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Quale modello d’identità?
Il filo conduttore del ragionamento dell’antropologo francese J.-L. AMSELLE è la nozione
d’identità o meglio di “branchement”, termini intimamente legati alla problematica della
globalizzazione. Jean Loup AMSELLE s’interroga nel suo” Logiques métisses. Anthropologie de
l’identité en Afrique et ailleurs” (Éditions Payot, Paris, 1990) sulle relazioni tra le nozioni
d’identità, di cultura e di Stato per suggerire, in conclusione, il ricorso a una “logique métisse”,
integratrice, al posto della “démarche discontinuiste” che è alla base dell’antropologia classica.
Secondo lo storico francese l’identità si costruisce nell’ambito di un sistema di trasformazioni la cui
logica obbedisce a un rapporto di forze e non a caratteri etnici presi separatamente. L’approccio che
AMSELLE suggerisce si presenta come un tentativo per pensare razionalmente e non separatamente
gli insiemi etnici, un tentativo per pensarli in modo dinamico e continuo. È raccomandata la sua
applicazione nell’analisi dei processi storici concreti e identificabili. È una “antropologia dei poteri”
che è preferita all’antropologia politica classica votata alla classificazione dei sistemi politici. Si
tratta di vedere nelle società cosiddette “segmentaires” il prodotto delle società di Stato e includere
le prime nella riproduzione di queste ultime. La distinzione tra i due sistemi non ha più senso. Sulla
questione del legame tra la produzione saggia e la produzione indigena, Jean Loup AMSELLE
mostra come esse si alimentano l’una dall’altra.
AMSELLE parte da una critica serrata nei confronti della”ragione etnologica” tesa a classificare e
catalogare unità diverse le etnie e le culture. Tale bisogno di separare e di esaltare le differenze
piuttosto che gli aspetti di continuità tra le popolazioni e le culture risponde alla necessità della
gestione coloniale con cui la “ragione etnologica” è stata “oggettivamente” convivente.
Il bersaglio critico dell’autore francese è rappresentato dal tipo di sapere che l’etnologia ha
costruito. L’ottica discontinuista era, secondo l’antropologo, funzionale sia a una ragione scientifica
che intendeva trattare le società come una sorta di entità naturali e quindi a costruire una specie di
tassonomia, sia alla pratica del regime coloniale che aveva bisogno di dividere in distretti
amministrativamente omogenei e separati i territori da controllare. Tale attitudine conoscitiva ha
prodotto delle vere e proprie finzioni etniche laddove la storia africana dell’area presa in esame,
quella francese del Mali, del Sudan occidentale, etc., in epoca precoloniale restituiva una realtà
molto più variegata e interrelata, in cui i destini delle singole popolazioni apparivano storicamente
legati e non indipendenti.
Jean Loup AMSELLE non manca di rilevare che quest’operazione ha influito sulla stessa auto
percezione delle comunità locali che hanno cominciato a rivendicare nell’ambito di nuove lotte di
potere la loro specificità etnica.
La verità è che per AMSELLE l’identità è uno stato instabile, un sistema di trasformazioni, non una
sostanza o una causa in grado di spiegare fenomeni d’interazione culturale. Denunciare l’errore di
prospettiva delle singole etnie separate non significa per nulla per AMSELLE togliere spazi alle
nuove soggettività etniche ma significa, al contrario, restituire loro un reale spazio di negoziazione
sociale e politica. La libertà identitaria che AMSELLE auspica sembra essere deterministicamente
fissata dalle condizioni sociali.
Oggi i conflitti culturali che fanno tremare le nostre società occidentali sono di una nuova natura
perché siamo alla presenza di un nuovo tipo di nomadismo migratorio e lo scontro tra valori diversi,
spesso opposti, è alla base della ricerca di una soluzione al malessere del XXI secolo, sopraggiunto
in seguito alla fine delle grandi ideologie della Storia.
La strada che il filosofo Jurgen HABERMAS ha indicato ci sembra quella più percorribile, tentare
di favorire l’espressione delle differenze in uno spazio comune regolato, costruire la convivenza
intorno al consenso di aspetti procedurali e facilitare il riconoscimento dell’altro grazie alla
condivisione delle regole.
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Così, per esempio, nella storia del Sudamerica il dialogo delle due letterature, quella spagnola e
quella latino-americana é possibile anche se esse hanno preso una strada diversa all’interno della
stessa lingua. Pur differenti, entrambe le letterature sono figlie della Spagna, della sua Storia e delle
sue idee, nel bene come nel male. I nuovi scrittori come Mario VARGAS LLOSA, Luis Borges e
Gabriel Garcìa Marquez rappresentano il meglio della scrittura latino-americana interessata
all’affermazione delle identità. Il loro successo é attestato dai numerosi premi che hanno ricevuto,
dal premio Nobel per la Letteratura a quello Ròmulo Gallegos, chiamato anche il Nobel americano,
attribuito a G.G.Marquez, a Calos Fuentes e nel 1967 a Mario Vargas Llosa. Le loro posizioni in
difesa degli oppressi e delle forze progressiste del nuovo continente hanno avuto grande risonanza e
sono valse a rafforzare il convincimento che si tratta delle migliori menti latino-americane.
Mario Vargas Llosa come G.G.Marquez raccontano nei romanzi la storia dei loro paesi, rivelano un
forte attaccamento alle tradizioni locali, al mondo degli emarginati e della gente semplice ed
operosa. I personaggi dei loro testi sono sognatori idealisti. Lima è descritta con rammarico e
tristezza come un’immensa bidonville in cui i bei quartieri di un tempo sono diventati delle
discariche pubbliche dove la gioventù ama trascorrere molte ore della giornata. Lo scrittore
peruviano Vargas Llosa non può accettare lo stato di degrado delle strade della sua città dove è
facile imbattersi nella corruzione ormai invadente e deleteria. Nella sua Historia de Mayta (1985),
Vargas Llosa ripercorre la vita di un eroe militante rivoluzionario marxista convinto come lui, allora
nel suo ardore giovanile, che per migliorare le condizioni di un popolo non esisteva altro che
l’azione armata. Nel testo Vargas Llosa descrive il suo compagno Mayta, protagonista di un’azione
di guerriglia pietosamente fallita perché avventuriera e frettolosamente programmata. Mayta, infatti,
coinvolge per la riuscita del suo piano due agitatori contadini e alcuni adolescenti con problemi di
giustizia, insomma una storia d’irresponsabili che non hanno capito che la rivoluzione è una cosa
seria e che per reagire alla disfatta del proprio paese ci sono armi più efficaci delle azioni
scervellate improntate all’umore del momento. Con l’esperienza e la maturità degli anni, Mario
Vargas LLOSA modifica il suo atteggiamento e si rende conto che occorre portare l’attenzione sulla
necessità di coordinare una serie di azioni individuali prima di fare delle scelte atte a liquidare
forme di corruzione e di prevaricazione gestite da alcune grandi famiglie, non c’é bisogno di uomini
come il dott. Noguera che pensava alla cospirazione e che tramava con le violenze. “L’uomo
d’azione, definito un sentimentale senza avvenire, con un carattere passivo e una definita vocazione
solitaria” (Storia di Mayta, p.100). Ciò che si richiede é l’uso della prudenza e della discrezione,
un ragionamento sereno legato al senso della realtà. Le fucilazioni facili e immediate senza
processo sono figlie dell’esaltazione e del terrore. È quanto succede a Macondo, in Cent’anni di
solitudine di G.G.MARQUEZ Aureliano Buendìa si autonomina colonnello, si mette alla testa di
ventuno uomini per attaccare la guarnigione, s’impadronisce delle armi e fa fucilare i quattro soldati
e il capitano che avevano assassinato una donna; non c’è legalità alcuna, né buon senso ma soltanto
l’arbitrarietà e lo sfogo di chi assapora il gusto del potere e si lascia dominare dall’istinto
ingannatore e dalle ossessioni storiche.
Alla nuova letteratura sudamericana anche se manca un Cervantès ed esperienze formative come
quella francese, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese non fanno comunque difetto
l’immaginazione, la sensibilità, la delicatezza, la sensualità e la gioia pur in un contesto sociopolitico difficile.
L’Europa ricercava la città ideale nel Nuovo Mondo.
L’ideale dell’Europa non era altro che l’America. Sulle sue terre desertiche e senza storia era
possibile ricostruire il mondo occidentale. In un certo senso L’Occidente è andato non alla scoperta
di un nuovo mondo, ma un ritorno alle sue origini. L’America appariva così come una Terra
promessa per i pionieri e gli emigranti, non solo in epoca coloniale. C’è da rilevare che l’America,
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dalla scoperta in poi, diventa una nuova e ricca fonte d’immagini per cui il mito classico
s’immischia alla nuova Utopia. “Non si saprebbe comprendere appieno l’America se si dimentica
che noi siamo un capitolo di storia dell’utopia”, scrisse Octavio Paz. Il sogno era quello di
organizzare una società ideale e di opporre alla conquista puramente militare e all’asservimento
dell’indigeno una società alternativa, giusta, egualitaria, lontana dall’Europa corrotta. L’Utopia
trasferiva all’uomo il dovere e la responsabilità di trasformare il mondo, privilegio fino allora
riservato agli dei. L’uomo poteva fare tutto, prevedere tutto e organizzare la nuova realtà, il progetto
utopico era dunque essenzialmente a carattere organizzativo. Nello stesso tempo l’utopia cristianosociale proponeva un modello per rifare il mondo occidentale. Le proposte “séraphique et
lascasienne” anticipavano ciò che l’europeo voleva che fosse il Nuovo Mondo; altri, come il padre
Alfonso de Valdès, riassumevano le loro proposte di “bon gouvernement” nella frase “vorrei fare
un mondo nuovo”.
L’Utopia degli ordini religiosi partiva da una severa critica di ciò che avveniva concretamente
durante la conquista e la fase di colonizzazione. In “Entre los rimedios” Bartolomeo de Las Casas
condannava la cupidigia e l’avarizia di tutti quelli che si recavano nelle Indie, veri lupi famelici, le
cui intenzioni erano di uccidere, rubare e depredare. La polemica sul motivo dell’espansione
coloniale e della schiavitù degli indigeni diventa uno dei grandi temi del pensiero etico spagnolo nel
XVIo secolo. C’era chi era convinto, inoltre, come il vescovo Vasco de Quiroga, che la divina
provvidenza aveva fatto sì che si scoprisse l’America per assicurare il rinnovamento del mondo
cristiano in crisi.
Nell’isola dell’Utopia si applicano tre principi divini: l’uguaglianza tra gli uomini, l’amore per la
pace e la serenità e il disprezzo del denaro e dell’oro. Nella sua opera “Informaciòn en derecho” il
vescovo Quiroga dichiarava esplicitamente che bisognava edificare la città ideale in America,
condizione indispensabile per salvare moralmente e fisicamente gli indigeni.
Forse in nessuna parte del mondo l’Identità è centrale nella vita come in America Latina. Un grande
numero di latino-americani ha scritto sul tema della patria dall’estero. Hanno sentito l’esigenza del
confronto e del contatto con l’Occidente, ma non hanno mai rinnegato la loro storia, le loro radici
ed hanno orgogliosamente affermato l’identità nazionale. Lo scrittore cileno José Donoso meditava
su questo tema in “Itaca” convincendosi, però, che il ritorno in patria era impossibile. Gabriel
Garcìa Marquez ha scritto “Cent’anni di solitudine” in Messico, il messicano poeta e saggista
Octavio Paz ha scritto a Parigi e in India, l’argentino Julio Cortazar forse il più grande della
generazione di nuovi romanzieri affermatesi negli anni sessanta (rivoluzione nel linguaggio ma
anche grande attenzione al mondo contemporaneo; piena libertà espressiva ma anche costante
ricerca della coerenza ideologica; la scelta di stare a Parigi ma anche il continuo interrogarsi sul
proprio essere argentino) scrisse a Parigi, il brasiliano Jorge Amado fuggito dalla dittatura del suo
paese andò in Francia per incontrare gli intellettuali francesi. Durante una riunione negli uffici del
Ce Soir incontra Aragon, Éluard, Picasso, discutono di politica e di come organizzare la solidarietà
con gli altri paesi dell’America Latina. Miguel Angel Asturias attacca la dittatura del Guatemala
da Parigi. Il poeta peruviano Jorge Guillòn che dal 1947 al 1923 fu lettore di spagnolo presso
l’Università della Sorbona, nel suo impegno universitario si appassiona alla cultura francese. A
Parigi conosce il poeta Paul Valéry e si lega d’amicizia con professori universitari come Paul
Benichou, il suo amore per la Francia facilitò la pubblicazione del suo libro più famoso Cantique
(tradotto in francese per le Editions Gallimard, 1977). L’incontro tra il nuovo e vecchio mondo
ha generato un sorprendente fervore e un’esplosione di creatività e originalità da parte di scrittori di
prima grandezza come Gabriel Garcìa Marquez, Carlos Fuentes e Mario Vargas Llosa.
L’assunzione di molti saggi e testi narrativi è che lo scrittore latino-americano sente l’urgenza di
costruire in patria una società che non sia disordinata e disorganizzata e la scelta di vivere in
Francia è funzionale a tale obiettivo.
Più dell’Inghilterra, dell’Italia o della Russia sovietica, ancor più della Spagna, nonostante la
vicinanza linguistica, molti scrittori latino-americani preferiscono l’esilio volontario e il soggiorno
in Francia coltivando la ragione e la misura di stampo cartesiano.
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Per molti di loro la Francia ha rappresentato una sorta di ponte che univa i valori pre-colombiani,
mai rinnegati, con quelli professati da Descartes. Carlos Fuentes, uno degli scrittori più colti e
raffinati tra quelli che hanno vissuto a lungo sul territorio francese, suggeriva quanto un
ravvicinamento del nuovo mondo e dell’Europa fosse auspicabile perché compatibili. Difatti Parigi
che è stata il punto di equilibrio tra il Sud e il Nord, tra la Spagna e l’Inghilterra, sarà il luogo di
equilibrio non solo di Terra Nostra 1 (1977) ma anche di Une certaine parenté (1982) opera per la
quale ricevette il premio letterario più importante d’America Latina, il premio Romulo Gallegos.
Anche lo scrittore peruviano Manuel SCORZA (Lima, 1928-1983)
trascorse ampi periodi della sua vita a Parigi, ma fece ritorno spesse
volte alle alte terre fredde e ingrate di Cerro de Pasco, dove partecipò
alle lotte al fianco dei contadini indigeni. La sua opera più importante,
“La guerre silencieuse”, una sorta di ciclo narrativo composto di
cinque volumi, manifesta un umorismo feroce contro le estorsioni di
alcuni tirannelli locali che proliferavano nel Perù e una tenerezza
fraterna verso le popolazioni indigene isolate nelle loro campagne. Un
libro appassionante senza equivalenti nella storia della letteratura
latino-americana.
A Parigi Manuel SCORZA trova la tranquillità di cui aveva bisogno per scrivere, diventa
professore dell’École Normale Supérieure di Saint-Cloud e nel suo appartamento vicino a NotreDame trascorre le nottate a scrivere e a ricevere i suoi amici più cari, Juan RULFO, Ernesto
SABATO, Julio Ramon
RIBEYRO.
Dei cinque romanzi Le tombeau
de l’éclair è il più impegnato. La
fiction scompare per lasciare il
posto al racconto dettagliato delle
rivolte contadine che si svolsero
durante il secondo governo
oligarchico di Manuel PRADO,
tra il 1956 e il 1962. In queste
terre che un tempo appartenevano
alle comunità indigene, eredi del
grande passato incaico,
imperversò, con poteri simili a
quelli della divina provvidenza, la
Cerro di Pasco Mining
Corporation, con la complicità
dei grandi latifondisti e ciò che è
peggio, con quella del potere
centrale con sede a Lima, città in
cui risiedevano gli eredi del potere
coloniale spagnolo. Lima è
descritta come la capitale perpetuamente egoista, perpetuamente corrotta, sostenuta da un esercito
che le fa da cane di guardia.
L’autore passa da un procedimento detto “réalisme magique” che inondava i romanzi precedenti, a
una descrizione dettagliata, con grande precisione di nomi, di luoghi e di date, delle lotte contadine
delle comunità indigene. I veri “conquistadores” sono oggi i “gamonales” (grandi proprietari
terrieri) che creano un sistema di dominio economico e politico che esclude, di fatto, l’indigeno
dalla vita nazionale.
Manuel SCORZA, nello stesso tempo scrittore e uomo politico, partecipa ai sommovimenti del Perù
impegnandosi contro ogni forma di fatalismo e sollecitando la realizzazione di quei cambiamenti
che si ritenevano possibili e necessari. “Je pense, scrive in un articolo su Orwell, que l’humanité
trouvera le chemin de la vie vivante. Peut-être, pour ce faire, faudra-t-il non pas une mais cent
révolutions », giacché il tempo delle trasformazioni non é finito.
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Abbondante romanzo di 830 pagine, Terra Nostra è una sorta di sintesi delle due aspirazioni profonde e delle
interrogazioni che gli provengono da un’epoca desiderosa di comprendere le incertezze che s’intrecciano le une sulle
altre. L’autore giustappone due maniere di essere: la prima è il suo amore per gli eccessi, chiamiamo questo l’atavismo
di cui si è nutrita l’America Latina, concentrata sullo straordinario e il secondo modo di essere è quello che rimpiange
un paradiso terrestre o semplicemente la verginità di un continente dove niente sia inquinato.
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Augusto ROA BASTOS, paraguaiano di nascita, é stato a lungo giornalista e ha
esercitato la professione di professore presso l’Università di Toulouse. Il Paraguay
della guerra, delle dittature e dell’esilio è presente nei suoi primi romanzi, l’enorme
e appassionante “Moi le suprême” e “Fils d’homme” tradotti in francese per le
edizioni Belfond. Il suo paese è stato caratterizzato da fenomeni di migrazione e di
emigrazioni, da esodi massicci, il primo verificatosi dopo l’espulsione dei Gesuiti
(1767) nel periodo coloniale. Ciò non ha impedito al Paraguay, una volta
trasformatosi in nazione indipendente, di diventare la nazione più avanzata
dell’America ispanica, tanto dal punto di vista materiale che culturale. Occorre aggiungere che
questo paese è il solo fortemente bilingue dell’America latina: la lingua orale è ancora
prevalentemente autoctona, il guarani, è la sola lingua popolare, mentre la lingua scritta è spagnola.
Questo dualismo culturale e linguistico ha aggravato nel periodo antecedente l’Indipendenza, le
altre forme di alienazione che comportava l’esilio interiore poiché implicava l’annientamento della
libertà divorata dalla paura, in un paese sconvolto da un sistema di repressione totalitaria. La
frammentazione della cultura, lo squilibrio delle forze produttive, la paura individuale e collettiva
hanno profondamente condizionato le capacità produttive di una società che viveva sulle rive di uno
tra i più bei fiumi della terra, il fiume che dà il suo nome mitico al paese, il Paraguay, “eau
empanachée ou fleuve-des couronnes”.
Un altro scrittore dell’esilio degno di nota è certamente il cubano Guillermo CABRERA
INFANTE, autore di “Trois Tristes Tigres”, la sua opera più conosciuta, tradotta in francese per le
Éditions Gallimard. L’autore fa parte di quella generazione di scrittori cubani che, dapprima
entusiasti della rivoluzione cubana, prendono a poco a poco le distanze da essa fino a decidere di
espatriare. Oggi vive a Londra e in questo ambiente ha scritto anche la maggior parte dei suoi libri.
Anche Severo SARDUY, (25 febbraio 1937 a Camagüey - 8 giugno 1993 a
Paris), poeta, drammaturgo, pittore e critico d’arte, collezionista di origine
cubana lasciò Cuba nel 1960 per stabilirsi a Parigi. Lì ebbe la fortuna
d’incontrare personalità che in quel momento erano al centro dell’attualità
letteraria. Sarduy s’integra bene in questa cultura al punto che nel 1972
ottiene con il suo Cobra il premio di letteratura Médicis conferito a un
romanzo straniero scritto in francese. Partecipa alle principali esperienze
dell’avanguardia letteraria in Francia e collabora
alla rivista TEL QUEL, é
poi consigliere alle Éditions du Seuil.
I suoi artisti di riferimento furono l’epistemologo
francese Roland BARTHES e José Lezama LIMA,
autore del romanzo Paradiso, monumento barocco
della letteratura latino-americana, e certamente il
poeta più apprezzato della sua generazione.
Qurst’ultimo per il suo continuo impegno politico
contro il regime di Fidel Castro fu condannato dai
custodi dell’ortodossia rivoluzionaria e si vide
costretto a un vero esilio interiore nel suo stesso
paese. Sarduy si appropria degli elementi di stile di Barthes e degli elementi d’esercizio logico di
Lima. Il suo barocchismo è volontario, ispirato da Lezama LIMA e da certe esperienze personali”.
Névrosé, en proie aux phobies, rempli d’obsessions et d’anxiété, au lieu d’aller chez un
psychanaliste ou de s’adonner
à la drogue et à l’alcol, il choisit d’écrire. C’est cela sa thérapeutique. En apparence son écriture
est essentiellement ludique, même si sous le dehors du jeu, une immense nostalgie se fait
immédiatement sentir. Nostalgie de la langue maternelle surtout, véhicule des sensations les plus
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profondes de l’enfance et de la ville natale ». Scrive anche « pièces de théâtre» per la radio e
articoli scientifici. I suoi primi due romanzi, Gestes e Écrit en dansant, hanno per scenario
esclusivo Cuba. L’ultimo capitolo dal titolo “L’entrée du Christ à La Havane” fa pensare a una
straordinaria parodia della vittoria dell’esercito rivoluzionario di Fidel Castro nel 1959. Il tema del
libro è la ricerca dell’identità cubana.
Le influenze della letteratura francese e nord americana, soprattutto di Proust, Sartre, del
surrealismo, del Nouveau Roman, di Faulkner, Dos Pasos, Joyce sono ben note. La letteratura
latino-americana contemporanea è nata e si è sviluppata in uno spirito quasi concorrenziale o
almeno rapportandosi ai modelli francesi e nord americani. Quest’aspetto che può apparire
puramente aneddotico, lo diventa meno quando si comprende che il romanzo latino-americano
risponde a un duplice determinismo: da un lato esso è il riflesso e il prodotto di un universo unico,
dall’altro risponde sul piano delle tecniche narrative alle norme imposte dal modernismo. Cortàzar,
Carpentier, Vargas LLOSA l’hanno più volte dichiarato negli anni ’60, in pieno boom.
Rispondendo al saggio di Oscar COLLAZOS, “La encrufijada del lenguage” Marcha,
Montevideo, 30 agost e 5 settembre 1969) che accusava gli scrittori latino-americani di un
complesso d’inferiorità nei confronti della letteratura francese e nord-americana, Cortazàr replicava
che riteneva questa tesi del tutto infondata. Nessun romanziere di quelli citati da Collazos prova il
più piccolo sentimento d’inferiorità di fronte alla cultura straniera, né in quanto scrittore né in
quanto teorico. Ed è per questo che, secondo l’argentino Cortàzar, si è capaci d’inventare, di
perfezionare le tecniche le più diverse con una totale autenticità, senza preoccuparsi di sapere se
esse (tecniche) corrispondano o derivino da esperienze letterarie straniere. È altresì evidente che i
romanzi latino-americani più riusciti di questi ultimi anni innovano molto in rapporto alle tecniche
francesi o nord-americane; e per esempio l’ammirevole struttura formale di un libro come La
Maison verte di Vargas Llosa non ha eguali in Europa.
Inoltre, Julio Cortazar nel suo celebre saggio su “Littérature et identité” rilevò che un grande
numero di lettori sudamericani, leggendo e scoprendo i testi dei loro connazionali residenti
all’estero, ha fatto un passo in avanti nella percezione della propria identità culturale. Jorge Amado
è molto vicino a questa tesi, anzi egli ritenne che fosse necessario evitare il dogmatismo dei partiti
per permettere un processo di allargamento di consapevolezza e di responsabilità. Da intellettuale
inorganico Amado rompe con il concetto di guida facendo avanzare l’idea di libertà, l’inorganicità
finisce per essere la scelta vitale dell’intellettuale che resiste alla brutalità del potere dispotico.
Narrando fatti marginali e semplici Jorge Amado è riuscito a tenere testa al profilo di una letteratura
“pleine”poco capito dalle avanguardie in parte ideologiche che emettono opinioni basate sulla
legislazione aristocratica del codice egemonico.
Sul rapporto tra l’Europa e l’America latina sembra tracciarsi, dunque, una linea di demarcazione
tra chi come Borgès, José Lezama Lima (1910-1976) e Carlos Fuentes mantengono una posizione
di apertura considerando l’Europa e l’America latina in una relazione di complementarietà o anche
di complicità e chi aderisce a una concezione “indigenista” per la quale la cultura precolombiana
rappresenta una sorta di mito d’origine positivo, infangato dall’Europa.
Per l’autore di Terra Nostra la posizione puramente indigenista è un non senso o meglio un
controsenso. È un modo ipocrita di non voler vedere che se il colonialismo spagnolo è terminato
nel XIXo secolo con l’Indipendenza, la conquista dei territori sudamericani è continuata: è troppo
facile far ricadere sui “conquistadores” spagnoli il male e sottacere il fatto che anche i latinoamericani hanno preso parte allo sfruttamento di ciò che restava del mondo indigeno. Per Carlos
Fuentes è un’ipocrisia rivangare i crimini del XVIo secolo, giacché ne siamo il risultato.. Per il
mondo indigeno la conquista è stata terribile, è stata una catastrofe ma da questa catastrofe qualcosa
è nato ed è la grande arte barocca del Perù e del Messico, è un modo di vestirsi, di parlare, di
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mangiare e d’immaginare. Una cultura che è di tutti e che spinge Fuentes a prendere le distanze da
tutti quelli che idealizzano il mondo indigeno o si concentrano esclusivamente su di esso. Fuentes si
definisce appartenere a una cultura plurale, indo-afro-ibero-americana e non ha mai negato il
carattere pluriculturale e multirazziale delle sue origini. Non ha mai pensato di negare alcuno degli
elementi di questa sua identità, né ha mai accettato il termine di “découverte de l’Amérique”
giacché il termine rimanda ad una visione euro-centrica dell’avvenimento. Per lui sarebbe più
opportuno chiamare ciò “la rencontre de deux mondes” o proporre alla stessa stregua di uno storico
messicano “l’invention de l’Amérique” o ancora preferire la definizione “l’imagination du Nouveau
Monde”.
Carlos FUENTES è d’accordo con la definizione bakhtiniana del romanzo inteso come
un processo creativo aperto capace di suscitare nuovi modi di vedere insospettati e veri.
“Un romanziere può dare voce a ciò che non ha ancora voce e attribuire un nome a ciò
che è ancora anonimo”, scrive l’autore di “Mort d’Artemio Cruz”. Nel passato il
linguaggio è stato identificato con una voce unica. Per esempio presso gli Aztechi, l’imperatore
Montezuma era chiamato “quello della Grande voce”, cioè chi aveva il monopolio della parola; per
il mondo della Controriforma e dell’Inquisizione non c’era che una sola verità, un solo linguaggio
quello dell’ortodossia. E allora moltiplicare il linguaggio, pluralizzare le voci diventa un atto non
soltanto rivoluzionario ma creativo, di una forza straordinaria. E il linguaggio di Cervantès di cui gli
scrittori di lingua spagnola sono tutti eredi è una prima grande risposta a un mondo chiuso, ermetico
e ortodosso. Così come la mescolanza dei generi (lirismo, romanzo cavalleresco, comicità) e delle
voci tutto si ritrova nel Don Quichotte, in un mondo dove mancano le certezze, dove ogni verità è
contraddetta, relativizzata. La tradizione latino-americana è affermare il valore del plurale di fronte
al tentativo di imporre da parte del potere nord americano una cultura unitaria e intollerante.
L’America Latina e la Francia. Letteratura dell’esilio o Letteratura in esilio?
È del tutto pacifico rilevare che c’è stata e c’è ancora oggi una relazione assai
profonda tra il Nuovo Mondo e la Francia. Una grande ammirazione lega le
città della Nouvelle Espagne con la Francia. “La France a été un facteur
d’unification, aliénant mais marquant”, constata Antonio CANDIDO,
storico e sociologo della letteratura, molto conosciuto e ascoltato
all’Università di Sao Paulo. “La littérature aujourd’hui est en elle-même un
exil permanent. Nul n’écrit parce qu’il se sent à sa place, mais plutôt, parce
qu’il se sent deplacé”, scrive l’argentino Mario Goloboff, scrittore e
professore per lunghi anni presso l’Università di Toulouse. É autore, tra
l’altro, di un interessante saggio su Borgès, « Leer Borghes » (1978), oltre a
due romanzi di grande successo. Scrivendo, l’autore riscopre il suo passato e recupera il territorio
che appartiene ai suoi sogni. “Nous écrivons pour témoigner la perte d’une identité”. E anche
quando fa ritorno nella sua patria, non è mai come prima, le strade, le persone non sono più quelle
che aveva lasciato. Continuare a scrivere è in un certo senso alimentare i propri ricordi, i propri
sogni, rivivere il proprio paese cambiato e, forse, maturato.
La possibilità di trascorrere alcuni anni della propria vita a Parigi, di frequentare personalità
letterarie e scrittori appartenenti al movimento surrealista francese con la predominanza
dell’inconscio sulla logica, spinge molti artisti ad accedere senza intermediazioni alla lettura di testi
della letteratura europea. La letteratura psicologica, in verità, non trova in loro grande interesse. I
problemi che più li attirano sono di tutt’altra natura e il loro obiettivo è essenzialmente di ridurre la
frattura tra l’America Latina e l’Europa. Venendo a contatto con la cultura europea abbastanza
coesa molti di loro si erano resi conto che parlare di letteratura sudamericana come qualcosa di
coerente fosse una follia. Considerata la vastità del continente sudamericano popolato da molteplici
e diverse culture pensare di costruire una Letteratura che presentasse dei tratti comuni tali da far
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convivere la letteratura di Luis Borgès con quella di Miguel Angel Asturias sarebbe stato un
obiettivo troppo ambizioso. È a tutti noto che ciascuno scrittore è rappresentativo della realtà delle
sue origini. E considerate l’ampiezza e la varietà delle letterature latino-americane dislocate nel
vasto territorio continentale potremmo dire che esistono tante letterature quanti sono gli scrittori.
Anche se tutti scrivono servendosi della lingua spagnola sappiamo che ognuno è portatore di una
variazione di lingua sicché lo spagnolo di cui fa uso Miguel Angel Asturias non sarà mai lo stesso
di Jorge Luis Borgès.
Naturalmente legato alla Francia e alla sua lingua madre (figlio di un padre francese e di una russa
insegnante di lingue) il giovane Alejo Carpentier, iscritto alla facoltà di architettura dell’università
di La Havana, abbandona i suoi studi per consacrarsi al giornalismo culturale. Ma l’atmosfera
politica a La Havana, sotto la presidenza di Gerardo Machado, diventa sempre più insopportabile
(nel 1928 Alejo Carpentier trascorre una settimana in prigione per il suo impegno politico) e decide
di partire in esilio per la Francia, aiutato dal poeta surrealista Robert Desnos che lo introduce nel
mondo intellettuale parigino degli anni trenta. A Parigi Carpentier incontra André Breton, Paul
Éluard, Jacques Prévert e Antonin Artaud. e comincia a pubblicare su giornali e riviste francesi
articoli, cronache, saggi sulla realtà americana preferendo i temi a carattere culturale e politico.
Non è un caso isolato ma la maggior parte degli scrittori latino-americani più conosciuti è
giornalista. Uomini che prima ancora di diventare scrittori rinomati possiedono le tecniche
giornalistiche, sanno elaborare un’informazione e ripresentarla all’interno di una fiction. Si direbbe
che giornalismo e letteratura abbiano in comune l’uso della memoria. Una sorta di realismo e di
finzione, di ricordi e d’invenzioni, al punto che lo scrittore non sa più se l’avvenimento raccontato è
accaduto veramente o se è frutto di invenzione. Come il giornalista si guarda attorno, anche il
letterato scrittore osserva il mondo che lo circonda per cogliervi i motivi d’interesse e le possibilità
di cambiamenti. Raccontare per il solo piacere di raccontare non basta. Lo scrittore sa che è
investito da una nobile missione sociale e i suoi occhi sono pronti a rilevare in ogni momento
variazioni di tempi e di obiettivi. Da qui la capacità di stupire, di affascinare, di raccontare qualcosa
che attira, è l’avvenimento che cerca il narratore e non l’inverso, sorprendendolo. Il racconto nasce,
così, dalla meraviglia per suscitare meraviglia. Il riferimento va a una scuola di pensiero, quella del
“réel merveilleux”, termine teorizzato dal romanziere cubano Alejo Carpentier nel 1949, con il
quale sintetizzava l’attaccamento alla terra delle sue origini e conseguentemente il legame con il
concreto, le circostanze, la storia di tutta l’America.
La formula del “real maravilloso” ha origine precisamente quando un insolito accostamento si
produce tra l’idea del “merveilleux” che hanno i primi spagnoli e il “réel”, quando i
“conquistadores”, nati sugli altopiani aridi della Castiglia o dell’Estremadura si trovano di fronte ai
più giganteschi paesaggi della Terra delle Ande, dell’Amazzonia, del Pacifico.
Eduardo Galeano2 é uno dei primi scrittori che ritrova la magia della lingua delle origini per
descrivere le cosmologie armoniose del mondo pre-colombiano e la violenza degli invasori in cerca
di gloria e avidi d’oro. Essi provengono da ogni parte della Spagna e del Portogallo, sono
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Eduardo GALEANO, romanziere talentuoso e autore di “La chanson que nous chantons” (Tradotto in francese pei
tipi di Albin Michel, 1977) ha saputo, in modo chiaro e definitivo, affrontare il processo di colonizzazione nella sua
migliore opera dal titolo “Les veines ouvertes de l’Amérique latine” (Editions Plon). Per l’autore uruguagio
l’America latina è diventata la più bella conquista dell’Europa. Le monoculture dello zucchero, del cacao, del cotone,
del caucciù, del caffè, delle banane hanno dissanguato il continente, sacrificato un popolo alle leggi dell’imperialismo
che invece d’intensificare queste e altre risorse, ha preferito applicare la logica della soppressione. Questa Contro-Storia
spiega che l’America del sud, contrariamente all’America del nord, non ha potuto conoscere un’espansione unitaria. Le
ricchezze del sud erano saccheggiate, mentre il Nord si sviluppava al riparo delle violenze degli imperi. L’indipendenza
politica non ha cambiato nulla: il posto delle antiche metropoli coloniali è ora occupato dagli Stati Uniti, con gli stessi
mezzi: repressione e corruzione. Le materie prime che producono adesso gli stati sud-americani sono indispensabili
all’economia nord-americana quanto lo erano i metalli preziosi all’economia europea. Gli Stati Uniti sono diventati
padroni delle tecnologie e gestiscono un considerevole flusso di denaro. In America latina resta un’oligarchia
proprietaria di fabbriche, terreni, commerci e banche, fedele strumento del capitale estero. Galeano dice molto bene di
Cuba ma trascura che migliaia di rifugiati cubani rifiutano il regime castrista.
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commercianti di schiavi olandesi o francesi. Tutta l’Europa affonda la spada nel corpo calmo
dell’America per svuotarla delle sue ricchezze, della sua anima. Personaggi storici come il
conquistador ribelle Lope de Aguirre, un omino di bassa statura, dalla pelle scura bruciata dal sole
riassumono quel nodo di sentimenti contraddittori in cui si mescolano l’esaltazione della conquista,
il rimorso per essere stato artefice di distruzione, la rivolta contro il proprio paese di origine lontano
e preannunciano la nascita di un uomo nuovo, che, all’inizio dello XIXo secolo, alzerà con rispetto
e orgoglio la bandiera dell’indipendenza latino-americana.
Per Miguel Angel Asturias il “réalisme magique” assume un atteggiamento propositivo di fronte
alla realtà: guardare l’altro non come un barbaro, ma cercare d’imitare lo sguardo magico degli
indigeni la cui mentalità, a suo dire, sarebbe superiore a quella degli europei decadente e
materialista.
Il tema della solitudine nel Nuovo Mondo.
Il sentimento di solitudine abita gli uomini e gli scrittori dell’America latina. Esso è ricorrente in
molti libri del premio Nobel per la Letteratura 1982 Gabriel Garcìa Marquez, anche se secondo lo
scrittore colombiano è un problema di tutti i paesi che lo esprimono ciascuno in un proprio modo.
Solitudine degli indios che si sentono orfani di un passato importante; orfani della loro razza
sterminata dai “conquistadores” spagnoli; solitudine anche derivante dalla precarietà della vita sotto
regimi autoritari e militari. Per riprendere il titolo di un noto libro di Octavio PAZ l’America latina
é “Le labyrinthe de la solitude” (1950). Il solo rimedio contro di essa questi scrittori lo trovano
nelle fiestas paesane, nelle danze, nel canto e nella musica di periferia, nell’attaccamento alle
tradizioni popolari. E soprattutto dalla caduta dei sistemi dispotici in poi gli scrittori lo trovano nella
fiction, nella letteratura, nel raccontare la realtà delle loro origini, e nel far si che il mondo
sudamericano si apra alle novità, alle scoperte tecnologiche e alla globalizzazione. Legame
profondo con le originima anche distanza poiché vivendo lontano dal proprio paese gli scrittoriviaggiatori come Carlos FUENTES, Mario VARGAS LLOSA e altri hanno potuto trovare la forza e
il desiderio di parlarne nei loro libri. È proprio la lontananza dal luogo natio che ha permesso loro di
meglio vedere i difetti e di guidare una lotta contro ogni forma di menzogna e d’illegalità.
Nel suo Discorso di accettazione del premio Nobel, dal titolo assai eloquente, “La soledad de
America latina” (La solitudine dell’America Latina), Gabriel Garcìa MARQUEZ, nel collegare il
tema della solitudine alla situazione dell’America Latina, dice che “ L’interpretazione della nostra
realtà attraverso modelli non nostri, serve solo a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno
liberi, sempre più solitari”. Sarebbe forse più comprensibile, afferma ancora lo scrittore, se la
venerabile Europa cercasse di vedere noi nel proprio passato”. A questo fine è opportuno
ricordare, continua l’autore di Cent’anni di solitudine che “Londra ebbe bisogno di trecento anni
per costruire il suo primo muro della città e altri trecento anni per acquisire un vescovo e che
Roma si dibatté nelle nebbie dell’incertezza per venti secoli, fino a quando un re etrusco la
introdusse nella storia e gli svizzeri nel XVIo secolo insanguinarono l’Europa con soldati di
ventura”.Non bisogna dimenticare che anche in pieno Rinascimento, sottolinea Marquez, dodici
mila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma mettendo
ottomila dei suoi abitanti a fil di spada. “Non pretendo d’incarnare le illusioni di Tonio KrÖger,
aggiunge Marquez, i cui sogni di unire un nord casto e un sud appassionato esaltavano Thomas
Mann, cinquantatré anni or sono. Ma credo che gli europei che lottano per una patria più giusta e
umana, potrebbero aiutarci molto meglio se si riconsiderasse il loro modo di vedere noi. La
solidarietà con i nostri sogni ci farà sentire meno soli”. Tutti i progressi di navigazione e le
scoperte di luoghi sconosciuti che hanno ridotto le distanze tra la nostra America e l’Europa,
continua lo scrittore, sembrano, invece, aver accentuato la nostra lontananza culturale. E allora, si
chiede G.G.Marquez, perché pensare che la giustizia sociale perseguita dagli europei progressisti
per i loro paesi non può essere un obiettivo dell’America Latina? La violenza e il dolore sono stati il
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risultato di secolari ingiustizie e di amarezze indicibili, un complotto ordito tre mila leghe da casa
nostra. “Questa è la dimensione della nostra solitudine”, termina Marquez davanti ad un uditorio
attento e interessato, giacché aveva l’impressione che parlando delle culture latino-americane si
rimarcasse che si stava facendo riferimento ad una realtà dominata da una sorta di paralisi che
impediva il completamento della sua evoluzione, che le immense possibilità che il territorio aveva
in sé non fossero completamente sfruttate o che la cultura e lo sviluppo di quelle realtà risentissero
ancora di una lunga fase di transizione e che l’affermazione di un vero stato democratico con libere
elezioni e una stampa libera non fossero che una pura chimera.
Occorre segnalare altresì che la politicizzazione degli scrittori e della Letteratura in America latina
non dipende solo dalle ingiustizie economiche e dal vandalismo delle dittature. Ci sono anche delle
ragioni di fondo di natura culturale, tra queste l’esigenza dell’integrazione, un processo lungo e
responsabile che investe direttamente ogni scrittore nell’esercizio del suo lavoro di raccontatore. In
paesi come il Perù e il Messico, essere scrittori significava provare ciò che è il sotto-sviluppo,
l’ineguaglianza, la discriminazione e l’analfabetismo che colpiva a volte metà della popolazione.
Anche se il processo di “métissage” è stato più rapido nel Messico e più lento nel Perù, esso ha
avuto uno sviluppo considerevole giacché è parte integrante dell’identità di ciascun paese. I grandi
flussi migratori sono una delle questioni chiave dei nostri giorni, nel senso che pongono un grosso
dilemma: come conciliare uguaglianza e diversità senza sconvolgere il diritto. Il “métissage” oggi
supera le frontiere di diversi paesi. Milioni di abitanti parlano ormai lingue diverse e si muovono
all’interno di Paesi lontani geograficamente e per civiltà. L’incontro tra culture differenti può
produrre a volte fenomeni di diffidenza, d’intolleranza e di xenofobia, ma offre delle possibilità
formidabili nel campo delle tecnologie, del commercio, dell’informazione, dei diritti umani e della
coesione sociale. Senza leggi né regole condivise, però, si può verificare una sorta di dominio dei
mercati e di darwinismo sociale che limita sul piano locale la scoperta dell’identità e delle tradizioni
e causa sul piano economico un maggiore impoverimento e la deriva dell’informazione e della
cultura verso una spettacolarizzazione superficiale unicamente votata alla distrazione.
La letteratura mondiale trae origine da ambiti periferici. Difatti i migliori romanzi della letteratura
di lingua inglese sono opera di autori che provengono dalle antiche colonie,e gli scambi tra la
Spagna e l’America latina sono sempre stati proficui. Più che parlare di letteratura argentina e
messicana, sarebbe opportuno che si parlasse di letteratura in lingua spagnola, quella che Carlos
Fuentes chiama “la littérature du territoire de la Manche, le territoire de Cervantès” dove la fiction
interpreta la realtà.
Tra Cervantès, Borgès e altri artisti del continente sudamericano esiste una continuità. La lettura di
Balzac e delle novità letterarie francesi ha insegnato che si poteva essere scrittori della realtà sociale
e scrittori del mondo della fantasia. In breve, che il realismo e l’immaginazione potevano coabitare.
Ogni romanziere sa che accanto al mondo reale esiste un altro mondo che non è scritto e di cui non
è stato ancora detto nulla.
In America latina la tradizione letteraria indigena fu distrutta e seppellita dalla conquista spagnola
che con l’Inquisizione era arrivata persino a vietare ogni importazione di libri per tre secoli. Così
nel momento in cui in Europa si sviluppava il romanzo europeo, la lettura e la scrittura erano
proibite nei paesi del Sudamerica.
Verso la fine degli anni ’20 diversi scrittori presero la decisione di voler recuperare tutte le
tradizioni perdute del passato sudamericano. Si convinsero che lo scrittore era in grado di
raccontare ciò che non era stato possibile dire per molto tempo e che era opportuno ricreare una
tradizione straordinaria e magica. Due grandi scrittori, il cubano Alejo Carpentier e il colombiano
Gabriel Garcìa Marquez furono i primi che trasferirono nei loro testi la forza e il fascino delle
proprie radici. Il peruviano Mario Vargas Llosa e altri hanno poi continuato a raccontare il loro
mondo e gli avvenimenti di un passato al quale avevano partecipato direttamente e che grazie alla
fiction erano in grado di riproporre con più senso critico. L’idea di forgiare un’identità latino10
americana diventa un imperativo e un’urgenza. E il “réalisme-merveilleux” sarà uno strumento di
quest’affermazione identitaria. Dal 1962 al 1972, difatti, la letteratura ispano-americana segna un
momento decisivo della sua affermazione e del suo sviluppo. Prese le distanze dalla letteratura
europea, essa raccoglie i frutti di una duplice linea evolutiva: da un lato, il racconto breve di natura
fantastica; dall’altro, il racconto realistico con tematica autoctona. Totalmente rinnovata durante gli
anni ’40 e ’60, attraverso il realismo magico di G.G.Marquez, ebbe inizio il boom della letteratura
ispano-americana. Carlos Fuentes, attraverso il suo primo racconto “La regiòn mas trasparente”
risveglia un grande interesse e suscita numerose polemiche per la novità dei suoi argomenti
narrativi. In questo libro, Carlos Fuentes ci mostra il ritorno di un giovane emigrante messicano:
Gabriel. Un ritorno ricco di sensazioni e di ricordi in cui il narratore descrive un Messico misero.
Partendo dai quattro punti geografici (il Messico, la zona meridionale, l’America andina e i Caraibi)
scrittori di origine e di formazione diverse come Julio Cortazar, Mario Vargas Llosa, G.G.Marquez
e Carlos Fuentes propongono un’unione artistica che permetta di far conoscere in modo profondo la
letteratura ispano-americana su scala mondiale. Esistevano già autori di fama internazionale come
Jorge Luis Borgès e Pablo Neruda ma il boom di vendite che ha conosciuto il mondo e la cultura
sudamericana in quegli anni fu tale da moltiplicare la produzione letteraria tanto nel sudamerica
quanto in Europa e in America del nord.
Noi non crediamo all’ipotesi che questo rinnovato interesse sia legato alla Rivoluzione cubana che
ha da sempre orientato settori letterari verso il continente. Noi pensiamo, piuttosto, che la cultura
europea degli anni ’60 stesse attraversando una fase di ripensamento critico e che i lettori attenti
osservatori di ciò che succede siano stati in grado di percepire le grandi novità strutturali e
tematiche relative al “réel-merveilleux” manifestando un grande entusiasmo verso questa realtà per
molto tempo misconosciuta, disprezzata e sottovalutata. Nella letteratura la tradizione e la creazione
convivono e s’intersecano, gli scrittori lasciano parlare la loro immaginazione e rendono
intellegibile l’interazione del reale con l’immaginario. Ciò che è trasmesso al lettore non sono solo i
fatti né il paese o la città che fanno da sfondo ai loro racconti, ma anche e soprattutto i bisogni
essenziali dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue aspirazioni e i suoi sogni. Nessuno può dire che
Balzac è soltanto un autore di Parigi. Egli va oltre perché ha la capacità di portare la sua
immaginazione di là dall’ambiente francese. Uno scrittore costruisce, attraverso l’immaginazione,
la realtà di luoghi e di individui che restano nel tempo e che sono letti nei secoli. Don Quichotte,
Louis Lambert o Mr. Pickwick sono personaggi che il linguaggio ha reso eterni. Ciononostante
ciascun autore ha un suo territorio privilegiato che stimola il desiderio,l’immaginazione, la
memoria, il tempo, le tematiche. Lima e i quartieri periferici di Miraflores occupano un posto di
rilievo nel cuore e nella memoria di Vargas Llosa. Per Carlos Fuentes Città del Messico è il suo
territorio di riferimento come per Jorge Luis Borgès loè Buenos Aires. Lima, Buenos Aires,
Messico e Bahia, “la ville magique” tanto cara a Jorge Amado, sono città che lanciano una sfida
permanente ai loro cantori3. Ogni volta che le attraversano è una novità, è un cambiamento, è un
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Crogiuolo di razze e di culture, Bahia è la città di tutti gli oppressi. Jorge AMADO, suo cantore, racconta nei testi dei
suoi primi anni di carriera una serie di avventure i cui protagonisti vivono ai margini della società. Pedro Bala, figlio di
un sindacalista ucciso durante uno sciopero è il capo di una banda e la figura centrale del suo libro Capitaines des
sables per la sua personalità e per il valore esemplare che assume il suo impegno nella lotta sindacale. I temi ricorrenti
sono quelli dell’amore, della morte e del mare, storie di povera gente del porto, della loro miseria, della loro lotta
quotidiana per sopravvivere, della loro rassegnazione. Anche in Mar Morto la dura realtà quotidiana è presente in ogni
pagina e il mare per Antonio Balduino come per Pedro Bala è una presenza affascinante, l’ultima speranza. Alla vista
dei bambini abbandonati, degli orfani e dei figli di prostitute, Balduino sente crescere l’odio verso la società, ed è
convinto che soltanto la rivoluzione potrà cambiare la vita dei poveri, ma successivamente scopre il valore della
solidarietà tra i lavoratori e si rende conto che lo sciopero può essere un’altra forma di lotta e che i lavoratori se lo
vogliono possono cessare di essere schiavi. Un tempo Antonio Balduino si entusiasmava al racconto delle rivolte del
Nero, adesso sa che il Nero e il Bianco devono lottare insieme. Il giovane delinquente è diventato un militante politico e
sogna, come il padre, di battersi contro i soprusi, morire difendendo il diritto degli altri, la libertà, il sole, l’acqua e il
pane. Nell’evoluzione del personaggio Jorge AMADO non vede alcuna contraddizione perché, pur restando ai margini
dell’ordine sociale, Antonio Balduino e i suoi compagni hanno una loro legge, una loro morale e anche un certo senso
di dignità umana che li spinge a lottare per la libertà contro l’oppressione.
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modo per sentire l’odore della propria origine e la responsabilità di rappresentare il proprio paese.
Ritornarci periodicamente è una necessità, è un’urgenza cui non sanno resistere, indipendentemente
dai luoghi e dai tempi in cui hanno vissuto.
Prof. Raffaele FRANGIONE
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