cronache dal foro parmense - Fondazione avvocatura parmense
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CRONACHE DAL FORO PARMENSE Anno XXIV numero 3 – ottobre 2015 Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992. Spedizione in abbonamento postale art. 2 comma 20/c legge 662/96 Filiale di Parma Direttore responsabile: avv. Giuseppe Negri pag. 3 Serafino Famà, un avvocato pag. 7 L’avvocato giudice pag. 11 L’URCOFER pag. 14 Precari scuola pag. 20 La particolare tenuità del fatto pag. 24 Il condominio parziale pag. 26 Memorie pag. 27 Segnali di fumo pag. 32 Giurisprudenza disciplinare supplemento Speciale Cassaforense Adorazione dei pastori inv.: Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503 – 1540) dis.: Antonio Maria Zanetti inc.: Giovanni Antonio Faldoni (1735) Brescia – Musei civici di arte e storia – Pinacoteca Tosio Martinengo (un bel lavoro di squadra, come vogliono essere le nostre CRONACHE) Con gli AUGURI dell’Editore e della Redazione SOMMARIO pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 3 7 13 12 12 11 14 20 24 26 27 32 Serafino Famà, un avvocato L’avvocato giudice Aggiornamento albi Attività del Consiglio Variazioni L’Unione Regionale dei Consigli degli Ordini Forensi dell’Emilia – Romagna (URCOFER) Precari scuola: primi orientamenti dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 26 novembre 2014 e sviluppi della questione ad un anno di distanza La particolare tenuità del fatto Il condominio parziale: questo sconosciuto Memorie Segnali di fumo Giurisprudenza disciplinare Nel supplemento speciale CASSAFORENSE chiuso in redazione il 18 novembre 2015 Comitato di redazione: avv. Nicola Bianchi, avv. Angelica Cocconi, avv. Emanuela De Roma, avv. Valentina Gastaldo, avv. Alessandra Mezzadri, avv. Giovanni Nouvenne, avv. Lucia Silvagna Hanno collaborato a questo numero: avv. prof. Luigi Angiello avv. Franco Baldessarelli avv. Giuseppe Boselli avv. Sandro Callegaro avv. Daniele Carra avv. Renato Del Chicca avv. Santi Gioacchino Geraci avv. Nunzio Luciano avv. Carmelo Passanisi avv. Roberto Uzzau avv. Giacomo Voltattorni avv. Paolo Zucchi 2 pag. pag. pag. pag. pag. 2 4 7 11 14 Cassa Forense, oggi Stanziati 64 milioni per l’assistenza degli avvocati Le convenzioni di Cassa Forense Lo sportello previdenziale: problematiche ricorrenti Regolamento per l’erogazione dell’assistenza Serafino Famà, un avvocato Per ricordare Serafino Famà, a venti anni dalla sua morte, sento due doveri. Il primo. Far capire, a chi è arrivato dopo, cosa significò per noi quell’omicidio. Come reagimmo. Cosa capimmo. Il secondo. Una riflessione su cos’era essere avvocati allora, per leggere in trasparenza, se possibile, cos’è esserlo ora. 1. Sono passati vent’anni da quel giovedì 9 novembre del 1995. Molti di noi quella sera appresero della morte di Serafino dalla televisione. Vi era in onda un programma di Michele Santoro, credo si chiamasse “Tempi moderni”. Si parlava di mafia e vi era ospite un magistrato catanese. Quando si parla di mafia è difficile che ci sia ospite un avvocato. Improvvisa giunse la notizia: “Un avvocato catanese è stato ucciso. Serafino Famà”. Serafino era un avvocato impegnato in tutti i più importanti processi di mafia catanesi. Era difensore di molti imputati in quei processi. Eppure nessuno osò strumentalizzare quell’assassinio. Non noi, che lo conoscevamo. Ma neppure i giornalisti, che a Catania, per quel fatto, accorsero numerosi. Fu una notte che non passava mai, quella notte. Molti di noi si ritrovarono nel luogo dell’omicidio e poi sotto la Questura. Tutti stretti fra di noi, per consolarci e per consolare chi quella tragedia aveva vissuto in primissima persona, perché era insieme a lui in quel tragico momento. L’indomani fu spontaneo riunirci tutti in assemblea. Eravamo tutti in toga, quella toga della quale in quel momento comprendevamo tutta la forza e insieme tutta la debolezza. Non c’erano più posti in quell’aula. Né seduti, né in piedi. Una sola poltrona, tenuta impegnata da una toga e da una rosa, per chi non avrebbe mai più potuto occuparla. Fu il momento del dolore e dello strazio e anche della paura. Ma anche tempo in cui le decisioni si pre- 3 sero senza chiedere permesso a nessuno. La Camera penale si sarebbe chiamata “Serafino Famà”. I nostri studi sarebbero rimasti chiusi per avere il tempo di riflettere e capire e, soprattutto, per vegliare insieme il nostro Serafino nel suo tribunale. E così fu. In quell’androne grande e freddo, Serafino non fu mai solo. Tanta gente, di giorno e di notte e, intorno a lui e ai suoi familiari. S’era deciso che sempre almeno quattro persone in toga sarebbero state presenti a rendergli onore e testimonianza. Lo si era deciso con qualche titubanza, pensando al numero di persone che sarebbero state necessarie e col dubbio di averle. Invece in pochi minuti le prenotazioni per quel picchetto s’erano esaurite e i giovani colleghi che se ne occupavano furono costretti a portarlo dapprima a sei, poi a otto persone. Passò gente d’ogni tipo in quel giorno e in quella notte a rendergli un saluto, a portargli un fiore. Autorità (il Sindaco, il Presidente della Provincia, il Procuratore Antimafia Siclari) e gente semplice. Ricordo un soldato di quelli di guardia al Palazzo in quei tempi per l’operazione chiamata “Vespri Siciliani”. Finito il suo turno entrò con ancora il fucile in mano. Si tolse l’elmetto e rimase un lungo momento a capo chino. Ricordo rendere onore a Serafino, in piena notte, per un’ora, insieme, il Presidente e i vicepresidenti dell’Unione Camere Penali e il direttivo dell’ANM catanese. Anche chi aveva dimenticato, preso da altre cose, che anche un avvocato va onorato, dimentico della sua altissima carica ritenne opportuno poi chiedere scusa. Parlo del Presidente Scalfaro, il quale si scusò mandando un biglietto al nostro presidente Trantino e poi anche con me, in occasione d’una visita al Quirinale fatta dalla Giunta dell’Unione della quale allora facevo parte. Poi i funerali con la partecipazione di migliaia di persone e in essi, fra le altre, le parole strazianti del giovane figlio Fabrizio, per un solo giorno avvocato anch’egli, con sulle spalle la toga del padre. E poi la lunghissima assemblea del lunedì, che durò un giorno intero e in cui ognuno di noi cercò ancora di capire, urlò, si confrontò, lo pianse ancora. E poi la ripresa del maxiprocesso “Orsa Maggiore”. Le parole degli avvocati, quelle dei magistrati, quelle per certi versi inattese degli imputati. Emozioni che non si cancellano in chi le visse e che rendono il ricordo di quei giorni forte come tutte le cose che si conservano nel cuore. Altri, che in passato l’ha commemorato prima di me, ha sottolineato che non nel cuore avremmo voluto tenere Serafino, ma vicino a noi, in Tribunale, nelle battaglie quotidiane. Ma il conservarlo nel cuore, che è il luogo, etimologicamente, ove la memoria vive e cresce, ci consente di meglio comprendere chi fu e cosa fu. Emozioni che ho voluto raccontare perché Serafino non sia, per chi non lo conobbe, soltanto il nome di una Camera penale, il nome di un’aula di giustizia, il nome su una lapide in un androne. Perché egli sia per tutti una figura concreta di uomo. Un uomo che ebbe, fra gli altri, un privilegio. D’aver ricevuto e continuare a ricevere un’attestazione d’amore grande, che ognuno di noi, in cuor suo, desidera ricevere. 2. Il secondo dovere è, per me, quello di riflettere. Per riflettere su chi fu Serafino Famà, avvocato siciliano e catanese, voglio partire da una constatazione. 4 In questa nostra città l’unico omicidio “eccellente” che ha riguardato il mondo della giustizia è stato quello di un avvocato penalista. Eppure Catania è nella stessa regione nella quale è anche Palermo, per dirne una. Una città che ha visto cadere, anch’essi per mano mafiosa, numerosi magistrati, e uomini delle istituzioni e delle forze di polizia. Perché a Catania no? Perché a Catania ci si accanì contro un avvocato? Perché? C’era un modo di essere avvocati, e avvocati penalisti, e avvocati penalisti impegnati quali difensori nei cosiddetti processi di mafia che non avesse nulla a che vedere con la condivisione della cultura mafiosa? Che non avesse nulla a che spartire con l’ammiccamento con l’assistito? Che fosse affermazione di una delle cose che fanno grande la nostra professione? Essa ci accosta al peggio delle debolezze e delle brutture umane e non ce le fa condividere, ma ci fa rivendicare, per quel peggio, il rispetto dei diritti. Facile essere integri e per bene frequentando la buona società. E’ frequentando il peggio che bisogna dare prova di essere uomini liberi, capaci di dimostrare che anche al mostro vanno riconosciuti i diritti inviolabili di uomo. Dare prova che quella toga con la quale ci rivestiamo è il vestito con cui assumiamo la dignità di rappresentanti del diritto di difesa, chiamato “inviolabile” dall’articolo 24 della Costituzione. C’era un modo per fare ed essere tutto questo e Serafino Famà era quel modo, era tutto questo. “Il più puro di noi”, come qualcuno lo definì in quei giorni. Il più puro nell’essere pienamente e consapevolmente avvocato. Per quelli come me, più giovani di lui, era l’avvocato intransigente, fermo, coraggioso, che nel rappresentare i diritti del proprio assistito non defletteva, forte soltanto della sua preparazione e della sua coscienza limpida. Non immaginatelo, lo dico a quelli che non l’hanno conosciuto, come un accomodante baciapile pronto al compromesso con la scusa della salvaguardia di non si sa bene quale interesse del proprio assistito. Ma non immaginatelo neanche come un gratuito attaccabrighe. Pochi i magistrati che non si scontrarono con la sua veemenza e con la sua intransigenza. Pochissimi quelli che, ciò nonostante, non l’apprezzarono. E di quei pochissimi non tiene conto occuparsi, perché il problema fu loro. Serafino Famà era un uomo rispettoso delle forme, perché in esse vedeva la salvaguardia del diritto e della libertà da ogni forma di dispotismo, anche quello delle maggioranze. Come ricorda quella frase di Benjamin Constant riportata nella lapide che lo ricorda nell’androne del Palazzo di Giustizia e che egli trascriveva su tutti i propri codici e su quelli di tutti i suoi collaboratori: “Per quanto imperfette siano le forme, hanno sempre il potere di proteggere. Sono esse le nemiche giurate della tirannnide popolare o di altro genere”. Per noi che lo vedevamo lavorare, che dividevamo con lui l’impegno nella camera penale, Serafino era uno che non accarezzava il pelo al pensiero corrente. E quando, come usava allora, ci disse che potevamo dargli del tu fu un’emozione. Solo un uomo, un avvocato, come lui poteva essere capace di affrontare il disagio d’uno scontro con un pubblico ministero o un presidente di corte e, insieme, essere rispettosissimo di ciò che essi rappresentavano. L’ho sentito personalmente richiamare colleghi più giovani per il loro incaponirsi irrispettoso contro un provvedimento che dava loro torto: “Ora c’è un provvedimento e lo rispetti e rispetti chi lo ha emesso. Poi lo impugnerai”. 5 Così come l’ho sentito redarguire durissimo un cliente che pensava che quel suo strenuo e bravo difensore potesse essere un sodale del suo mal compreso senso del vivere civile! C’era, fra Serafino e qualunque cliente, qualunque fosse il colore suo colletto di esso, uno spazio. C’era, come si diceva una volta, la scrivania. Per questo, quando egli cadde per mano mafiosa, nessuno poté dire che era morto un “avvocato dei mafiosi”, ma che era morto un avvocato. Un avvocato intransigente, l’ho definito. Ma in cui l’intransigenza si stemperava nella comprensione, nella misericordia, mi viene da dire. Mi viene in mente il Vangelo secondo Matteo: “Ero in carcere e mi avete visitato…”. Nella cella di un colpevole o di un innocente? Nel Vangelo non si fa differenza. Una volta egli ebbe uno scontro pesante col presidente d’una Corte, che aveva interrotto un suo controesame d’un collaboratore di giustizia, usando frasi che egli ritenne, e lo erano, offensive. Serafino preparò un esposto chiaro, preciso, inequivocabile contro quel magistrato. Lo lesse a tanti di noi che lo incontravamo alle riunioni del direttivo di Camera penale e tutti lo condividemmo. Era pronto. Eppure, all’ultimo momento, decise di non presentarlo. Non lo fece per paura; ne sono, insieme ad altri, testimone. Lo fece per considerazione per l’umana debolezza e fragilità di quel presidente. Di quell’uomo. Anche in questo avvocato vero! Egli fu un avvocato “consapevole” del suo ruolo. Perché la vera distinzione, nel nostro come negli altri campi, non è tanto quella fra chi è bravo e chi non lo è, fra chi è onesto e chi non lo è. Ma è quella fra chi è consapevole di quali principi sottendono al suo ruolo e chi esercita la nostra professione come solo il freddo, meccanico, esercizio di applicazione di norme. E dalla vera consapevolezza scaturiscono bravura e onestà. Perché morì Serafino Famà; perché fu ucciso dalla mafia? Abbiamo un processo e delle sentenze definitive a dircelo: “Le risultanze processuali […] hanno dimostrato che il movente dell’omicidio va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà”. Quest’uomo straordinariamente coraggioso morì perché fu un eroe? Mi piace di più dire che morì perché fu un eroe “normale”. Fu integralmente avvocato fino alla fine. Perché seppe dire di no a chi, con ogni forma di pressione, voleva estorcergli la testimonianza di una sua assistita, che egli, invece, pensava controproducente per essa. Pagò con la vita aver fatto prevalere contro ogni cosa quello che egli riteneva un diritto di chi si era rivolto a lui, a lui si era affidato. Pensate sia un motivo banale? Io non lo penso. A me pare che questa “normalità” proietti la morte di Serafino nel presente e nel futuro rendendolo esempio vero di come si deve essere avvocati. A me, pare, inoltre, specie in quest’epoca di finte audacie, il massimo degli eroismi. L’eroismo di chi sa incarnare coraggiosamente e consapevolmente il proprio ruolo. Di chi ha consapevolezza che il contributo al benessere collettivo al quale siamo tutti chiamati a collaborare sta ne fare il proprio dovere nel posto nel quale la vita ci ha collocati. L’eroismo di chi, come Serafino, ha saputo rendere vero quel pensiero di Bertolt Brecht: “Sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”. Carmelo Passanisi la foto dell’avv. Famà alla pagina 3 è di Matteo Brogi (l’Editore è a disposizione degli aventi diritto) 6 L’avvocato giudice “Il ‘desio dell’avventura’ (come lo chiamava il poeta Aleardi) sospinge ancora noi tutti, se non proprio nella vita reale, in quella dell’immaginazione, e ci rende graditi i racconti di quella sorta, anche se non sono sempre autobiografie edificanti”. (B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, Adelphi, IV ediz., 2013, p. 49) Quel mattino l’avvocato Bonfiglio stava percorrendo i corridoi del Tribunale, doveva recarsi all’udienza del ‘giudice del lavoro’. Nonostante l’età avanzata, addirittura senile con i suoi 68 anni, resi palesi pure dall’incanutire dei capelli e l’incurvarsi della schiena, egli era ad una delle sue prime esperienze professionali, di avvocato. A fronte degli altri avvocati, disinvolti e sprizzanti fra loro familiarità e spirito di colleganza, l’avvocato Bonfiglio procedeva con atteggiamento riservato, impacciato, come di chi si trovi in un ambiente a lui estraneo, rasentando ancor più il muro allorchè si sentiva fatto oggetto, dai recenti colleghi, di saluti impropri, inadeguati alla nuova veste professionale assunta: “buon giorno dottore!.... dottore!...buon giorno!” o addirittura scandalosi, considerati i luoghi e le circostanze, quali “buon giorno signor giudice!...signor giudice!... buon giorno!” e perfino, con voce stentorea e sorriso vagamente ironico da parte di avvocati anziani, memori di un non recente passato: “buon giorno presidente!...presiden- te!...buon giorno!”, al che l’avvocato Bonfiglio si guardava attorno smarrito, come fosse stato sorpreso in flagrante reato. Sì!...perchè l’avvocato Bonfiglio era un giudice!..., meglio, era stato (e si sentiva ancora) un giudice e, tempo addietro, lo era stato anche in quel Tribunale, ove adesso, dopo decenni di giurisdizione svolta in altre sedi, esercitava il ruolo opposto, di avvocato. Pervenuto ai vertici della magistratura, dopo averne percorso i vari gradi, fu preso dall’angoscia di essere giunto al termine non solo della carriera, ma pure della stessa esistenza; attendere il pensionamento ‘per raggiunti limiti di età’, allora coincidente con il 72° anno, significava, ammesso che ci si arrivasse, smarrire ogni residuo vitalismo, perdere definitivamente la capacità di fare nuove esperienze professionali. Quanti colleghi pensionati, quando lo incontravano, invocavano sconsolati l’attività perduta: “Ah Bonfiglio!...il lavoro!... il lavoro!”. Si sovvenne allora della passione coltivata, a studi universitari conclusi, per la professione fo- rense, della pratica svolta presso uno studio legale nella città di sua provenienza, della frequentazione dei Tribunali come praticante procuratore, dell’assunzione diretta di difese presso le Preture mandamentali (allora consentita anche ai praticanti procuratori), dell’esame di procuratore legale brillantemente superato presso la Corte di appello di Brescia, dell’incipiente esercizio della professione fino al superamento del concorso di magistratura. Certamente non pensava che l’avvocatura fosse una sorta di “isola felice” (1), tutt’altro, era ben consapevole, anche per l’esperienza acquisita in magistratura, di tutte le difficoltà in cui si dibattevano gli avvocati, in particolar modo all’inizio della professione, nondimeno era preso dall’assillo di intraprendere e sperimentare questo nuovo ruolo, consapevole che era l’ultima occasione di rinnovamento che gli era riservata ed era d’altronde l’unica che gli consentisse di mettere in qualche modo a profitto, se possibile a tempo pieno, la sua propria esperienza professionale maturata in magistratura. La pratica giurisprudenziale presso le varie magistrature, anche superiori, di legittimità, riteneva gli valesse un certo credito pure nell’esercizio della libera professione… in definitiva, optò per la ‘pensione di anzianità’ e decise di iscriversi all’albo degli avvocati. Anche la 7 sua domanda di ammissione al patrocinio presso le magistrature superiori aveva trovato l’entusiastico e stimolante accoglimento che gli era stato comunicato con telegramma dal Consiglio nazionale forense: “Comunico la sua avvenuta iscrizione albo speciale avvocati cassazionisti. Cordialità”. Il suggerimento che gli era subito venuto dai nuovi colleghi anziani di “fare l’avvocato di nicchia”, in un primo momento gli aveva fatto balenare l’esperienza professionale di suoi pregressi colleghi delle Corti Supreme che, parimenti passati all’avvocatura, come per preservare ruolo e prestigio raggiunti nella magistratura, avevano impresso sulla porta di ingresso al loro Studio, a severo monito di chi vi accedesse, a caratteri cubitali: “SOLO MAGISTRATURE SUPERIORI”, ma ben presto si accorse che con quel suggerimento, “fare l’avvocato di nicchia”, si intendeva ben altro: non avere rapporti diretti con i ‘clienti’, non comparire personalmente in giudizio, non assumere in proprio l’impegno della difesa, ma bensì rimanere celati in un angolo dello studio altrui, in una “nicchia” appunto, a predisporre atti, comparse, difese di cui altri si assumesse la paternità…in definitiva, fare l’avvocato ‘comparsista’. La prospettiva non era certo lusinghiera, significava rinunciare al ‘sale’, al vitalismo della professione di avvocato, restare ai margini della stessa; d’altronde l’avvocato Bonfiglio, che aveva intrapreso l’attività in ‘provincia’, non poteva certo fregiarsi della riserva delle “magistrature superiori”, come i colleghi che avevano il privilegio di esercitare nella capitale e di essere, quanto meno, domiciliatari di va- 8 rie cause presso le Corti Supreme; peraltro, subito si accorse della fatica e del costo dell’apertura e organizzazione di uno studio legale e, ben presto, quanto tempo, quale impegno, quali attitudini occorressero all’avvocato per procurarsi una clientela. Un avvocato anziano lo aveva ammonito: “aprire uno studio di questi tempi…bisogna essere un incosciente!” ed un altro, un latinista: “Deus amentat quos perdere vult”…in definitiva, “fare l’avvocato di nicchia”, il “comparsista”, poteva essere l’unica risorsa di cui l’avvocato Bonfiglio poteva disporre, considerata la sua età e le sue attitudini…magari confidando, per rendere più viva e interessante la professione, nell’occasionale sopravvenienza di qualche ‘cliente’. Di questa occasione l’avvocato Bonfiglio beneficiava appunto quel mattino. Chiamata la ‘sua’ causa, rivolgendosi al giudice, egli esordì: “Signor giudice!...”, ma subito gli parve di avvertire un sorriso lievemente ironico sulle labbra del giudice, rimase perplesso, si confuse, finchè il giudice stesso lo trasse d’impaccio: “Dica!...dica avvocato!”. Allora comprese che la vera, basilare difficoltà, era inserirsi nell’ambiente, vestire propriamente la parte scelta, assumere come una nuova personalità, ridefinire la propria identità, così da esercitare il nuovo ruolo con appropriatezza di modi, di portamento, con pertinente ‘saper fare’, non solo con i clienti, ma anche nei rapporti con i ‘colleghi’ e, soprattutto, con i giudici…appropriatezza, ancor prima, di terminologia, di linguaggio, di approccio… se n’era accorto pure quando gli era capitata l’occasione (cui aveva aspirato ardentemente) di svolgere una difesa avanti la Corte Suprema. Estremamente gratificato, ma altrettanto preoccupato ed emozionato, non sapendo come esordire avanti i Giudici Supremi, aveva ben pensato di rifarsi al linguaggio, alla terminologia degli avvocati resi disinvolti dalla lunga pratica del Foro Supremo, avvertita allorchè egli era stato magistrato in quella sede, linguaggio che non doveva trascurare il ricorso al termine “Eccellenze”, ogni volta che si invocava direttamente la Corte…e così egli aveva senz’altro esordito: “Eccellenze!...come le loro Eccellenze ci hanno insegnato, anche nei loro motivati dissensi da precedenti indirizzi giurisprudenziali consolidati, pure questa difesa ritiene di poter prospettare argomentazioni di livello tale da giustificare un ripensamento rispetto a conclusioni già da tempo assunte…”, lasciando stupiti i Giudici Supremi e ponendo sé stesso in difficoltà a uscir dalle quali e terminare dignitosamente la difesa impiegò non poca fatica. In altra occasione, una ‘collega’ che egli, quand’era dall’altra parte, aveva richiamato a maggiore brevità nella discussione, vedendolo estremamente preoccupato e titubante nell’attesa di un’udienza di discussione avanti il Tribunale amministrativo (magistratura a lui insolita), gli aveva impartito una lezione di buona avvocatura: “noi non dobbiamo avere timore di parlare davanti ai giudici, non dobbiamo avere paura di fare brutta figura perché noi siamo chiamati a difendere i diritti della povera gente”. In realtà, l’avvocato Bonfiglio avvertiva di non riuscire a completamente identificarsi nel nuovo ‘modello’ assunto, di cui faceva faticosamente esperienza fra in- cessanti contraddizioni; sentiva dentro di sé la tensione perenne fra due ‘valori’, due ruoli difficili, impossibili da conciliare. Troppo a lungo il modello, l’identità del giudice, erano stati da lui posseduti, in un intero progetto di vita, in un’esistenza professionalmente appagante, per essere senz’altro rinunciati, cancellati dentro di sé da una nuova scelta, un nuovo modello, inconciliabili con i precedenti. Tuttora emergevano, pure nei sogni notturni, i coinvolgenti dibattiti delle camere di consiglio, l’impegnativo argomentare di complesse motivazioni di sentenze, l’impaziente attesa dell’esito degli esami e delle decisioni del C.S.M. per la progressione in carriera…e, al contempo, come in una sorta di contrappasso, la faticosa stesura di comparse conclusionali, la macchinosa discussione di cause in udienza, la trepidante attesa del deposito delle sentenze… “Devi farti pagare!...devi farti pagare!...” insisteva nel dirgli l’avvocato anziano, ma l’avvocato Bonfiglio si sentiva ancora giudice e “farsi pagare”, anche nei minimi della tariffa professionale, rappresentava per lui un’estrema difficoltà, che lo metteva in crisi. D’altronde, consapevole di tempi, costi e incertezze dei giudizi, era profondamente restio a promuovere cause, a portare in giudizio le persone che si rivolgevano a lui, consigliando, piuttosto, ogni tentativo di conciliazione, in ciò rifacendosi alla pratica seguita da giudice, che lo portava a disporre costantemente il tentativo di conciliazione, con ordinanza emessa all’inizio della trattazione della causa, sostanzialmente del seguente tenore: “Il giudice, letti gli atti, dispone la comparizione persona- le delle parti per interrogatorio libero sui fatti di causa e per contestuale tentativo di conciliazione, fissa per l’incombente l’udienza…”. In definitiva, l’avvocato Bonfiglio non riusciva a ridefinire la propria identità e si trovava a vivere con due personalità inconciliabili: giudice / avvocato? Si era ridotto ad essere un autentico ossimoro vivente che gli era capitato di assumere, di portare sulla sua persona, per scelta sua, ma in parte anche per caso, nell’ansia di esplorare e fare esperienza delle principali contraddizioni della propria esistenza. Ad essere un ossimoro vivente per le contrade della città, lui avvocato, sia pure “avvocato di nicchia”, fatto oggetto dei lazzi dei ‘colleghi’ con quei richiami, quei saluti impropri, ironici “signor giudice!...buon giorno signor giudice!... presidente!...buon giorno presidente!”, ebbene, a questo si era in un certo modo adattato, stava al gioco rispondendo con brevi cenni di saluto, e quando capitava che qualche collega lo salutasse in modo appropriato “avvocato…buon giorno avvocato!”, gli si avvicinava rinfrancato e grato, pure ringraziando “grazie!...grazie collega!”…ma quando e dove entrava in crisi, era proprio allorchè si inoltrava nelle aule dei Tribunali e compariva davanti ai giudici: vederli reggere e dirigere con speditezza i procedimenti, deciderli con il potere di attribuire efficacia al loro giudizio con sentenze correttamente motivate, allora avvertiva l’importanza e il valore insiti nella autonomia del potere giudiziario, cui egli stesso era appartenuto, che consente di “svolgere una funzione di garanzia dei diritti individuali, se del caso in contrasto con le pretese del potere ese- cutivo e in alcune circostanze, come quando viene in discussione la legittimità costituzionale di una legge, anche con il legislatore” (2) … era allora che l’avvocato Bonfiglio sentiva emergere tutta la contraddizione della propria esistenza e avvertiva impellente il dovere di prendere posizione, definire la propria identità, chiarire e risolvere una volta per tutte l’ossimoro che in lui si era incarnato “giudice-avvocato / avvocato-giudice”. Alla fine, l’avvocato Bonfiglio avvertì che era venuto il momento, ormai ineludibile, della propria ‘reidentificazione’; al contempo però comprese che l’assunzione del nuovo modello, una volta pervenuto alla pensione, era stata come determinata da una profonda e inconscia esigenza di “mettersi sul mercato”, non per profitto (fortunatamente non ne aveva bisogno…e neppure capacità), ma per “ritrovare un proprio valore”, sfuggire a quella “morte civile” che, anche comunemente, si identifica con il “pensionamento”; assumere un’identità nuova aveva quindi significato rendersi ancora “disponibile sul mercato della vita”, sottrarsi alla pena dell’esclusione, all’essere snobbato, ignorato, ad incappare nell’equivalente sociale del bidone dei rifiuti; comprese che quella sua ambizione di ridefinirsi come avvocato, pur con tutta la sua sprovvedutezza, l’ansia e la tensione che gli procurava, era però pregna delle contraddizioni proprie della “esistenza”, era un continuare a esplorare e fare scelte, “esperienze di vita”. Comprese infine, non senza amarezza, che rinunciare al modello che da ultimo si era assunto significava al contempo perdere la capacità di “ridefinirsi”, rinunciare ad avere altre “scelte possibili”, 9 altri modelli di vita interessanti, significava, in sostanza, “definire la propria identità”, in negativo, una volta per tutte, rinunciando ad esplorare nuove esperienze. L’avvocato Bonfiglio alla fine si arrese. Pur fra tante tensioni e contraddizioni lo scorrere degli anni era incessante ed era ormai trascorso più di un decennio da quando si era iscritto all’albo degli avvocati; dieci anni durante i quali era passato attraverso la nicchia di quattro studi legali, senza migliore fortuna, ed ora non era certo un giovane che potesse aspirare a nuovi progetti professionali, d’altronde, aveva ormai perso ogni ambizione di assumere nuovi, diversi modelli di vita. Anche per superare la tensione perenne fra due valori, l’ossimoro doveva essere risolto, occorreva ritornare sui propri passi e la scelta non poteva che essere riduttiva, di rinuncia, a perdere: o rinunciare, anche formalmente con la cancellazione dall’albo, al modello e al ruolo di avvocato, oppure ridursi interamente e definitivamente a “fare l’avvocato di nicchia”, come gli era stato suggerito agli inizi, ritirandosi a fare il “comparsista” in un angolo recondito di uno studio legale, che lo accettasse infine per tale mansione. Ma quest’ultima soluzione, per lui che proveniva dal ruolo delle magistrature superiori e aveva poi scelto il modello dell’avvocato confidando in un impegno professionale completo e stimolante, che gli valesse sperimentare l’esercizio della giurisdizione da un osservatorio diverso, opposto a quello sperimentato da giudice, finire i suoi giorni come “avvocato di nicchia”, come “comparsista”, gli parve veramente umiliante, insop- 10 portabile. L’avvocato Bonfiglio, infine, si ridusse ad optare per la prima soluzione e si cancellò dall’albo degli avvocati, con l’unica consolazione che uno scopo l’aveva pur raggiunto, si era frattanto portato sotto l’ottantina ed era sfuggito, per tutti quegli anni, dall’essere cristallizzato in una statua di sale…anche se, in realtà, altra consolazione, pur sempre marginale (all’avvocato di nicchia, al comparsista, non è concesso vanto di ‘vittoria di cause’, anche se la vittoria è spesso merito dell’opera di nicchia) gli sarebbe potuto derivare, se non l’avesse tenuta in nessun conto, dall’avere promosso corsi di informatica del diritto (3) e, a latere, con la collaborazione di valida collega, la raccolta e diffusione, con il medesimo sistema informatico, delle sentenze di maggior rilievo del locale Tribunale, iniziative che in seguito ebbero, con miglior veste, migliore fortuna… Chi avesse, ancor oggi, modo di rammentarsi dell’avvocato, o del giudice, Bonfiglio, lo potrebbe notare, nei lunghi meriggi estivi, seduto all’ombra sugli spalti della rocca destinata a parco pubblico mentre sonnecchia al cicaleccio dello stormo dei pensionati ivi convenuti, oppure lo potrebbe sorprendere a corrispondere con pari cordialità e benevolenza agli ambigui saluti che gli vengono rivolti per le contrade della città “signor giudice!...buon giorno signor giudice!”, e, un attimo dopo, “avvocato!...buon giorno avvocato!”, non senza trascurare, di frequente, di ricorrere, nel corrispondere ai saluti, lui che aveva definitivamente dismesso la toga di entrambi i ruoli, alle parole di don Andrea Gaggero, sacerdote genovese ridotto allo stato laicale e definitivamente spogliato dell’abito talare: “Vestio da omo!...vestio da omo!” (4). P.S.: La ‘novella’ è di pura fantasia, anche se, fra le varie “avventure che sospingono noi tutti”, questa, qual essa sia, potrebbe essere una delle tante. Giuseppe Boselli 1) Cfr. U. Salvini, Il nuovo Consiglio dell’Ordine, in Cronache dal Foro Parmense, 2015, pp. 3 e ss. 2) Così, in termini quanto mai attuali, l’allora Presidente della Corte di Cassazione A. Brancaccio, in Legalità e Giustizia, 1989, p. 364. 3) Cfr. V. Franceschelli, Computer, in Digesto delle discipline privatistiche, p. 145. 4) Andrea Gaggero, Vestio da omo, Giunti, Firenze, 1991. L’Unione Regionale dei Consigli degli Ordini Forensi dell’Emilia – Romagna (URCOFER) L’Unione Regionale dei Consigli degli Ordini Forensi dell’Emilia Romagna (URCOFER) fu costituita nel luglio 1972, dall’avv. Piero Valenza, allora Presidente dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Bologna, il quale si era reso conto dell’utilità che, in relazione al nuovo assetto amministrativo regionale ed alle incalzanti moltiplicantesi esigenze dell’attività giudiziaria, avrebbe potuto avere una istituzione destinata ad assicurare regolare collegamento fra i Consigli degli Ordini forensi della regione. Detto ente, pur nel più scrupoloso rispetto dell’autonomia dei singoli Consigli, avrebbe consentito un continuo scambio di informazioni e di pareri, una proficua discussione sui numerosi problemi che via via si prospettano, un coordinamento ed una eventuale armonizzazione dell’operato; ed avrebbe garantito all’avvocatura regionale una più viva incidenza ed un maggior risalto nei congressi e convegni nazionali e interregionali, ogni qualvolta fosse stata raggiunta un’intesa di vedute e di opinioni.” Così si espresse l’Avv. Argo Venturoli in una delle prime pubblicazioni curate dall’Unione nel 1978 (U.R.C.O.F.E.R - Avvocatura Emiliano Romagnola n. 1 ott.dic. 1978 ). La nostra Unione nacque, dunque, spontaneamente nel 1972, 43 anni fa. Ora con la nova legge professionale trova un espresso e importane riconoscimento all’art.29 lettera p) che annovera, tra i compiti e le prerogative del consiglio dell’ordine, quello di “costituire o aderire ad unioni regionali o interregionali tra ordini, nel rispetto dell’autonomia e delle competenze istituzionali dei singoli consigli. Le unioni possono avere, se previsto nello statuto, funzioni di interlocuzione con le regioni, con gli enti locali e con le università, provvedono alla consultazione fra i consigli che ne fanno parte, possono assumere deliberazioni nelle materie di comune interesse e promuovere o par- tecipare ad attività di formazione professionale. Ciascuna unione approva il proprio statuto e lo comunica al CNF”. Previsioni che aprono nuovi scenari e rendendo possibili nuove occasioni nell’interesse dell’avvocatura distrettuale. Alla fine del 2014 l’Unione ha voluto rinnovare le norme statutarie adeguandole alla legge professionale e introducendo alcune innovazioni, fra le quali la possibilità di nominare come presidente un avvocato che non rivestisse la gravosa funzione di presidente di uno dei nove ordini che la compongono. Dopo le elezioni forensi, nel corso del corrente anno la scelta è ricaduta sulla mia persona. Di ciò sono grato e onorato. Non farò mancare il mio impegno anche in questa nuova avventura e cercherò di fare quanto sarà possibile perché l’Unione sia ancor più coesa e degnamente rappresentata in ambito nazionale, mantenendo quel prestigio di cui gode già per l’impegno, la serietà e professionalità che l’ha sempre contraddistinta sin dal suo nascere, operando in armonia con il CNF e la altre nostre istituzioni nazionali, pur non facendo mancare quegli stimoli costruttivi che la nostra Unione ha sempre offerto. Sono stati poi eletti come Vice Presidente dell’Unione l’Avv. Giovanna Ollà Presidente del Consiglio dell’Ordine di Rimini, Segretario il Presidente dell’Ordine di Parma Avv. Ugo Salvini e Tesoriere l’Avv. Daniela Dondi Presidente del Consiglio dell’Ordine di Modena. Le riunioni si sono succedute con cadenza mensile e sono state costituite sette commissioni di lavoro, alcune delle quali hanno già iniziato ad operare: 1) Coordinamento fondazioni forensi – formazione e aggiornamento (22/06/2015); 2) Coordinamento scuole forensi (22/06/2015); 3) Contributi e mozioni Congresso Nazionale Forense 2016 (22/06/2015); 4) Stampa forense distrettuale (22/06/2015); 5) Commissione pareri (23/07/2015); 6) Coordinamento Comitati pari opportunità; 7) Integrazione e modifiche statutarie (23/07/2015). Le sfide che ci attendono non sono di poco conto e gli argomenti posti all’ordine del giorno sono davvero tanti. Le priorità comunque non possono essere dimenticate. Siamo in un momento politicamente, economicamente e democraticamente difficile del nostro Paese. E’ necessario riacquistare la stima e la fiducia che la società aveva nella nostra professione. Ritrovare quell’unità della nostra avvocatura che muove dalla consapevolezza che nelle nostre mani hanno affidato i valori fondamentali e insopprimibili validi per tutte le democrazie che a ragione si possano chiamare tali, quali quelli della tutela dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più deboli e bisognose. Non è una questione di formule, credo sia una questione di ritrovare tutti insieme quello spirito di entusiasmo originario, di rispetto reciproco e di consapevolezza del nostro ruolo sociale. La nuova legge professionale deve essere occasione per migliorarci e ritrovare tutto questo, per ritrovare tutto ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. Il Presidente Avv. Sandro Callegaro 11 Variazioni avv. FRANCESCO LOISE: Parma, borgo Giacomo Tommasini 20, tel. e telefax 0521/712049, invariati cell., e-mail e posta elettronica certificata; avv. DANIELA MANICI: telefax 0521/508285; avv. LUIGI DE GIORGI: telefax 0521/224294 disattivato; avv. BEATRICE MENZANI: telefax 0521/230724; avv. VALENTINA PONTARI: Parma, strada Felice Cavallotti 10, tel. 0521/1640600, telefax 0521/1880251, invariate e-mail e posta elettronica certificata; avv. AMERIGO GHIRARDI: telefax 0521/224294 disattivato; avv. SILVIA PARONI: Soragna (Pr), via L.Einaudi 1/B, tel. e telefax 0524/597498, cell. 349/4678584, e-mail [email protected]; posta elettronica certificata [email protected]; avv. VALENTINA CIURLEO: Parma, via Venezia 75, cell. 328/5889187, telefax 0521/272947, e-mail valentinaciurleo@hotmail. it; avv. GIORGIO MUTTI: Collecchio (Pr), via Scodoncello 24, tel. 0521/806419, telefax 0521/805369, invariate e-mail e posta elettronica certificata; dott. PIETRO NEGRI: e-mail [email protected], posta elettronica certificata pierto. [email protected]; avv. RAFFAELLA AZZALI: Parma via XXII luglio 58, tel. 0521/239529, telefax 0521/285265, e-mail avv_raf_azzali@hotmail. com, posta elettronica certificata [email protected]; avv. MARIA FRANCESCA ALBERTINI: Parma, via XXII luglio 58, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. MANUELA FRIGGERI: Parma, via XXII luglio 58, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. MONICA CALLAI: Parma, via Cavour 33, invariati tel., e-mail e posta elettronica certificata; avv. DOMENICO DE MICHELE: e-mail [email protected]; avv. FABIO MEZZADRI: Parma, strada Massimo D’Azeglio 23, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. STEFANIA AIBINO: Parma, Galleria Polidoro 8, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. FAUSTO DEL FANTE: e-mail [email protected]; avv. MARCELLINA DALL’ASTA: Fidenza (Pr), piazza Garibaldi 31, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. MATTEO PATRIOLI: e-mail [email protected]; avv. ELISABETTA PANOZZO: posta elettronica certificata avv. [email protected]; avv. DANIELE DE BELVIS: secondo studio, Reggio Emilia, via Roma 55, tel. 0522/437756, telefax 0522/1503019; avv. MANUELA CARUSO: posta elettronica certificata manuela. [email protected]; avv. CARLO CONFORTI: secondo studio, Parma, p.le Santafiora 1, tel. e telefax 0521/237486; avv. MATTEO MORUZZI: posta elettronica certificata avv.matteo. [email protected]; avv. VINCENZO ZICCARDI: tel. 0521/508737 – 467822; avv. SABRINA MARINA SPAGNOLI: Parma, p.le Cervi 5, tel. e telefax 0521/287406, invariati e-mail e posta elettronica certificata; avv. MARIA CRISTINA ALFIERI: Parma, via XXII luglio 58, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. CLAUDIA ANNA RITA QUINTO: cell. 333/9807176; 12 dott.ssa CLAUDIA BONARDI: Parma, via Rapallo 2/D, tel. 0521/989468, telefax 0521/989331, e-mail [email protected] e posta elettronica certificata [email protected]. it; avv. LORENZO BELTRAME: Parma, p.le Santafiora 1, tel. 0521/508377 - 207832, telefax 0521/204271, e-mail [email protected] e posta elettronica certificata [email protected]; ATTIVITA’ DEL CONSIGLIO Dal 15 luglio al 18 novembre 2015 il Consiglio si è riunito 15 volte. Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze: avv. Ugo Salvini n. 15 avv. Elisa Gandini n. 15 avv. Enrico Maggiorelli n. 14 avv. Simona Brianti n. 11 avv. Giuseppe Bruno n. 15 avv. Vittorio Cagna n. 12 avv. Francesco Giuseppe Coruzzi n. 14 avv. Paola De Angelis n. 14 avv. Matteo de Sensi n. 14 avv. Daniela Francalanci n. 15 avv. Matteo Martelli n. 14 avv. Alessandra Mezzadri n. 13 avv. Alberto Montanarini n. 13 avv. prof. Lucia Silvagna n. 9 avv. Marcello Ziveri n. 8 OPINAMENTO PARCELLE Dal 15 luglio al 18 novembre 2015 l’apposita commissione consiliare (ovvero il Consiglio) ha opinato n. 36 parcelle e ha espresso n. 70 pareri di congruità. Tentativi di conciliazione ai sensi dell’art. 13 L. 247/2012: Pervenuti n. 4 Tenuti n. 1 con esito positivo. ESPOSTI Dal registro dei reclami nei confronti degli iscritti dal 15 luglio al 18 novembre 2015: Pervenuti n. 14, tutti trasmessi al CDD di Bologna RICHIESTE DI AMMISSIONE AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO dal 15 luglio al 18 novembre 2015 Pervenute n. 147 delle quali: ammesse n. 122 non ammesse n. 4 ammesse con riserva n. 1 in sospeso n. 20 avv. LAURA FLORA: Fidenza (Pr), piazza Garibaldi 31, tel. 0524/528407, telefax 0524/99816 - 680232, invariate e-mail e posta elettronica certificata; avv. LINO VICINI: Parma, strada Pomponio Torelli 39, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. FRANCESCA ILLICA MAGRINI: Parma, via dei Farnese 4, tel. 0521/1513800, telefax 0524/581589, cell. 389/7950069, e-mail [email protected], posta elettronica certificata [email protected], casella UNEP n. 54; avv. MARA NEGRI: Parma, strada Cavour 33, tel. 0521/236033, telefax 0521/289171, invariate e-mail e posta elettronica certificata; avv. LUCA BALDI: Parma, strada Cavour 15, tel. e telefax 0521/711949, invariate e-mail e posta elettronica certificata; avv. ANTONIO DIMICHELE: Parma, via Pecchioni 10; avv. SERENA DIMICHELE: Parma, via Pecchioni 10; avv. PAOLA MARINO: Parma, via Pecchioni 10; avv. LUCA FANFONI: Fidenza (Pr), piazza Garibaldi 31, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. AFRO AMBANELLI: Parma, strada Pomponio Torelli 39, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. NAZARIO MALANDRINO: Parma, strada Pomponio Torelli 39, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; studio legale: “STUDIO LEGALE AMBANELLI – MALANDRINO AVVOCATI ASSOCIATI”, Parma, strada Pomponio Torelli 39, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. ALBERTO SCOTTI: Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. GIUSEPPE SCOTTI: Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. ANDREA MONTI: Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. CECILIA NEVI: Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. NICOLA GUERRA: Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; studio legale: “STUDIO LEGALE ASSOCIATO SCOTTI”, Parma, borgo Felino 29, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. DAVIDE PAVESI: Parma, via Goito 9, tel. e telefax 0521/233975, cell. 3475262602, e-mail avv. [email protected], posta elettronica certificata [email protected]; avv. MATTEO MARTELLI: Parma, via Cantelli 11, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. NICOLA PALUMBO: Parma, via Faustino Tanara 13, tel. e telefax 0521/245205, invariate e-mail e posta elettronica certificata; avv. FRANCESCA TINELLI: Parma, via Gramsci 5/B, tel. e telefax 0521/942594, e-mail avv. [email protected], posta elettronica certificata [email protected]; avv. LUISELLA SAVI: Parma, p.le della Macina 3, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata; avv. ENRICA COSCELLI: Parma, borgo Collegio Maria Luigia 22, tel. e telefax 0521/252995, invariete e-mail e posta elettronica certificata; avv. CARLO ALBERTO SARTORIO: e-mail [email protected]; avv. EMANUELE BASTONI: e-mail [email protected]; avv. PAOLA FIACCADORI: e-mail segreteria@studiobonati. net; avv. MARIO BONATI: e-mail [email protected]; avv. STEFANO DELSIGNORE: e-mail segreteria@studiobonati. net; AGGIORNAMENTO ALBI ALBO AVVOCATI ISCRIZIONI 1. 2. 3. 4. 5. MATTEO PATRIOLI (29/7/2015) MILENA ORLANDELLI (22/9/2015) GIOVANNI CORRADI (13/10/2015) SANDRA PAONE (13/10/2015) ALESSANDRO PITRONACI (13/10/2015) PASSAGGI 1. ILLUECA MARGARITA BERTO’, passaggio dalla sezione avvocati comunitari U.E. stabiliti all’albo ordinario (8/9/2015); 2. RENZO ROSSOLINI, passaggio dall’albo ordinario all’elenco speciale professori universitari, delibera 20/10/2015 decorrenza 1/11/2015 CANCELLAZIONI 1. ROBERTO ROSSI, per decesso (21/7/2015) 2. GIULIA BENEDETTI (29/7/2015) 3. ALBERTO RIZZI, per trasferimento all’Ordine di Reggio Emilia (29/7/2015) 4. FRANCO CAVALLI, per decesso (4/9/2015) 5. LUIGI CAPELLI (8/9/2015) 6. MARILENA ROBUSCHI (22/9/2015) 7. ERIKA IVALU’PAMPALONE, per trasferimento all’Ordine di Palermo (22/9/2015) 8. MASSIMO ALBERTELLI, per decesso (6/10/2015) 9. EMANUELA ROGATO (13/10/2015) 10. DANIELA MARRAZZO (3/11/2015) Alla data del 18 novembre 2015 gli iscritti all’albo erano milleduecentoventisei PRATICANTI AVVOCATI Iscritti Cancellati n. 17 n. 31 PATROCINATORI LEGALI Iscritti Cancellati n. 6 n. 6 13 PRECARI SCUOLA: PRIMI ORIENTAMENTI DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’ UNIONE EUROPEA (TERZA SEZIONE) DEL 26 NOVEMBRE 2014 E SVILUPPI DELLA QUESTIONE AD UN ANNO DI DISTANZA. sommario: I) il problema dei precari della scuola; II) la sentenza della Corte di Giustizia della U.E.; III) il comunicato stampa n. 161 / 14 del 26 novembre 2014; IV) gli effetti della sentenza della Corte di Giustizia nel nostro ordinamento; V) le prime pronunce di merito successive alla sentenza della Corte di Giustizia; iniziano tutto daccapo nel successivo settembre, e così via. Le Graduatorie, invece, attualmente sono: le GAE (Graduatorie ad esaurimento) e le Graduatorie di Istituto. Le supplenze, infine, secondo una distinzione frutto di normative che si sono avvicendate ed accavallate nel corso dei decenni e che pur tuttavia restano ancora di attualità in parte anche quale retaggio del passato, si distinguono in tre categorie direi “canoniche”: a) supplenze annuali sull’ VI) l’attuale indirizzo politi- organico “di diritto” per posti co - economico del Governo sui vacanti e disponibili in quanto privi di titolare, precari della scuola; b) supplenze temporanee (anche annuali) sull’ organico “di fatto” per posti non vacanti I) I Precari della scuola pos- ma comunque disponibili, sono essere suddivisi, secondo c) supplenze brevi o tempouna distinzione lessicale e non ranee per particolari esigenze. giuridica, in “Precari” e “Precari Il “distinguo” non è puraStorici”. Sono tutti Precari, ma i “Precari Storici” sono quelli che mente formale ma (è) sostanhanno “collezionato” anni ed ziale in quanto discendono dal anni di servizio: talvolta anche tipo di supplenza conferita all’ decine. I Precari storici in manie- Insegnante conseguenze comra ripetuta e costante nel tempo pletamente diverse. Va nel coniniziano a prestare servizio in tempo detto però che il sudconcomitanza con la data di ini- detto ”inquadramento” nell’una zio dell’anno scolastico (intorno o nell’altra categoria / tipo di ai primi di settembre) e cessano supplenza è spesso ignoto al di prestare detto servizio al 31 Docente, sia al momento della giugno dell’anno successivo. Ri- nomina da parte del Provveditore, sia in corso di rapporto di VII) abstract. 14 lavoro. Tale circostanza, infatti, può eventualmente venire a conoscenza dell’interpellato solo in un momento successivo alla scelta (e poi nomina), poiché al momento delle chiamate da parte del Provveditore, questo non riferisce e non comunica il “tipo” di supplenza (se su “organico di diritto” o su “organico di fatto”) lasciando al docente interpellato solo la possibilità di “prendere o lasciare”. Questo elemento “tipo” rimane quindi un atto interno all’ Amministrazione: “di gestione” del personale, potremmo dire. Né la scadenza del contratto al 31 agosto anziché al 30 giugno è elemento certo dell’incarico di supplenza su “organico di diritto” anziché su “organico di fatto”, poiché, pur essendo la data un indicatore dell’una o dell’altra supplenza, non sono mancati casi di incarichi di supplenza su “organico di fatto” con scadenza contrattuale –comunque- al 31 agosto. Il Precario, infine, e va detto, non si trova nemmeno nella condizione di poter “fare il difficile”. Tra le più importanti –e attuali- conseguenze di tale distinguo, ovverosia tra conferimento di supplenza per la copertura di posto “vacante e disponibile” (o su “organico di diritto”) e conferimento di supplenza per la copertura di posto “non vacante ma disponibile” (o su “organico di fatto”) una parte della dottrina e della giurisprudenza fa discendere l’operatività della immissione in ruolo (in presenza degli altri requisiti ovviamente: 36 mesi di servizio effettivo, continuativo, nella stessa sede e con orario pieno di 18 ore) o meno. In altre parole questa dottrina e questa giurisprudenza ravvisano tale possibilità solo per la prima categoria di supplenze escludendola per le altre, benchè protratte per tantissimi anni. Si è così sostenuto che solo un excursus del precario di copertura di posti “vacanti e disponibili” (o su “organico di diritto”) –eventualmente- potrebbe portare alla immissione nei ruoli stabili scolastici, mentre si è esclusa–comunque e categoricamente- la possibilità della immissione in ruolo per quei precari che hanno un curriculum scolastico “solo” su posti c.d. “di organico di fatto”. fatto se il precario va a coprire un posto privo del titolare o un posto ove il titolare per quell’ anno scolastico sia assente per motivi suoi. Il problema, in altre parole, non è cosa il precario va a coprire ma per quanto tempo lo va a coprire. Questa interpretazione -più in linea peraltro con una coerente individuazione degli effetti giuridici in presenza di una sequenza contrattuale- spiegherebbe altresì il riferimento / collegamento a quell’ “espletamento delle procedure concorsuali” più E all’uopo è stato riportato il relativo passaggio della Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Terza Sezione) del 26 novembre 2014 (di cui infra il commento) che –a dire di tale orientamento– sosterrebbe ciò, laddove parla di volte richiamato in detta Sen“posti vacanti e disponibili”. tenza. Senonchè chi scrive ritiene – E spiego in che senso. Nel caso per i motivi di cui al prosieguo- dei docenti della Graduatoria che la locuzione “posti vacanti e ad Esaurimento ex permanente disponibili” riportata nella Sen- mai ci sarà una procedura contenza della Corte di Giustizia corsuale perchè la “stabilizzaziodell’Unione Europea sopra ri- ne” può avvenire solo con l’imchiamata (cui la lingua proces- missione in ruolo “d’ ufficio”. In suale è l’italiano) debba essere altre parole nel caso dei precari intesa latu sensu come “posti libe- inseriti nelle c.d. “graduatorie ad ri punto”, senza ulteriori distin- esaurimento (ex permanente)” di zioni. appartenenza la stabilizzazione Il problema infatti non ri- del rapporto lavorativo non preguarda la circostanza relativa al suppone un concorso pubblico, ma opera periodicamente mediante la c.d. “immissione in ruolo” attingendo dalle graduatorie in base al punteggio posseduto dall’ insegnante e dalla posizione dello stesso nella graduatoria di appartenenza. Mai quindi -in questi casi - ci potranno essere dei “concorsi” per “stabilizzare” il rapporto di lavoro in questione, con la conseguenza che l’immissione in ruolo determinata dall’ avanzamento in graduatoria del docente teoricamente potrebbe non avvenire mai ! La stabilizzazione di questi Precari, quindi, non può che avvenire che con la immissione in ruolo allorquando si perviene alla loro posizione nella graduatoria, oppure con la conversione del loro rapporto da “determinato” in “indeterminato”. Il richiamo alle procedure concorsuali operato dalla Sentenza C.G.U.E. rimarrebbe quindi privo di senso e di riscontro pratico. Insomma, l’esigenza della copertura di posti “vacanti e di- 15 sponibili” e la precisazione “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione del personale di ruolo delle scuole statali” riportata più volte nella Sentenza della Corte di Giustizia Europea, laddove si dovesse optare per una interpretazione restrittiva, sarebbero concetti contraddittori ed incompatibili tra loro: per dirla in termini matematici sarebbero due concetti paralleli che non si intersecheranno mai. Il richiamo al pubblico concorso della Sentenza della C.G.U.E., quindi, non calza e non si addice al caso de quo, e la sua applicabilità andrà ricercata altrove. vacante e disponibile” espresso dalla Corte non può quindi essere relegato in scatole chiuse ma è necessariamente più ampio vista la ratio giuridica più elevata, più sottile , più profonda e più nobile dei principi di diritto espressi a fondamento della conversione di un rapporto / contratto da tempo determinato in un rapporto / contratto a tempo indeterminato. Poniamo infatti un precario con 18-20 anni di servizio: che senso avrebbe l’eccepire un tipo di supplenza sempre e comunque annuale anzichè un altro (tipo di supplenza -come supra già detto- peraltro ignota il più Tornando al punto in que- delle volte all’insegnante stesstione. Se quindi si esclude dal- so)? La ratio della conversione la stabilizzazione il docente “su va pertanto ravvisata altrove. organico di fatto” (perché, ahimè Ed allora. Il Precario (sopratper lui, non “su organico di di- tutto quello “storico”) svolge una ritto”) per conversione dei suoi vita lavorativa priva delle elecontratti da tempo determinato mentari e necessarie tutele quali in contratto a tempo indeter- una certa sicurezza del posto di minato, e si esclude, altresì, che lavoro. Non riesce a progettare venga stabilizzato per concorso un minimo di crescita professio-impossibile per lui come sopra nale vivendo col costante penspiegato- si avrebbe una sorta di siero di non conoscere il pro“eterno precario”, cioè un preca- prio futuro lavorativo e quindi rio a vita. Ma con una incognita senza possibilità di elaborare in più oggi. un giudizio prognostico sulla Il DDL Scuola ha stabilito infatti che a partire dal 1 settembre 2016 i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente non potranno superare la durata complessiva di 36 mesi, anche non continuativi. Ma allora, a questo punto viene da chiedersi: quod futurum per questi precari laddove non dovessero venire stabilizzati (leggi immessi in ruolo) prima? La preoccupazione è che si passi da “precario” ad una sorta di “precario-esodato”. sua “stabilizzazione” e di conseguenza senza poter pianificare un minimo la sua vita futura. A ciò si aggiunga -particolare non da poco- il grave pregiudizio economico derivante dal mancato riconoscimento degli scatti stipendiali o, come si chiamano ora, delle indennità relative alla progressione stipendiale, cioè di quelle differenze retributive che maturano con l’avanzamento, con l’ anzianità. struzione della carriera”. Insomma al lavoratore precario manca quella stabilità che deriva dalla certezza dello stipendio e quella legittima tranquillità connessa con una soddisfacente posizione assicurativa pensionistica. Tale situazione porta spesso l’insegnante precario ad una precarietà pure esistenziale, ad un approccio alla vita professionale del tipo “navighiamo a vista” ovverosia: “il prossimo anno si vedrà”. Una visione pessimistica e quasi rassegnata del proprio futuro lavorativo che spesso stride con la generosa disponibilità di moltissimi professori che svolgono con passione e dedizione questo importantissimo mestiere. Alcuni addirittura che lo vivono come una missione. Ebbene queste sono, a parere dello scrivente, le considerazioni che devono essere poste alla base ed a supporto di un corretto approccio della vicenda, non il “tipo” di supplenza conferita ma il “tempus” di servizio svolto. II) Con la Sentenza del 26 novembre 2014 la Corte di Giustizia della Unione Europea (Terza Sezione) ha definitivamente risolto la questione relativa alla incompatibilità / al contrasto della normativa italiana con quella della Unione Europea in tema di successione (reiterazione) nel tempo di rapporti (contratti) di lavoro a tempo determinato. La sentenza della Corte di Giustizia offre lo spunto, quindi, per alcune riflessioni, peraltro tutte favorevoli al lavoratore. Preliminarmente si riporteranno i passi più significativi della suddetta Sentenza. Il Precario ricomincia sempre daccapo: anche come stipenCiò detto – a parere dello dio. Per non parlare –poi- della Come noto, tutto prende avscrivente- il concetto di “posto sempre più lontana- c.d. “rico- vio dall’ Accordo Quadro del 18 16 marzo 1999 che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE, CEEP sul lavoro a tempo determinato. Alla Clausola 5 dell’Accordo Quadro intitolata “Misure di prevenzione degli abusi”, si può leggere: «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall› utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso , stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola è contraria al diritto dell’Unione e che il rinnovo illimitato di tali contratti per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali non è giustificato. Si rende necessario, quindi, riportare qualche breve stralcio della lunga sentenza C.G.U.E. (richiamando il numero del corrispondente paragrafo per facilitarne il riscontro), rinviando i lettori per la consultazione del testo integrale e per il relativo PQM al link: http://www.curia. europa.eu. in danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti. 69 Ne consegue che l’accordo quadro non esclude nessun settore particolare dalla sua sfera d’applicazione e che, pertanto, è applicabile al personale assunto nel settore dell’insegnamento. se emerge che, come peraltro ammesso dallo stesso governo italiano, il termine di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale sistema è tanto variabile quanto incerto. 79 Da ciò discende che, quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione. -Sull’ esistenza di misure di E dunque, dalla Sentenza ci- prevenzione del ricorso abusivo tata trascriviamo testualmente a una successione di contratti di alcuni passaggi a nostro parere lavoro a tempo determinato. tra i più importanti. 100 Orbene, come la Corte ha già “-Sull’ambito di applicazio- dichiarato in numerose occasioni, il ne dell’accordo quadro. rinnovo di contratti o di rapporti di 67 ...la definizione della nozione lavoro a tempo determinato al fine di «lavoratore a tempo determina- di soddisfare esigenze che, di fatto, to» ai sensi dell’accordo Quadro, hanno un carattere non già provvienunciata alla clausola 3, punto 1 sorio, ma, al contrario, permanente di quest’ ultimo, include tutti i la- e durevole, non è giustificato ai senvoratori, senza operare distinzioni si della clausola 5, punto 1, lettera basate sulla natura pubblica o pri- a), dell’accordo quadro. vata del loro datore di lavoro e a 105 Orbene, a tale riguardo..si prescindere dalla qualificazione del deve constatare che dagli elementi loro contratto in diritto interno. forniti alla Corte nelle presenti cau- - Sull’esistenza di misure -Sull’interpretazione della sanzionatorie del ricorso abusia) devono essere considerati clausola 5, punto 1 dell’Accordo vo a una successione di contrat“successivi”; Quadro. ti di lavoro a tempo determinab) devono essere ritenuti con72 Occorre ricordare che la clau- to. tratti o rapporti a tempo indetermi- sola 5, punto 1, dell’accordo quadro 114 ......la normativa nazionanato». mira ad attuare uno degli obiettivi le di cui trattasi nei procedimenEbbene, la Corte di Giustizia perseguiti dallo stesso, vale a dire ti principali esclude qualsivoglia Europea adita ha dato piena- limitare il ricorso a una successio- diritto al risarcimento del danno mente ragione a quelle ricorren- ne di contratti o rapporti di lavoro subito a causa del ricorso abusivo ti italiane, riconoscendo che la a tempo determinato, considerato a una successione di contratti di normativa italiana sui contratti come una potenziale fonte di abuso lavoro a tempo determinato nel set- 17 tore dell’insegnamento.... 115 Peraltro ... è altresì incontroverso che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non consenta neanche la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi in contratto o rapporto di lavoro a tempo indetermia.. na non preveda alcuna misura diretta a prevenire il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, nè contenga sanzioni per le violazioni in siffatti casi, ma anzi escluda la trasformazione di tali contratti in contratti a tempo indeterminato, nonché il risarcimento del danno subito a causa del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore dell’insegnamento. 119 Si deve, pertanto, ritenere che dagli elementi forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause si evince che una normativa nazionale.. non risulta conforme ai requisiti che emergono dalla giurisprudenza ricordata ai punti da 77 a 80 della IV) Quanto agli effetti della presente sentenza. Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’ Ordinamento del nostro Paese, III) Esplicativo è il Comuni- sappiamo che la Corte non ricato Stampa n. 161 / 14 del 26 solve la controversia nazionale novembre 2014-Stampa e In- e che spetta al giudice nazioformazione - Corte di Giustizia nale risolvere la causa confordell’Unione Europea - dal titolo: memente alla decisione della “La normativa italiana sui contrat- Corte. Sappiamo anche però che ti di lavoro a tempo determinato nel la decisione della Corte vincosettore della scuola è contraria al la egualmente gli altri giudici diritto dell’Unione” e dal sottoti- nazionali ai quali venga sottotolo: “Il rinnovo illimitato di tali posto un problema simile. Nelcontratti per soddisfare esigenze la Sentenza resa dalla Corte, al permanenti e durevoli delle scuo- paragrafo 83, si può leggere “..la le statali non è giustificato” (c.f.r. Corte, nel pronunciarsi su un rinin http://curia.europa.eu/jcms/ vio pregiudiziale, può fornire, ove jcms/P_1 51795). necessario, precisazioni dirette a Tale Comunicato chiarisce guidare il giudice nazionale nella come la Corte ritenga prelimi- sua valutazione”. narmente che l’accordo Quadro Il Comunicato stampa ridebba essere applicato a tutti i portato sopra (c.f.r., ancora, lavoratori, sia del settore pub- in http://curia. europa.eu/jcms/ blico , sia del settore privato, jcms/P_151795) ribadisce il consenza distinzione di sorta. cetto e conclude con la seguente Poi rileva come la normati- importante precisazione: “Il rinva italiana non preveda alcuna vio pregiudiziale consente ai giudimisura che limiti la durata mas- ci degli Stati membri, nell’ambito sima totale di tali contratti o il di una controversia della quale sono numero dei loro rinnovi nel set- investiti, di interpellare la Corte in tore dell’insegnamento, nè pre- merito all’ interpretazione del diveda delle valide ragioni obiet- ritto dell’Unione o alla validità di tive che possano giustificare tale un atto dell’Unione. La Corte non sequenza. Infine il Comunicato risolve la controversia nazionale. rileva come la normativa italia- Spetta al giudice nazionale risol- 18 vere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.”1. V) Dopo la Sentenza della Corte di Giustizia, alcuni Tribunali si sono pronunciati nel corso del corrente anno 2015 sui ricorsi promossi dai precari della scuola . Il Tribunale di Napoli è stato tra i primi a pronunciarsi con la Sentenza n. 528 del 21.01.2015 (in www.dirittoscolastico.it) dichiarando che tra l’istante ed il Ministero convenuto sussiste un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il Giudice Partenopeo ha –quindi- definito la vertenza con la stabilizzazione del lavoratore con più di 36 mesi di servizio, ovverosia con la conversione dei suoi contatti a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Lo scrivente non è a conoscenza però se avverso tale Sentenza il MIUR abbia o meno proposto Appello. Altri Giudici si sono pronunciati diversamente. Hanno rigettato la richiesta di stabilizzazione formulata da parte ricorrente, ma hanno riconosciuto comunque il risarcimento del danno e/o i c.d. “scatti di anzianità” (ora, secondo alcuni, indennità relative alla progressione stipendiale. Il Tribunale di Roma con le sentenze n. 16/2015 e 17/2015 (in www.dirittoscolastico.it) ha 1 Sul punto c.f.r. pure sul web Elisa Baroncini, Università di Bologna: “L’ efficacia delle sentenze della Corte di Giustizia Europea”, soprattutto a pag. 6 dove si può leggere, con riferimento agli effetti extraprocessuali delle sentenze della UE, che: “l’interpretazione della Corte dispiega i suoi effetti al di là dell’ ambito del litigio principale . Pertanto le sentenze producono effetti erga omnes per effetto della portata vincolante delle stesse disposizioni interpretate.” riconosciuto al personale supplente reiterato un risarcimento pari 15 mensilità; la Corte d’ Appello di Roma con la sentenza n. 2488 del 18.03.2015 (c.f.r. sempre in www.dirittoscolastico. it) ha riconosciuto a favore di un docente precario gli scatti di anzianità maturati in base agli anni di servizio a tempo determinato svolti, condannando il MIUR alla corresponsione delle differenze retributive. Ma anche altri Tribunali si sono pronunciati: c.f.r. Tribunale di Latina 30/06/2015, n. 691; Tribunale di Foggia 19.05.2015, n. 5125; Tribunale di Lecco 21.01.2015; Tribunale di Locri 20.05.2015, n. 1015 e Tribunale di Locri 15.04.2015, n. 808 (che pongono l’accento sulla “costituzione” del rapporto e non sulla sua “conversione”) (Tutte in www.dirittoscolastico.it). In primavera 2015, infatti, v’era chi riteneva che, con riferimento all’ inizio dell’Anno Scolastico 2015/ 2016, anche con la legge a giugno i tempi sarebbero stretti2), e addirittura chi, il 17 giugno 2015, titolava l’articolo di Gabriele Rizzardi: “Renzi : < Niente assunzioni nella scuola> . Il Premier minaccia : < Troppi emendamenti, tre giorni per il via libera…….> (così sull’ “Alto Adige” del 17.06.2015 , pag. 5). In tempi più ravvicinati va segnalato, infine, chi ha già tratto le sue conclusioni: “Il piano di assunzioni della riforma è fallito : quando saranno portate a termine anche le 55mila assunzioni della Fase C (potenziamento), il Ministero dell’ Istruzione avrà immesso in ruolo circa 80mila precari rispetto alle 103mila assunzioni previste e alle 150mila iniziali ….” , ed ancora : “…… il precariato doveva scomparire , ci ha detto per un anno il Governo . Invece rimarrà vivo e VI) Va infine rilevato come vegeto: nelle GaE rimarranno ben oramai anche l’orientamento 70mila precari e nelle graduatorie del Governo sia indirizzato nel di istituto altri 100mila abilitati”3 senso di ridurre al minimo i rapAd onor del vero va detto porti di lavoro precari o “a termine”. Sono di pregnante attua- 2 Gianna Fregonara e Orsola Riva, “Precari, ricomincia lità le notizie relative ai decreti l’attesa infinita. Tempi stretti anche con la legge a giugno”, in “Corriere della Sera”, 5 marzo 2015, pag. 23 attuativi del Jobs Act che fissano 3 così Marcello Pacifico, presidente ANIEF , nel corso a 36 mesi il massimo della dura- del primo seminario sugli effetti della riforma organizzato dal sindacato a Roma il 3 settembre 2015, in ta dei contratti a termine. “www.anief.org/” Sul punto dei Precari della scuola –poi- come noto, il Governo si è impegnato per l’assunzione con contratto a tempo indeterminato (leggi immissione in ruolo) di almeno 100.000 insegnanti inseriti nelle c.d. Graduatorie ad Esaurimento (GAE ex Graduatorie Permanenti) ed ha elaborato a tal fine un Piano Assunzioni distribuito su quatto Fasi (Fase Zero , Fase A , Fase B , Fase C) preceduto da momenti –direi- congestionati. però che il fenomeno del precariato nella scuola viene da molto lontano e sarebbe stato impossibile per chiunque eliminarlo in un solo anno. VII) L’ interpretazione data in questa Sede è quindi in linea anche con l’attuale orientamento giuridico non solo giurisprudenziale e dottrinale, ma anche di indirizzo politico– economico più recente del Governo. In ordine, poi, allo svuotamento delle graduatorie ad esaurimento conseguente alla effettiva stabilizzazione dei precari della scuola ivi inseriti, vedremo cosa ci porterà l’oramai iniziato Anno Scolastico 2015/ 2016 e quello e/o quelli successivo/i . Franco Baldessarelli P.S. Nelle more della pubblicazione, dopo un intervento del Governo non proprio condivisibile e cioè quello del 26 settembre 2015 relativo alla corresponsione del bonus di 500 euro per l’autoformazione corrisposto ai soli professori di ruolo ed escludendo quindi i precari, il Miur ha rispettato l’impegno preso e alle ore 16 del 10 novembre 2015 ha inviato ad altri 48.794 insegnanti precari una mail contenete la proposta di assunzione a tempo indeterminato da accettare entro 10 giorni. Trattasi della fase C che porta a 87.099 il numero dei precari “stabilizzati”. Se il buongiorno si vede dal mattino viene da dire che forse questa è la volta buona. 19 LA PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO 1. IL NUOVO ART. 131 BIS C.P. Con il Decreto Legislativo n. 28 del 16 marzo 2015, entrato in vigore il 02.04.2015, è stato introdotto nel nostro codice penale, all’art. 131 bis, il nuovo istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. La figura di cui trattasi non rappresenta una novità assoluta, essendo già conosciuta dall’ordinamento penale in quanto già prevista nel rito minorile (art. 27 DPR n. 448/1988) ed in quello davanti al giudice di pace (art. 34 d. lgs. n. 274/2000). L’art. 131-bis c.p. esclude la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. 2. NATURA GIURIDICA DELL’ISTITUTO DELLA PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO. Il nuovo istituto è stato collocato nel Titolo V, Capo I, del Libro I del codice penale, con contestuale modifica delle originarie denominazioni sia del Titolo V “Della non punibilità per particolare tenuità del fatto”, sia del Capo I “Della modificazione, applicazione ed esecuzione della pena”. Un importante elemento di riflessione è costituito dall’indi- 20 viduazione della natura giuridica della particolare tenuità del fatto e, precisamente, della sua riconducibilità all’area del diritto penale sostanziale o nell’ambito della procedura penale. In realtà, l’inquadramento della nuova fattispecie quale causa di non punibilità – e quindi istituto di natura sostanziale - sembra una soluzione confortata da due argomenti: innanzitutto, l’utilizzazione da parte del Legislatore della locuzione “punibilità”, anzichè “procedibilità”; inoltre, il decreto legislativo 28/15 è stato emanato in esecuzione dell’art. 1 della legge delega n. 67/2014, norma a suo tempo rubricata come “delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie”. La natura sostanziale del nuovo istituto risulta, del resto, già affermata dalla Corte di Cassazione attraverso la sentenza n. 15449 dell’8 aprile 20151. Non convince la difforme opinione di Palazzo, che ha presieduto la Commissione ministeriale di studio per l’elaborazione delle proposte per dare attuazione alla legge delega n. 67/2014, secondo il quale, nel momento in cui il legislatore ha imposto al governo di allestire una disciplina processuale dell’istituto “…adeguando la relativa normativa processuale penale”, sembra abbia aperto ad un’utilizzazione processuale dell’istituto anche come causa di improcedi1 Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, dep. 15 aprile 2015, n. 15449, Mazzarotto, in CED Cass.. bilità e, dunque, di archiviazione: in effetti, se l’irrilevanza avesse dovuto funzionare esclusivamente quale causa di non punibilità sostanziale, nessun bisogno vi sarebbe stato di “adeguare la relativa normativa processuale”, essendo più che sufficiente il disposto dell’art. 129 c.p.p.2. Invero, la necessità di considerare l’irrilevanza per particolare tenuità quale causa di non punibilità discende dalla considerazione che l’istituto in esame presuppone una condotta tipica, connotata dall’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie ed offensiva dell’interesse tutelato; tuttavia, par scelta del Legislatore, tale condotta viene ritenuta non punibile3. La particolare tenuità del fatto costituisce, in definitiva, una causa di non punibilità analoga a quelle già presenti nel nostro ordinamento; pertanto, la stessa troverà applicazione retroattivamente in virtù del principio di retroattività della legge più favorevole sancito dall’art. 2, comma 4, c.p.. 2 PALAZZO, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (A proposito della legge n. 67/2014), In Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale n. 4/2014, Giuffrè Editore, pag. 1707. 3 Si esprime in tal senso la Relazione allo schema presentato alle Camere per il parere previsto dalla legge delega. 3. PRESUPPOSTI PER L’APPLICABILITA’ DELLA IRRILEVANZA DEL FATTO. I presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto sono due: il primo è rappresentato dal limite edittale di pena previsto dalle singole fattispecie di reato; mentre il secondo si articola, a sua volta, in due elementi: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. non solo nel fatto che il legislatore ha inteso eliminare quel margine di discrezionalità che si presenta tutte le volte in cui, concorrendo circostanze eterogenee, il giudice deve procedere al bilanciamento, ma anche nel timore che il giudice stesso possa “forzare la mano” nel ritenere sussistente un concorso eterogeneo di circostanze al solo fine di utilizzare, in termini del tutto strumentali, il giudizio di bilanciamento4. L’ultimo comma dell’art. 131bis c.p. completa l’individuazione dell’ambito applicativo della fattispecie precisando che “la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante”. Il significato di questa disposizione risulta evidente, ove si consideri che dell’attenuante comune prevista dall’articolo 62, numero 4, c.p. non potrebbe tenersi conto ai fini della determinazione della pena ex art. 131-bis, comma 1, c.p. Tuttavia, non v’è dubbio che proprio la configurabilità di tale attenuante di fatto – rappresentata dalla speciale tenuità del danno patrimoniale subito dalla persona offesa da reati contro il patrimonio - costituisca elemento importante per articolare il giudizio su quella esiguità dell’offesa che, unitamente all’apprezzamento delle modalità della condotta ed alla non abitualità del comportamento incriminato, potrebbe portare alla applicazione della causa di esclusione della punibilità in disamina. 3.1 L’individuazione della cornice edittale. Per quanto attiene l’ambito di applicazione della causa di non punibilità di cui trattasi, l’art. 131bis c.p. stabilisce che essa può trovare applicazione soltanto per i reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva. Per la determinazione della pena detentiva, analogamente a quanto previsto dagli artt. 4, 278 e 379 del codice di rito, non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria prevista per il reato non circostanziato e di quelle ad effetto speciale, con la precisazione che, in tale ultimo caso, ai fini del computo della pena, non si deve tenere conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze ex art. 69 c.p. Ciò significa che qualora una di tali circostanze aggravanti ad effetto 3.2 Requisiti di applicabilità. speciale concorra con una circoUna volta verificato che il restanza attenuante, il giudizio di ato rientri nella cornice edittale bilanciamento non operi e quindi non trovi applicazione l’istituto sopra descritta, occorre verificare della particolare tenuità. L’esclusione della punibilità per particoLa ratio di tale disciplina sta 4lareBARTOLI, tenuità del fatto, in Rivista di Diritto Penale e Processo, n. 6/2015, Ipsoa, pag. 665. la presenza dei presupposti della particolare tenuità del fatto normativamente previsti e che debbono ricorrere congiuntamente. Si tratta della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del comportamento. 3.2.1 La particolare tenuità dell’offesa. La particolare tenuità dell’offesa si desume attraverso due elementi che debbono essere oggetto di rigoroso accertamento: la modalità della condotta tenuta dall’agente e l’esiguità del danno o del pericolo dallo stesso provocati. La valutazione dei due menzionati requisiti deve essere compiuta ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p., vale a dire tenendo conto degli indici fattuali ivi indicati, con la conseguenza che per la valutazione della gravità del reato il giudice dovrà tenere conto anche dell’intensità dell’elemento soggettivo che ha caratterizzato l’azione del reo5. Per quanto concerne la modalità della condotta, assumono importanza particolare la natura, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione. Con riferimento, invece, al parametro dell’esiguità del danno o del pericolo, essa va riferita alla offensività in concreto ed al disvalore penale del fatto, senza che detto parametro possa ritenersi coincidente con il solo danno patrimoniale subito dalla persona offesa. Il comma 2 dell’art. 131-bis c.p. 5 Nel testo originario proposto al parere delle Camere, mancava un esplicito riferimento proprio al grado di colpevolezza, giacché non era espressamente menzionato l’art. 133 c.p. e si limitava letteralmente la valutazione del giudice alla considerazione della modalità della condotta. Nel testo definitivo si è provveduto a specificare, al comma 1 dell’art. 131-bis c.p., che le modalità della condotta e l’esiguità del danno devono essere valutate “ai sensi dell’articolo 133, comma 1, c.p.” con la conseguenza che, per la valutazione della gravità del reato, si deve tenere conto anche dell’elemento soggettivo della condotta. 21 prevede una esplicita enunciazione di casi in cui l’offesa non può ritenersi di particolare tenuità. Ciò accade quando “l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o abbia adoperato sevizie o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate quale conseguenze non volute la morte o le lesioni gravissime di una persona”. 3.2.2 La non abitualità del comportamento. La seconda condizione per l’applicazione della causa di non punibilità impone che il comportamento risulti “non abituale”. Il disposto dell’art. 131-bis, comma 3, c.p. si preoccupa, al riguardo, di specificare quando il comportamento debba considerarsi come abituale (ovvero le ipotesi di autore dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; i casi in cui l’autore abbia commesso più reati della stessa indole - anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità - oppure reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate). L’espressa enunciazione normativa tende ad evitare una eccessiva discrezionalità giudiziale. Il richiamo alla pluralità di reati della stessa indole chiarisce sino a che punto rilevi l’omogeneità delle infrazioni commesse quando non si sia in presenza di delinquenti abituali, professionali o per tendenza; il riferimento ai reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate tende ad ampliare l’ambito delle preclusioni all’applicabilità della causa di non punibilità sino a comprendere i singoli reati realizzati con pluralità di distinte con- 22 dotte. Si può ipotizzare che il concetto di non abitualità implichi che un precedente giudiziario non sia di per sé ostativo al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, mentre l’abitualità ostativa sembrerebbe riferirsi ai casi in cui il reato o la condotta si inseriscano “in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi”6. 4. PROFILI PROCESSUALI. Il profilo sostanziale della non punibilità per particolare tenuità del fatto consente di escludere dall’area della penalmente rilevante i fatti che appaiono immeritevoli di punizione. Sotto il profilo processuale tale non punibilità contribuisce a soddisfare l’esigenza di alleggerire il carico giudiziario, esigenza che tanto più risulterà soddisfatta quanto più la definizione del procedimento riuscirà a collocarsi nelle sue prime fasi. Alla declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può procedersi sia nel corso delle indagini preliminari, sia successivamente all’esercizio dell’azione penale. Nel primo caso provvederà il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 411, commi 1 e 1 bis, c.p.p.. Nel secondo caso ci penserà il giudice, prima del dibattimento nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 469 c.p.p. -, oppure all’esito dell’udienza preliminare o del dibattimento. 6 GROSSO, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Rivista di Diritto Penale e Processo, n. 5/2015, Ipsoa, pag. 519. 4.1 Indagini preliminari. La particolare tenuità del fatto è stata inserita nell’art. 411, comma 1, c.p.p. come ipotesi di archiviazione. La novità dell’istituto ha imposto l’introduzione di un nuovo comma (il n. 1 bis) all’art. 411 c.p.p., recante la previsione che, in caso di richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini ed alla persona offesa, precisando che, nel termine di dieci giorni, entrambi possono prendere visione degli atti e presentare opposizione indicando, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta. Della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto deve essere sempre avvisata la persona offesa, anche quando questa non abbia dichiarato di voler essere informata ai sensi dell’articolo 408, comma 2, c.p.p.. Sulla richiesta di archiviazione, in caso di mancata opposizione o di inammissibilità della stessa, il G.I.P. non fissa l’udienza camerale e pronuncia decreto motivato di archiviazione, ove ritenga di accogliere la richiesta del P.M. In caso di opposizione ammissibile – proposta dall’indagato, dalla persona offesa o da entrambi – il G.I.P., ove accolga la richiesta del P.M., pronuncia ordinanza di archiviazione. In entrambi i casi, se il G.I.P. non condivide la richiesta del P.M. restituisce gli atti a quest’ultimo eventualmente ordinando nuove indagini o l’imputazione coatta. Alla persona offesa non è stato riconosciuto un diritto di veto avverso la declaratoria di non punibilità del fatto per irrilevanza dello stesso, e ciò perché una previsione siffatta avrebbe con- 4.4. Dibattimento. La causa di non punibilità può essere pronunciata anche all’esito del dibattimento, con sentenza ex art. 529 c.p.p.. In tal caso, ai sensi dell’art. 651 bis, comma 1, c.p.p. “la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile 4.2 Udienza preliminare. che sia stato citato ovvero sia interveNei procedimenti che preve- nuto nel processo penale”. dono l’udienza preliminare, nei casi in cui il pubblico ministero non ha ritenuto il fatto di particolare tenuità oppure nei casi in cui 5. CASELLARIO GIUDIZIALE. il Gip ha rigettato la richiesta, il La decisione con cui è stata apG.U.P. può emettere sentenza di plicata la causa di non punibilità, non luogo a procedere, ex art. 425, anche in sede di archiviazione, comma 1, c.p.p. per particolare te- deve essere iscritta nel casellario nuità del fatto. Il contraddittorio giudiziale. Tale iscrizione assume è assicurato dalla citazione per rilievo ai fini dell’apprezzamento l’udienza preliminare anche della del presupposto dell’abitualità persona offesa, messa in condi- del comportamento che, in futuzione di interloquire. ro, potrà escludere il nuovo accesIn mancanza di espresse dispo- so al beneficio. sizioni – al contrario previste con riferimento alla sentenza dibattimentale – deve ritenersi che la decisione non abbia alcun effetto 6. PARTICOLARE TENUITA’ nei giudizi civili o amministrativi. DEL FATTO IN GRADO DI APPELLO E NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITA’. 4.3 Declaratoria di improcediPer i giudizi pendenti al mobilità predibattimentale. mento dell’entrata in vigore La modifica dell’art. 469, dell’art. 131 bis c.p. pacifica è la comma 1 bis, c.p.p. consente la applicabilità dell’istituto in esame declaratoria di improcedibilità anche in grado di appello. predibattimentale anche quando A norma dell’art. 609, comma ricorre la causa di non punibilità 2, c.p.p., nell’ipotesi in cui non in esame, previa audizione in casia stato possibile chiedere in apmera di consiglio anche della perpello l’esclusione della punibilità sona offesa, se compare. per particolare tenuità del fatto, è ciò potrà essere fatto per la prima volta davanti alla Corte di Cassatraddetto lo scopo deflazionistico perseguito con l’introduzione dell’istituto in esame. Il diritto di opposizione è stato riconosciuto anche all’indagato che si ritenga estraneo al fatto contestatogli. Il provvedimento di archiviazione può essere impugnato solo per ragioni procedurali, ovvero nei casi di nullità previsti dall’art. 127, comma 5, c.p.p., cioè quando non sia stato instaurato correttamente il contraddittorio. È esclusa una impugnazione nel merito dell’archiviazione. zione. La terza sezione della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 21014/15, ha precisato che un intervento d’ufficio del giudice di legittimità è possibile tutte le volte che -“posto di fronte a casi di effettiva irrilevanza del fatto anche sulla base di quanto emerga dal testo della sentenza impugnata, dopo aver verificato l’astratta applicabilità della norma di favore in relazione ai vari presupposti e/o condizioni richieste dalla norma medesima”- decida di darvi attuazione attraverso una pronuncia di annullamento con rinvio. Con la predetta ordinanza la Cassazione ha analizzato modi e limiti del controllo della sussistenza delle condizioni per l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. La stessa Corte di Cassazione con un recentissimo arresto ha chiarito che: “Qualora sussistono i presupposti per l’applicazione della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la Corte di Cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata per consentire al giudice di merito la valutazione conseguente. Nel caso in cui, invece, la Corte di Cassazione ritenga, sulla scorta della sentenza impugnata, che il giudice del merito abbia anche solo implicitamente escluso la sussistenza dei presupposti enunciati dall’art. 131-bis c.p., la relativa questione deve essere rigettata, non essendo necessario un controllo di fatto”7. Daniele Carra 7 (Cass. pen., Sez. II, 16 ottobre 2015, n. 41742). CISTERNA, Particolare Tenuità del fatto: sentenza da annullare con rinvio solo se ricorrono le condizioni, in Quotidiano Giuridico on line, Wolters Kluwer, mercoledì 28 ottobre 2015. 23 IL CONDOMINIO PARZIALE: QUESTO SCONOSCIUTO (almeno da due recenti pronunce della Corte Suprema di Cassazione) Infatti la recente ordinanza Cass. civ. sez. VI 5 dicembre 2012. n. 21866, pubblicata sul numero 4/2013 di Archivio delle locazioni e del condominio contiene il principio secondo cui “le scale, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell’art. 1117 cod. civ., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poichè anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell’edificio.“ A conferma di questo principio viene ricordata la sentenza Cass. civ., sez. II 10/07/2007 n. 15444 che in effetti contiene la medesima asserzione. La nota di commento alla predetta ordinanza, a firma di Maurizio de Tilla, condivide l’assunto. Se, però, il Collegio della VI sezione della Cassazione avesse estesa la propria ricerca un po’ più indietro rispetto all’anno 2007 si sarebbe imbattuto in altre pronunce della Corte di legittimità che gli avrebbero, a mio modesto avviso, fatto enunciare il principio opposto a quello espresso. Infatti questo confligge inesorabilmente con quello sostenuto dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 7449 del 7/07/1993. In questa pronuncia si può leggere che nelle decisioni della Corte 24 in cui si è ritenuto che “la destinazione particolare vince la presunzione legale di condominio alla stessa stregua di un titolo contrario“, benchè si sia richiamato erroneamente il concetto di presunzione, del tutto estraneo alla norma dell’art. 1117 civ., s’è però, enunciato anche il principio, indubbiamente corretto, secondo cui una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni se serva per le sue caratteristiche strutturali soltanto all’uso e al godimento di una parte dell’immobile oggetto di un autonomo diritto di proprietà.“... in quanto la destinazione particolare esclude già all’origine che il bene rientri nella categoria delle cose comuni, e che ad esso possa quindi riferirsi la norma dell’art. 1117 del codice civile. Come esempio chiarificatore può considerarsi l’ipotesi di una scala che serva per accedere a un solo appartamento dell’edificio condominiale. Non può dubitarsi che essa sia di proprietà esclusiva del titolare di questa unità immobiliare, ma non perchè la sua destinazione particolare superi la presunzione legale di comunione, bensì in quanto in tale caso la scala per le sue caratteristiche strutturali non rientra proprio nell’ambito delle cose comuni di cui all’art. 1117 del codice civile. “ Questo principio è confermato, e l’argomento in questione viene trattato in maniera pregevole ed assolutamente esaustiva, dalla sentenza Cass. civ., sez. II 27/09/1994 n. 7885 della quale è stato relatore il Dott. Rafaele Corona. Vi si può infatti leggere: “Il “ condominio parziale “ raffigura una categoria radicata nell’esperienza e riconosciuta dalla giuri- sprudenza la quale, piuttosto che della definizione del principio, si occupa della decisone dei casi di specie. ... Indipendentemente dal titolo - consistente nell’assetto predisposto dalla autonomia privata- nell’ambito della più vasta contitolarità si ammette la costituzione per legge dei cosiddetti condomini parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero della destinazione all’uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari. Per la verità l’asserto che la proprietà comune appartenga necessariamente a tutti i partecipanti e non si frazioni, neppure in casi eccezionali, se non in virtù del titolo, non è più condiviso e, in effetti, non regge alla critica, fondata sulla ricognizione non aprioristica dei dati positivi. I presupposti per la attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti, effettivamente uniti alle unità abitative dal collegamento strumentale: vale a dire, le sole parti di uso comune, che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al sevizio di determinati piani o porzioni di piano. La disposizione, da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123 comma 3 cod. civ. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune.” Se i proprietari delle unità im- mobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma 2 cod. civ, il disposto dell’art. 1123 comma 3 sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile. In realtà, l’art. 1123 cod. civ. (e forse non è un caso che questo articolo sia stato lasciato del tutto inalterato dalla riforma 2012 del condominio) nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma 2 regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma 3 disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi del condominio parziale. Sul piano funzionale, i termini dell’utilità e dell’interesse in concreto sono definiti dalla relazione di accessorietà e oltre i confini di questa l’utilità e l’interesse non sussistono e la attribuzione del diritto non si giustifica. ... La relazione di accessorio a principale, perciò, definisce ad un tempo i termini dell’interesse e dell’oggetto del diritto, nel senso che individua le cose, i servizi e gli impianti, i quali costituiscono il punto obbiettivo di incidenza del nesso quod inter est e rappresenta la ragione della attribuzione del condominio. In favore dei singoli partecipanti, la attribuzione del diritto dipende dalla configurazione in concreto della relazione di accessorietà tra le parti comuni ed i singoli piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria: relazione che giustifica l’interesse effettivo e ne delimita i confini. Laddove la relazione non corre, l’interesse non sussiste il diritto non viene attribuito. Tenuto conto della configurazione del condominio, quale risulta dalle norme e dall’esperienza, non è esatto che tutti i condomini siano titolari di tutte le parti comuni, qualunque sia la conformazione del fabbricato: in altre parole, qualunque sia il numero dei portoni d’ingresso, delle scale, del tetto o dei lastrici solari; sussista o no la destinazione dell’ascensore a servire o no tutti i piani; esista o meno la possibilità per gli immobili, che si affacciano sulla strada ( i magazzini ed i negozi ), di utilizzare la scala, il portone. ... Numerose ed evidenti sono le conseguenze operative del condominio parziale. Relativamente alle cose, ai (ser)vizi ed agli impianti, dei quali non hanno la titolarità, per i partecipanti al gruppo non si pongono questioni di gestione e di obbligatorietà di contribuire alle spese. In particolare, non sussiste il diritto di partecipare all’assemblea, ragion per cui la composizione del collegio e delle maggioranze si modificano in relazione alla titolarità delle parti comuni, che della delibera formano oggetto e non sorge l’obbligazione di contribuire alle spese.” Nella successiva sentenza Cass. civ., sez. II 13 luglio 1996, n. 6359 si enuncia il seguente principio di diritto: “in tema di condominio di edifici, il criterio di ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni previsto dal primo comma dell’art. 1123 cod. civ. non si applica quando si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, per le quali, a meno che non vi sia un diverso accordo delle parti, il criterio è, invece, quello della proporzionalità tra spese ed uso stabilito dal secondo comma del medesimo articolo o quando si tratta di cose che, benchè comuni, sono destinate a servire solo una parte dell’intero fabbricato, per le quali il criterio è, invece, quello del terzo comma, che pone le spese solo a carico dei condomini che traggono utilità dalla cosa. “ Nello stesso senso si esprime la sentenza Cass. civ., sez. II, 28 aprile 2004, n. 8136 che pure parla ancora impropriamente di presunzione legale. “Ciò premesso, la decisone della corte d’appello, che ha dichiarato la proprietà comune del corridoio ai sensi dell’art. 1117 c. civ., può essere condivisa ove si ammetta, come è ormai acquisito, sia in dottrina che nella giurisprudenza di legittimità (v. sent. 5224/93; 7885/94), la costituzione ex lege del cosiddetto “condominio parziale“, istituto che si configura quando servendo un bene, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, in modo esclusivo al godimento di una sola parte dell’edificio in condominio, (parte)oggetto di un autonomo diritto di proprietà viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (v. sent. 9089/91). In tal caso, infatti, secondo la giurisprudenza di questa corte, la destinazione particolare del bene, vince la presunzione legale di contitolarità di tutti i condomini alla stessa stregua di un titolo contrario. “ Per completezza dell’argomento ricordo che hanno applicato questo principio le seguenti sentenze di merito: Tribunale Milano, 4 maggio 2000, Tribunale Piacenza, 22 maggio 2001, Tribunale Roma, sez. V, 2 luglio 2009, n. 14530, Tribunale Trieste, 23 febbraio 2010, n, 177: In conclusione non posso condividere l’assunto dell’ordinanza 2013 e della sentenza 2007 e rilevo, con una certa meraviglia, che, in particolare, il problema delle spese relative alla manutenzione delle scale, come si è visto, era stato bene affrontato da tutte le pronunce che ho ricordato. Renato Del Chicca 25 memorie Gli insegnamenti del prof. Cessari si rivelano sempre più preziosi e vivi, pur con il trascorrere di tanti anni da quando abbiamo avuto l’onore e la fortuna di riceverli.Con l’auspicio che possiate condividere la nostra affettuosa gratitudine nel ricordarli, riteniamo opportuno iniziarne la pubblicazione (per continuarla nei prossimi numeri); quantomeno per taluni, documentati da uno scambio di corrispondenza, fino ad ora gelosamente custodita quale impareggiabile patrimonio intellettuale di cui abbiamo potuto alimentarci. Luigi Angiello Lucia Silvagna 8/9/72 Cara Lucia,ha visto gli scherzi del latino? In quella lingua uno dei verbi più usati era resistere; però, nella latinità classica da resistere non era ancora stato ricavato il sostantivo resistentia, sebbene fosse d’uso frequentissimo la frase nullo resistente (o nullo obsistente) per la nostra espressione “non resistente” e, naturalmente, la parola resistente, per il nostro resistente. Per la resistenza (sostantivo) s’usava invece pugna, certamen, defensio. Morale: nel parere sullo sciopero ho dovuto usare l’espressione jus defensionis. Non rende al 100% il mio pensiero; ma bisogna accontentarsi. Dall’episodio si ricava comunque una conferma: bisogna dubitare sempre, di tutto, Solo chi dubita fa vera scienza. Gli altri … fanno i dogmatici. Dio li abbia in gloria. Io, no. Cordialmente - Aldo Cessari 26 segnali di fumo il diritto preso sul serio & il diritto preso sul ridere “Nelle camere di consiglio tutti si chiamano per nome. L’atmosfera è a metà tra convento e collegio di studenti. Avevano ragione Woodward e Armstrong, nel 1979, nell’intitolare il loro libro sulla Corte suprema americana “The Brethren” (i confratelli)”. (Sabino Cassese). Nei meandri della Consulta. Sabino Cassese “Dentro la Corte – diario di un giudice costituzionale” Il Mulino Ed., pagg. 319”. E’ un’opera originale ed unica per il nostro Paese, ove mai, a differenza da altri Stati, come quelli anglosassoni, alcun giudice si era peritato, tanto meno della Corte Costituzionale, di pubblicare un diario ove si narra dall’interno del Palazzo, in capitoletti, di sedute, contrasti, sentenze coraggiose o compiacenti verso la politica, di dotte considerazioni sul diritto, che deve imbrigliare l’enorme complessità del reale, dalla fin di vita alla fecondazione eterologica, dagli immigrati al lodo Alfano e al legittimo impedimento, dalla Legge Cirielli al Porcellum (ove è chiaro che l’A. avrebbe voluto che, con più coraggio, si fosse ripristinata la legge Mattarella), dal conflitto di attribuzioni tra il Presidente della Repubblica e la Procura di Palermo fino …. alla vaccinazione del bestiame. Gli appunti, ovviamente episodici, per argomenti spesso ripresi e rimeditati, si snodano in tutta la durata del cursus di giudice costituzionale, ma a tale dispersione rimedia egregiamente una nutrita appendice in cui l’A. sintetizza in forma rigorosa e con la chiarezza del docente le tesi espresse nelle pagine diaristiche. Il lettore attento non la tralasci. Soprattuto l’elogio della dissenting – opinion, cioè della utilità di rendere pubbliche le voci e le espressioni di voto dei giudici andati in minoranza. Si può persino dire che proprio con questa pubblicazione Sabino Cassese ha inteso sciogliersi, con le dovute limitazioni, dai vincoli della secretazione. Ed infatti non si fanno nomi, ma i colleghi e i giudici remittenti si riconosceranno, e i terzi più informati sapranno individuarli. Non farà certo piacere sentir raccontare che tra i suoi “com- pagni di viaggio” c’è chi si appisola durante le udienze, chi studia tanto, ma la sua presenza fa scadere il livello delle sentenze, chi è attento e preparato, ma non ha capito quale sia il ruolo della Corte Costituzionale. Ma se è vero, come scrive Carlo M. Cipolla, che in ogni categoria di individui, bidelli o professori universitari che siano, la percentuale di stupidi è la stessa, non susciterà troppo risentimento la definizione del Pugliatti di “alluvionati mentali” applicata ad una quota dei giudici della Corte. La stupidità dei politici è significativamente esplicitata dall’idea a suo tempo coltivata – in odio alla Corte – di richiedere il quorum sinodale dei due terzi per le decisioni di legittimità onde rendere le leggi ancora più blindate, a presidio del Governo e della maggioranza. Senonché i politici non si erano resi conto che lo Stato si sarebbe disarmato da solo nei conflitti costituzionali aventi ad oggetto le impugnazioni di leggi regionali. Il favor per la dissenting opinion pervade tutto il testo, ritenendo l’autore che la conoscenza dell’opinione di minoranza sia di sti- 27 molo per il legislatore e per spostare i termini di eventuali nuove eccezioni di illegittimità costituzionale. Ricorda Cassese che la secretazione della decisione risale al Re monarca assoluto, a cui i consiglieri di corte davano pareri senza apparire. Si parva licet il nostro collega previdenzialista nella favola da lui pubblicata (Paolo Boer “I due pappagalli del re”)1 narra che il Re di Curlandia avendo due pappagaletti per consulenti, faceva un particolare uso della dissenting opinion: sposava la tesi del secondo pappagaletto che, pronunciandosi dopo il primo, invariabilmente decideva in senso opposto. Entrambe le opinioni erano secretate, e tuttavia era rispettato, in modo improprio, il principio del contraddittorio. Ovviamente si leggono con particolare curiosità i riferimenti alle sentenze cd. “storiche”, come quelle a cui abbiamo inizialmente accennato. In particolare la pagina di paradossale amenità ove si racconta (a pag. 265) del contrasto tra Ciampi e Berlusconi sulla nomina di tre giudici costituzionali. Il Presidente della Repubblica rivendicò la sua prerogativa esclusiva sulla firma dell’atto a cui il Capo del Governo fermamente si opponeva, ma poi si affrettò a controfirmare in giornata, non appena Ciampi minacciò di sollevare il conflitto di attribuzione. Ma si ricava dal testo che anche in presenza di sentenze con forti risonanze politiche ed istituzionali, precedute e seguite da polemiche – mediatiche anche aspre, nelle discussioni in seno alla Corte prevalse un sereno distacco. Tra le righe si coglie nell’autore, pur appassoniatamente 1 In Segnali di fumo di Cronache del giugno 2007. 28 rispettoso verso una sentinella irrinunciabile della nostra vita repubblicana, una velata delusione per la sua esperienza. E’ quando il diario si apre con un accenno a Moby Dick e si chiude sulle note di Winterreise di Shubert: “Sono giunto da straniero, - da straniero me ne vo” (scritto in tedesco). Così esprime il suo rammarico per non essere riuscito a vincere la prassi che voleva la elezione del Presidente più anziano in carica, con la nefasta conseguenza di aver presidenti in carica per pochi anni, e nocumento della attività della Corte. Rifiutò coerentemente di essere eletto Presidente e non divenne emerito. Per l’adagiarsi dei giudici in una sorte di non liquet con ordinanze di inammisibilità ogni volta che il giudice remittente aveva maldestramente posto la questione di legittimità, magari solo errando nella indicazione della legge violata. Ovvero quando, spogliandosi dei propri poteri, rimandano al giudice ordinario l’individuazione dell’interpretazione costituzionalmente orientata della legge censurata. Rincrescimento perché non era riuscito nel dar miglior funzionalità alla istituzione e ad arrestare la prassi della Consulta che mentre, ben predicando ribadiva nelle sue decisioni la necessità del rispetto del principio del concorso per l’accesso ai pubblici uffici, così escludendo stabilizzazioni, immissioni in ruolo politiche e progressioni senza valutazioni comparative, a riguardo del proprio personale agisce in senso opposto. Si può perciò dichiarare sconsolatamente di essere stato un Don Chisciotte e di aver lasciato infruttuosamente gli studi e i propri studenti? Sembra al contrario che l’A. ne abbia acquisito esperienze importanti, da insegnare a studiosi e non. Come quando nelle ultime pagine si compiace del dialogo e della “coralità” tra le corti internazionali e di altri Stati, a cui egli ha molto contribuito pur nella difficoltà degli intrecci tra la nostra Costituzione e le altre Corti. Esemplare la sentenza n. 12 del 2012 che ai sensi dell’art. 117 I° comma c.c. ha definito le norme della Cedu come integrative (interposte) del nostro diritto costituzionale, sempre nel rispetto dello stesso. D’altra parte la pluralità di Corti Costituzionali, le cui funzioni parzialmente si sovrappongono, consente ai cittadini di trovare una tutela dei loro diritti anche in altre sedi, diverse dalla Corte Costiuzioonale, così la Cedu in via sussidiaria. Ma queste Corti non sono i tutori esclusivi dei diritti garantiti nelle rispettive carte costituzionali. “Infatti, i trattati, gli accordi, i patti, le carte che garantiscono diritti e libertà, sono anche parte dei diritti nazionali. Quindi, i giudici nazionali divengono tutori dei diritti e delle libertà garantiti dalle carte sovrannazionali e stabiliscono rapporti con le corti sovrannazionali, aggirando i giudici costituzionali nazionali e quindi marginalizzandoli”. E conclude che in questo quadro “le Corti Costituzionali vedono erosi i propri compiti dall’alto e dal basso e limitati i propri poteri dalla necessità di tener conto, in vari modi, della giurisprudenza di Corti che operano in un ambito più vasto. Se perdono in parte la possibilità di dire l’ultima parola, se debbono ascoltare anche l’opinione di altre Corti, esse tuttavia diventano Il collega relatore è persona Il caso contemplava la correorganismi meno solitari, acquisiscono una nuova funzione, quel- ben degna di fede ed è stato testi- zione di elaborati alla media di 3 minuti ciascuno, e tale tempo la di interloquire con ordini giu- mone dei fatti. non era stato ritenuto congruo al ridici sovranazionali”. fine di far presumere una meditata attività di lettura e apprezzamento collegiale del valore dei Avviso ai praticanti alla vigi- temi svolti, tenuto conto soprattutto della complessità della maScostumatezze giudiziarie: lia dell’esame di abilitazione. natura e ambiente. In “Segnali di fumo” del pre- teria. Del resto il criterio della raL’ultimo numero di Cronache, cedente numero di “Cronache” con i Segnali di fumo in gran par- mi riferivo ad una clamorosa gionevolezza, insito nel nostro te dedicati alle scostumatezze esclusione dagli orali di un can- ordinamento, non può che far balneari, così come trattate nel didato agli esami di abilitazione presumere che non si dice la tempo dalla giurisprudenza, è di avvocato a seguito di una cor- correzione, ma la stessa lettura rimbalzato sulla scrivania di un rezione alla media di due minuti dell’elaborato è impossibile in collega, che frequenta abitual- per elaborato (attività delegata due minuti. Né nel caso risultano mente il Tar Lazio. ad una Corte del Sud). E mi di- strafalcioni o grosse lacune che Mi chiede se conosco scostu- chiaravo fiducioso nel ricorso al dispensino dalla prosecuzione della lettura. matezze a cui si dedicano le av- Tar. Da qui la ricorrenza dell’ecIn realtà non vi è nulla di sconvocatesse nelle aule di giustizia. cesso di potere. Penso si tratti delle colleghe tato per il ricorrente. Non so se questa svolta giuche d’estate sgambettano nei TriDifatti la magistratura ammirisprudenziale abbia avuto un bunali in minigonna. Non pro- nistrativa, specie avanti al Conprio di questo si tratta, l’evento è siglio di Stato, ha ripetutamente seguito. Se ne occupino almeno respinto tali ricorsi argomentan- quelli che all’orale porteranno episodico e monotematico. Quando avanti al Tar Lazio do che non poteva avere alcuna diritto amministrativo. Collegata a tale problemativengono discusse questioni che rilevanza il riferimento ad un ca quella sulla sufficienza della attengono alla difesa dell’am- astratto criterio matematico per biente, le avvocatesse del Coda- stabilire la congruità delle ope- sola espressione del giudizio atcons si posizionano nell’ultima razioni di correzione degli ela- traverso il voto numerico, senpanca in modo da essere ben borati. Né esiste uno standard di za giudizio valutativo. Anche scrutinate dai giudici che avanti, minutaggio stabilito per legge, la dottrina appare perplessa. dall’alto del bancone, godono di regolamento o circolare ministe- Sabino Cassese: “Il voto in un concorso (n.d.r. si noti la lieve ampia visuale. riale. Si siedono in un frenetico Tuttavia con decisione Cons. differenza dall’esame di abilitasventolio di centimetri di gonne Stato Sez. IV° 22.05.2000 n. 2915 zione) deve essere motivato? Il e, in un vedere e non vedere, con- (in Guida al Diritto 2000, 24, 88 problema è aperto da tempo. La sentono la vista dell’indumento ss.) si affermava: “una volta veri- questione riguarda un principio più intimo. L’iniziativa è discuti- ficati, sulla base delle attestazioni sostanziale e uno processuale: bile e nemmeno decifrabile nelle contenute nei verbali dei lavori della spiegare la decisione e consentire sue finalità. Ma concordiamo be- commissione giudicatrice di un pub- di impugnarla. Ma il voto numenevolmente che si voglia far in- blico concorso, i tempi medi utiliz- rico stesso è un ordine. Una gratendere che quella è la Natura, e zati per la correzione e valutazione duatoria. Accollare alla ammininon va violata. dei singoli elaborati, qualora il tem- strazioni il compito di spiegare Chiedo se davanti al Consi- po impiegato risulti talmente esiguo perché è stato dato un voto non glio di Stato avvenga lo stesso da far dubitare che sia stato mate- vuol dire richiedere troppo? E la quando si trattano le medesime rialmente impossibile l’adeguato motivazione sarà poi data mecquestioni. Sì, ma è successo una assolvimento dei prescritti adempi- canicamente, in forme stereotisola volta. Sarà perché i giudi- menti e della espressione ponderata pe? In tal caso (molto probabile) ci del C.d.S. sono più anziani e dei giudizi sulla valenza delle prove, sarà vera motivazione?”. E qui si torna al medesimo l’impatto risulta meno vigoroso. l’operato dell’organo di esame va ripunto della motivazione appatenuto illegittimo”. 29 rente. Molto di recente, però, Tar Lazio 14.07.2015 n. 9366, dopo aver precisato che in caso di valutazione insufficiente della prova del candidato non basta il solo voto alfanumerico ma è necessario che la commissione esaminatrice proceda ad un giudizio sintetico, il solo idoneo ad esprimere compiutamente l’iter logico seguito dalla stessa commissione (il caso da me segnalato ne mancava), annullava il giudizio di non ammissione alle prove orali, ravvisando l’illegittimità dell’operato della commissione esaminatrice non avendo quest’ultima posto alcun segno o breve nota a margine dell’elaborato ritenuto insufficiente, rendendo così impossibile verificare le ragioni dell’apprezzamento negativo. Se questo è lo stato, per lo meno incerto, della giurisprudenza, la scelta del candidato non può che essere quella di evitare gli oneri del ricorso, e “tornare a dicembre”, confidando in una commissione meno frettolosa. E che dire di disporre una candide camera, munita di moviola, nella sala ove avvengono le correzioni? Credo che i meno preparati si presentaranno confidando, al contrario, in una commissione altrettanto sbrigativa. Mediazione: vecchie e nuove frontiere. Si è appena concluso il convegno promosso dall’Organismo di mediazione Aequitas sulle nuove aperture relative all’istituto della mediazione civile e commerciale (D.Lgs n. 28/2010 mod.), in parte in via di sperimentazione per stessa statuizione legislativa. 30 Tra i relatori due giudici, il Dott. Massimo Moriconi del Tribunale di Roma e il Dott. Enrico Vernizzi del Tribunale di Parma. Segno della attenzione che i giudici prestano a questo istituto, forse più degli avvocati. Le prospettive espresse e discusse sono state di rilevante interesse. Peccato fossero assenti voci affezionate alle vecchie frontiere. E’ doveroso dare atto che prima della ordinanza Dott. Chiari 13.03.2015 in sede cautelare, la giurisprudenza delle “nuove frontiere” alla quale il nostro giudice si è ispirato è rimasto ignota o sopita anche nelle sedi qualificate della nostra avvocatura. Secondo quanto ex adverso scritto, se fosse vero che la mancata (e ingiustificata) presentazione personale della parte chiamata fa venir meno, in pregiudizio del ricorrente, la condizione di procedibilità, la nuova tesi non avrebbe alcun senso. Non va tuttavia pretermessa quella regoletta – broccardo di carattere generale – inveratasi nell’art. 157 III° comma c.p.c., e riecheggiante nell’art. 1175 c.c. – secondo cui non può essere accolta l’eccezione di nullità sollevata da chi vi abbia dato causa con il proprio comportamento consapevole. nave Giulio Cesare - 1934 Per l’appunto riferendosi a questo principio, sembra doversi discostare dall’ordinanza collegiale Trib. Parma 11.05.2015, che ha ritenuto di annullare parzialmente l’ordinanza impugnata per nullità della consulenza prodotta in sede di mediazione senza il rispetto del contraddittorio. Atteso che esso era stato offerto a controparte dal mediatore per ogni fase del procedimento, e tuttavia la stessa aveva rifiutato di partecipare, non sembra motivato correttamente il provvedimento collegiale, pur senza con ciò voler processualizzare la mediazione e impedire al giudice di sindacare gli atti formatisi nella medesima in conformità a legge (art. 8 IV° comma). E’ quindi da ritenere che altra avrebbe dovuto essere l’impugnazione del reclamante: contestare specificatamente i punti controversi della perizia, ai sensi dell’art. 115 I° c.p.c., non chiederne un rifacimento integrale (pur nella diversità delle due consulenze). E in tal senso il collegio avrebbe dovuto pronunciarsi. Per chiudere: la mediazione è obbligatoria come condizione di procedibilità, la partecipazione è un onere, quindi il confronto da altri proposto con l’obbligo di testimoniare è un fuor d’opera. Letture natalizie: emigrazioni di ieri e di oggi. “Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è uno straniero, uno che è sempre di troppo”. (F. Kafka “Il castello”). “Questa settimana, da una sola nave sono sbarcati duemila disperati, distrutti nello spirito, deboli nel fisico, che hanno però superato l’ispezione. Non c’è niente di simile nella storia. Siamo testimoni di un esperimento razziale che rivaleggia con gli esperimenti di Burbank sulla vita delle piante. Mai ci potrà essere una simile opportunità per la stirpicoltura umana. Eppure l’immigrazione è amara e tediosa anche per quelli che si meravigliarono degli incredibili risultati di Burbank con le piante – per quanto noi potremmo, se volessimo, selezionare il tipo di persona che un americano sarà o dovrebbe essere. Grandi mutamenti stanno infatti avvenendo. Da quando viaggiare è diventato più semplice e più economico, non vengono in cerca di libertà o di pace, ma per motivi mercenari. Così noi non abbiamo accolto persone che ci sono affini, persone che capiamo e da cui siamo capiti. Abbiamo preso fra noi gente di sangue, lingua, religione e costumi estranei. Abbiamo sviluppato distinzioni di classe e razza e odi finora sconsciuti. Ci ritroviamo crimini non – americani e criminali con nomi stranieri”. (Prescott F. Hall “Immigration”) lista dei passeggeri stranieri, nave Vincenzo Florio - New York, 15 novembre 1904 “Mare nostro che non sei nei cieli E abbracci i confini dell’isola e del mondo Sia benedetto il tuo sale Sia benedetto il tuo fondale Accogli le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde, i pescatori usciti nella notte, le loro reti tra le tue creature Massimo Sestini, mare di Lampedusa, 7 che tornano al mattino con la pegiugno 20142 sca dei naufraghi salvati. Mare nostro che non sei nei cieli All’alba sei colore del frumento Al tramonto dell’uva di vendemPer finire con un sorriso: mia ….il colmo della integrazione: Ti abbiamo seminato di annegati un nero che fa l’imbianchino. più di qualunque età delle tempeste. Mare nostro che non sei nei cieli AUGURI ! Tu sei più giusto della terraferma Pure quando sollevi onde a muGiacomo Voltattorni raglia e poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale. Fai da autunno per loro, da carezza, da abbraccio, bacio in fronte Di madre e padre prima di partire”. (Erri De Luca) 2 da “La Repubblica” 31 Il Consiglio Nazionale Forense, nella sua composizione rinnovata ai sensi della nuova legge professionale, sta affrontando – tra l’altro- l’applicazione concreta del nuovo Codice Deontologico Forense. Rilevantissima è la sentenza sotto proposta, sulla tipizzazione, “per quanto possibile” della condotta disciplinarmente rilevante: un tema delicato, già rilevato da Maurizio Donelli nell’ultimo numero di CRONACHE. Di seguito ne è pubblicata la massima (tratta dal sito http:// www.codicedeontologico-cnf.it) e quindi la motivazione in diritto, che indica la sorte delle condotte illecite pur non espressamente “tipizzate”. GIURISPRUDENZA DISCIPLINARE L’illecito disciplinare “atipico” 32 Il nuovo Codice Deontologico Forense è informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante, “per quanto possibile” (art. 3 c. 3 L. 247/2012), poiché la variegata e potenzialmente illimitata casistica di tutti i comportamenti (anche della vita privata) costituenti illecito disciplinare non ne consente una individuazione dettagliata, tassativa e non meramente esemplificativa. Conseguentemente, ove l’illecito non sia stato espressamente previsto (rectius, tipizzato) dalla fonte regolamentare, deve quindi essere ricostruito sulla base della legge (art. 3 c. 3 cit.) e del Codice Deontologico, a mente del quale l’avvocato “deve essere di condotta irreprensibile” (art. 17 c. 1 lett. h). Nel caso di illecito atipico, per la determinazione della relativa pena dovrà farsi riferimento ai principi generali ed al tipo di sanzione applicabile in ipotesi che presentino, seppur parzialmente, analogie con il caso specifico (Nel caso di specie, nell’ambito dell’attività professionale e con una strumentalizzazione del ruolo di avvocato, il professionista era stato condannato per il reato di traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti, condotta -questa- non espressamente tipizzata dal Codice Deontologico, che tuttavia prevede la responsabilità disciplinare dell’avvocato “cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale” (art. 4 c. 2°). In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha pertanto ritenuto congrua la sanzione della sospensione dall’esercizio professionale per la durata di anni tre). Consiglio Nazionale Forense (pres. Mascherin, rel. Picchioni), sentenza del 18 settembre 2015, n. 137 DIRITTO Il ricorso peraltro è, … , parzialmente fondato e deve essere accolto per quanto di ragione procedendosi ad una rideterminazione della pena anche alla luce dell’entrata in vigore della L. n. 247/2012, dei principi nella stessa enunciati e del nuovo diritto disciplinare. E’ da premettere che, in tale contesto, non può ritenersi venuto meno, ed anzi a maggior ragione risulta cogente, il principio costantemente affermato secondo il quale il giudicato penale non preclude una rinnovata valutazione in sede disciplinare dei fatti accertati penalmente, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità e dovendo rimanere fermo il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti, nella loro materialità, operato dall’autorità giudiziaria. E’ infatti inibito al giudice della deontologia di ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale passata in giudicato ma sussiste, tuttavia, la piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nella diversa ottica dell’illecito disciplinare, con la conseguenza che il C.O.A. (ed ora il C.D.D.) non è vincolato alle valutazioni contenute nella sentenza penale laddove esse esprimano determinazioni riconducibili a finalità del tutto distinte da quelle del controllo deontologico. A sensi dell’art. 3 c. 3° L. 247/2012 il nuovo Codice Deontologico, approvato dal C.N.F. il 31/1/2014, pubblicato sulla G.U. n. 241 del 16/10/2014 ed entrato in vigore il 16/12/2014, avrebbe dovuto “…… espressamente individuare tra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tipologia di un interesse pubblico al corretto esercizio della professione hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile”. Il Codice Deontologico vigente è stato quindi strutturato attribuendo ad ogni singola previsione una rilevanza disciplinare (con l’indicazione della relativa sanzione) pur nella consapevolezza di non potere arrivare ad una completa tipizzazione (impossibilità riconosciuta, peraltro, dalla stessa legge n. 247/2012 laddove, all’art. 3 c. 3°, utilizza l’inciso “per quanto possibile”) perché la variegata, e potenzialmente illimitata casistica di tutti i comportamenti costituenti illecito disciplinare non può consentire in alcun modo di individuarli a priori catalogandoli secondo un’elencazione dettagliata, tassativa e non meramente esemplificativa sino ad esaurire la gamma delle ipotesi possibili. La casistica disciplinare degli illeciti, che è legata allo status anche privato dell’avvocato, è infatti vastissima e non a caso, sottolineando l’atipicità sostanziale che continuava a caratterizzarlo, il previgente Codice Deontologico si chiudeva con l’enunciazione, all’art. 60, della natura meramente ricognitiva delle previsioni specifiche che non limitavano l’ambito di applicazione dei principi generali. Non sarebbe stato, d’altronde, compatibile con il ruolo peculiare dell’avvocato un diritto disciplinare il quale potesse consentire che comportamenti non corretti fossero, tuttavia, irrilevanti deontologicamente per mancanza di una specifica previsione edittale. Nel nuovo sistema deontologico l’illecito ove non espressamente previsto, rectius tipizzato, dalla fonte regolamentare deve quindi essere ricostruito sulla base sia della legge che del Codice Deontologico onde vengono in rilievo, quanto alla fonte primaria della L. n. 247/2012, sia l’art. 3 c. 3, già richiamato, sia l’art. 51 c. 1° a mente del quale “….le in- frazioni ai doveri ed alle regole di condotta della legge e della deontologia sono sottoposte al giudizio….“ sia l’art. 17 c. 1° lett. h il quale prevede che l’avvocato “….deve essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal vigente Codice Deontologico Forense”. Le suesposte norme della legge professionale devono poi essere raccordate con quelle del Codice Deontologico che pongono criteri idonei ad individuare ed a regolamentare le condotte di rilevanza disciplinare che già non siano state espressamente tipizzate nel corpo del codice stesso: l’art. 4 c. 2° : “L’avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso”; l’art. 20 “ la violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli costituisce illecito perseguibile nelle ipotesi previste nei titoli…..”; l’art. 21 che, riaffermando la potestà disciplinare, detta i criteri per la valutazione dei comportamenti e la graduazione delle sanzioni: “La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa….. avuto riguardo alla circostanze, oggettive e soggettive, …… nel cui contesto......”. Va ulteriormente ricordato come la Relazione Illustrativa del Nuovo Codice Deontologico già avesse affermato: “Risponde a questi fini (di tipizzazione solo parziale) la inserzione, nell’ambito dei principi generali e precisamente all’art. 9, della “norma di chiusura” di cui all’art. 3 comma 2 della legge 247/2012; il raccordo che l’art.20 opera poi con le previsioni specifiche e tipizzate della parte speciale del codice (identificanti da tempo ed indubbiamente le situazioni più ricorrenti delle patologie comportamentali in ambito forense) conferisce coerenza e compiutezza al sistema, rispettandone il criterio di fondo oggi ispiratore ma senza, con questo, indulgere ad una casistica esasperata e pur sempre deficitaria rispetto all’universo delle variabili comportamentali, talvolta neppure ipotizzabili”. Il sistema misto, non tipico ma improntato solo tendenzialmente alla tipicità e viene governato dall’insieme delle sopra richiamate norme, primarie e secondarie, che dettano principi utili per circoscrivere il perimetro ordinamentale all’interno del quale deve essere ricostruito l’illecito disciplinare non tipizzato definendo la sua configurazione, la sua portata e le conseguenze che ne derivano pur in assenza dell’espressa previsione della condotta e dell’indicazione della relativa sanzione edittale. Le fonti normative e regolamentari sono idonee, in altre parole, a consentire la coesistenza nell’ambito disciplinare della matrice tipica con quella atipica dando certezza di criteri precisi, non derogabili, non aleatori e non discrezionali che permettono di avere in ogni caso piena contezza dell’incolpazione e delle sue conseguenze e che, senza necessità di operare alcuna trasmigrazione di norme penali, assicurano nell’ambito disciplinare quella garanzia che altrove è data dalla tipicità penalistica. L’approccio del nuovo Codice Deontologico al problema dell’individuazione della sanzione ha quindi dovuto essere coerente con tale impostazione riservando al garantismo un’attenzione che non avrebbe potuto, comunque, prescindere dall’ineludibile apporto della copiosa e consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito formatasi negli anni. Essa infatti, nella sua positività, non avrebbe consentito di indulgere a facili enunciazioni di quei principi etici che, pur del tutto condivisibili in astratto, sarebbero stati di fatto inutili, per indeterminatezza dell’oggetto, a fondare un diritto positivo deontologico che, distante dalla fattispecie concreta e quindi privo di una precisa riferibilità ad un evento percepibile, non avrebbe potuto avere cittadinanza in un sistema connotato da afflittività come quello disciplinare. In attesa del Testo Unico da adottarsi ex art. 64 L. n. 247/2012 che contenga le norme legislative e re- 33 golamentari vigenti (non escluse quelle del “vecchio ordinamento” che resteranno in vigore ancorché non comprese nel T.U.) deve ulteriormente osservarsi come già il sistema delineato dalla legge professionale confermi uno stretto collegamento, pur nella loro autonomia ex art. 54 1° c. L. n. 247/2012, tra il processo penale ed il procedimento disciplinare posto che i fatti rilevanti nel primo devono essere oggetto di verifica anche nel secondo determinandone l’apertura. La legge n. 247/2012, a mero titolo esemplificativo, prevede (art. 51 c. 3° lett. b) che sia data comunicazione da parte dell’Autorità Giudiziaria al C.O.A. competente quando sia esercitata l’azione penale o che (art. 54 c. 2°) il procedimento disciplinare possa essere sospeso per acquisire atti e notizie dal processo penale, ed ancora (art. 56 c. 2°) dispone la riapertura del procedimento disciplinare conclusosi con proscioglimento quando, per il medesimo fatto, sia intervenuta condanna penale per un reato non colposo. Le norme suesposte confermano, unitamente, per vero, ad altre che non è questa la sede per richiamare, come sussista una precisa connessione tra processo penale e procedimento disciplinare e, quindi, tra fatti costituenti reato e fatti costituenti illecito deontologico e come, di conseguenza, l’ordinamento professionale debba essere necessariamente dotato di autonomi criteri indispensabili per valutare la diversa incidenza nell’ambito disciplinare di una fattispecie non tipizzata ab origine. Va sottolineato, in buona sostanza, che il nuovo Codice Deontologico non è ispirato al rigore del sistema sanzionatorio penale ma piuttosto, e tuttora, al principio affermato dalle S.S.U.U. (n. 9057/2005) secondo il quale “in tema di illeciti disciplinari, stante la stretta affinità delle situazioni, deve valere il principio affermato in tema di norme penali incriminatrici a forma libera, per le quali la predeterminazione e il criterio dell’incolpazione viene validamente affidato a concetti diffusi e generalmente compresi nella collettività in cui il giudice disciplinare opera”. 34 La gravità del fatto penale, intendendosi per tale la statuizione sulla pena contenuta in sentenza, deve comunque costituire uno dei criteri che, unitamente alla valutazione dell’evento ed agli altri parametri di cui all’art. 21 del Codice Deontologico, concorrono a determinare la misura della sanzione disciplinare che ha natura diversa rispetto a quella penale in ragione del diverso disvalore attribuito alla condotta, delle diverse finalità delle sanzioni dei due ordinamenti, dei diversi meccanismi di valutazione previsti per giungere sia all’accertamento della responsabilità che all’irrogazione della pena disciplinare. I concetti diffusi evocati dalle S.S.U.U. (id est principi, criteri …..) fanno quindi parte del diritto disciplinare e devono essere utilizzati per classificare – stabilizzare – sanzionare quei comportamenti illeciti non espressamente previsti dal Codice Deontologico. Nello specifico l’avv. F. D.S. è stato condannato per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 (traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti) e quindi per una condotta che, del tutto ovviamente, non ha costituito oggetto di tipizzazione nel Codice Deontologico onde per determinare la pena dovrà farsi riferimento ai principi più volte enunciati tenendo conto anche del tipo di sanzione applicabile in ipotesi che presentino, seppur parzialmente, analogie con il caso specifico. Il caso concreto può ricondursi anche alla fattispecie prevista al comma 6 dall’art. 23 del Codice Deontologico laddove si prevede che “L’avvocato non deve suggerire comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o fraudolenti” per la cui violazione è prevista la sanzione edittale della sospensione da uno a tre anni. La definitività della condanna per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/1990, e quindi il fatto storico, ricomprende peraltro anche la fattispecie tipizzata dalla norma deontologica richiamata che deve essere valutata nel più ampio contesto del comportamento complessivo che ha dato luogo alla condotta criminosa rilevante anche ex art. 4 del Codice Deontologico. Nel caso di specie è da sottolinearsi che la condotta censurata è stata tenuta nell’ambito dell’attività professionale con una strumentalizzazione del ruolo di avvocato che è stato utilizzato per pianificare e gestire l’operazione illecita. I fatti accertati penalmente sono quindi inequivocabili e, in coerenza con i principi enunciati, deve operarsi una valutazione della fattispecie tenendo conto della giovane età professionale dell’incolpato, del suo particolare stato di salute e dell’evidenza della circostanza che egli fosse stato coinvolto in un gioco troppo grande (e pericoloso) per lui operando in un contesto nel quale non era facilissimo discernere, anche se sarebbe stato doveroso, l’artificiosità di un’operazione nella quale erano intervenuti componenti delle Forze dell’Ordine non tutti, evidentemente, in adempimento del proprio mandato istituzionale. La sentenza penale n. 77/09 in data 6/4/2009 del Tribunale di Torino a carico del maresciallo G.L. A. evidenzia, d’altronde, una serie di risultanze testimoniali delle quali può tenersi conto in questa sede. Sanzione congrua risulta quindi essere quella della sospensione dell’esercizio dell’attività professionale per il periodo di tre anni, risultando opportuno (in applicazione dell’art. 21 del nuovo Codice Deontologico vigente) valutare a favore del ricorrente le circostanze oggettive e soggettive ed il contesto sopra delineato. Anche il breve arco temporale nel quale l’illecito è stato consumato può, in via prognostica, far presumere che l’avv. F.D.S. non abbia definitivamente assunto un habitus di totale dispregio dei principi fondamentali che presiedono all’esercizio della professione forense onde, non parendo sussistere motivi di gravità tale da rendere doverosa l’interdizione definitiva a far parte dell’Avvocatura, risulta equo non impedire all’avvocato di poter dar prova in futuro del proprio ravvedimento. Ricorrono quindi i presupposti per la sostituzione della pena disciplinare definitivamente ablativa con altra più attenuata, pur ablativa ma limitata nel tempo, così da consentire all’avv. F. D.S. di recuperare una linearità di comportamento che possa legittimare il suo reinserimento nella categoria professionale forense. Sanzione disciplinare congrua risulta essere quindi la sospensione dell’esercizio della professione per il periodo di anni tre ex artt. 52 e 53 L. n. 247/2012. L’oggetto del divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega Il dovere di difesa non deroga al divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega La ratio del divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante il professionista che produca in giudizio una lettera inviatagli dal collega di controparte e contenente una proposta transattiva (art. 48 ncdf, già art. 28 c.d.f.). La riservatezza, infatti, colpisce non solo tutte le comunicazioni espressamente dichiarate riservate, ma anche le comunicazioni scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso, quando le stesse contengano espressioni di fatti, illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente “riservate”. La produzione in giudizio di una lettera contenente proposta transattiva configura per ciò solo la violazione della norma deontologica di cui all’art. 28 c.d. (ora, 48 ncdf), precetto che non soffre eccezione alcuna, men che meno in vista del pur commendevole scopo di offrire il massimo della tutela nell’interesse del proprio cliente. La norma di cui all’art. 28 c.d. (ora, 48 ncdf) mira a salvaguardare il corretto svolgimento dell’attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni ovvero le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte transattive. Ciò al fine di evitare la mortificazione dei principi di collaborazione che per contro sono alla base dell’attività legale. Il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra professionisti contenente proposte transattive assume la valenza di un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali indipendentemente dagli effetti processuali della produzione vietata, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando scrive ad un collega di un proposito transattivo, non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e lealtà che rappresenta la base del patrimonio di ogni avvocato. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Sica), sentenza del 10 giugno 2014, n. 92 La rilevanza deontologica della vita privata del professionista L’illecito disciplinare prescinde dalla natura personale o privata del comportamento posto in essere dall’avvocato qualora assuma rilevanza esterna e possa incidere negativamente sul prestigio, la dignità e il decoro della classe forense: tale principio mira infatti a tutelare l’immagine dell’avvocato che in quanto collaboratore della giustizia deve improntare la sua condotta a criteri di correttezza e dignità anche se il suo comportamento non ha alcuna relazione con l’attività professionale. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Broccardo), sentenza del 17 luglio 2014, n. 94 Non costituisce illecito disciplinare ex se il comportamento dell’avvocato che, per strategia, non si presenta all’udienza penale La mancata partecipazione del difensore di fiducia all’udienza comporta, ex art. 484 c.p.p., la nomina di un difensore di ufficio, secondo le formalità previste dall’art. 97, comma 4, c.p.p., il quale opera in sostituzione di quello di fiducia. La valutazione della condotta processuale tenuta dal difensore, dettata dalle più svariate ragioni, in assenza di precise disposizioni di legge, non compete all’autorità giudiziaria in generale e men che meno al giudice del dibattimento il cui compito in materia è solo quello di garantire all’imputato un’adeguata assistenza, mediante l’applicazione dell’istituto della nomina del difensore di ufficio. Ne consegue che il non presentarsi all’udienza da parte del difensore non integra in sé violazione del mandato. Quindi, al di là ed a prescindere dalle postume giustificazioni (rinuncia al mandato, dichiarazione del suo cliente), il ricorrente non può essere sanzionato per tale condotta, in quanto essa non integra la violazione dei doveri di correttezza e diligenza. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Sica), sentenza del 10 giugno 2014, n. 93 L’efficacia, in sede disciplinare, della sentenza di patteggiamento Ancorché il procedimento disciplinare sia autonomo rispetto al procedimento penale aperto per lo stesso fatto, a norma dell’art. 653 c.p.p. la sentenza penale di applicazione di pena su richiesta delle parti è equiparata alla sentenza di condanna. Ne consegue che essa esplica funzione di giudicato nel procedimento disciplinare quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e alla responsabilità dell’incolpato. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Piacci), sentenza del 17 luglio 2014, n. 99 35 Anno XXIV numero tre (settantunesimo della serie) ottobre 2015 Questo numero usa il font Palatino Linotype In tipografia, Palatino è un tipo di carattere con grazie creato daHermann Zapf nel 1948. È ammirato da molti per la sua grazia e potenza. È stato adattato praticamente a tutte le tecnologie tipografiche, ed è probabilmente uno dei più usati e copiati tipi di caratteri esistenti. Chiamato così in onore di Giambattista Palatino, un maestro della calligrafia italiano del sedicesimo secolo, il Palatino è basato sui tipi di carattere del Rinascimento italiano, che imitano la scrittura calligrafica. Ma mentre i tipi rinascimentali tendenzialmente usavano lettere più piccole con linee verticali più lunghe (ascendenti e discendenti) con tratti più fini, Palatino ha proporzioni più ampie, ed è considerato molto più facile da leggere. plt (fonte Wikipedia.it) La foto in copertina è di Caterina Orzi. Vive a Parma Dal 1990 partecipa a mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati. Tra le più recenti esposizioni 2012 - “Cronaca” mostra fotografica promossa dalla Provincia di Parma e patrocinata dalla Regione Emilia - Romagna 2013 - Collettiva “Paesaggi ideali” Fotografia Europea 2013 - “ Amori senza” nella sede della Regione Emilia-Romagna 2014 - Collettiva “ Donne allo specchio” Fotografia Europea 2014 - “Amori dalla Cenere” Biblioteca della Camera dei deputati Con l’Alto Patronato del Presidente Della Repubblica il Patrocinio della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Lampedusa e Linosa. http://issuu.com/caterinaorzi. mail: [email protected] progetto grafico di Alessandro Riccomini - stampa Cabiria