'assistenza sociosanitaria Nella società greca antica (precristiana) la felicità coincide sostanzialmente con lo sviluppo della propria natura. Nel pensiero di Aristotele, felicità è sinonimo di vivere bene, cioè vivere esercitando la virtù - una virtù intesa come dominio armonico delle facoltà dell'uomo per mezzo della ragione. La felicità è, secondo Aristotele, il fine dell'uomo, è un valore oggettivo, coincidente con la bontà (l'uomo buono è felice) e deve essere attivamente perseguita. Nel pensiero cristiano, e specificamente in S. Tommaso d'Aquino (12211274), c'è un allontanamento da una posizione naturalistica verso una direzione trascendentale: la felicità dell'uomo consiste nell'adeguamento alle leggi divine, nell'avvicinarsi a Dio attraverso l'esercizio delle virtù sancite dalla morale cristiana. Anche Spinoza (1632-1677), seppure con un netto distacco proprio dalla morale cristiana, elabora una concezione della felicità legata alla realizzazione della virtù, che nel suo pensiero si identifica con la potenza, con la realizzazione delle proprie potenzialità: «Agire assolutamente in conformità con la, virtù è, in noi, niente altro che agire, vivere e preservare il nostro essere [...] nel senso in cui ci dirige la ragione, e in base alla ricerca del nostro;vantaggio» (Spinoza, Etica). Queste posizioni, pur con notevoli differenze, si collocano all'interno dell'ideologia eudemonistica, caratteristica di tutta la morale antica, che ripone il bene nella felicità e lega quest'ultima all'idea e alla pratica della virtù (Donati, 1984). Questo legame viene spezzato da Kant (1724-1804), il quale pone il valore etico della virtù nella sua universalità, mentre la felicità si identifica con il piacere. A partire da Kant, dunque, virtù e felicità vengono scisse, e la seconda assume i caratteri del benessere della nascente economia politica moderna. Infatti, in seguito all'avvento della borghesia come classe politica dominante, all'affermazione dello stato nazionale e dell'industrializzazione, la felicità dei 'cittadini' viene sempre più a coincidere con il perseguimento di condizioni materiali ottimali. Condizioni che appartengono ad una sfera individuale e che implicano un'idea di felicita, o meglio di benessere, come possesso di beni di consumo, fruizione di servizi e come efficienza psicofisica. Nel modello economico, sociale e politico che si afferma, negli Stati cosiddetti occidentali, soprattutto a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, l'agiatezza dei lavoratori diventa obiettivo esplicito dello Stato. L'impegno dello Stato nella salvaguardia del benessere, e prima ancora della salute, intesa come condizione psicofisica in cui l'individuo può lavorare produttivamente all'interno della comunità, si riflette nell'organizzazione del sistema sanitario e dei servizi sociali. La medicina (e successivamente l'assistenza sociale) si organizza infatti in funzione della stessa logica economica, politica e sociale sulla quale si basa il sistema capitalistico industriale. Già nei secoli XVI e XVII la corporazione medica aveva volto la propria 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 attenzione alle strutture di ricovero (ad esempio i lazzaretti), che avevano la principale funzione di proteggere il resto della popolazione dalla pericolosità dei vagabondi e dal rischio di epidemie, facendo di queste dei luoghi di cura, oltre che di accoglienza, e dei veri e propri laboratori della futura scienza medica. Ma è solo successivamente che la malattia assume una dimensione individuale ed una causalità naturale, e la medicina, grazie anche alla scoperta della batteriologia da parte di Pasteur, si propone di sconfiggerla, attraverso il proprio apparato scientifico. La salute diventa quindi un'aspirazione generalizzata e viene sempre più a coincidere con la produttività; viene così affermato il diritto/dovere di tutti alla salute e in alcuni casi la colpevolizzazione di chi non si è adeguatamente comportato per preservarla. La crescente industrializzazione ed il concomitante aumento del tenore materiale di vita mettono in secondo piano la concezione della salute come assenza di malattia, proclamando piuttosto in un certo senso il diritto/dovere di tutti al benessere. Dalla prevenzione dello star male alla promozione dello star bene Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale il sistema sanitario pubblico, la previdenza antinfortunistica e la previdenza sociale tendono a farsi carico in modo sempre più generalizzato degli interventi di protezione e di assistenza, diretti al perseguimento del benessere, assumendo le caratteristiche del cosiddetto welfare state. Il momento di massima espansione del sistema del welfare state ne segna però anche il momento di crisi. Uno dei fattori legati a questa crisi è il mutamento nella percezione dei bisogni ed una conseguente crisi nel rapporto tra bisogni e servizi, e più in generale tra le modalità di convivenza e di rapporto con l'ambiente e le aspirazioni ad un benessere qualitativamente inteso, più attento alla dimensione soggettiva, in termini anche di senso dell'esistenza. In questa fase storica, seppure non senza resistenze tuttora presenti, è emersa una concezione della salute che va ben al di là della semplice assenza di malattia. Ad esempio già nel 1946 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute «un completo stato di benessere fisico, mentale e sociale». Più recentemente questa stessa definizione è stata oggetto di critiche (vedi ad es. Barenthin, 1975 e Wood, 1986) e di ampliamenti e approfondimenti. Larson (1996), ad esempio, sottolinea l'importanza di includere una dimensione spirituale della salute accanto a quella fisica, mentale e sociale. Questo ricercatore evidenzia inoltre sia quanto diverso fosse il mondo in cui la definizione dell'OMS fu formulata, sia il fatto che è stato in seguito proposto di combinare il benessere sociale con quello mentale per formare un'unica dimensione denominata "benessere psicofisico". La questione della salute viene quindi posta secondo nuovi termini sociobiologici ed anche culturali, che richiedono un differente paradigma per essere adeguatamente affrontati. In primo luogo rimandano ad una concezione che non sia centrata sulla 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 malattia, né sullo specifico rischio o disagio sociale considerati come momenti antitetici della salute, ma piuttosto sulla considerazione di un quadro d'insieme che comprenda entrambe le dimensioni. Proprio questo quadro d'insieme, con i suoi squilibri, ma anche con le sue capacità autocorrettive, viene ad essere al centro della concezione della salute. Uno degli elementi fondamentali nel passaggio da una prospettiva preventiva ad una promozionale è l'abbandono dell'idea di causalità (unica o multipla che sia) lineare, per abbracciare invece un paradigma eco-sistemico, in cui venga considerata ('"entità uomo" nella sua complessità e globalità (Ingrosso, 1987). Rispetto al tradizionale modello medico e psichiatrico, questa prospettiva non considera salute e malattia come punti opposti di un continuum, ma li comprende in una prospettiva più ampia che include i loro significati sociali e personali, e la loro interpretazione soggettiva. Vuole cioè considerare la salute all'interno del contesto della vita quotidiana, che può peraltro inevitabilmente portare all'assunzione di comportamenti rischiosi (la salute rischia invece a volte di essere usata come strumento di controllo della vita sociale) ed implica una sua costruzione non esclusivamente né prevalentemente professionale della salute: il self-care è la prima forma di prevenzione. Il punto di vista ecologico non separa assistenza, prevenzione e promozione, ma cerca di sviluppare un equilibrio dinamico fra i componenti del sistema di salute. Il suo scopo finale non è quello di raggiungere una 'salute perfetta', ma di assicurare la salute come una risorsa della vita quotidiana (Kickbusch L, in Ingrosso M., 1985, p. 45). L'approccio preventivo al disagio costituisce un allargamento di prospettiva rispetto all'intervento "di emergenza" su situazioni conclamate, ma tende comunque a stabilire nessi causali tra fattori isolati e a considerare la dimensione salute/malattia in termini negativi, cioè sostanzialmente la salute come assenza di malattia. L'approccio promozionale vorrebbe superare questo limite, integrando gli interventi di assistenza e prevenzione in un modello più ampio di salute, concepita in termini positivi e propositivi. Tende cioè a produrre conoscenze, a sviluppare atteggiamenti e comportamenti, e a creare condizioni istituzionali ed ambientali che favoriscano una condizione di benessere. Anch'esso presenta tuttavia alcuni aspetti problematici che è importante sottolineare: anzitutto la difficoltà nella definizione del benessere, che rende problematico tracciare degli obiettivi a medio e lungo termine, non sapendo bene verso cosa ci si sta muovendo. In secondo luogo, il rischio di considerare la salute come lo scopo ultimo che ingloba tutta l'esistenza - con il conseguente rischio di condurre alla prescrizione di ciò che le persone dovrebbero fare ed inoltre di ignorare che molti dei comportamenti 'non salutari' assumono un significato differente se considerati nel loro contesto sociale, in quanto possono riflettere gli sforzi di gestire lo stress e far fronte ai problemi, o il desiderio di conformarsi alle norme del gruppo dei pari; oppure, ancora, possono manifestare una espressione minima di potere in un contesto di vita caratterizzato da isolamento, alienazione ed estrema tensione. Un ulteriore rischio è quello di 'biasimare la vittima', cioè di considerare l'individuo come il solo responsabile della propria salute e dunque di colpevolizzarlo quando non sia capace di gestire questo bene. Lo sviluppo dell'approccio preventivo è legato alla diffusione del 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 fenomeno delle tossicodipendenze, che ha avuto negli ultimi venti-trenta anni una vorticosa escalation. In questo ambito l'azione preventiva è cambiata in relazione al modello di lettura del 'fenomeno droga', ponendosi il compito di combattere quelle che man mano venivano considerate le sue cause: così, quando la droga era vista come una sostanza misteriosa e maledetta, il tossicomane era considerato un depravato coinvolto in un'attività illegale e la prevenzione consisteva nella proibizione e repressione del crimine. Quando l'immagine del tossicodipendente cambiò da criminale a vittima inconsapevole e irresponsabile, la prevenzione assunse il carattere di informazione antinfortunistica, spesso allarmante e pseudo-scientifica. Successivamente vennero assunti l'immagine della tossicodipendenza come malattia ed un conseguente modello preventivo di tipo medico epidemiologico: combattere le cause patogene, limitare il contagio, fornire agli individui le difese adeguate. Anche in questo caso, l'assunzione esclusiva di una determinata prospettiva e di una chiave di lettura deterministica si dimostrò riduttiva e dunque inadeguata. Infine, una più approfondita conoscenza del fenomeno portò alla consapevolezza di non poter individuare cause specifiche, né di poter tracciare un'immagine definita del tossicodipendente, ma di potere al limite parlare di fattori di disagio. La tossicodipendenza è stata quindi concepita come «il sintomo di un malessere e di un disagio di origine psicologica, sociale e culturale, e il tossicodipendente un disadattato che ha trovato nel consumo di certe sostanze una parziale risposta alla propria sofferenza» (Regogliosi, 1992). Il conseguente quadro di riferimento non poteva più essere di tipo preventivo, ma piuttosto di promozione della QdV. Si può quindi affermare che esiste una tendenza ad affrontare temi quali la tossicodipendenza, la criminalità giovanile, il disadattamento in genere (ad esempio il tema dell'abbandono scolastico) in una prospettiva globale, attraverso politiche di promozione del benessere. Questa tendenza risulta tuttavia ancora minoritaria, osteggiata, in modo più o meno consapevole, sia dal mondo medico che da quello psicologico (che mutua spesso dal primo i presupposti epistemologie! e le metodologie d'intervento) e rischia di divenire eccessivamente settorializzata, e tornare così a muoversi in risposta a conclamate situazioni di disagio, piuttosto che in una prospettiva più ampia, interdisciplinare, che rinunci all'ideologia causalistica ed assuma una più ampia visione in cui i fenomeni individuali, famigliari, di piccolo gruppo e sociali vengano considerati nelle loro reciproche relazioni. Verso il concetto di QdV Al cosiddetto boom economico degli anni '50-60, accompagnato dall'assunzione di stili di vita improntati al consumo e all'abbondanza e dunque da un atteggiamento caratterizzato dalla fiducia nel futuro e nel progresso, fa seguito a partire dagli ultimi anni del 1960 un periodo in cui questo benessere e questo atteggiamento positivo viene fortemente scosso e messo in discussione. Ad una diffusa recessione economica si accompagna una messa in discussione dei valori su cui la società del benessere si era basata. È il periodo delle rivolte studentesche e di una tendenza anti-industriale e anti-consumistica. 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 Come sottolinea però Calvi nel Rapporto Eurisko sull'evoluzione dei consumi e degli stili di vita: il mutamento di abitudini di consumo e di stili di vita era stato innescato da una situazione congiunturale e poi investito di significati culturali da parte delle élite intellettuali e politiche, o da ristrette minoranze attive. La gente comune aveva reagito alla congiuntura, ma non aveva seguito il trend culturale minoritario (Calvi, 1993, p. 47). Negli anni '80 si è infatti assistito ad un ritorno del benessere economico, delle promesse da parte delle forze politiche e industriali di benessere per tutti, di tranquillità sociale e assistenzialismo a pioggia. Il Rapporto Eurisko rivela però all'inizio degli anni '90 una forte sfiducia degli italiani nei confronti della classe politica e della situazione economica, ed una inversione di tendenza rispetto alla crescita dei consumi. Nel giudizio di Calvi, questo mutamento è differente da quanto accadde negli anni '70, quando l'aspetto culturale (cioè il cambiamento interno, nei valori delle persone) sopravvisse poco più a lungo della congiuntura economica sfavorevole, in quanto sarebbe un vero e proprio indice di una trasformazione dalla società del benessere garantito alla società del rischio, il che implicherebbe «scelte esistenziali, prima che di consumo» (Calvi, 1993, p. 53). È proprio sulla dimensione 'esistenziale' che vuole concentrarsi la presente trattazione intorno alla QdV. Qualsiasi condizione materiale, esterna all'individuo, così come la salute fisica e psicologica, intesa come efficiente funzionamento dell'organismo, hanno mostrato il loro limite nei termini del perseguimento di una elevata QdV. Il contributo della psicologia può quindi estendersi, dall'individuazione dei fattori di 'cattivo' e 'buon funzionamento' della psiche, allo studio e alla promozione delle condizioni favorevoli ad uno sviluppo autonomo, consapevole, responsabile e creativo di se stessi per ogni persona. Come sarà ulteriormente evidenziato nella parte relativa agli indicatori psicosociali, questo non implica ignorare fattori oggettivi né soggettivi di QdV, ma piuttosto comprenderli entrambi in una prospettiva che ponga al centro l'individuo, i significati che egli attribuisce alla sua vita e il suo processo di sviluppo e di realizzazione. 'Qualità della Vita' non significa infatti necessariamente contrapposizione rispetto alla 'Quantità della Vita', richiedendo piuttosto un salto epistemologico, una 'lateralizzazione del pensiero'. La qualità è infatti difficilmente afferrabile in un mondo di soggetti ed oggetti reificati, verso i quali Nietzsche suggeriva di essere «un po' ironici», ma si pone piuttosto in un punto intermedio difficilmente definibile.1 La QdV può dunque essere considerata in termini di sviluppo, di autoaffermazione ed auto-espressione, cioè in termini sostanzialmente positivi ed accrescitivi, piuttosto che secondo una visione carenziale dei bisogni. La QdV non è una condizione, ma una possibilità; non significa quindi che non includa in sé anche la sofferenza. Ritengo che poter soffrire sia un diritto altrettanto fondamentale, quanto quello di avere la più ampie opportunità, personali e ambientali, per costruirsi una condizione di felicità2. 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 Gli indicatori psicosociali della QdV Verso una definizione degli indicatori della QdV I criteri in base ai quali vengono generalmente distinti gli indicatori psicosociali sono quelli che differenziano tra indicatori qualitativi e quantitativi, e tra indicatori soggettivi e oggettivi. Sebbene le due coppie di indicatori non corrispondano in modo stretto l'un l'altra (ad esempio indicatori soggettivi possono essere rilevati con metodi quantitativi, oppure indicatori oggettivi possono essere letti qualitativamente), esiste evidentemente una certa corrispondenza tra indicatori qualitativi e soggettivi, e tra indicatori quantitativi e oggettivi. Esempi (riferiti all'ambito del benessere e della QdV) dei primi due possono essere: l'autostima, la tranquillità economica, la soddisfazione rispetto al ruolo lavorativo o alla vita famigliare, il sentimento di appartenenza a gruppi di pari; degli altri due: il reddito procapite, il numero di omicidi o di furti in una certa area, le associazioni culturali presenti, la condizione di occupazione dei giovani. Esiste un acceso dibattito circa quale delle due categorie di indicatori sia maggiormente efficace nel valutare la QdV. Nonostante gli indici di benessere e di QdV siano tradizionalmente indicatori di tipo economico e/o quantitativo, relativi alle condizioni materiali di vita, già da tempo un tale modello di benessere è stato fortemente messo in discussione, come è stato più sopra evidenziato. Sia a livello scientifico, sia a livello di percezione diffusa e di dibattito culturale, l'attenzione si è spostata verso una dimensione soggettiva del benessere, verso una concezione della QdV maggiormente basata sulla percezione del proprio star bene nel proprio ambiente.3 Questo potrebbe definirsi come il momento dell'affacciarsi della "dualità" (Spaltro, 1985 e 1990): all'oggettivo si affianca il soggettivo. Ma anche il soggettivo può miticamente essere reificato e venire trattato non più come qualcosa di non univocamente definibile, di mutevole, dinamico, ma come una realtà direttamente osservabile in laboratorio, come un insieme di concetti unitari e non contraddittori (secondo una visione positivista della scienza). Gli indicatori oggettivi hanno effettivamente il pregio di essere facilmente definibili, agevolando quindi nella comparazione tra differenti popolazioni; si prestano inoltre maggiormente ad una misurazione. D'altra parte la misurazione stessa può essere estremamente fallibile, anche nel caso di indicatori di QdV di tipo sociale (oggettivi). Ad esempio, la mortalità infantile è difficilmente misurabile in nazioni dove molti parti avvengono in casa, oppure gli abusi sessuali spesso non vengono riportati alla polizia, soprattutto in società particolarmente conservatrici. Esistono poi problemi di misurazione legati alla interpretazione stessa dei numeri. Vanno anche fatte alcune considerazioni riguardo al concetto stesso di oggettività di questi indicatori: ad esempio, è inevitabile che sia un giudizio soggettivo a stabilire quali siano e come vadano rilevati gli indicatori oggettivi. Inoltre, non è sempre facile stabilire quale sia il concetto di 'buono' di una società. Ad esempio, siamo tutti concordi nel ritenere che una bassa mortalità infantile sia un indice di buona QdV; se però si considera che la 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 mortalità infantile può essere abbassata dall'1 al 5%o solamente con enormi spese mediche e salvando bambini deformi o gravemente ritardati, il giudizio se questo sia desiderabile diventa soggettivo (Diener, Eunkook, 1997). Esiste poi il problema di stabilire quale peso dare alle diverse variabili, considerando peraltro che persone diverse danno diversa importanza ai differenti fattori considerati per rilevare la QdV. Infine, in alcune situazioni diventa difficile valutare se una determinata variabile è realmente indicativa di alta QdV, oppure se, al contrario, non possa essere considerata come effetto secondario di una situazione negativa. Ad esempio, il numero di poliziotti per persona in una certa area è di per sé un indice positivo, ma è al tempo stesso indicativo di situazioni pericolose esistenti sul territorio. In termini generali, limite degli indicatori oggettivi è quello di essere legati ad una concezione del benessere che non tiene in considerazione la percezione ed il valore che le persone attribuiscono al proprio 'stare bene', con le emozioni, le fantasie, i desideri ad esso legati, perpetrando così una sorta di riduzionismo che sacrifica la complessità e la specificità dell'esperienza umana in nome di una scientificità tradizionalmente intesa. È interessante notare l'alta correlazione rilevata tra indicatori sociali e ricchezza nazionale. Ciò potrebbe essere letto come un segno che questi indicatori rilevano alcuni aspetti del benessere (quelli più legati al benessere materiale) ma non altri. Diener (1995) ha proposto una scala, basata sulla struttura universale dei valori umani costruita da Schwartz (1994) per valutare la QdV suddivisa in due differenti indici: "QdV basilare" e "QdV avanzata", rilevando che la prima è più efficace nel differenziare livelli di QdV in nazioni meno ricche, la seconda in nazioni più ricche. Questa scala è stata costruita proprio per ovviare ai limiti mostrati dalle precedenti nel valutare la QdV in paesi con basso sviluppo economico. Gli indicatori soggettivi hanno il pregio di rilevare gli stati di benessere percepito, fornendo un indice della valutazione che le persone danno al proprio "stare bene". Essi allontanano da una prospettiva tecnocratica per rilevare il benessere direttamente, sulla base della percezione degli individui. In questo modo, inoltre, la QdV viene a configurarsi più come un'aspirazione che le persone hanno il diritto e la responsabilità di perseguire, piuttosto che in termini di delega.4 Un pregio degli indicatori soggettivi generalmente non considerato è il fatto che possiedono anch'essi una adeguata validità statistica. D'altra parte, presentano anch'essi alcuni limiti: anzitutto esistono una serie di fattori che possono influenzare le risposte delle persone ai questionar! o alle interviste; in secondo luogo, va considerato che gli indicatori soggettivi potrebbero riflettere più il temperamento delle persone che un indice della QdV in un determinato territorio. Come sottolineano Diener e Eunkook (1997), è importante rendersi conto che il benessere soggettivo è un valore che ha diversa importanza per diverse persone e1 culture. Le società e gli individui differiscono nel grado in cui ritengono che il benessere soggettivo sia un fattore determinante per una buona vita. Ad esempio, in base ad una ricerca di Suh (1994), il 10% di studenti di college cinesi, diversamente dai loro coetanei statunitensi, non avevano mai pensato se la loro vita fosse o meno felice. Da quanto emerge dalla rassegna bibliografica sull'argomento e come viene anche evidenziato da alcuni autori, gli indicatori soggettivi ed oggettivi vanno quindi considerati complementari, in quanto ognuno fornisce 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 informazioni che l'altro non è in grado di fornire. Né l'uno né l'altro possono quindi essere considerati esaustivi. Solitamente invece, da una parte sociologi ed economisti sostengono l'efficacia degli indicatori oggettivi mentre dall'altra gli psicologi quella degli indicatori soggettivi. Piuttosto che sforzarsi di dimostrare la superiorità degli uni sugli altri, sarebbe quindi importante trovare dei mezzi per utilizzarli insieme (questo anche per limitare al massimo gli effetti di errori di misurazione, che sono diversi per le due categorie di indicatori). Un interessante esempio del rapporto e della complementarità tra le due categorie di indicatori è dato da una ricerca riportata in Diener e Suh, che compara QdV soggettiva e QdV oggettiva di vari paesi del mondo: così ad esempio la Nigeria e l'Austria presentano un livello pressoché identico di soddisfazione soggettiva, ma opposto per quanto riguarda il benessere oggettivo. Al contrario, Cile e Bulgaria hanno un analogo grado di QdV dal punto di vista degli indicatori oggettivi, ma estremamente differente per quanto riguarda la percezione soggettiva. In realtà molte ricerche (ad esempio Campbell, Convers, Rogers, 1976) evidenziano una correlazione molto bassa tra indicatori oggettivi e soggettivi, dove invece la convergenza tra i due è un elemento molto importante. In ogni caso anche la lettura e l'interpretazione della discordanza possono fornire informazioni estremamente interessanti. La prima spiegazione della mancanza di convergenza è la variazione intersoggettiva, ovvero come persone diverse vivono la stessa situazione, ad esempio un evento negativo. I tratti di personalità maggiormente associati agli indicatori soggettivi sono estroversione e nevroticismo, ottimismo e autostima (Diener, Eunkook, 1997, p. 202). Un limite degli indicatori sia soggettivi che oggettivi è che la QdV viene molto spessa definita per ciò a cui si oppone e non per il contenuto propositivo, tanto che l'importanza che il concetto acquista è una misura della minaccia percepita. Michelle Durand (1983) sostiene che gli studi sulla QdV dovrebbero anche mettere in rilievo differenze nella percezione del benessere tra vari gruppi culturali all'interno di una determinata area. Il fatto che questo generalmente non avvenga ed emergano dati molto simili può essere imputato ad un'alta integrazione sociale, per cui i vari gruppi socioculturali tendono ad assumere come propri i valori della cultura dominante. Gli indicatori soggettivi non sembrano quindi differenziarsi in modo significativo da quelli oggettivi se, e nella misura in cui, sono espressione di questi valori (come, ad esempio, il progresso tecnologico e industriale e lo sviluppo economico). Questo - sostiene sempre Michelle Durand -anche nelle indagini riferite a gruppi marginali, i quali, è stato rilevato, tendono appunto a perseguire i valori del gruppo, o dei gruppi, dominante. Fino a quando questa società industriale verrà considerata sorgente di qualità della vita, tutti i bisogni nuovi corrisponderanno ad un progresso sociale. A partire dal momento in cui i bisogni che essa produce sono dovuti a nocività che essa stessa produce, questi bisogni sono giustamente considerati come effetti negativi di produzione negativa (Durand, in La Rosa, 1983, p. 74). Perché l'indagine soggettiva sia credibile, sembra allora necessario che essa fuoriesca da situazioni acquisite ponendosi nella prospettiva di ipotesi alternative, al limite anche utopistiche. Il significato di qualsiasi indicatore non è dunque mai assoluto, ma 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 relativo e connesso con altri indici. Questo ancora una volta ripropone la necessità di superare una visione dicotomica, ma anche dialettica, della realtà per entrare in una prospettiva di pensiero complesso, accettando la compresenza di dimensioni contrastanti, apparentemente escludentisi, e di situazioni paradossali. Gratificazione dei bisogni e autorealizzazione come indici della QdV Consapevole quindi della complessità insita nel definire il concetto di QdV, nonché nell'individuare e definire efficaci indicatori, vorrei qui proporre un'ipotesi che ha l'intento di offrire spunti di riflessione utilizzabili operativamente in interventi di promozione della QdV. Mi riferisco in particolare ad interventi che hanno il loro contesto applicativo in ambito scolastico. Esistono infatti progetti - a carattere locale oppure a più ampio respiro (a livello nazionale o internazionale) -rivolti ad alunni di varie età o ad insegnanti che hanno come sfondo una progettualità in termini di promozione della QdV. L'intento è quello di evidenziare alcune possibili connessioni tra l'elaborazione teorico-operativa intorno al benessere e alla QdV, e alcuni concetti sviluppati da autori appartenenti all'area della psicologia umanistica e applicabili all'interno del contesto scolastico. In particolare, l'elaborazione teorica di Abraham Maslow intorno alla motivazione e ai bisogni fondamentali dell'uomo e quella di Cari Rogers intorno all'autorealizzazione e alla libertà nell'apprendimento hanno avuto notevoli sviluppi in ambito educativo che ben si inseriscono, mi pare, all'interno delle riflessioni sulla promozione della QdV. Secondo la psicologia umanistica, esistono alcune caratteristiche che afferiscono all'essere umano in quanto tale e che prescindono dalle differenze culturali, genetiche ed interindividuali. Esiste cioè una natura umana, universale, relativamente stabile e conoscibile. Insita in questa natura è la tendenza all'attualizzazione delle proprie potenzialità, alla propria autorealizzazione (realizzazione del proprio Sé) come individuo unico e originale. Tra gli esponenti di questa scuola, Maslow in particolare ha elaborato una ben nota teoria generale della motivazione e dei bisogni fondamentali. L'approccio di Maslow nella formulazione della teoria dei bisogni fondamentali non è da intendersi in modo rigido né deterministico, ma in una prospettiva di complessità esistenziale, in cui è il rapporto articolato (e circolare) tra i bisogni a far emergere la complessità e l'unicità della motivazione umana e del percorso di autorealizzazione. Secondo l'autore, i bisogni fondamentali dell'uomo sono universali, disposti in base ad una "gerarchia di prepotenza": bisogni fisiologici e di sicurezza, il sentimento di appartenenza e il bisogno di affetto, il bisogno di stima e quello di autorealizzazione. Accanto a questi, ed in rapporto con essi, si pongono come altrettanto fondamentali i bisogni cognitivi di conoscere e di capire (anch'essi in rapporto gerarchico). Infine, vi sono i bisogni estetici. Perché possa emergere un bisogno superiore, è necessario che quelli inferiori siano stati, almeno in una certa misura, gratificati. Quando questo avviene, essi cessano, per così dire, di esistere nell'attenzione dell'individuo, 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 cessano di far sentire la loro esistenza in quanto motivazione e costituiscono la base per cercare soddisfazione in altri bisogni più elevati. L'autore distingue tra la dimensione 'carenziale' e quella 'accretiva' dei bisogni: secondo la prima, essi sono determinati appunto dalla mancanza di qualcosa che mirano ad ottenere, per rendere l'individuo integro, per sopperire a delle carenze fondamentali; la seconda invece, che può emergere quando i bisogni più basilari sono stati sufficientemente gratificati, permette all'individuo di autorealizzarsi, di 'trovare la propria strada', di attualizzare le proprie potenzialità. Permette inoltre di rapportarsi alle persone (ed anche alle cose) in modo meno strumentale, nel senso di non volere e di non avere bisogno di adattare gli altri a se stessi, di non vedere gli altri esclusivamente in funzione delle proprie necessità, ma per quello che sono, di rapportarsi agli altri senza apportare grossolane distorsioni alla loro natura. Anche gli oggetti in questa dimensione possono assumere diversi e vari significati, possono essere visti da prospettive differenti ed usati in modi insoliti e originali oppure apprezzati esteticamente. Il termine "bisogno" si presta quindi ad almeno due differenti interpretazioni, che sottolineano, rispettivamente, l'aspetto della privazione della motivazione, e cioè le conseguenze negative previste in caso di mancato soddisfacimento, e quello della gratificazione, ovverosia delle sensazioni piacevoli legate alla sua soddisfazione. I due significati sembrano anche possedere due differenti destini: 'di morte' il primo, in quanto si esaurisce nella quiete del sue appagamento;5 il secondo 'di vita', di cambiamento e di crescita, in quanto sembra implicare la tensione verso sempre nuove gratificazioni. Nel secondo modo di intendere il bisogno, che è quello attribuito da Maslow ai bisogni di accrescimento e caratteristico della maturità psicologica, è cioè implicita l'esistenza di una spinta intrinseca ad ogni uomo a realizzarsi, che rimane perennemente attiva. Essa non si esaurisce infatti con il raggiungimento della meta più prossima già raggiunta ma, mentre si gode per questa, il desiderio ed il piacere di evolvere ne vengono sempre aumentati, seguendo un circolo virtuoso. Più volte nei suoi scritti Cari Rogers fa esplicito riferimento al concetto di autorealizzazione (self-actualizing) di Maslow per spiegare la propria visione sul processo di «divenire ciò che si è» che caratterizza ogni persona. Rogers teorizza l'esistenza di una spinta innata, presente in ogni organismo vivente, a realizzare al massimo le proprie potenzialità. Questa 'tendenza attualizzante' agisce ad ogni livello della vita e si esprime nell'uomo con la tendenza a 'divenire persona', ad essere soggetto, agente di scelte libero e responsabile. Rogers parla di 'tendenza', sottolineando dunque che si tratta di un processo e non di uno stato. Inoltre essa rappresenta una direzione (e non il punto di arrivo) che l'organismo nella sua globalità sceglie quando è libero di muoversi. Rogers descrive sette stadi in cui può essere suddiviso lo sviluppo della personalità verso la sua attualizzazione; isola inoltre le seguenti componenti di questo processo: relazione con i sentimenti, modo di sperimentare, grado di incongruenza, comunicazione del sé, modo in cui si costruisce l'esperienza, modo di porsi di fronte ai problemi e modalità delle relazioni interpersonali. Nel processo di autorealizzazione l'individuo si muove quindi all'interno di ognuna di queste aree da un ipotetico estremo caratterizzato dall'incapacità di entrare in contatto con i propri sentimenti e di relazionarsi in modo profondo con gli altri e da una struttura di personalità 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 estremamente rigida, ad un estremo caratterizzato da una grande apertura ed accettazione dell'esperienza e dei propri sentimenti, anche se contrastanti e contraddittori. La scala dei bisogni di Maslow - e più in generale il concetto di autorealizzazione della psicologia umanistico-esistenziale - pur riferendosi all'uomo in quanto tale, cioè in qualsiasi contesto sociale e culturale, si pone in termini di complessità rispetto alle dicotomie soggettivo/oggettivo, psicologico/sociale, individuo/cultura. Se cioè la scala dei bisogni è applicabile in qualsiasi contesto e se ovunque gli individui tendono all'attualizzazione di sé, le modalità e i significati che questo processo e le sue tappe assumono possono variare grandemente.6 L'ipotesi qui prospettata è dunque quella di assumere i concetti di gratificazione dei bisogni e di autorealizzazione come indicatore della QdV. Pur rimanendo quindi aperte una serie di problematiche concettuali e metodologiche, tra cui una definizione operativa dell'autorealizzazione, premessa per un efficace intervento promozionale, mi sembra che questa ipotesi possa fornire alcuni spunti utilizzabili in particolare, come già sottolineato, all'interno del contesto educativo scolastico. Il ruolo dell'educazione scolastica nella promozione della QdV La possibilità, e la scommessa, che la scuola si trova ad affrontare è quella di abbandonare definitivamente il ruolo dì trasmissione di informazioni e dei 'buoni valori' per farsi promotrice di autonomi processi di crescita (mi riferisco in particolare, ma non solo, alla cosiddetta scuola dell'obbligo). Aiutare i bambini e i ragazzi ad essere in contatto con se stessi, a conoscersi, a sapersi collocare nel proprio ambiente, ad avere fiducia in se stessi, nei propri pensieri e sentimenti e nelle proprie scelte, aiutarli ad accogliere criticamente gli insegnamenti stessi che ricevono, ad impossessarsene e a rielaborarli creativamente, a "imparare a imparare" sono alcuni degli obiettivi cui mi riferisco e che possono permettere alla scuola di essere uno principali agenti di promozione della QdV. L'insegnante ha cioè la possibilità e la responsabilità di poter utilizzare questo rapporto privilegiato in modo da favorire quelle risorse individuali che facilitino il perseguimento di un benessere che comprenda e travalichi le concezioni precedentemente considerate. Al momento attuale sembra che da una parte agli insegnanti sia in qualche modo richiesto di assolvere un ruolo di 'ascolto' e di 'sostegno', senza che dall'altra vi sia sufficiente chiarezza su cosa questo ruolo implichi, né che vi sia un'adeguata formazione né supporto per assolverlo. La questione coinvolge non solamente la persona dell'insegnante, ma l'istituzione scuola nella sua globalità. In particolare mi sembra interessante sottolineare l'importanza per tutti gli operatori che si occupano di sanità, istruzione e salute mentale di lavorare il più possibile in una prospettiva interdisciplinare. Troppo spesso invece questi settori funzionano in una sorta di scatole non comunicanti, né collaboranti, dove la scuola è vista sostanzialmente come luogo di intervento per problemi di apprendimento oppure per segnalare situazioni di disagio che devono poi essere gestite in altra sede (dai servizi deputati). Un differente approccio è quello che mira alla programmazione di interventi a largo respiro, in una prospettiva non esclusivamente di 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 emergenza, ma piuttosto promozionale, dove la scuola diventa il nodo di una rete, in cui poter intervenire, in connessione con altri servizi, a vari livelli. Il ruolo e l'atteggiamento dell'insegnante in rapporto al benessere degli alunni è stato ampiamente affrontato da un approccio educativo che si richiama alla psicologia umanistica, come ad esempio quello dell'educazione socio-affettiva. Secondo questo approccio, scopo dell'educazione è facilitare processi di apprendimento autonomi e creativi, nonché stimolare nel bambino una positiva e realistica immagine di sé ed un gratificante rapporto con gli altri, così da avviare quel processo di autorealizzazione che durerà tutta la vita. Già nel 1969 Cari Rogers sostiene che il concetto di insegnamento, inteso come 'trasmissione di conoscenze o capacità e come 'guida' ha poco o nessun significato in una società dinamica, in continua trasformazione, in cui non esistono Verità Scientifiche immutabili e incontestabili. L'attività quindi che egli considera realmente significativa e che considera scopo dell'educazione è la "facilitazione dell'apprendimento", che consiste nel permettere alle persone di liberare la propria curiosità, di muoversi in nuove direzioni, di concentrarsi sui processi piuttosto che sulla conoscenza statica. Analogamente a quanto avviene in psicoterapia, Rogers ritiene che la facilitazione dell'apprendimento si basi su determinate qualità attitudinali che si manifestano nel rapporto interpersonale tra il facilitatore e il discente. La prima di queste qualità è la congruenza, la capacità cioè di avere un atteggiamento di accettazione dei propri sentimenti e delle proprie emozioni, di porsi in relazione con le altre persone - prima di tutto gli alunni - senza doverli camuffare né attribuire ad altri, ma vivendoli, riconoscendosi in essi ed eventualmente comunicandoli. La seconda qualità del facilitatore è l'accettazione positiva dei propri alunni per ciò che ognuno di loro è; la terza qualità è la comprensione empatica. Un rapporto educativo basato sulla genuinità, sull'accettazione e sulla comprensione empatica favorisce l'instaurarsi di quella relazione empatica che permette all'alunno di sentirsi compreso e accettato per quello che è, piuttosto che giudicato, vedendo quindi apprezzate le proprie abilità, ma anche rispettati i propri limiti e la propria originale individualità. Vorrei sottolineare come queste caratteristiche auspicate nella situazione educativa e nella persona dell'educatore non si pongono in antitesi e nemmeno slegate dalla "produttività" o dalle capacità più strettamente cognitive degli alunni, ma anzi risultano con esse in un rapporto di reciproca stimolazione, qualora il clima educativo sia appunto improntato alla libera espressione di sé. Un esempio a mio avviso particolarmente interessante degli sviluppi dell'approccio rogersiano alle tematiche dell'educazione scolastica è dato dall'elaborazione di Thomas Gordon. Allievo e collaboratore di Rogers, Gordon si è dedicato allo studio del rapporto tra genitori e figli, e tra insegnanti e alunni. Nella sua prospettiva, ciò che maggiormente favorisce il processo di crescita e di apprendimento è una relazione tra alunno e insegnante che veda quest'ultimo capace di sostenere l'alunno in difficoltà senza sostituirsi ad esso nella soluzione dei suoi problemi né negando la sua sofferenza o le sue difficoltà. In particolare, Gordon ha elaborato una lista di "barriere alla comunicazione" che l'insegnante dovrebbe evitare di erigere di fronte all'alunno in difficoltà.7 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 L'approccio di Gordon viene adottato anche in Italia all'interno di interventi che mirano a sensibilizzare e formare "insegnanti efficaci", in grado di comunicare efficacemente con i propri allievi, in modo da offrire un sostegno empatico nelle situazioni di difficoltà e stimolare autonomi processi di risoluzione dei problemi. Un aspetto che differenzia l'approccio di Gordon da quello di Rogers è il maggior rilievo dato da quest'ultimo al concetto di limite e alla sua importanza all'interno di un percorso educativo. In ambito educativo, e non solo, la questione dei limiti rappresenta spesso un tema fortemente dibattuto. Tradizionalmente essa vede schierati su posizioni contrapposte da una parte coloro che sostengono la necessità di controllare le pulsioni istintuali dei bambini, fino a quando questo controllo non sarà 'interiorizzato', al fine di evitare la loro innata quanto inevitabile distruttività; dall'altra coloro che confidano invece in un naturale istinto di collaborazione tra esseri umani, che richiede solamente una facilitazione ed una guida. Questi ultimi aggiungono spesso che i comportamenti asociali ed antisociali di giovani e adulti sono proprio dovuti ad una reazione irrazionale di individui che non hanno avuto la possibilità di sviluppare un senso di socialità 'naturale' e autonomo. Al di là di questa netta contrapposizione, ritengo che il confronto con i limiti rappresenti un'esperienza tanto inevitabile quanto ricca di occasioni di crescita; un'esperienza di difficile gestione da parte dell'educatore. Come sottolinea Marian Kinget (1965), una comunicazione chiara e congruente dei limiti, accompagnata da una comprensione empatica per i sentimenti del bambino, che possono anche di per se stessi implicare un travalicamento di questi limiti (come nel caso del bambino che vuole picchiare il fratellino per gelosia), abbassano il rischio che la proibizione di determinati comportamenti, o l'imposizione di altri, vengano vissuti come un attacco o una minaccia all'immagine di sé. L'accettazione positiva incondizionata può essere rivolta a ciò che il bambino prova; sono cioè i sentimenti, le emozioni del bambino che vengono considerate legittime: egli non viene ritenuto responsabile, né tanto meno colpevolizzato, per ciò che prova (e che non è sotto il suo controllo). Non così le sue azioni, che possono arrecare danno a se stesso o ad altri, e che richiedono perciò un intervento da parte dell'educatore, che di questi comportamenti è a vario titolo responsabile. Oltre a ciò, l'esperienza del limite rappresenta di per sé un fattore positivo nel processo di sviluppo della personalità. Interessante mi pare anche l'annotazione che Kinget fa riguardo alla confusione, se non mistificazione, che può venir fatta tra accettazione e approvazione: così come i terapeuti, gli educatori corrono infatti il rischio di incoraggiare determinate emozioni e sentimenti e la loro espressione, anche se - o proprio perché - di forte intensità e/o negativi, ritenendo che questo rappresenti una ideale modalità di favorire la "libertà nell'apprendimento". È a mio avviso assolutamente evidente che la formazione degli insegnanti costituisce un momento fondamentale nel rendere più efficace e soddisfacente la scuola e nel far sì che essa assuma il ruolo di promotrice di buona QdV. È inoltre assolutamente inutile rimproverare agli insegnanti incapacità relazionali senza offrire loro la possibilità di incrementare specifiche competenze al riguardo. Il tipo di formazione offerta e incentivata rispecchia peraltro il modello di scuola privilegiato e gli obiettivi che ad essa si attribuiscono. In conclusione, possono essere individuati alcuni fattori costitutivi del processo di autorealizzazione di cui la scuola può essere agente facilitatore. 14 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 Il primo aspetto considerato di questo processo è l'autostima, in quanto la conoscenza e l'accettazione di sé sono un prerequisito indispensabile per potersi esprimere e realizzare: permettono di fondare quel senso di fiducia in se stessi, basato su un giudizio realistico, che permette un sentimento di sicurezza e dunque la possibilità del rischio e della sperimentazione. Si parla qui di un sentimento di sicurezza e di potere che si basa sulla convinzione di "potersela cavare", di poter uscire dall'insicurezza una volta che questa fosse presente. Il bisogno di stima è secondo Maslow uno dei bisogni fondamentali dell'uomo; si divide nel bisogno della stima degli altri e dell'autostima; quest'ultima nasce fondamentalmente dalla constatazione di assecondare la propria natura, piuttosto che uno 'pseudo-se' eretto allo scopo di assecondare i desideri degli altri. Essa permette a sua volta di accettare senza eccessive colpevolizzazioni le proprie emozioni e i propri sentimenti (compresa la propria ambivalenza) ed inoltre, non dipendendo troppo dal giudizio esterno per un senso di gratificazione, di agire in modo autonomo e creativo. Il periodo della scuola elementare è di fondamentale importanza in questa dinamica, in quanto il confronto con i coetanei e le richieste della scuola espongono il bambino ad un senso di inadeguatezza e di inferiorità che può mettere a dura prova la sua autostima. Il secondo fattore è l'autonomia, intesa in senso generale come relativa indipendenza dall'ambiente (dalle altre persone e dalla società in genere) nel condurre la propria esistenza: la percezione realistica di sé e la libertà (fisica e psicologica) di esprimersi permettono che un individuo non abbia continuamente bisogno di conferme esterne alla propria identità e alla propria autostima né di assumere passivamente i valori generalmente accettati. Questo non significa evidentemente ignorare i bisogni delle altre persone o le regole sociali, ma piuttosto avere la capacità di giudizio e di critica rispetto alla realtà esistente. Per quanto riguarda i bambini, l'autonomia non può che essere relativa, in fase di conquista, e tuttavia possibile e auspicabile nel percorso di autorealizzazione: essa si presenta come coscienza di alternative possibili e come graduale consolidamento della facoltà di assumere primariamente se stessi, le proprie sensazioni e percezioni, come guida nelle proprie decisioni, inoltre come conquista della consapevolezza di questo potere. Erik Erikson (1963) indica come contraltare nell'acquisizione dell'autonomia il dubbio e la vergogna, ed indica lo stadio caratterizzato dalla dinamica tra queste caratteristiche come di fondamentale importanza nel determinare la capacità di esprimere liberamente se stesso. Collegati al dubbio e alla vergogna, il senso di colpa ed una bassa autostima possono senz'altro essere determinanti nell 'ostacolare l'autonomia personale. L'ultima caratteristica considerata è la creatività, che, nella presente prospettiva teorica, si configura come una caratteristica presente originariamente in tutte le persone ed in tutte quelle che Maslow descrive come "autorealizzate". Nella maggior parte degli individui, invece, il processo di acculturazione porta ad un certo appiattimento dell'immaginazione e della capacità di pensare ed agire in modo originale e innovativo, rendendo la personalità relativamente incapace di essere creativa. Un'importante precisazione sul concetto di creatività riguarda la sua attribuzione non esclusiva a determinati prodotti (artistici, intellettuali, ecc.) né al fatto stesso di produrre, in quanto il pensiero creativo, o genericamente l'essere creativi, si può presentare come espressione del proprio modo di 15 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 essere aperti all'esperienza, non timorosi di sé e del mondo, non inibiti, spontanei, manifestandosi perciò in ogni ambito di vita. In questo senso la creatività si caratterizza come capacità di percepire e reagire in modo non stereotipico e quindi originale e, almeno potenzialmente, innovativo; anche nel senso di saper guardare alla realtà da differenti prospettive ed effettuare quel "salto epistemologico" indispensabile per ogni profondo apprendimento e cambiamento. Infine, vorrei sottolineare come i tre aspetti considerati non siano in realtà nettamente distinti l'uno dall'altro, ma reciprocamente interrelati; sembra inoltre essere! una sorta di ordine, o gerarchia, in cui essi sono collocabili: l’autostima sarebbe condizione all'autonomia e quest'ultima alla creatività; esse sembrano inoltre acquisizioni che avvengono successivamente nella crescita di una persona. Note «La Qualità è una caratteristica del pensiero e dell'espressione che viene individuata mediante un processo non intellettuale, e dato che le definizioni sono il risultato di un processo intellettuale rigido e formale, la qualità non è definibile. Ma benché la Qualità non sia definibile, voi sapete cos'è [...]. La Qualità è il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano [...]. La Qualità non è una cosa. È un evento. [...]. È l'evento che vede il soggetto prendere coscienza dell'oggetto. E dato che senza oggetto non ci può essere soggetto - sono gli oggetti che creano nel soggetto la coscienza di sé - la Qualità è l'evento che rende possibile la coscienza sia dell'uno che degli altri» (Pirsig, 1974, pp. 188 sgg.). 1 «'Non si possono fare delle macchine senza acciaio e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia [...] è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve [...]' 'Ma io amo gli inconvenienti' 'Noi no - disse il Governatore - Noi preferiamo fare le cose con ogni comodità 'Ma io non ne voglio di comodità, lo voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà. Voglio il peccato 'Insomma - disse Mustafà Mond - voi reclamate il diritto di essere infelice' 'Ebbene, sì - disse il Selvaggio in tono di sfida - io reclamo il diritto di essere infelice'» (Huxley A., Il Mondo Nuovo, trad. it. Milano, Mondadori, 1933). 2 Un gruppo di ricerca dell'OMS propone alcune chiarificazioni rispetto alle definizioni della QdV. Premesso che non esiste una definizione universalmente condivisa, alcuni punti trovano i ricercatori fondamentalmente concordi: a) la QdV è soggettiva; 6) ha una natura multidimensionale (riflessa nelle sei aree in cui questo gruppo di ricerca è stato suddiviso: 1) fisica; 2) psicologica; 3) livello di indipendenza; 4) relazioni sociali; 5) ambiente; 6) spiritualità/religione/credenze personali.); e) La QdV include sia dimensioni positive che negative (The World Health Organization Quality of Life Group, «Soc. Sci. Med.», voi. 41, n. 10, pp. 1403-1409). 3 «Invece di farci guidare dall'esperienza, lasciamo che siano gli esperti a dirci quali siano i nostri bisogni, per poi chiederci come mai quei bisogni non siano mai realizzati» (Lasch, 1979, p. 12). 4 Cfr. Freud S.: «Il principio di piacere è dunque una tendenza che opera al servizio di una funzione il cui compito è di liberare completamente l'apparato psichico da ogni eccitazione, di mantenervi costante il quantitativo di eccitazione, o di mantenerlo il più basso possibile» (Al di là del principio di piacere). 5 16 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1999 6 Sebbene all'interno del modello psicoanalitico, una riflessione ed una ricerca a mio parere estremamente interessante circa il reciproco rapporto tra i processi di sviluppo della personalità e la dimensione socio-culturale, sono contenute in Infanzia e società di Erik H. Erikson (1963). 1) Ordinare, comandare, esigere; 2) Avvisare, minacciare; 3) Fare la predica, rimproverare; 4) Consigliare, dare soluzioni o suggerimenti; 5) Redarguire, ammonire, fare argomentazioni logiche; 6) Giudicare, criticare, disapprovare, biasimare; 7) Definire, stereotipare, etichettare; 8) Interpretare, analizzare, diagnosticare; 9) Apprezzare, convenire, dare delle valutazioni positive; 10) Rassicurare, mostrare comprensione, consolare, sostenere; 11) Indagare, investigare; 12) Cambiare argomento, minimizzare, ironizzare (da: Gordon, 1974, pp. 61 sgg.). 7 Bibliografia AMOVILLI L, Imparare a imparare. Manuale di formazione aspecifica, Bologna, Patron, 1994. ARDIGÒ A., La sociologia della salute nella rifondazione del welfare state, in donati P.P. (a cura di), 1986. BARENTHIN I., The concept of Health in community dentistry, «Journal of Public Health Dentistry», 35, 1975, pp. 17-184. BERTIN G. M., Educazione al cambiamento, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1976. 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