Canofari Annalisa, Potere femminile in Africa Occidentale
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Canofari Annalisa, Potere femminile in Africa Occidentale
Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantorpologici Potere femminile in Africa Occidentale Candidata Relatrice Annalisa Canofari Prof.ssa Cecilia Pennacini 1 INDICE Introduzione 4 Capitolo I Figure di potere femminile tra Ghana e Nigeria 1 Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali tra gli oru-igbo e gli ondo-yoruba. 9 1.1 Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di Oguta 12 1.2 Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni rituali. 21 2 Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igbo 27 3 Il controllo nei mercati cittadini: market-queen e associazioni di commercianti 35 Capitolo II Potere politico e ricerca di autonomia 1 Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo di Benin City. 42 2 Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra Leone 54 3 Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminili 65 Capitolo III Regine Madri 1 Regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali 75 1.1 Iyoba 75 1.2 Kpojito 80 2 Regine madri in Ghana tra Ashanti e Krobo 86 2 Capitolo IV Il ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History: 1 Musei e sviluppo 98 1.1 Quadro generale 99 1.2 L’istituzione museale Africa 103 2 Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History 108 2.1 Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopolitico 109 2.2 Fort Apollonia 114 2.3 Un progetto di valorizzazione integrale 116 2.4 Il Museo 120 2.5 Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempi 125 3 Regine madri Nzema e proposta di installazione nel Museo 130 3.1 Ambito socio-politico 132 3.2 Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazione 139 Conclusioni 144 Bibliografia 148 Sitografia 151 3 Introduzione Il presente lavoro nasce da un’esperienza di campo durata tre mesi e mezzo, in area nzema, da luglio a novembre del 2010 Durante la mia permanenza ho assistito e collaborato alla realizzazione del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History, una struttura che non si chiude in se stessa, ma che vuole aprirsi al territorio circostante attraverso la creazione di sentieri eco-turistici e la creazione di attività volte allo svilupo locale. Il mio interesse si è rivolto prevalentemente alle aemaa, le rappresentanti femminili del potere tradizionale. La Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG), presente sul territorio dal 1945, ha prodotto una cospicua quantità di studi sulla chieftaincy, ma nessuno di questi ha approfondito il ruolo delle regine madri nell’area. La mia indagine ha quindi preso le mosse dalla letteratura scientifica riguardante altre zone, in particolare sulla regione degli ashanti, che rientrano, come gli nzema nel gruppo Akan. Il mio campo di interesse si è poi allargato ad un più composito insieme di autorità femminili che operano, o hanno operato, in alcune zone dell’Africa occidentale. Gli studi occidentali che si sono occupati di questioni relative il potere femminile in Africa hanno utilizzato il termine “regine madri” per riferirsi ad un insieme eterogeneo di cariche detenute da donne legate a vario titolo al lignaggio reale. Tali figure, presenti sia in gruppi con sistemi di discendenza patrilineare che matrilineare, esercitano un potere spesso complementare a quello esercitato dal re. 4 Sul piano simbolico esse rappresentano un modello ideale che deve essere di esempio per tutte le altre donne. La carica può essere ereditata all’interno dello stesso lignaggio o conseguita per merito. Nel primo caso re e regina sono legati da rapporti di parentela, come fratello/sorella, zia/nonna-nipote, etc. Nel secondo caso la regina madre potrebbe essere la moglie o la sorella di un ex sovrano, la madre biologica, classificatoria o adottiva del re o addirittura un membro della società esterno alla casa regnante, ma dotato d’influenza e ricchezza. Roscoe (Roscoe, 1911) e Oberg (Oberg, 1948), concentratisi sulla regione dei grandi laghi, hanno tentato di offrire una chiave interpretativa della carica di regine madri in senso rituale. Secondo gli autori, la ragione principe dell’esistenza di simili figure fornire protezione magica al re e al suo trono è considerata la ragione principe dell’esistenza di simili figure Choen critica questa posizione facendo notare come, sebbene spesso molte di loro ricoprano anche responsabilità nell’ambito rituale, non va dimenticata la presenza di professionisti della sfera magico-religiosa dediti alla tutela della casa regnante (Choen, 1997). Nello stesso articolo, Choen prende le distanze anche dalla posizione espressa da Luc De Heusch, 1958, il quale aveva focalizzato la sua attenzione sul significato dell’incesto reale. Egli elabora la sua teoria a partire da dati inerenti vari rituali di corte nelle regioni interlacustri dell’Africa centro-orientale. Il focus della sua analisi risiede nella separazione rituale del re attraverso la cerimonia d’insediamento. Durante tale cerimonia, nelle società prese in considerazione, il re consuma una pratica incestuosa con una delle sue sorellastre. De Heusch propone che quest’ultima sia una sostituta simbolica della madre del re: questa, infatti, ricoprirà la carica di co-reggente e dovrà rimanere casta per il resto della sua esistenza, mentre alla sorellastra sarà precluso partorire figli (De Heusch, 1958). Sempre secondo De Heusch, le strutture di autorità centralizzata vanno oltre i legami di parentela poiché ogni classe e gruppo di discendenza concorre all’organizzazione del 5 sistema politico (De Heusch, 1962). La separazione del futuro re dal resto della società è frutto, secondo De Heusch, di una serie di pressioni selettive, sviluppatesi su uno sfondo politico non statalizzato, che ha dato forma allo statuto simbolico della regalità (Choen, 1997: 15). Affinché il re possa governare è necessario quindi che esso sia separato sia dal suo gruppo di discendenza sia dalla popolazione. La cerimonia d’insediamento e la recita (concreta o simbolica) del dramma edipico coincidono con la rappresentazione di questa separazione. Il fatto che il nuovo re assuma al suo fianco la propria madre implica la vittoria di questo sul suo predecessore. In quest’ottica, la carica di regina madre è strettamente legata al riconoscimento del nuovo potere e non ha altra ragione che fornire legittimità allo status simbolico del neo-eletto sovrano. Choen (Choen, 1997) si distacca dalla rappresentazione che abbiamo qui brevemente descritto di De Heusch fornendone una di stampo sociopolitico. La sua analisi prende le mosse da una serie di dati sul regno di Biu (nord-est della Nigeria) in cui si può vedere che la regina madre rappresenta il segmento di lignaggio che viene escluso dalla successione al trono. Egli assume che l’organizzazione statale necessita di accordi tra governanti e governati; le relazioni che nascono da questi accordi sono alla base dell’organizzazione dello stato e della sua continuità (Choen, 1997: 16). La carica di regina madre aveva la funzione di arginare il pericolo di disgregazione del fragile sistema politico concorrendo così all’unità simbolica dello stato. Sul piano politico era in grado di stringere alleanze fondamentali al mantenimento di equilibri precari; è stata quindi vista da Choen, come uno degli elementi che hanno permesso il passaggio ad una forma di governo politico centralizzato (Choen, 1997). L’accento posto sulla centralità delle regine madri come punti di equilibrio e ponti per le alleanze trova riscontro in molti casi documentati, ma Choen commette l’errore di reificare la figura femminile relegandola a ponte passivo di alleanze strette tra uomini. Secondo Barnes (Barnes,1997) Choen non riesce a superare l’approccio che classifica aprioristicamente la donna come agente passivo e l’uomo come attore attivo. Da questa dicotomia se ne generano altre per le quali l’uomo è agente di divisione/conflittualità mentre la donna incarna l’integrazione e la stabilità; il tutto come 6 in un gioco di potere dominato da soli uomini. Va detto che, mentre il re trova la propria ragione d’essere in se stesso, il titolo di regina madre è sempre acquisito in relazione ad un’altra figura. Il rapporto che lega i due può essere più o meno formalizzato a seconda dei contesti, ma da questa relazione vengono fuori le funzioni attribuite alla carica in questione. Aspirare al titolo o detenerlo già vuol dire incarnare tutte quelle caratteristiche legate alla maternità (protezione, nutrimento, cura, difesa, punizione). Nel caso delle regine madri, queste caratteristiche sono amplificate, escono dalla sfera domestica ed agiscono nella sfera del pubblico e del sociale. In sintesi: il titolo rende formali i doveri di ogni madre e poiché l’accesso al potere è sempre conseguenza di una competizione, queste caratteristiche assumono contorni politici (Barnes, 1997). Gli studi femministi hanno aperto una prospettiva di genere sulle figure di potere femminile. I casi passati in rassegna non si concentrano esclusivamente sulle regine madri, ma riguardano un ampio spettro di situazioni in cui a vario titolo, le donne hanno esercitato ed esercitano il proprio potere politico. Ho voluto mutuare da Flora Kaplan (Kaplan, 1997) una definizione allargata di potere politico inteso come “possibilità di prendere decisioni intorno a risorse, materiali e immateriali, che interessano uno o più gruppi nelle arene pubbliche…(tale potere è) ampiamente definito e applicato alle associazioni di donne basate su interessi reciproci e attività scarsamente strutturate e anche informali” (Kaplan, 1997: 248). Quello che mi propongo di fare è mostrare come le donne, in Africa Occidentale hanno agito ed agiscano attivamente, ponendosi, a volte, come elementi in grado di generare conflitto. Intendo inoltre mostrare la loro capacità di cogliere opportunità offerte dalle circostanze contingenti per ottenere un miglioramento della propria condizione e proporre che questa predisposizione dovrebbe essere tenuta in considerazione nelle pratiche di patrimonializzazione applicate al contesto africano. Si vedrà quindi che non sempre l’influenza dei governi coloniali ha causato una perdita di potere da parte delle donne, ma che, in qualche caso, questi si sono mostrati interlocutori aperti che ne hanno incentivato e promosso l’azione individuale e politica. Nel primo capitolo si prenderanno in considerazioni tre diverse sfere di esercizio del 7 potere che mettono in risalto la tensione conflittuale nei rapporti tra generi (sfera rituale e gruppi femminili incorporati nella struttura sociale), e la spinta verso tendenze modernizzatrici a partire dalla tradizione (associazioni di commercianti e regine dei mercati) Il secondo capitolo intende rendere conto della capacità di operare scelte soggettive allo scopo di servire i propri interessi personali. Si farà riferimento sia a importanti donne di palazzo (regno del Kongo) che a capi femminili legittimati dalla tradizione (regine mende). Ci si riferirà infine alle azioni delle donne dello stato di Edo, che durante il periodo coloniale, hanno lottato per raggiungere un maggior margine di autonomia rispetto alle rigide strutture patriarcali che le vedevano come poco più che merce. Il terzo capitolo esamina il ruolo delle regine madri in diversi contesti storico-culturali. I casi proposti riguardano sia situazioni in cui l’ascesa delle madri reali si è legata fondamentalmente a situazioni d’instabilità politica (Dhaomey e Lagos precoloniali), sia contesti contemporanei (ashanti, krobo) dove le regole di successione sono ben definite ed il ruolo delle regine madri assume contorni più specifici. Il quarto capitolo vuole rendere conto della mia esperienza di campo in area nzema e della realizzazione di un museo dedicato al loro territorio e alla loro cultura. A partire dalle tematiche al centro dei dibattiti museali contemporanei, in merito all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo (De Varines, 2005), si vuole proporre il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History come buon esempio di pratica museale nei contesti africani. Si renderà conto della mia indagine sulle aehmaa nzema e si avanzeranno delle proposte in merito al coinvolgimento attivo delle donne nelle attività di sviluppo previste dal progetto del Museo. 8 Capitolo I Figure di potere femminile tra Ghana e Nigeria 1. Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali tra gli oru-igbo e gli ondo-yoruba. Si vuole qui rendere conto di alcune sfere di azione femminile che trovano spazio nell’ambito delle performances rituali, sia che si tratti di un agire concreto, in qualità di sacerdotesse o officianti, sia che si parli di partecipazione a determinati rituali. Le popolazioni prese in considerazione sono quella degli oru-igbo, e gli ondo-yoruba. Il gruppo linguistico degli igbo è situato soprattutto in Nigeria, della quale costituisce il 17% della sua popolazione, ma sono presenti significativi insediamenti anche in Cameron e nella Guinea Equatoriale. In questo contesto si fa riferimento più specificatamente agli oru-igbo della zona di Oguta. Prima di passare alla trattazione vera e propria pare opportuno dare una sommaria e più generale descrizione dell’organizzazione socio-politica di questo variegato insieme di popolazioni comunemente riunito sotto il nome di olu non igbo (coloro che vivono nelle pianure e negli altipiani). Prima del colonialismo europeo, i sottogruppi igbo vivevano in localizzate comunità di villaggio interrelate tra loro da scambi matrimoniali e commerciali come da migrazioni 9 o guerre di conquista. A livello di organizzazione politica si hanno due differenti situazioni:1 repubblica democratica di villaggio: si tratta di comunità gestite da un capo (obi o eze), visto come a servizio della comunità, e dai suoi consiglieri (nze) che hanno il compito di rappresentarlo e di aiutarlo nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella difesa da eventuali intrusioni esterne; Monarchia costituzionale: comunità con a capo un vero e proprio sovrano (obi), come nel il caso di Onitsha e da una serie di consiglieri ed alti capi. A questa figura di potere maschile ne corrispondeva una femminile, parallela e complementare (omu) il cui ruolo fu però sospeso in epoca coloniale e mai più reintrodotto. L’organizzazione sociale è basata su unità esogamiche patrilineari (umunna, ogbe, idumu, esi), ma in passato in determinate aree si sono avute anche forme di discendenza matrilineare o bilaterale. Il compound, la fondamentale unità residenziale, è abitato da un uomo, i suoi figli, le sue co-mogli ed eventuali cugini patrilineari. Generalmente ogni moglie ha il proprio spazio, dove vive con i bambini piccoli e le figlie femmine, mentre i figli maschi abitano in residenze separate. Qualche villaggio è cresciuto fino a diventare una città o un regno. In epoca precoloniale, la giustizia era amministrata soprattutto a livello di lignaggio e solo nei casi più gravi, o laddove non si fosse riusciti a risolvere le controversie all’interno dei nuclei famigliari, si ricorreva al consiglio di villaggio o di città, che era composto dal capo (o dal re a seconda delle zone), dai suoi consiglieri o sotto- capi e da altri uomini titolati. La costa del Niger è stata un importante punto di contatto, nel periodo che va dal 1434 al 1807, per quanto riguarda il commercio degli schiavi. I primi europei venuti in contatto con le città costiere tra il XV e il XVI secolo furono i portoghesi seguiti dagli olandesi nel XVII e dagli inglesi Nel XVIII secolo. Nel tardo XIX secolo gli interessi coloniali e quelli della missione cristiana collaborarono per la colonizzazione dei territori igbo. L’impatto del colonialismo ha avuto forti ripercussioni 1 http://www.everyculture.com/Africa-Middle-East/igbo-Sociopolitical-Organization.html 10 sull’influenza attiva delle donne a livello amministrativo. Esistono tuttavia numerosi spazi di intervento e influenza da parte delle donne, a livello associativo e individuale. La società igbo è spesso descritta come altamente egualitaria, nel senso che il potere e le varie prerogative sono distribuite attraverso varie forme di titoli e associazioni, secondo una divisione che va dal genere alle classi d’età e che consente una discreta mobilità sociale. Per quanto riguarda gli yoruba2, con questo termine ci si riferisce ad un composito gruppo di popolazioni appartenenti a uno dei sottogruppi linguistici dei linguaggi kwa, all’interno della più vasta famiglia Niger-Congo. Siti in gran parte della Nigeria sud-occidentale, in parte del Benin (ex Dhaomey) e in Togo, occupano un territorio caratterizzato da una situazione climatica che spazia dalla foresta tropicale pluviale all’aperta savana. La popolazione negli anni 90 era stimata aggirarsi intorno ai 20 milioni di persone. Per quanto riguarda i sistemi di discendenza, sono presenti forti tendenze bilaterali ma mentre a nord, dove in passato il gruppo di discendenza coincideva con l’unità residenziale, si tende a porre maggior enfasi sui legami agnatizi, a sud c’è più dispersione e si accentua il legame cognatico. Spesso questi gruppi portano il nome dei propri fondatori e al loro interno la posizione degli anziani ancora riveste una certa importanza nella risoluzione delle controversie e nelle decisioni da prendere, mentre in passato svolgevano anche funzioni di rappresentanza per quanto riguardava le relazioni con l’esterno. Lo status sociale è determinato dall’età, dal genere e dalle linee di discendenza anche se c’erano (e ci sono) casi in cui una persona riusciva ad emergere grazie alla propria istruzione, occupazione e benessere economico. Spesso l’unità residenziale era composta dal largo gruppo degli agnati, le loro mogli che vivevano in spazi separati e i loro figli. Raggiunta la pubertà i figli maschi coabitavano in uno spazio dedicato a loro mentre le ragazze lasciavano in giovane età la residenza natale per raggiungere quella del marito. 2 Il termine yoruba è stato dato a queste popolazioni dalle popolazioni confinanti ed in seguito adottato dai missionari verso la metà del XIX secolo. Gradualmente queste popolazioni hanno accettato questa definizione, ma quando si riferiscono a se stessi parlando tra di loro utilizzano le denominazioni dei rispettivi sottogruppi come ad esempio ondo , Ife, Ibadan… 11 Il sistema politico era basato su un capo supremo e sull’assemblea consultiva dei capi che a vario titolo rappresentavano i settori più disparati della società. I loro compiti, oltre la consulenza, riguardavano la sfera amministrativa, legislativa, e giudiziaria. Prerogative del re erano l’esecuzione di alcuni rituali, le relazioni estere, il mantenimento della pace, il diritto di vita e di morte sui propri sudditi. Le strutture dei villaggi periferici replicavano in piccola scala quella della capitale ed i rapporti tra questi ed il centro erano tenuti assieme dai funzionari di palazzo. Le cariche reali e di comando erano ereditarie e i rami di una casa regnante potevano scegliere tra i vari candidati. Per quanto riguarda la sfera di azione femminile, sebbene a costoro non fosse impedito di accedere a determinate cariche, questo avveniva raramente, perché nell’opinione comune era l’uomo ad essere ritenuto più adatto allo svolgimento di determinati incarichi. Oggi queste cariche permangono con funzioni mutate e perlopiù al servizio del governo locale. La prima annessione, da parte della Gran Bretagna, del territorio yoruba, avvenne nel 1861 e essa riguardava gli insediamenti costieri del Lagos. Agli albori del XX secolo tutti gli yoruba erano sotto il controllo dell’impero. Una precoce esposizione alla formazione cristiana ha agevolato l’accesso a maggiori risorse economiche. Al momento dell’indipendenza (1960), gran parte delle più alte cariche amministrative della regione erano ricoperte da esponenti yoruba. Questo stato di cose ha consentito un passaggio relativamente agevole a una forma di governo burocratizzato di stampo occidentale. 1.1 Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di Oguta Oguta è una città fluviale dello stato di Imo famosa per il lago omonimo nel quale confluiscono i fiumi Urashi, Njaba e Okposha. In epoca precoloniale il sistema politico era basato sulla coesistenza di una carica suprema maschile e di una femminile. Le due cariche erano parallele e complementari. Il patrilignaggio esercitava ed esercita il controllo sui propri membri e sulle terre nonché su tutti gli affari interni ed esterni. 12 Gli oru tracciano le loro origini a partire da una massiccia migrazione dal Benin avvenuta dieci generazioni fa. L’obi (il re) prende l’appellativo di eze igwe (re divino), ma le sue funzioni differiscono da quelle dell’obi del Benin poiché quella degli oru si configura come una società essenzialmente egualitaria. Al di là delle strutture tradizionali sono presenti associazioni di commercianti, devoti al culto delle divinità acquatiche, classi d’età e società segrete. Si vuole qui dare un’idea del culto della principale divinità acquatica nota come Nne mmiri (madre acqua) tra gli igbo e come Obguide o Ubammiri 3 tra gli oru-igbo di Oguta facendo riferimento ai lavori di Sabine Jell Bahlsen (Bhalsen,1993) e a quello di Flora Nwapa (Nwapa,1991). Presso gli igbo il termine per indicare la parola acqua è mmiri. Le sacerdotesse di Nne mmiri portano il nome di eze mmiri (regina dell’acqua), mentre i suoi devoti sono riferiti come ndi mmiri (popolo dell’acqua). (Jell Bhalsen,1993). E’ interessante notare che il termine utilizzato per designare i sacerdoti di sesso maschile non fa riferimento all’acqua, infatti eze ugo sta a significare “re coronato” o re con una piuma d’aquila”. Uno dei principali attributi della divinità è quello di proteggere la gente di Oguta dagli invasori: la leggenda vuole che durante la guerra civile 4 tenne lontane le truppe nemiche grazie al suo ventaglio gigante. La sua figura è talmente popolare che le sue sacerdotesse, raccolta l’acqua del lago Oguta dove si ritiene che essa risieda, la vendono al mercato come se fosse parte della divinità stessa. Prima dell’avvento delle strade, le vie di trasporto acquatiche sono state a lungo fondamentali per i rapporti di tipo commerciale sui quali le donne di Oguta avevano il dominio quasi assoluto. Generalmente le sacerdotesse conducono una vita isolata e agiscono individualmente, 3 4 Nel corso di questo paragrafo per fare riferimento alla divinità in questione si utilizzeranno indifferentemente i suoi vari nomi (Nne mmiri, Obguide, Ubammiri). La guerra civile nigeriana, nota anche come “Guerra del Biafra”, ebbe luogo fra il 6 luglio 1967e il 13 gennaio 1970, in seguito al tentativo di secessione delle province sudorientali igbo, autoproclamatesi repubblica del Biafra. L'azione militare del governo centrale nigeriano portò la popolazione di intere regioni a essere decimata dalla fame, e accuse di genocidio furono mosse da esponenti igbo alla Nigeria. 13 ma in caso di grandi pericoli come guerre, inondazioni 5, carestie o pestilenze possono giungere in gruppo in mezzo alla comunità e scongiurare il pericolo pregando e danzando. La loro prerogativa assoluta è quella di mantenere la pace e la stabilità. La controparte maschile esiste, ma è piuttosto raro trovare degli uomini che si dedichino al sacerdozio di Obguide/Nne mmiri. Secondo Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Nwapa, questo è dovuto al fatto che il celibato è un sacrificio troppo grande per loro, mentre le donne riescono ad affrontare con più disciplina le restrizioni cui sono sottoposte dal loro ruolo (Nwapa,1991). Il loro potere deriva da una divinità di potere superiore, ma è la dea a scegliere i suoi adepti e nessuno può impedire a una persona di esercitare ciò che ha così ricevuto in dono. Sabine Jell Bhalsen (Bhalsen, 1993) si concentra sull’analisi di un’ immagine popolare, importata dalla Germania nel 1926, in cui è raffigurata una bellissima donna con i capelli lunghi e affiancata da una coppia di serpenti. Opera di un autore ignoto, la cromo-poligrafia rappresentava in origine una divinità indiana che è stata identificata a Oguta e nei suoi dintorni con una divinità acquatica il cui nome inglese si è affermato come Mammy Water. Prendendo le distanze dalle interpretazioni che ipotizzavano l’origine straniera del culto e influenze esterne nell’immaginario locale, l’autrice rintraccia nella mitologia e nella simbologia locali quegli elementi che han fatto sì che l’immagine in questione si guadagnasse lo status di icona della dea Obguide. Il lavoro di analisi di J. Bhalsen, prende quindi le mosse dall’analisi di quegli elementi iconografici che hanno una forte valenza simbolica all’interno dell’universo culturale igbo e precisamente: la figura femminile; i pitoni; il colore bianco, da solo o in combinazione con il rosso e l’aspetto selvaggio della capigliatura fluente. Agli approcci che vedevano nell’accoppiata donna-serpente, o la soppressione del dramma edipico (Wintrob, 1970) o il desiderio represso nei confronti della donna bianca e quindi del benessere degli occidentali (Fabian, 1978), Bahlsen identifica, in accordo con i suoi informatori, i due serpenti come la coppia di serpenti reali e i quattro serpenti nel riquadro in basso a destra come i quattro giorni settimanali del mercato 5 Le inondazioni determinano l’andamento dei cicli agricoli sono quindi necessarie, ma anche molto pericolose nella loro imprevedibilità. Questo aspetto è dunque di fondamentale importanza ed è necessario eseguire rituali specifici e offrire sacrifici ai santuari sotto la supervisione di sacerdotesse e sacerdoti. 14 delle donne di Oguta ed associa il numero quattro al lato femminile dell’universo. Se qualcuno dovesse uccidere un coccodrillo, animale prediletto della dea, morirà avvelenato da un pitone. Questo rettile, che si rinnova cambiando la propria pelle, è associato ai cicli di morte e rinascita, alla fluidità dell’acqua come a quella della donna e in definitiva a quella della dea. L’immagine della coppia di serpenti reali ricorre spesso associata a coccodrilli o tartarughe ed è ritenuto molto pericoloso uccidere uno dei due perché si andrebbe incontro a morte certa per intervento dell’altro. La figura del pitone ricorre anche sui tamburi da guerra in quanto anch’esso, come gli aggressori, circonda le proprie vittime. Guardati con riverenza e timore esattamente come la dea, non hanno nulla a che vedere con un simbolo di sessualità repressa, piuttosto sono ritenuti seminare veleno per conto degli dei ed incarnano il potere divino sulla vita e sulla morte. Il colore bianco assume un connotato che si lega al ciclo nascita-morte e fa riferimento anche all’argilla bianca del lago Oguta, ritenuta essere il cibo degli spiriti ed impiegata per placare le febbri dei posseduti. Viene utilizzato come ornamento di sacerdotesse e sacerdoti ad indicare il tocco e la vista degli spiriti e durante i rituali di nascita e nei funerali viene adoperato per colorare il corpo di donne e parenti. Essendo ritenuto il colore preferito di Obguide si crede che la dea preferisca ricevere animali bianchi in sacrificio. Elemento di transizione associato alla freddezza e alla mobilità dell’acqua e della donna è assimilato anche al blu turchese del lago. La freddezza e la mobilità connaturati all’essere femminile sono elementi acquatici, caratteristici del lago e della dea che lo abita, ma in una valenza tutt'altro che negativa. Il femminile, in tutta la sua fluidità e mutevolezza, è ritenuto essenziale al perpetuarsi del ciclo vita -morte-rinascita. La donna, come la dea, è il tramite tra il mondo della vita e il mondo che la precede e la segue; l’atto del procreare è assimilato all’attività creatrice del dio e ogni nascita è vista come segnale di buon auspicio. A sottolineare l’importanza accordata dagli igbo all’atto procreativo, Bhalsen fa notare come il bianco compare sempre associato al rosso in ogni occorrenza rituale che ha a che vedere con Mammy Water. Se il bianco è un colore femminile, associato alla 15 fluidità e alla potenza vitale dell’elemento acquatico, il rosso è associato al calore e alla virilità maschili nonché al sangue e alla noce di cola, altro elemento che ricorre spesso in offerte sacrificali e in rituali divinatori. Così come il blu è assimilato al bianco, allo stesso modo il giallo-marrone del calcare giallo è assimilato al rosso. Giallo torbido è anche il colore del fiume Urashi il cui dio, che porta lo stesso nome, è sposo di Obguide. Figura 1 Mammy Water nella popolare icona del 1926 (Fonte: Jell Bhalsen , 1993) L’accoppiamento dei due colori nel poster di cui si sta trattando rimanda, tra gli igbo, all’indispensabile equilibrio tra maschile e femminile per il perpetuarsi dell’esistenza. Per quanto riguarda l’inusuale capigliatura fluente e selvaggia dell’icona, J. Bhalsen, facendo riferimento all’universo simbolico degli igbo, si pone in posizione critica nei 16 confronti degli approcci che considerano questo elemento di derivazione occidentale. In realtà, presso queste popolazioni, la crescita incontrollata della capigliatura è associata al disordine e a ciò che sfugge al controllo. Stregoneria, malattia, morte, forze della natura e spiriti acquatici sono collegati a questo elemento. La crescita incontrollata dei capelli è vista come un pericolo per la persona che potrebbe ammalarsi nel corpo e nella mente. Come per la chiamata sciamanica, la crisi può nascondere qualcosa di più profondo. I Dada (persone con i dreadlocks) sono considerati individui speciali, folli o in contatto con le forze della natura. Per le donne la crescita incontrollata dei capelli assume una valenza ancora più profonda. Ci sono due diversi tipi di bellezza negli ideali femminili igbo. Esiste la bellezza adolescenziale, ed esiste una bellezza più matura, che si acquisisce quando con il matrimonio si diventa donne a pieno titolo. Le capigliature femminili sono molto elaborate, ma sempre composte, come composto è l’ideale di fascino della donna adulta che assume su di sè le responsabilità assegnatele dai dettami sociali. Il passaggio all’età adulta è segnato dall’ingrassamento forzato tra le mura domestiche, dall’acquisizione delle capacità di governare una casa e dalla clitoridectomia, che segna la morte rituale della ragazza e la sua rinascita come donna. Se già ai tempi della ricerca di Jelsen, spesso tale l’intervento era praticato in ospedale, tuttavia una donna che avesse usufruito di tale opzione era considerata meno appetibile, in termini matrimoniali, rispetto ad una che seguiva i metodi tradizionali. Questa transizione è un momento così difficile e delicato, che non tutte accettano senza remore di uniformarsi alle norme imposte dalla tradizione. Negli anni a cavallo tra il 1870 e il 1940 coloro le quali erano dedite al commercio, fornivano bellissime donne, avute come pagamento o tramite adozione, a influenti mercanti inglesi e francesi nel tentativo di mantenere la loro centralità commerciale nel nuovo panorama che si andava configurando. I figli nati da questa unione erano chiamati Mammy Water ed è in questo periodo, secondo Flora Kapwa, che l’immagine di Obguide cominciò ad assumere connotati di 17 una bellissima donna mulatta dai lunghi capelli fluenti (Nwapa, 1991). La crescita incontrollata dei capelli è uno dei segni della chiamata al sacerdozio come si arguisce dalle parole della madre di una sacerdotessa: “Lei è diventata una sacerdotessa di Mammy Water. Dalla preparazione dei suoi capelli, si vede che lei è Mammy Water in persona” (Jell-Bahlsen 1993: 118 ). L’associazione qui è tra l’essere umano e il non conforme, il selvaggio, le forze della natura e uno dei segnali di questo legame è appunto da ravvisarsi nella capigliatura non curata. Al di là dei ruoli inerenti il sacerdozio, il culto di Obguide ha moltissimi adepti che sono in gran parte di sesso femminile. Anche se maritate, le donne son tenute a dedicare uno dei quattro giorni settimanali riservati al mercato, alla devozione della dea, essendo legittimate a trascurare gli impegni domestici e muliebri. C’è quindi una sorta di rifiuto per le regole derivanti dalla condizione di mogli, che porta alcune donne ad abbracciare il culto di Mammy Water. Sacerdotesse e adepte scambiano la vita e i doveri matrimoniali con il coinvolgimento spirituale legato al rapporto con la dea dell’acqua, il cui culto viene ad assumere un significato di rivolta e di riscatto perfettamente incorporato nell’universo culturale igbo. Per comprendere appieno la portata di questo tipo di sacerdozio 6 occorre far riferimento all’universo cosmologico igbo, dove all’apice del pantheon è posto ChiUkwu. Si tratta di un’entità astratta e asessuata, pertanto indescrivibile che può manifestarsi sotto forma di pitone e al di sotto del quale esiste una moltitudine di spiriti, maschili e femminili seguiti dagli spiriti degli antenati. Gli spiriti addetti a far da tramite tra questa entità e il mondo degli umani sono gli Arishi e tra questi vi è la deità acquatica generalmente nota come Nne mmiri (madre acqua) o Obguide/Ubammiri. Chi-Ukwu, l'entità astratta di ordine superiore, è conosciuta anche come divinità del destino (Chi). Al momento dell’incarnazione, l’anima riceve un proprio destino da perseguire in terra. 6 Oltre la vocazione/possessione esistono altre due forme di sacerdozio tra gli igbo: una si eredita per linea maschile ed una riguarda le mogli dei capi. In entrambi i casi come nel caso della possessione si può avere che inizialmente ci sia riluttanza nell’accettare la carica, per i pesanti sforzi che queste comportano. 18 Prima di entrare nel mondo dei vivi, cosi come avviene prima dell’uscita dallo stesso, l’anima deve attraversare il fiume dove entra in contatto con il dio della terra Onabulowa o con Nne Mmiri, che lo sfidano a scommettere sulla sua impresa. A questo punto l’individuo può scegliere se mantenere il patto con Chi-Uwku o se stringere un nuovo patto con la dea; nel secondo caso, parte della sua vita sarà dedicata a lei in forma devozionale o di sacerdozio. Sebbene i poteri provengano dalla divinità del destino, è la dea a decidere a chi trasmetterli. La crisi del corpo e della mente è segno di disordine, indica la rottura di un equilibrio tra l’essere singolo e la sfera sociale o quella naturale e sovrannaturale. La malattia, che preannuncia la chiamata, è segno dell’infrazione di questo patto, che va ricomposto se non si vuole incorrere in conseguenze sempre peggiori. La gelosia delle divinità acquatiche può colpire in vari modi. Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Kwapa, aveva ricevuto la sua chiamata in giovane età e per tutto il tempo della sua adolescenza era stata considerata pazza. La consapevolezza di essere stata chiamata le giunge solo dopo il matrimonio e dopo aver messo al mondo tre figli. Una volta compiuto un sacrificio e diventata sacerdotessa di Obguide, la sua vita diventò soddisfacente e più serena. In Efuru (Nwapa, 1966), una delle novelle della studiosa, la donna è descritta come dotata di straordinarie capacità e dai rinomati successi in ambito commerciale, ma piuttosto sfortunata riguardo altre sfere della vita. Infatti i suoi due matrimoni erano falliti e il suo unico figlio deceduto. Per lei la vocazione si manifesta in tarda età e questo può portare a chiedersi se la chiamata non fosse una sorta di compensazione per le sofferenze occorse. Ne La concubina (Nwapa, cit. in Bhalsen, 1993) troviamo una situazione analoga: in quanto compagna favorita del dio del mare essa non poteva essere corteggiata senza che i suoi aspiranti subissero una qualche disgrazia a causa della di lui gelosia. Ezemiri, allo stesso modo di Efuru, era una bambina diversa dalle atre, nessuno poteva comprenderla e solo una volta accettato il suo destino poté condurre una vita normale. Nonostante fosse stata abbandonata dal marito, una volta riconciliatasi col proprio destino, fece in modo che la propria sorella gli andasse in moglie. Questo gesto potrebbe rivelare una superiorità della sacerdotessa nei confronti del 19 marito, ma come fa giustamente notare Kwapa, potrebbe trattarsi anche di una sottolineatura del ruolo di moglie che è tenuta ad avere cura del proprio marito. Quando Ezemiri si era sposata, creando un disequilibrio col suo chi, veniva visitata di notte da Urashi che si mostrava geloso. Ogni notte era portata nel bosco dagli spiriti che le insegnavano i segreti delle erbe affinché fosse in grado di poter curare chi si sarebbe rivolto a lei. Una volta riabbracciato il proprio destino Ezemiri ha iniziato a condurre una vita serena e a guarire le persone riappacificandole, se fosse il caso, con il proprio chi. Una sacerdotessa di Obguide è ritenuta essere al servizio di chiunque si rivolga a lei, anche se straniero. Essa conosce le proprietà benefiche e malefiche delle piante acquatiche e grazie a queste conoscenze esercita funzioni di guaritrice, ma non è l’unica persona in grado di assolvere a questo compito e allo stesso tempo la sua sfera di azione non si riduce a quelle di guaritrice. Ci si rivolge loro soprattutto per quanto riguarda questioni legate ai bambini: vita, morte, reincarnazione, scelta del nome. Sacerdoti e sacerdotesse rispondono direttamente alla dea che parla per loro tramite, se qualcuno dovesse fare un uso improprio dei poteri acquisiti sarebbe duramente punito con malattie, disgrazie e in alcuni case anche con la morte. Obguide esprime la centralità del ruolo della donna nella continuità dell’esistenza. Questo ruolo supera la complementarità tra maschile e femminile nell’atto procreativo e ciò è ben espresso nella capacità di Nne Mmiri di cambiare i destini umani. La divinità acquatica è connessa alla concezione circolare del tempo, alla mobilità e fluidità del femminile e alla maternità come asse fondamentale attorno a cui la vita può perpetuarsi. I rituali officiati reiterano il concetto di complementarità tra vita e morte, statico e dinamico, creazione e conservazione spiriti/antenati e esseri umani. Tra gli oru igbo, la figura di Mammy Water come divinità femminile è rimasta centrale nonostante il boicottaggio da parte del governo britannico. La devozione da parte maschile nei confronti di antenati e divinità del loro stesso sesso sono state meglio documentate in coerenza con la volontà da parte delle potenze europee, di imporre il proprio modello di completa dominazione maschile in tutte le 20 sfere del sociale. Si veniva così ad ignorare completamente il delicato equilibrio su cui era basata la divisione di competenze tra i generi. La coppia di pitoni reali non è asessuata e come coppia riflette il delicato equilibrio del cosmo. Non è un caso se il culto di Obguide si è conservato e se l’immagine di Mammy Water abbia attecchito in modo così profondo. Obguide rappresenta il lato femminile dell’universo che nutre e dà la vita, ma è anche molto esigente, gelosa e potenzialmente pericolosa. Meravigliosa e terribile, benevola e misteriosa, richiede che i suoi devoti siano persone straordinarie. La sua figura è anche un modo per trattare il non conforme, come non conformi sono i dada, i parti gemellari, le inondazioni e i contatti con gli stranieri. Non è un caso se anche per quanto riguardava i commerci erano le donne ad occuparsi di quest’ultimo aspetto. Spesso può essere difficile per una donna dotata di talento conciliare gli affari domestici con la propria autoaffermazione nel mondo degli affari, così può capitare che qualcuna scelga la devozione rituale come mezzo per raggiungere uno statuto di benessere e di parità con l’uomo. Pertanto si hanno più sacerdotesse che sacerdoti non tanto perché (come spiegato da Ezemiri) le donne sono più predisposte al sacrificio, quanto perché tali ruoli offrono loro una possibilità di riscatto e di avanzamento sulla scala sociale. La vocazione può rappresentare una via di fuga attraverso la quale legittimare il proprio rifiuto nei confronti dello status di moglie. Il fatto che il destino di una persona sia contrattato dalla nascita e che, se disatteso, possa comportare gravi conseguenze, ne è ulteriore conferma. Un ex paziente delle sacerdotesse potrebbe anche intraprendere la strada dell’iniziazione ed è generalmente considerato pericoloso sposare una potenziale sacerdotessa, poiché in quanto moglie di spiriti acquatici non dovrebbe accompagnarsi a persone ordinarie. Una sacerdotessa di Obguide potrebbe anche fondare e comandare un proprio lignaggio. La crisi della mente e del corpo è, il segno di un disagio più profondo che trova 21 soluzione nella ricomposizione, attraverso il sacerdozio, tra l’individuo che infrange la norma e le regole sociali. 1.2 Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni rituali Il potere rituale non va inteso come prerogativa esclusiva di sacerdotesse devote a una divinità ben determinata. Esistono altre figure che, a vario titolo, svolgono importanti funzioni in questo senso pur senza abbracciare nessun culto. Nello stesso tempo ci sono rituali che sottolineano la centralità dell’essere femminile e che sono fondamentali al mantenimento della stabilità e alla riaffermazione del potere vigente. Jacob K. Olupona (Olupona, 1991), nell’analizzare una serie di rituali tra gli ondoyoruba7, esplora i rapporti di potere che intercorrono tra i generi e rintraccia in questi una costante tensione che affonda le proprie radici in un passato mitico. La parola ondo è il risultato della contrazione di edo du do, che sta ad indicare che il bastone di jam non riesce ad entrare nel terreno. Il mito di fondazione yoruba designa come progenitore mitico Oduduwa.8 Il racconto vuole che una delle sue mogli diede la nascita a due gemelli, ma trattandosi della sua favorita, la vita fu loro risparmiata. La madre e i gemelli dovettero tuttavia abbandonare ile ife. Nel corso del loro peregrinare ricevettero la profezia secondo la quale si sarebbero dovuti insediare laddove, appunto, edo du do. Ad essere nominata obi, regnante suprema, fu Pupupu, una dei gemelli nati da Oduduwa. Nel mito le origini matrilineari della società ondo. Sempre all’interno del medesimo però si narra di come fu chiesto all’obi, che era molto in là con gli anni, di nominare qualcuno che avrebbe potuto assumere i suoi compiti e di come costei scelse suo figlio, chiamato in seguito Aisero (il sostituto). Un’altra versione della stessa storia, parla di una presa di potere da parte degli anziani, che insediarono il figlio di Pupupu in quanto uomo poiché la loro obi precedente si era 7 8 Nel corso del testo i termini ondo e yoruba vanno intesi come interscambiabili. Secondo speculazioni di vario genere Oduduwa potrebbe anche essere stato di sesso femminile, ma mancano dati solidi che supportino questa ipotesi (Olupona ,1991) 22 mostrata più volte inadempiente nei confronti del suo ruolo e aveva prediletto gli affari domestici. Nel mito è presente anche la descrizione di insediamento di Aisero, durante il quale l’ormai ex obi aveva avuto, come vedremo, una parte più che determinante. Peter Lloyd e Donald Bender, sottolineano come in passato il sistema di discendenza ondo fosse bilaterale e nel mito troviamo indicazioni che vanno oltre la suggestione in merito ad un sistema originariamente matrilineare. L’organizzazione sociale ondo continua a configurarsi come basata sul parallelismo di genere. Le strutture di potere tradizionali si basano su una tradizionale gerarchia di governo a capo del quale è l’obi. L’organo immediatamente al di sotto nella scala gerarchica è costituito dall’ehare, il consiglio dell’obi e dei suoi capi. A ogni figura di capo maschile ne corrisponde una femminile denominata opoji. Il titolo femminile più alto è quello di lòbun, che corrisponde non ad una regina parallela al re, quanto al ruolo di capo delle donne. La sua sfera di azione spazia dall’ambito rituale a quello commerciale, ma il suo ruolo più importante è quello di installare il nuovo obi. In caso di decesso della lòbun, la carica rimarrà vacante fino al momento in cui non sarà necessario proclamare un nuovo obi : “ obi wa Utiade‘ se duo kù o Di’ lòbun jè” (Olupona, 1991: 327) (Muori o nostro re Utiade e lasciaci nominare una nuova lòbun) Questi versi fanno parte di una delle canzoni registrate da Olupone durante l’oramfe, l’annuale festival destinato a propiziare un eroe culturale ondo. Il cuore di queste celebrazioni, detto Opepee, è una notte di danza itinerante durante la quale, al ritmo del tamburo sacro, chiunque può inserirsi e introdurre una nuova canzone. I temi spaziano da un più generico quadro di riferimenti valoriali, come l’importanza attribuita all’alfabetizzazione e all’istruzione, ad argomenti che riguardano una buona condotta morale. 23 La maggior parte delle volte sono le donne a proporre un nuovo argomento che, se a volte riguarda genericamente questioni femminili, spesso coincide con il dileggio o la messa in discussione del comportamento dell’obi. Costui è, di volta in volta, accusato di non essere in grado di mantenere le proprie mogli o di non aver rispettato la norma che prevede la restituzione del pegno pagato dagli aspiranti a cariche di comando.9 Nell’esempio di cui sopra si giunge ad auspicare il decesso del re per poter installare una nuova lòbun. Pur trattandosi di versi satirici che fanno riferimento a voci popolari, queste canzoni sono pur sempre espressione della vox-populi e in quanto tali sono indice di qualcosa che va oltre lo scherno. Le critiche nei confronti dell’obi, l’invito rivolto allo stesso a morire, riflettono le tensioni insite tra componente femminile e regalità maschile. La notte satirica dell’opepee ha quindi come principale funzione quella di ricomporre ritualmente la protesta, serrandola nei ranghi dell’universo culturale. Le tensioni sono dunque rese innocue e incorporate dall’ordine costituito, che in tal modo viene riaffermato ( Turner, 1957; Gluckman, 1965). Una funzione analoga, anche se limitata alla cerchia di mogli dell’obi, è svolta dalla seconda parte dell’odun-obi, l’annuale festival dedicato al mantenimento e alla continuità della regalità. La cerimonia consta di due parti: una ha luogo al mattino ed è rivolta principalmente alla figura dell’obi, mentre la seconda, che incomincia alle tre del pomeriggio di fronte al palazzo reale, è rivolta alle mogli e ai figli del re. Si tratta di una situazione abbastanza particolare perché è l’unica durante la quale l’obi attende, assieme agli altri capi e alla popolazione, anziché essere atteso. Una delle caratteristiche peculiari di questa fase della celebrazione è data dal prolungarsi dell’attesa. Pur se invitate più volte da Baba Mesi (emissario del re) a presentarsi alla folla, le mogli con i loro figli si lasciano attendere fino al momento in cui l’impazienza degli astanti, obi in primis, raggiunge il culmine. Quando arriva il momento ha inizio la processione: tutte le donne devono portare un 9 E’ costume tra gli ondo, che tutti gli aspiranti ad una carica, paghino un tributo all’obi e agli altri capi che compongono il consiglio elettorale. La consuetudine vuole che, una volta giunti alla nomina, i candidati non vincitori abbiano indietro quanto versato. 24 bambino sulla schiena e nel caso di madri con figli non troppo piccoli si rimedia ricorrendo ad una bambola. Durante la processione vengono offerti sacrifici e preghiere per la famiglia reale e nel medesimo tempo la folla prega anche per se stessa. In questa occorrenza è il rinnovamento della stirpe reale, possibile solo grazie alla capacità riproduttiva delle mogli dell’obi, ad essere esaltata. Il fatto che tutte le mogli debbano avere un bambino sulla schiena, sia esso vero o sia una bambola, esplicita molto bene questa funzione. Nel pregare per il rinnovarsi e perpetuarsi della chieftancy, la comunità prega anche per sé, nel potere procreativo c’è anche quello di investire tutta la comunità di una forza di auto rinnovamento. L’elemento della maternità non è l’unico aspetto portante di questa cerimonia. L’apparente ritardo con il quale la famiglia del re si manifesta è indice anch’esso di tensioni latenti. In primo luogo si mette alla prova la pazienza dell’obi, il quale in questo caso non è trattato come essere divino, cosa che è accordata alle sue mogli e ai loro figli. Secondo e più importante aspetto è l’affronto perpetrato nei confronti dell’obi da parte delle sue consorti. Si tratta anche in questo caso di una ribellione rituale nei confronti di chi detiene il controllo della loro sessualità. Se ad essere esaltata è la maternità, come unico strumento che possa garantire il perpetuarsi della stirpe reale, ad essere esorcizzata è la ribellione di coloro che detengono il potere riproduttivo. Il bisogno di ricomporre ritualmente le tensioni tra la sfera di potere maschile e quella femminile non si limita a cerimonie che vedono le donne in qualità di partecipanti, per quanto attive, alle medesime, ma anche e soprattutto in quelle che le vedono come protagoniste attive in qualità di officianti. Si è detto che il massimo titolo femminile è quello della lobun e che la sua ragion d’essere principale è quella di insediare un novo obi. Se è vero che un re può essere in carica senza che ci sia in vita una lobun, è anche vero che senza la presenza di costei nessun re potrà essere nominato. Tralasciando l’intera fase di selezione e preparazione del candidato vincitore, ci si concentrerà sulla cerimonia di insediamento vera e propria (ifobiie). 25 Dopo i tre mesi di reclusione previsti, il nuovo obi si reca in pellegrinaggio all’odierna Epe, il luogo mitico di fondazione dello stato di ondo, ribadendo in tal modo il legame di discendenza con la progenitrice Pupupu e rinnovando il legame con il passato ancestrale. Compiuto questo passo la lòbun esegue i rituali di insediamento in conformità con il racconto mitico. Nel racconto Pupupu, avendo raggiunta l’età di 220 anni ed essendo stata invitata a scegliere qualcuno come sostituto, scelse suo figlio Aisero. Condottolo fuori di casa, lo fece inginocchiare e gli pose la corona sopra il capo per tre volte. Effettuata questa operazione chiese alla gente di accompagnarlo in casa dove lei li avrebbe raggiunti. Una volta giunta nei pressi del trono dove il neo eletto re sarebbe asceso, eseguì qualche altro rito. Durante l’installazione, la lòbun trasferisce il potere al nuovo obi prendendogli la mano destra; insieme girano intorno all’akoko, l’albero sacro che simboleggia l’axis mundi. Mentre la folla acclama in segno di accettazione al grido di “Abaye”, lei lo nomina re per tre volte. La cerimonia termina con l’ascesa dei due alla collina primordiale che indica l’ascesa al trono. “è una grande gioia per noi che la conoscenza esca fuori oggi, essa segue sentiero della verità come all’inizio dei tempi” ( Olupona, 1991: 331) In queste parole, la lòbun intervistata da Olupona esprime la necessità di ribadire il passato mitico e di perpetuarne la conoscenza. La stessa lòbun parla dell’obi come di suo figlio. Non esistono tabù tra di loro. E se questa parentela serve a rinnovare ancora una volta il legame tra passato e presente essa sottolinea ulteriormente la centralità della lòbun, in quanto madre, nell’affermazione della regalità. La cerimonia di insediamento legata al racconto mitico porta con sé due fondamentali conseguenze: nel rinnovare il legame tra presente e passato ancestrale, la regalità trova la propria legittimità, che è rafforzata dall’acquisita parentela tra la lobun e l’obi. La lòbun, in un certo senso, veste ritualmente i panni di Pupupu, è questo il motivo che rende fondamentale il suo ruolo. La cerimonia seda il conflitto latente generato dall’estromissione delle donne dal potere. Tale estromissione ebbe luogo nel momento in cui, alla progenitrice ancestrale subentrò un uomo. 26 La ricomposizione è legata al fatto che la successione può essere legittimata soltanto dall’approvazione della “madre” del nuovo obi. Nei tre rituali passati in rassegna, appare chiaro come tensioni e conflitti siano sempre presenti, in virtù di un soppresso passato in cui la sfera di azione politica non era di esclusivo appannaggio degli uomini. In questo spazio non è possibile analizzare tutti i rituali della società ondo, basterà accennare al fatto che il santuario più importante dedicato al dio della guerra Odun, è affidato ad una sacerdotessa e non ad un sacerdote. Anche per quanto riguarda quindi affari ritenuti di sensibilità più prettamente maschili, la figura della donna è di centrale importanza tra gli ondo. Se, in base a quanto abbiamo visto finora, l’ambito devozionale tra gli oru coincide con una possibilità di riscatto e di rafforzamento da parte delle donne, qui abbiamo constatato che la concentrazione di grandi responsabità rituali in mano a esponenti di sesso femminile, risponde all’esigenza di contenere conflitti e tensioni che potrebbero destabilizzare gli equilibri di potere che sono, almeno per quanto riguarda il massimo grado di autorità, di appannaggio maschile. 2.Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igbo Si è detto che presso gli igbo sono presenti una serie di istituzioni, titoli e associazioni che partecipano all’organizzazione sociale esercitando funzioni di controllo, pressione o svolgendo un ruolo riconciliatorio e di appoggio. Uno dei cardini dell’organizzazione sociale igbo è costituito dalla divisione per classi d’età maschili e femminili che raggruppano tutte le persone dello stesso sesso nate nell’arco di due o tre anni. Le persone appartenenti allo stesso gruppo d’età stabiliscono un particolare legame di solidarietà tra loro. A prescindere dallo status sociale dei suoi membri, la classe d’età d’appartenenza pone tutti sullo stesso livello e, se è abbastanza forte, può intervenire in modo decisivo in caso di controversie che riguardano uno dei propri membri. Questo aspetto è particolarmente importante, per quanto riguarda eventuali problemi che potrebbero insorgere tra una donna e il proprio marito. 27 Presso gli igbo, il gruppo ritenuto veramente attivo è costituito dagli uomini tra i 18 e i 45 anni. Oltre ad esercitare pressione per l’approvazione di leggi riguardanti la moralità pubblica, costoro si pongono come garanti dell’ordine pubblico e assolvono il compito di recuperare debiti insoluti per conto dei creditori che si rivolgono loro. La loro attività investe anche l’ambito ludico ricreativo superando quindi i confini del villaggio nella realizzazione di eventi e festival (Ijoma, 2000). Si è detto che la società igbo è caratterizzata da una discreta mobilità sociale che consente ai propri membri di accedere a posizioni di prestigio attraverso l’acquisizione di titoli10. L’uomo titolato gode di gran prestigio in quanto il suo status lo pone agli occhi della comunità come una persona saggia e in discrete condizioni economiche. La nomina di maggior prestigio è quella di Ozo (o Ndi Nze). Fino ai primi anni del XX secolo solamente gli uomini potevano accedervi, spesso aiutati economicamente dalle mogli e dalle sorelle di lignaggio che svolgevano e svolgono un ruolo determinante nei confronti della vita dei propri fratelli. Gli uomini così titolati raggiungevano il rango di sacerdoti, avvicinandosi in tal modo allo spirito degli antenati. Ad essi era consentito svolgere cerimonie dalle quali le donne erano escluse, comprese quelle che riguardavano l’accesso alle risorse economiche e spirituali del patrilignaggio. Alle donne era preclusa la carica di capo ed erano pertanto estromesse dai casi di giudizio che potevano comportare una condanna a morte. Helen Kreider Henderson ci informa di come tra gli igbo di Onitsha, nonostante la soppressione della carica di omu, esistono vari gruppi attraverso i quali le donne esercitano la loro influenza all’interno della società. (Henderson 1997) Simili, ma non del tutto corrispondenti sono i gruppi di cui ci parla Flora Nwapa (Nwapa, 1991) in riferimento agli oru-igbo. Onitsha è stata la città stato degli onitsha-igbo. Sorta sulla riva orientale del fiume Niger è oggi un importante centro commerciale, crocevia tra le regioni della Nigeria occidentale e orientale, ma già in epoca precoloniale era famosa per il suo grande 10 L’acquisizione dei titoli, a seconda delle zone, può avvenire per merito personale o può essere acquistata da altri detentori. In questo caso occorrerà dimostrare che il denaro utilizzato per la transazione sia stato guadagnato in modo onesto. 28 mercato che era di dominio prettamente femminile. Nel 1992 la popolazione era stimata intorno ad un milione di persone circa di cui 25000 erano igbo. L’insediarsi di nuove attività da parte di persone non igbo è un fattore di rischio per la partecipazione delle donne alle attività di mercato e rischia inoltre di compromettere i luoghi dove sorgono i santuari tradizionali di Onitsha. Sebbene le richieste da parte delle donne di reintrodurre la figura dell’omu, ad oggi non siano state ancora soddisfatte, costoro possono agire ed acquisire prestigio attraverso altri canali. Henderson (Henderson,1997) riporta l’esistenza di un’associazione denominata Otu Odu (portatrici d’avorio), ancora attiva negli anni 60 e ben documentata nei racconti dei viaggiatori del XIX secolo. L’appartenenza a questo gruppo è di norma appannaggio di ricche commercianti, una volta favorita l’acquisizione del titolo di Ozo da parte del marito. Anche se in qualche caso l’acquisizione del titolo onorifico può essere sponsorizzata dai figli della donna, indicando così i forti legami esistenti tra la stessa e i propri affini di lignaggio, spesso è la persona stessa a provvedere da sé a tale acquisto. L’appartenenza a questo gruppo non è segno dell’incorporamento nel lignaggio del marito, infatti si può appartenere all’Otu Odu sia nel proprio lignaggio che in quello affine. Solitamente le donne dotate di questo titolo provvedono ad acquistare avori anche per le loro figlie dichiarando che difficilmente un uomo farà lo stesso per una moglie o per le proprie figlie (Henderson 1997). Il prestigio e il rispetto acquisito le avvicina in qualche modo agli uomini Ozo, ma anche se i loro funerali rispecchiano l’alta considerazione di cui godono in società per aver elevato se stesse ad un rango superiore, ad esse non è consentito officiare rituali nei santuari degli antenati. Sia Henderson che Nwapa (Henderson, 1997; Nwapa, 1991), fanno riferimento a due gruppi d’appartenenza per le donne degli oru e onitsha igbo. All’interno dell’organizzazione sociale igbo infatti le donne sono ritenute appartenere al lignaggio paterno in quanto figlie e a quello del marito in quanto mogli. Nel trattare delle sacerdotesse di lignaggio, Henderson si riferisce a tale carica come isi ada, capo delle mogli, senza fare riferimento all’umuada, cui pure aveva fatto cenno e di cui fa esplicita menzione anche Kwapa. 29 Pertanto quando si utilizzerà il termine Umuada si intenderà dire che si sta parlando degli oru-igbo. Sotto il nome di Umuada, si intende l’insieme di tutte le figlie di un lignaggio, maritate o meno (Henderson, 1997; Nwapa, 1991). Il loro potere proviene dagli antenati e le loro azioni sono svolte collettivamente. E’ infatti dalla loro unità che esse traggono potere ed è dalla loro soddisfazione che deriva la stabilità del lignaggio. Il loro potere all’interno del lignaggio è talmente grande che un uomo tenderà a scontentare la propria moglie piuttosto che le proprie sorelle. Questa forza ha valore solamente all’interno del proprio segmento di origine, mentre perde totalmente valore nei confronti del lignaggio del marito. Il legame con il patrilignaggio non è mai scisso del tutto e a conferma di ciò, al momento della morte di una donna, il corpo di costei sarà seppellito nella casa dalla quale proviene. Va da sé che una madre e una figlia non potranno mai appartenere allo stesso gruppo di Umuada. Il capo del gruppo delle figlie è la figlia maggiore tra tutte, assistita dalle due che la seguono in età. La loro azione è rivolta ai propri fratelli: il loro dovere principale è quello di lottare per loro, difenderli in caso di controversie o offese ricevute, occuparsi dei loro funerali e celebrarli degnamente nel caso in cui dovessero acquisire un titolo. In occasione delle onoranze funebri si occupano della veglia funebre piangendo, intonando lodi e preghiere, controllando che ogni cosa vada per il verso giusto. Fino a che i riti non sono conclusi è loro dovere occuparsi dei figli del defunto accogliendoli nelle loro case e offrendo loro cibo e protezione. Nei confronti della moglie del defunto hanno invece un atteggiamento decisamente poco benevolo. Infatti, in caso di morte prematura, la moglie è la prima ad essere accusata del decesso ed è costretta a subire prove e umiliazioni di vario genere, come bere l’acqua utilizzata per lavare il corpo del marito per dimostrare la propria innocenza e per far sfogare la rabbia delle sorelle. Come si è già detto, il gruppo trova nella coesione la propria forza, non partecipare al funerale di un membro del proprio patrilignaggio sarebbe considerata una gravissima mancanza e la colpevole potrebbe essere multata o ostracizzata giungendo al boicottaggio in massa dei suoi funerali. 30 L’altra occasione in cui la forza dell’umuada è resa manifesta si ha in occorrenza di un’eventuale presa di titoli da parte di uno dei loro fratelli. E’ necessario in questo caso, informare immediatamente le sorelle dell’avvenuta nomina; se qualcuno dovesse ignorarle tralasciando questo fondamentale passaggio incorrerebbe nella loro ira. Durante le celebrazioni esse sono le invitate d’onore: i migliori cibi e bevande son riservate loro in quantità spropositate. Alla moglie del festeggiato non è consentito invitare il proprio Umuada, ma è dato il permesso di far partecipare le appartenenti alla sua classe d’ età. Queste devono, in ogni caso, mantenere un comportamento rispettoso e non offendere in alcun modo le sorelle del marito. Se dovessero crearsi dei malcontenti da parte di questo gruppo, l’intero lignaggio ne risentirebbe, in quanto la loro capacità di destabilizzazione è particolarmente forte. Allo stesso modo, se dovessero verificarsi delle tensioni al suo interno ci sarebbe il rischio che l’umuada possa interrompere le proprie funzioni generando caos e disequilibrio. Le mogli del clan sono raggruppate all’interno dell’umunwunyeobu nel quale entrano a far parte automaticamente al momento del matrimonio. Il potere di questo gruppo non è minimamente paragonabile a quello dell’umuada ed è fondamentalmente atto a istruire le giovani mogli sul corretto comportamento che è necessario osservare in quanto spose. Se questo gruppo è abbastanza influente e coeso può essere un utile strumento di difesa contro la tirannia dei mariti, ma generalmente la loro premura principale, in caso di fuga da parte di una moglie, è quella di convincerla a ricongiungersi al loro sposo. Sebbene possano esercitare una certa forma di pressione sui consorti delle consociate, esse possono facilmente trovarsi di fronte l’ostilità dell’umuada che ha pieno diritto di interferire negli affari che riguardano i propri fratelli. Come gruppo esse possono in qualche modo contestare le decisioni prese dai mariti nei loro confronti rifiutandosi di cucinare per loro e, in casi estremi, sfruttando il loro potere riproduttivo e astenendosi dal dormire con loro. In linea di massima però va ribadito ancora una volta come questo sia un gruppo con funzioni più riconciliatorie che di effettiva tutela reciproca. Questo ruolo è invece svolto con più successo dal gruppo di donne della stessa classe 31 d’età, in quanto caratterizzato da una grandissima solidarietà derivante dall’aver attraversato insieme tutte le fasi della vita. Le appartenenti al gruppo avvertono quindi con più forza il bisogno di difendersi le une con le altre essendo in generale, anche se non necessariamente, svincolate da legami di parentela con il marito in questione. Una donna maltrattata dal marito potrà rivolgersi a loro, che accoreranno in massa per intimargli di desistere dal suo comportamento. In caso di accuse sarà loro cura aiutare la donna a dimostrare la sua innocenza o, al contrario, convincerla a scusarsi e trovare una riconciliazione. Si è visto come questi tre gruppi svolgano, ognuno a suo modo, funzioni di rilievo all’interno della società oru. Essi hanno inoltre la facoltà di creare risorse, a cominciare da un autofinanziamento che viene di regola ridistribuito e messo in circolazione in modo da creare una minima base di reddito. Parte di quanto già riferito per gli oru vale anche presso la gente di Onithsa e cioè: il patrilignaggio esercita e continua ad esercitare il pieno controllo sui propri membri anche una volta sposati o, nel caso delle donne, trasferitesi nella residenza cui fa capo un altro patrilignaggio. Una donna divorziata, anche se non ha diritti sulle risorse del patrilignaggio, può comunque essere accolta nella casa del fratello e reclamare per suo figlio il diritto di accesso alle terre finanche il conseguimento del titolo di Ozo. In riferimento all’organizzazione del patrilignaggio, Henderson (Henderson,1991) riporta dell’esistenza di due figure di potere, una maschile e una femminile, nel ruolo di sacerdoti e sacerdotesse. Entrambe queste figure sono Investite del potere degli antenati grazie all’ofo, il bastone sacro del lignaggio e attengono ai diversi ambiti rituali che competono loro. Alla sacerdotessa spettano le pratiche di purificazione di un corpo prima dell’inumazione o delle case dei membri maschili in caso di tradimento da parte delle mogli. E’ inoltre suo compito controllare le figlie del lignaggio in qualità di capo. Queste si riuniscono periodicamente per condividere il cibo a partire dalla persona più anziana, risolvere eventuali dispute, scegliere canti e danze e discutere di questioni riguardo ai santuari di villaggio che sono principalmente propiziati dalle donne. Come per L’Umuada oru, sarebbe gravissimo se una di costoro non assolvesse alle 32 funzioni cerimoniali o se si rifiutasse di pagare la tassa regolarmente dovuta. In caso di inottemperanze di questo genere, il capo delle figlie potrebbe multarle sequestrando loro gli utensili da cucina per non restituirli fino a debito saldato. E’ opinione diffusa presso gli anziani di Onitsha che abilità e responsabilità delle sacerdotesse non siano equiparabili a quelle dei sacerdoti maschi (Henderson, 1997), i quali per poter avere accesso a questa carica devono necessariamente aver conseguito il titolo di Ozo. Qualcosa di simile all’umunwunyeobu oru è rintracciabile nell’organizzazione delle mogli del villaggio, che racchiude tutte le mogli di un determinato patrilignaggio a capo delle quali è la donna maritata da più tempo. Anche in questo caso il gruppo deve formare le nuove arrivate in merito alla giusta condotta da tenere e funge da deterrente per i cattivi comportamenti da parte dei mariti nei riguardi delle rispettive consorti. Il loro ruolo durante le celebrazioni funebri riveste una certa importanza in quanto sono loro ad essere incaricate della preparazione del banchetto cerimoniale. Inoltre esse gestiscono un piccolo fondo con il quale acquistare costumi per le danze e per offrire dei doni a chi riceve un lutto, cosa che potrebbe indicare sia una certa solidarietà tra affini che una condizione di inferiorità delle mogli nei confronti del patrilignaggio di cui sono spose. Come tra gli oru, anche presso gli igbo di Onithsa, se qualcuna dovesse venire meno ai propri doveri o dovesse essere continuo motivo di destabilizzazione nei riguardi di decisioni prese in assemblea, sarebbe punita con una multa o cadrebbe vittima dell’ostracismo da parte degli altri membri. Un discorso a parte va fatto per l’ikporo (“la città delle mogli/madri”) che raggruppa nominalmente tutte le donne sposate indipendentemente dal segmento di lignaggio cui sono legate. A capo di questo gruppo c’è la donna più anziana della città, le cui decisioni possono tuttavia essere messe in discussione da altri membri anziani. Intervengono in casi di emergenza come carestie, epidemie o invasioni straniere anche se a partecipare alle riunioni sono i membri più maturi come le donne in menopausa o coloro che detengono il titolo di portatrici d’avorio e di madre della Masquerades11. Henderson riferisce che, negli anni 60, pur avendo perso gran parte dell’influenza sui 11 La società segreta delle Masquerades ha funzioni di controllo sociale ed è preclusa alle donne, a meno che non abbiano raggiunto la menopausa e non posseggano risorse sufficienti ad accedere al titolo di Madre delle Masquerades 33 mercati in seguito ai processi di occidentalizzazione, il loro capo conservava la prerogativa di vietare alle donne, sotto pena di una multa, di recarsi al mercato nei giorni che coincidevano con le festività religiose. Rimaneva intatto inoltre il diritto a presiedere alle controversie che potevano sorgere nei mercati minori. Altro ruolo importante riguarda la propiziazione dei santuari in zone d’acqua o in prossimità dei mercati più importanti. Tali santuari erano ritenuti tenere lontani i pericoli di malattie, invasioni e quant’altro poteva giungere dall’esterno. Sebbene la donna in carica fosse in grado di eseguire le oblazioni necessarie ai rituali di comunione con gli antenati, questo privilegio non le era accordato; quando si trattava di pregare per la città dovevano essere assistite dai membri appartenenti alla classe d’età degli uomini maturi. Costoro erano chiamati dalla donna “i miei figli” e loro si rivolgevano a lei nei termini di “nostra madre” ( Henderson 1991). Le donne a loro volta erano considerate figlie dei santuari di loro pertinenza che, generalmente, si trovavano presso fonti acquatiche di ogni genere e il cui elemento liquido era ritenuto spegnere “i fuochi delle difficoltà”. Poteva capitare a volte che lo spirito di un luogo sacro apparisse in sogno ad una delle mogli/madri per avvertire della necessità di un rito purificatore. Le dimensioni del gruppo, che includeva tutte le donne sposate degli igbo di Onitsha, poteva generare delle scissioni. Poteva infatti capitare in caso di conflitti tra vari segmenti della società, che i membri della 2città delle madri” interrompessero le proprie attività perché ognuna sosteneva parti differenti a seconda dell’eventuale grado di affinità o consanguineità che le legava alle parti in causa. Tendenzialmente manifestavano un certo favore per il lignaggio del marito, in quanto i suoi figli appartenevano a quel segmento, ma se la controparte avesse dovuto coincidere con il segmento paterno, allora costei avrebbe forse tenuto segretamente le parti del proprio patrilignaggio. In ogni caso, eventuali periodi di inattività possono essere indice di ostilità, più o meno estese. Quanto esposto finora, riflette il conflitto e la tensione delle tradizioni Onitsha che esprimono le posizioni contraddittorie delle donne di potere in un contesto sociale e 34 culturale sostanzialmente patriarcale. Anche se le donne sono state in grado di realizzare la loro libertà di azione e l'accesso alle risorse economiche, è chiara la matrice restrittiva di divieti culturali intesi a limitare questi poteri. Già ai tempi in cui scriveva Henderson (Henderson 1991), il ruolo delle donne nei mercati era particolarmente compromesso. Gran parte dei santuari è stata messa a repentaglio dall’azione di gente non igbo, e il fatto che le donne continuassero a premere affinché il ruolo dell’omu fosse reintrodotto non fa che sottolineare la loro consapevolezza in merito all’esigenza di avere un referente politicamente forte che le aiuti a rivendicare le loro sfere di azione. 3. Il controllo nei mercati cittadini: market-queen e associazioni di commercianti In molte zone dell’Africa occidentale, in epoca precoloniale, la gestione di gran parte delle attività mercantili era prerogativa femminile. Tra gli igbo di Onitsha le attività commerciali erano considerate poco virili e le donne si occupavano anche di gestire i rapporti con mercanti che giungevano dall’esterno. Costoro erano scoraggiati dal vendere i loro prodotti in prima persona; la cosa più opportuna era che commercianti femminili acquistassero da loro per poi rivenderli al mercato principale. Gli igbo dell’interno potevano però, dietro pagamento di una tassa al re, ai capi e al capo donna del mercato, vendere le proprie merci direttamente. Il capo della città delle madri eseguiva periodici rituali purificatori per i mercati oltre a risolvere le controversie che sorgevano al suo interno. Inoltre, gran parte dei santuari che ricadevano sotto la sfera femminile erano ubicati in zone d’acqua o nelle vicinanze di un mercato (Henderson,1991). I processi di occidentalizzazione degli scambi economici hanno ridotto notevolmente l’influenza delle donne nelle transazioni commerciali, ma esistono ancora oggi, seppur con poteri limitati, importanti figure femminili nell’organizzazione di molti mercati cittadini. In qualche caso queste figure hanno assunto il titolo di Market Queens, cosa che riveste una certa importanza in un contesto matrilineare come quello ashante. Gli ashante appartengono al gruppo degli akan, un composito insieme di popolazioni perlopiù caratterizzate da un sistema di discendenza matrilineare e diffuso in tutto il 35 sud del Ghana e in Costa d’ Avorio. Kumasi è la capitale amministrativa della regione Ashanti e corrisponde grosso modo al territorio occupato dagli ashante in epoca precoloniale. L’organizzazione politica tradizionale è basata sulla chieftaincy, a capo della quale ci sono l’ashantehemma (ahemaa degli ashante) e l’ashantehene, (ohene degli ashante) rispettivamente tradotti come king e queen mother. Questo modello è replicato per ogni città o villaggio e, in ogni caso,i capi, gli ohene e le ahemaa devono essere costantemente in contatto con il consiglio degli anziani, il mpanyinfuo (J.Stoeltjes, 1997). Garcia Clark (Clark, 1997) riferisce della presenza di donne con ruoli di potere all’interno dei mercati dell’area a cominciare dal XX secolo. Costoro detenevano e detengono il titolo onorifico di ͻhema (sing. di ahemaa) nonostante non godano di alcun riconoscimento né a livello amministrativo né sul piano dell’organizzazione politica tradizionale. Nel 1979, l’ashantehemma collaborò con i tentativi del governo di delegittimare le leader di mercato sottolineando che queste non avevano alcun diritto di assumere il titolo di ahemaa, tradizionalmente ereditato all’interno dei lignaggi reali. Si spinse oltre dichiarando ironicamente che sarebbe stato meglio chiamarle "capi-tribù”, sottintendendo che, avendo assunto competenze che prima della conquista coloniale erano di appannaggio maschile, in qualche modo avevano cambiato la loro identità sessuale (Clark, 1997). Pur non godendo di alcun riconoscimento, esse hanno giocato un ruolo chiave nei processi economici, soprattutto durante i periodi crisi. Tanto per fare un esempio, quando nel 1979 il governo nazionale dichiarò che, nel giro di un mese e mezzo circa, il sistema di valuta sarebbe stato rinnovato con un cambio di dieci a sette, le leader dei vari gruppi si preoccuparono di condurre campagne informative e di discussione fino a giungere alla decisione di chiudere alcuni cantieri di vendita all’ingrosso per minimizzare le perdite che sarebbero seguite allo svantaggioso cambiamento (Clark, 1997). Per ogni tipologia di bene esistono dei gruppi (anche se non era scontata l’appartenenza agli stessi per il semplice fatto di condividere la tipologia di merce 36 messa in vendita), ognuno dei quali elegge la propria ͻhema che prende il nome dal prodotto in questione. Il nome di un’ͻhema tradizionale è preceduto da quello della città o villaggio cui fa capo; così la responsabile del gruppo del bayere (yam) si chiama bayere-hemma (Clark, 1997). All’interno del proprio gruppo di pertinenza, ogni ͻhema agisce per suo conto e, qualora il caso lo richieda, consultandosi con il mpanyinfuo (consiglio degli anziani), ma quando si rende necessario discutere di questioni più generali, costoro si riuniscono e decidono collettivamente. Nel mercato di Kumasi la massima autorità tra i leader è il capo dei commercianti di igname, la bayerehemma, che in occasione di cerimonie o nelle trattative esterne, guida la delegazione di ahemma e parla per loro. Ciò sembra riflettere l'importanza economica dei tuberi in questo particolare mercato, che occupa ancora oggi una posizione centrale per il commercio interregionale nei prodotti alimentari. La bayerehemma non può prendere una decisione importante senza consultarsi con le ahemaa di patate dolci, manioca, pomodori, cocoyam, e altri prodotti di una certa importanza. Se convocate, esse hanno il dovere di rispondere alla chiamata ufficiale per partecipare alle discussioni di interesse comune. La principale funzione cui deve rispondere un leader di un gruppo di commercio è la risoluzione delle controversie che inevitabilmente possono sorgere tra i co-membri. Per rafforzare la solidarietà e la collaborazione tra le venditrici occorre che si crei fiducia e questo è possibile solo nel caso in cui le loro postazioni siano vicine. La loro prossimità rende possibile lo scambio di informazioni e di mutua assistenza, come nel caso in cui una di loro debba allontanarsi momentaneamente. La copresenza nel medesimo spazio facilita la ricomposizione delle liti da parte degli anziani che assumono un’importante e non ufficiale ruolo di mediazione. La mutua assistenza, la possibilità di accedere a forme di credito e la veloce risoluzione di eventuali controversie rendono appetibile la partecipazione a queste “associazioni”, ma non per tutte è possibile accedervi. Uno dei doveri fondamentali dei membri risiede infatti nel partecipare ai funerali delle proprie compagne e inoltre esse devono essere presenti alle riunioni. Tutto ciò comporterebbe un eccessivo dispendio di tempo e denaro per coloro che vivono a 37 distanze non gestibili. Tali gruppi sono perlopiù caratterizzati dal medesimo sesso e dalla medesima appartenenza etnica. Questa omogeneità etnica e di genere porta a un accordo generale sulle caratteristiche dei leader e facilita la condivisione delle occorrenze cerimoniali (Clark, 1997). L’elezione di un’ͻhema, a differenza di quanto avviene a livello di chieftaincy, non ha nulla a che vedere con l’ereditarietà, e coinvolge tutte le commercianti associate. I criteri per la selezione sono più orientativi che vincolanti. Questi riguardano il temperamento, l’esperienza, l’età, le condizioni economiche, la proprietà di linguaggio e le abilità diplomatiche. La candidata ideale deve essere una persona che si è mostrata paziente e di temperamento pacifico. Questi tratti, così come le capacità di fungere da pacieri possono emergere nelle pratiche quotidiane designando una preliminare rosa di probabili favorite. Un altro elemento da non sottovalutare è la capacità di esprimersi con un vocabolario articolato e in modo incisivo, sia per incrementare il prestigio del gruppo, che per avere maggiori probabilità di successo nelle negoziazioni con l’esterno. In linea di massima si ritiene che la candidata ideale debba avere accumulato sufficiente anzianità di servizio all’interno del mercato, ma nello stesso tempo non debba essere eccessivamente anziana, in modo da poter assicurare una stabilità prolungata al gruppo. D’altro lato un’ ͻhema troppo giovane oltre che inesperta potrebbe risultare troppo occupata nella cura dei suoi figli per poter assolvere ai suoi molteplici doveri. Il ruolo di leader comporta un notevole dispendio di tempo e non prevede introiti di nessun genere se non in termini di prestigio. Per questo motivo si crede che una discreta ricchezza rispetto agli altri membri sia un requisito importante. Un eccessivo benessere però potrebbe comportare il disinteresse nei confronti delle questioni di gruppo per mancanza di tempo o peggio di volontà. Anche le relazioni con l’esterno possono essere d’aiuto in quanto per gruppi particolarmente forti e grandi può essere opportuno godere del favore e della protezione di ambienti politicamente influenti. Si è accennato a come, presso gli igbo di Onitsha, il capo della “città delle madri” svolga dei rituali di purificazione dei mercati cittadini. 38 Nulla di tutto ciò compete alle ahemaa, il cui ambito di azione riguarda più che altro l’apparato cerimoniale in qualità di partecipante. In ossequio alla coesione tra i membri di un medesimo gruppo, la partecipazione collettiva al funerale di uno dei suoi membri è un fattore di cruciale importanza, così come l’assistenza reciproca in caso di malattia o di feste. Dovere di una leader è quello di partecipare alle esequie delle proprie associate e dei loro parenti più stretti come a quelle delle altre ahemaa e dei loro familiari più prossimi. In qualità di rappresentante deve partecipare anche alle occasioni pubbliche in cui si ricevono ospiti importanti e rendere omaggio all’ashanthema e all’ashanthene in occasione di festività ritenute importanti. Quest’assenza di un corpus rituale formalizzato si può forse spiegare con il carattere non tradizionale del suo ruolo. Ogni cosa risponde a funzioni immediate ed esplicite, prima tra tutte la difesa e la rappresentanza del gruppo ed il proseguire del flusso dei commerci. In caso di liti o dissapori non c’è modo di fare appello alla rabbia degli antenati e la cosa non avrebbe alcun senso. L’unica cosa sulla quale essa può fare conto è la buona volontà da parte delle contendenti nel risolvere i loro dissapori nel modo più rapido e indolore possibile. Essere partecipi di questa volontà è nell’interesse delle associate che preferiscono rivolgersi alla loro ͻhema piuttosto che ricorrere ai canali ufficiali, sia per una questione di tempistica che per mantenere buone relazioni con le proprie colleghe. Inoltre, molte convenzioni che non hanno alcuna rilevanza dal punto di vista legale, si basano sul buon senso. Per esempio, sottrarre un cliente a una compagna fino al momento in cui questa non ha abbandonato definitivamente la trattazione è considerato poco opportuno (Clark, 1997). Le norme fondamentali di buona condotta necessitano quindi dell’intervento di una persona imparziale e con una profonda conoscenza delle consuetudini di mercato che le faccia rispettare. Se un membro ritiene di aver subito un torto da parte di un’altra commerciante, per prima cosa inizierà a lamentarsi della cosa con una persona anziana e in seguito, in caso di mancata ricomposizione, si rivolgerà all’autorità del loro capo. 39 Se qualche creditrice dovesse rivolgersi a lei per recuperare quanto gli è dovuto, nessuna conseguenza graverebbe sulla debitrice, a meno che questa non si rifiuti ancora di saldare, commettendo una sorta di “oltraggio alla corte” (Clark, 1997). L’operazione di libero assemblaggio di elementi della tradizione, quali quelli cui si è già fatto riferimento, con il cooperativismo di stampo occidentale e la tensione ad incorporare figure di tipo amministrativo, era funzionale ad ottenere legittimità su entrambi i piani e a rafforzare la coesione interna ed esterna dei gruppi. Quando i venditori di yam si registrarono come cooperativa, la loro ͻhema divenne presidente, gli anziani divennero vice-presidente, tesoriere, etc, e il consiglio degli anziani fu rinominato come comitato esecutivo (Clark, 1997). Questo status ufficiale è stato inseguito nella speranza di poter ottenere qualche agevolazione di tipo finanziario e nella speranza di ridurre le ostilità del governo che, a partire dagli anni 80, aveva mostrato un forte accanimento nei confronti dei gruppi di commercianti e delle loro leader. Tale prassi solo raramente diede qualche risultato e le politiche persecutorie (pestaggi, confische, arresti) ridussero notevolmente l’ambito di azione dei gruppi. L’uhemmafuo di Kumasi, pur essendo ancora attivo, ha perso gran parte della sua attrattiva e le funzioni delle leader sono molto limitate. Gruppi di beni suscettibili di un mercato in espansione, come quello della stoffa, sono scomparsi sotto i costanti attacchi del governo. La creatività delle donne dei mercati ha dovuto fare i conti con tutti quei fattori esterni che, pure in qualche modo, aveva cercato di accattivarsi. Sebbene a livello tradizionale abbiano incontrato un’aperta opposizione solo nel 1979, di sicuro non hanno mai goduto dei favori della chieftaincy. Scorporati da entrambi i modelli cui avevano fatto riferimento, rappresentano comunque uno straordinario esperimento di auto-regolamentazione e incremento delle proprie possibilità in un’ottica di gestione democratica di risorse e attività dove l’interesse del singolo non è nemmeno pensabile se non riferito al benessere degli altri soci-membri. Il lavoro di Adesuwa C. Emovon (Emovon, 1997), rende conto di una situazione formalmente simile tra i mercati dello stato di edo, in Nigeria, ma dagli sviluppi 40 notevolmente differenti. Anche qui troviamo associazioni di venditrici, una per ogni tipo di bene venduto, con a capo un leader che svolge varie funzioni. Oltre la risoluzione delle controversie, si occupano di verificare che nessuno dei membri operi una concorrenza sleale nei confronti degli altri e fissa i prezzi cui membri son tenuti ad adeguarsi. In alcuni casi può essere richiesto un tributo periodico che costituirà una base di credito per finanziare i membri in difficoltà e Il tasso d’interesse è di norma inferiore a quello degli istituti di credito ufficiali (C. Emlovon, 1997). Al di là del sostegno finanziario, il gruppo si sostiene in caso di lutto, malattia, o sventure di qualunque genere. Se qualche socio del mercato muore, la sezione adibita alla sua associazione è chiusa per l’intera giornata. Tutti i membri della sezione saranno tenuti a partecipare alla veglia funebre e alla sepoltura, pena l’applicazione di una penale. Poche settimane dopo la sua morte, all’interno del mercato hanno luogo rituali di fuoriuscita dell’anima del defunto dal mercato per evitare che questa continui a vagare al suo interno. Nel corso degli ultimi anni le donne appartenenti a queste associazioni sono entrate a far parte di organi di governo ed esercitano una notevole influenza. Spesso sono invitate a prendere parte a discussioni che riguardano decisioni seriamente importanti e son tenute in grande considerazione dallo stesso obi. Un esempio che valga su tutti a riprova della grande influenza da loro esercitata, riguarda la decisione di non accettare il prestito del fondo monetario internazionale (Emovon, 1997). Queste donne sono associate anche al National Council of Women’s Societies12 i cui membri sono in gran parte esponenti di una élite istruita. Nel 1986 è stato istituito il Mamser (Mobilisation for Social and Economic reconstruction for Social Justice)13 allo scopo di coinvolgere la popolazione e di portarla ad interessarsi alle questioni che avevano a che vedere con la politica. Le donne del mercato dello stato di Bendel erano in dialogo costante con la Direzione 12 13 L’associazione è stata inaugurata in Nigeria nel 1959, con lo scopo di favorire lo sviluppo femminile. Nel 2010 una sua filiale è stata inaugurata in a Denver, in Colorado e raccoglie donne americane come donne nigeriane. Attualmente entrambe sono registrate come ONG MAMSER era l'acronimo di: “mobilitazione di massa per l'autonomia, la giustizia sociale e la ripresa economica”. La sua creazione fu voluta dall’allora presidente della repubblica Federale di Nigeria Babangida. Attualmente porta il nome di NOA (Agenzia Nazionale di Orientamento) ed ha filiali in ognuna delle 774 aree di governo locali. 41 del Mamser sulle azioni da adottare per mobilitare le donne per la partecipazione politica. Seminari e workshop sono stati organizzati per gruppi di donne per l’accrescimento della loro consapevolezza sociale e politica. Il numero di donne che sono andate a votare o che hanno votato per loro nelle elezioni amministrative del 1990, è una testimonianza per le attività delle associazioni delle donne in Bendel (Clark, 1997). Perché le associazioni di mercato femminili che nel Bendel godono di tanta popolarità hanno riscontrato invece una così profonda ostilità nella regione Ashanti? Forse le ragioni del fallimento sono da ricercarsi nella mancata capacità di dialogare con le realtà politiche che in vario modo potevano rafforzare la loro posizione attraverso mutue collaborazioni e percorsi condivisi di rafforzamento della condizione femminile, anche attraverso una presa di coscienza politica che non fosse primariamente diretta a un immediato ritorno economico. Inoltre la forza delle donne di Benin city è stata quella di agire in gruppo per l’interesse di tutta la collettività, aprendosi così dei canali che hanno loro consentito di accedere a cariche influenti. I gruppi di Kumasi agivano per interposta persona tramite le loro ahemaa, cosa tra l’altro abbastanza comprensibile considerato il contesto matriarcale di appartenenza. Se da un lato quindi c’è stata l’incapacità reciproca tra governi e gruppi di commercio nel dialogare tra loro, dall’altro si è avuta la totale mancanza di appoggio e probabilmente anche una forma di invidia da parte di altri influenti strati della società. Capitolo II Potere politico e ricerca di autonomia 1) Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo di Benin City. In uno studio sulle donne edo di Benin City pubblicato nel 1997 ( Kaplan, 1997), Kaplan definisce il potere politico come “ La possibilità di prendere decisioni intorno a scarse risorse, materiali e immateriali, entrambe percepite come reali, che interessano uno o 42 più gruppi nelle arene pubbliche.” (Kaplan, 1997: 248) I gruppi di mercato delle donne edo (e fino a un determinato momento anche quelli ashante) del Bendel esercitano, come si è visto, una forte influenza politica, e pur non essendo riconosciuti né a livello tradizionale né istituzionale, sono rispettati e tenuti in grande considerazione. Se a livello associativo l’azione politica, come sopra definita, si fa più esplicita ed è agita collettivamente, lo studio di Kaplan mostra come nei primi tempi del governo coloniale britannico, le donne edo di Benin City 14, abbiano trovato nei nuovi tribunali coloniali, spazi di azione pubblica dove rivendicare il proprio diritto all’autodeterminazione. Potere politico inteso quindi come espressione del sé in uno spazio pubblico e come azione tesa a conquistare il diritto all’autodeterminazione. Anche se il loro ruolo è agito a livello individuale in qualità di testimoni, querelanti o imputate, l’effetto cumulativo delle loro azioni ha inciso sulla possibilità di scegliere personalmente il proprio marito ed ha inoltre migliorato le aspettative di qualità di vita per individui che nella società precoloniale erano considerati poco più che schiavi. La prospettiva adottata da Kaplan è interessante in quanto, come vedremo, rovescia lo sguardo sugli effetti del colonialismo, che caratterizza gran parte degli studi di genere in Africa occidentale. Benin City è la capitale dell’attuale stato di edo nella Nigeria centro-occidentale. Gli edo appartengono al gruppo linguistico edoid all’interno della famiglia kwa. Si hanno fonti certe riguardo alla loro presenza nel territorio dell'ex regno del Benin a partire dalla fine del XV secolo, ma ipotesi non ancora dimostrate ritengono che i loro primi insediamenti possano risalire all’XI secolo (Connah’s, 1975). Il sistema di discendenza patrilineare non comportava la trasmissione ereditaria di titoli, ad eccezione che per la famiglia reale. Per ciascuno dei 35 egbee (termine che è riferito sia al gruppo di discendenza più ampio che al segmento di lignaggio cui si appartiene) sono previsti dei taboo alimentari e dei saluti specifici per il mattino. 14 Benin City è una città della Nigeria, capitale dello stato di Edo che fu accorpato al protettorato inglese della Nigeria Del Sud nel 1897. Il regno di Edo conosciuto anche come regno del Benin conobbe vicende alterne. Al momento dell’arrivo dei primi esploratori portoghesi, all’inizio del XV secolo, il regno era all’apice della sua espansione ed esercitava la sua autorità a vari livelli sui popoli confinanti tra cui gli igbo occidentali e gli yoruba del Nord-est. Nel 1963 il territorio fu separato dalla Nigeria e assunse il nome di Midwest che divenne poi Bendel nel 1976 per essere infine diviso nel 1991 in regno del Benin, e stato di Edo della repubblica Federale della Nigeria. 43 L’organizzazione sociale è basata prevalentemente sulle classi d’età. Raggiunta la pubertà i ragazzi vengono iniziati al grado Iroghae e svolgono operazioni di pulizia e manutenzione del villaggio. Gli uomini intorno ai 25-30 anni entrano a far parte degli ighele ed eseguono quanto ordinato loro dagli edion (anziani); costoro costituiscono il consiglio giudiziario del villaggio e sono sotto la guida dell’odionwere, un anziano titolato. Al vertice dell’organizzazione politica c’era l’oba (re) che, oltre ad essere il teorico proprietario di tutte le terre, aveva l’ultima parola sulle questioni amministrative, religiose, commerciali, e giudiziarie. Sua madre, l’iyoba, deteneva un titolo in una delle società di palazzo ed aveva la sua propria corte vicino a Benin City. La burocrazia era composta da tre tipologie di capi: i sette uzama , i capi di palazzo, e i capi villaggio. Costoro costituivano il Consiglio di Stato, che aveva un ruolo importante nella creazione delle leggi, nella regolazione del ciclo rituale, nell’aumentare le tasse e nelle questioni militari. I titoli erano concessi dall’oba in persona, che non poteva revocarli se non in caso di provato tradimento. Il regno era suddiviso in unità territoriali localizzate che erano tenute a versare tributi ai capi locali che fungevano da intermediari tra questi e l’oba. Un altro importante compito dei titolati era quello di raccogliere informazioni e prove durante una controversia portata all’attenzione dell’oba che era anche l’amministratore della giustizia. Chiunque poteva ricorrere al consiglio del re di Benin City, ma generalmente la tendenza era quella di ricomporre le controversie a livello familiare o locale. Il principio generale del sistema giudiziario prevedeva che ogni capo di lignaggio, villaggio o città fosse giudice nelle controversie sorte nella propria giurisdizione. Per i casi più gravi quali accuse di stregoneria, questioni relative all’eredità o sospetto tradimento, si ricorreva al consiglio del re a Benin City. La riforma amministrativa operata dagli inglesi portò alla creazione di un sistema bipartito tra corte suprema, basata sul diritto britannico, e i native council che agivano sulla base del diritto tradizionale. Il Benin native council, istituito nel 1908, venne in seguito chiamato native court e poi ancora rinominato customary court (Kaplan, 1997). Durante i primi anni di attività il native council era presieduto da un commissario di 44 distretto inglese che assieme al vicepresidente obaseki 15 e ad altri cinque capi, ascoltava e giudicava i casi. La presenza inglese nei tribunali nativi aveva teso a mitigare le punizioni perpetrate nei confronti delle donne portate a giudizio e si era spesso schierata dalla loro parte per la questioni che riguardano la richiesta di divorzio. Questa situazione non durò a lungo, infatti nel 1914 un tentativo di riforma operata da Sir Frederik Lugard rimosse gli amministratori coloniali dalla presidenza dei concili locali riducendo la loro influenza nei casi portati all’attenzione della corte nativa. La costituzione del 1947 istituì un sistema giudiziario dotato di una corte suprema, una corte d’appello e un’alta corte a livello federale. Lo stato di edo ha oggi la sua alta corte che coesiste con la corte d’appello tradizionale. Lo studio di Kaplan è basato sul confronto di due serie di casi portati all’attenzione di corti native coloniali nel periodo che va dal 1912 al 1916 e in quello che abbraccia gli anni 1959-1965. Per entrambe le serie, la fonte di riferimento principale è costituta dagli Archivi del Benin Traditional Council (BTCA). Kaplan ha preso visione inoltre di fonti d’archivio riguardanti i casi registrati nel 1908 e quelli registrati nel periodo 1909-1911, ma data l’incompletezza dei dati, non si è avvalsa di queste ultime fonti a livello statistico. Durante il primo lasso di tempo, ad andare in giudizio come querelanti erano soprattutto gli uomini, che denunciavano la fuga delle proprie mogli e ne reclamavano il ritorno. Presso gli edo, come in altre società africane, il matrimonio non è una semplice unione tra due individui, ma un patto che lega due famiglie. I relativi dell’uomo, maschi e femmine, si rivolgevano alla sua sposa nei termini di “nostra moglie” e anche alla morte di questo era difficile per lei potersi allontanare dalla nuova famiglia cui apparteneva. L’importanza del matrimonio per un uomo e per la sua famiglia è legato anche qui alla capacità riproduttiva della donna e al bisogno di perpetuare il nome del lignaggio, oltre che alla risorsa che costituisce in sé in quanto forza-lavoro. Il patto matrimoniale veniva stipulato tra le due famiglie fin dalla primissima infanzia 15 Quando nel 1987 il regno del Benin fu annesso al protettorato della Nigeria del sud l’allora oba Ovonrawen fu esiliato e la carica temporaneamente sospesa. Gli inglesi affidarono l’amministrazione locale ad alcuni capi da loro nominati a comando dei quali posero obaseki. Alla morte dell'oba esiliato, gli inglesi tronizzarono suo figlio, oba Eweka II (1914). Ne risultarono considerevoli tensioni che il nuovo oba tentò di appianare conferendo a obaseki il titolo di iyase (comandante dei capi villaggio) e dandogli in moglie una delle sue figlie. 45 della bambina e, a volte, prima ancora che questa venisse al mondo. Non c’era nessuna possibilità di scegliere il proprio compagno di vita e una volta maritate erano obbligate a restare con lui. Il processo acquisizione di una moglie era lungo. Si incominciava con una serie di regali e servizi prestati alla famiglia della ragazza. Dopo che il prezzo della sposa era stato pagato, la ragazza avrebbe dovuto essere consegnata all’uomo appena entrata in età riproduttiva, ma per varie ragioni poteva capitare che i tempi si allungassero. Tra i servizi richiesti al promesso sposo dalla famiglia della ragazza c’era a volte il saldo di debiti contratti da quest’ultima. Poteva capitare quindi che una bambina fosse promessa a due uomini differenti per trarre vantaggi economici dalla tradizionale consuetudine del prezzo della sposa. Poteva anche darsi di famiglie che tendevano a consegnare la loro figlia con gran ritardo rispetto alla raggiunta età puberale affinché l’uomo continuasse a prestare mano d’opera gratuita. Nei primi anni di attività della corte si hanno varie testimonianze di simili situazioni. Una volta che il prezzo era stato pagato, la ragazza apparteneva alla famiglia del futuro sposo che poteva disporne a proprio piacimento, maltrattarla, picchiarla e anche abbandonarla impunemente. In caso di vedovanza senza prole la donna poteva essere ereditata dal primogenito del defunto. In caso di impotenza si ricorreva spesso a un tacito accordo che consentiva alla donna di avere figli da un altro uomo, ma la questione era in genere trattata con gran discrezione. Da una buona moglie ci si aspettava (e ci si aspetta) che sia sottomessa al marito, di carattere docile e non lamentoso. Una volta abbandonata la famiglia essa avrebbe potuto farvi ritorno solo raramente e con il consenso del marito poiché questo spostamento avrebbe potuto costituire l’occasione per fuggire. In linea di massima il lignaggio di origine non accoglieva di buongrado eventuali lamentele da parte della figlia, sia perché una separazione avrebbe comportato la restituzione di quanto ricevuto in pagamento, sia per il disonore che ne sarebbe inevitabilmente seguito. Rompere il patto matrimoniale era considerato un atto riprovevole e vergognoso che sarebbe stato di onta per tutta la famiglia. Un’altra forma di maltrattamento era costituita da un'eccessiva applicazione degli iwu, 46 marchi tribali incisi sul corpo di uomini e donne. La pratica fu resa illegale da oba Azenuka II nel 1940 (Kaplan, 1997), ma ancora oggi quello del maltrattamento fisico delle mogli è un problema diffuso. Mogli turbolente e figlie intrattabili potevano anche essere inviate presso l’harem dell’oba dove sarebbero state rieducate attraverso il duro lavoro e punizioni fisiche. Per quanto riguarda le mogli reali, le iloy, costoro dovevano essere di buon esempio e ci si aspettava quindi che il loro comportamento fosse ancora più docile e remissivo. L’oba può scegliere le proprie future spose a ogni livello sociale, anche tra gli strati più umili. Generalmente la prima moglie o la sua favorita sarà colei che partorirà l’erede al trono e verrà titolata come iyoba. Molte delle mogli dell’oba sono frutto della sua libera scelta, ma alcune tra loro gli sono state assegnate in dono: o a titolo di pagamento di un debito, o nella speranza di ricavare da ciò dei benefici o per punire una moglie che aveva fatto adirare il marito. In qualche caso si ha che la rinunzia a una figlia faccia seguito a un voto espresso alla sua nascita o alla speranza di una vita migliore per essa. Una volta entrate a far parte dell’harem, la loro diventava una vita di confino e nessuno, ad esclusione di eventuali relative al loro seguito in qualità di servitrici, poteva entrare in quello spazio separato. Se la condizione di mogli reali poteva offrire una possibilità di innalzamento sociale attraverso il conseguimento del titolo di iyoba, per tutte le altre la condizione generale non era di molto superiore a quella delle donne comuni, in quanto costrette a vivere in isolamento e senza la possibilità di vedere la propria madre se non in rare occasioni. Oltre al titolo riservato alla madre del futuro oba ne esistevano altri che erano simili a quelli riservati ai capi16, ma le loro funzioni erano segrete e venivano esercitate all’interno del palazzo dell’harem, in privato piuttosto che in spazi pubblici come era per gli uomini (Kaplan, 1993). Una iloy fuggiasca non poteva ricevere cerimonie funebri pubbliche e chiunque avesse tentato di aiutarla sarebbe stato considerato un nemico dell’oba, gettando grave disonore sulla propria famiglia. I dati raccolti da Kaplan mostrano come al momento dell’istituzione dei primi tribunali coloniali, la fuga delle mogli fosse già una pratica diffusa da tempo e che, soprattutto 16 Tanto per citarne alcuni ricordiamo quello di Eghaevbho nbre corrispondente alla carica maschile di capo villaggio, e quello di Eghaevbho nbgbe, ossia capo di palazzo. 47 nei primi anni di dominazione coloniale, subì una rapida impennata. Non c’è traccia presso gli edo di gruppi di solidarietà come quelli che abbiamo visto tra gli igbo, né di classi d’età al femminile che potessero dare sostegno e mostrarsi amichevoli nei confronti dei propri membri. In caso di maltrattamento, l’unica alternativa al rassegnarsi era scappare. Da quanto si evince dalle testimonianze raccolte durante le cause che coinvolgevano le donne, violenza e abbandono a danno di queste ultime era la regola anziché l’eccezione. Gran parte dei casi che coinvolgevano le donne, nel primo periodo preso in considerazione da Kaplan (1912-1916), faceva riferimento proprio al preteso ritorno delle mogli in fuga (63% dei casi). A esercitare il diritto di proprietà sulle mogli non erano solo i mariti, ma anche i loro parenti che reclamavano il possesso della donna, fuggita dopo il decesso del consorte. Questi casi andavano spesso ad inglobare parte di quelli per adulterio. Difficilmente il querelante ricorreva in giudizio per ottenere il risarcimento della dote e regolarizzare la separazione; sia perché lo status di un uomo era misurato in base al numero di mogli e figli che esso possedeva, sia perché non erano previste sanzioni per un uomo che abbandonava la propria donna. Gli inglesi sovrapposero il significato del prezzo della sposa, a quello occidentale di dote e stabilirono un prezzo unico, da versarsi in moneta. In caso di risarcimento di casi precedenti l’immissione della nuova norma, il dovuto veniva calcolato anche in base ai servizi resi alla famiglia della consorte (Kaplan, 1997). C’è una duplice accettazione in questa norma. Da un lato gli uomini edo che intravedono la possibilità di acquisire una sposa in modo più rapido; dall’altro i funzionari inglesi, che incorporarono nella loro idea di dote anche i regali e i lavori offerti alla famiglia della futura consorte. Affinché una separazione fosse legittima occorre che tale dote sia risarcita e in molti casi il rifiuto, da parte della famiglia dell’uomo, di accettare tale rimborso, era oggetto di controversia. Durante i primissimi anni di attività del benin native council, il ruolo dei funzionari interni 48 come presidenti era teso a favorire le donne che erano evase da una situazione di violenza e maltrattamento continue, ma la situazione cambiò dopo la riforma del 1914. I dati analizzati da Kaplan (Kaplan, 1997) mostrano come nel totale dei casi dei due periodi presi in considerazione, la percentuale di concessione di divorzi si aggirava intorno al 50%. Le accuse mosse dagli anziani e dagli esponenti della chiesa anglicana, secondo i quali l’attività coloniale aveva favorito il decadimento della moralità a causa della facile concessione di divorzi, non trovano riscontro in queste percentuali. Se è vero che il fenomeno delle mogli in fuga subì una rapida impennata con l’istituzione di questi nuovi strumenti giudiziari, è anche vero che gli stessi uomini seppero trarre vantaggio dal nuovo stato di cose. Nel periodo compreso tra il 1912 e il 1916, i querelanti erano soprattutto uomini che citavano in giudizio altri uomini in quanto il loro diritto alla proprietà era stato leso. Molti casi riguardavano fughe avvenute anche dieci o dodici anni prima e che avevano dato seguito alla nascita di figli tra la donna e il nuovo compagno. L’amministrazione inglese dovette pertanto porre un limite temporale di tre anni trascorsi tra la fuga e il ricorso in giudizio, ma la regola fu quasi sempre disattesa. La nuova fisionomia del prezzo della sposa e del risarcimento monetario inoltre rendevano più immediata e semplice l’acquisizione di nuove spose come si evince dal fatto che, tra il 1959 e il 1965, la percentuale dei casi in cui si richiedeva il ritorno della moglie scende al 10%. Gran parte dei casi riportati da Kaplan fanno riferimento a donne evase dal compound del marito, che si sono unite ad altri uomini e con loro hanno intrattenuto relazioni stabili, generando prole, ma si dava anche il caso di mogli che tentavano di raggiungere stati confinanti alla ricerca di migliori condizioni di vita senza necessariamente legarsi ad altri compagni. Questa cosa era spiegata dagli uomini come una frivolezza femminile che le spingeva a cercare stili di vita mondani in città vicine. Igbafe (Igbafe, 1979) riporta di come gli abitanti dell’area Ishan si fossero rivolti al commissario delegato in visita affinché si stabilissero delle sanzioni per gli autisti che aiutavano le donne a raggiungere Lagos e altre aree limitrofe. 49 Il favore accordato alle donne nel riconoscimento della separazione riguarda in realtà solo i primissimi anni di attività dei tribunali coloniali. Nel 1920 uno scandalo coinvolse Obaseki e altri capi che facevano parte delle corti native. Le accuse loro rivolte si basavano sul fatto che spesso le donne alle quali era stato concesso il divorzio entravano a far parte temporaneamente o in via definitiva nei loro harem (Kaplan, 1997). Le accuse di abusi di potere assieme alla riforma del 1914 che aveva escluso i commissari britannici dalla presidenza delle corti native aveva reso più improbabile l’acquisizione di libertà da parte delle mogli in fuga. Nonostante ciò l’imput iniziale era stato dato e la possibilità di migliorare le proprie condizioni, intravista all’inizio del secolo, continuava a dare coraggio e spinta alle consorti maltrattate. I loro tentativi di fuga ripetuti, nonostante le ordinanze della corte, sono segno di una loro presa di coscienza più forte e di una grande volontà di autodeterminazione a dispetto delle tradizioni che le volevano come proprietà privata, dei padri prima e dei mariti poi. A questo proposito un altro dei dati forniti da Kaplan merita di essere commentato. Tra il 1912 e il 1916 solo il 13% dei casi che riguardavano le donne, le vedeva come querelanti, il restante 87% era composto dalla controparte maschile. Ben diversa appare la situazione tra il 1959 e il 1965, quando la percentuale femminile di querelanti sale al 35%. Questi dati ci dicono che le aspettative delle donne nei confronti di una migliore qualità di vita erano aumentate. Si tratta principalmente di donne che reclamano il divorzio perché maltrattate o perché il disinteresse del primo marito nei confronti dei loro figli , ne aveva causato il decesso. Il 17,20 % dei casi è rapprsentato da mogli abbandonate dai loro mariti che reclamavano un aiuto economico per il mantenimento dei propri figli, nonostante questo genere di richiesta gettasse il disonore sulla donna e sulla sua famiglia. Questo è un importante segnale di emancipazione, soprattutto considerando il fatto che, nei casi precedentemente esaminati, non si facaveva minimamente cenno a questo tipo di richieste. L’introduzione del prezzo unico da versarsi in moneta e il conseguente risarcimento monetario in caso di separazione ha trovato una rapida accettazione tra gli uomini edo, 50 come dimostra lo scarto percentuale delle richieste di ritorno della moglie nei due lassi di tempo presi in considerazione da Kaplan (63,3% tra il 1912 e il 1915; 10 % tra il 1959 e il 1965). Durante la prima fase oggetto della contesa erano le donne mentre nella seconda si punta più sul risarcimento monetario, che avrebbe agevolato l’acquisto di nuove mogli. Sull’aumentata fiducia delle donne nei confronti della possibilità di scegliere il proprio destino ha pesato anche il diffondersi, verso la metà del XX secolo, della famiglia come unità monogama e il conseguente venir meno del controllo coercitivo esercitato da parte degli anziani. Non si ha infatti più traccia di richieste da parte di madri o altri parenti del marito affinché dopo il decesso di questo la vedova restasse presso di loro. Per una serie di mutate condizioni era diventato più probabile che la donna andasse a vivere presso i propri figli in una sua casa qualora ne avesse avuto i mezzi. Fin dal 1863 il governo inglese aveva tentato di arginare il fenomeno della poligamia attraverso una serie di ordinanze che non ebbero però alcun effetto nell’immediato. La prima ordinanza di monogamia in questo senso risale al 1863. Ne fece seguito una seconda nel 1884 cui seguì la validazione nel 1914. Nessuna di queste imposizioni ebbe però effetto e le norme furono costantemente disattese(Kaplan, 1997). La tendenza verso questa nuova forma di unione fu piuttosto determinata da ragioni di ordine economico e dalle mutate credenze religiose anche se ancora oggi esistono forme di unione non ufficialmente riconosciute che continuano comunque ad avere luogo in una forma di poligamia reinventata. Si ha infatti che, prima o dopo il matrimonio considerato legittimo, un uomo possa avere una o più amanti, amiche, giovani mogli alle quali si unirà attraverso il solo rito tradizionale. I figli nati da queste unioni ricevono sostentamento a seconda delle possibilità dell’uomo, ma non sono considerati legittimi come legittime non sono le unioni. Attualmente il matrimonio è visto principalmente come una scelta dettata da un sentimento reciproco che unisce due individui, ma si tratta di un’affermazione applicabile perlopiù a esponenti di una classe medio-agiata, istruita anche all’estero e 51 con più opportunità di mobilità. Ancora si ha il caso di mogli inviate a giovani che stanno completando la loro formazione lontano dal villaggio di provenienza. I due potrebbero incontrarsi anche solo un paio di volte prima che la donna raggiunga il futuro compagno. Pur essendo venuta meno la coercizione da parte dei membri della famiglia dell’uomo sulla sua sposa, il matrimonio resta un affare di famiglia. Attualmente un matrimonio legittimo ,oltre l’approvazione delle due famiglie, prevede sia il rituale tradizionale che quello civile o ecclesiastico. Inoltre il pagamento della dote (e la sua restituzione in caso di separazione ), resta imprescindibile. Tale restituzione deve avvenire anche in caso di vedovanza senza prole. Solo a risarcimento avvenuto, la donna potrà legittimamente unirsi a un nuovo compagno e avere dei figli da quest’ultimo. Nelle aree urbane si tende oggi a dare lo stesso tipo di educazione ai propri figli e le donne sono impiegate ad ogni livello, come medici, poliziotte, avvocati etc. Eppure ancora oggi è possibile per un uomo maltrattare la propria moglie in mezzo alla strada senza incorrere nella riprovazione sociale. Per questo motivo le donne dei vicini igbo o yoruba difficilmente accettano di prendere un uomo edo come consorte e donne edo sono generalmente più propense ad unirsi con gli uomini delle sopracitate popolazioni. La mancanza di gruppi di solidarietà dotati di una certa influenza, all’infuori di associazioni di ordini professionali, ha probabilmente un certo peso nel limitare l’azione sopraffattrice dei mariti sulle mogli. Le associazioni riguardano gruppi professionali che condividono interessi e attività comuni, alcune delle quali si legano alle attività del National Council of Women’s Societies, fondato nel 1958 in Nigeria per favorire il rafforzamento della componente femminile della popolazione, come nel caso delle associazioni di commercianti del Bendel. Nel 1987 l’allora First Lady della Nigeria, Maryam Babangida, istituì il Better Life Programme (BLP) rivolto alle donne che vivono nelle aree rurali, al fine di promuovere piani di sviluppo e miglioramento delle tecniche di produzione e vendita dei prodotti alimentari. Il piano si è basato sulla messa in condivisione delle esperienze acquisite, soprattutto per quello che riguardava saperi direttamente connessi alle sfere di attività 52 commerciali, come il saper far di conto. Il sistema di istruzione istituzionale primario è legato a nozioni considerate inutili ai fini delle attività pratiche e quotidiane e questo causava un abbandono precoce del percorso di istruzione. Queste pratiche di insegnamento alternative suscitavano interesse da un lato e dall’altro fornivano gli strumenti per poter svolgere un’attività commerciale che desse risultati soddisfacenti. L’attività di produzione e vendita del cibo nelle aree rurali è stata sempre prerogativa femminile, in questa come in altre aree. Non stupisce quindi che un programma di rafforzamento delle attività delle donne in aree rurali si sia concentrata soprattutto su questo punto. La crescita economica e l’espandersi delle attività dei gruppi di mercato ha portato ad una conseguenza importante nel modo comune di vedere le donne: da proprietà privata del marito e cittadini di seconda classe son passate ad essere viste come indispensabili produttrici di risorse alimentari per l’intera comunità piuttosto che al solo livello familiare. Nel 1991 nasce ad opera di alcune influenti donne del Benin, l’edo State Women Association (ESWA) che durante le prime fasi di attività si era rivolta al supporto del lebbrosario di Abudu. Le donne commercianti si sono rivolte a loro per chiedere aiuto poiché le condizioni in cui si trovavano a lavorare la terra dei mariti e a vendere i loro prodotti erano di scarso livello e senza prospettiva di sviluppo17. Non interessa in questa sede ripercorrere le iniziative che, a vario titolo, hanno favorito lo sviluppo delle attività commerciali delle donne edo. Si vuole piuttosto sottolineare ancora una volta l’impulso autonomo,verso un miglioramento delle proprie condizioni. Così come nei primi anni di attività delle corti coloniali, queste avevano colto l’occasione per vedere legittimati i loro tentativi di conseguire un livello di qualità di vita decente, negli ultimi 30 anni si sono appoggiate ad associazioni con connessioni istituzionali per migliorare la propria esistenza. Se nelle aree urbane l’accesso a livelli più alti di mobilità e istruzione ha portato in molti casi a concrete realizzazioni personali, nelle aree rurali la condizione femminile soffre ancora di un elevato grado di incuria e sottomissione da parte delle famiglie. 17 Per saperne di più sulle attività dell ESWA cfr. http://www.edowomen.org/EdoBrochure.pdf 53 La principale attività economico-riproduttiva delle donne in quelle aree è legata appunto alla coltivazione della terra e alla vendita di beni alimentari ed è quindi naturale che le spinte associative e di mutua collaborazione si siano mosse in quella direzione. Se gran parte delle riflessioni nei confronti delle conseguenze dell’azione del colonialismo sulla condizione di vita delle donne hanno sottolineato il fatto che le amministrazioni coloniali hanno limitato, se non escluso, la sfera di influenza femminile a livello politico e rituale, questo caso dimostra come gli amministratori inglesi si siano mostrati sensibili verso la condizione femminile ed abbiano offerto loro una possibilità di riscatto. Appena le donne hanno intravisto la possibilità di vedere legittimate le loro scelte sono ricorse inizialmente a qualche loro parente maschio prima, individualmente poi, per cambiare la propria condizione. La loro azione è stata una sfida continua all’autorità: sia quella detenuta dagli anziani e dai loro mariti, che quella dei tribunali, cui ignoravano le disposizioni ripetendo costantemente le loro fughe, in caso di insuccesso giudiziario. Anche se non si può certo affermare che la condizione femminile delle donne edo sia oggi prossima all’emancipazione e all’acquisizione di pari diritti con la controparte maschile, qualcosa in quella direzione si è sicuramente mossa e questo è stato frutto dell’effetto cumulativo di azioni individuali che hanno saputo muoversi in un campo tutto sommato favorevole. La spinta nata all’inizio del XX secolo e l’influenza dei fattori economici e religiosi, uniti ad un incremento del livello di istruzione e mobilità delle nuove generazioni e alle attività delle associazioni che agiscono su più fronti nel territorio nigeriano, lascia sperare in un futuro in cui le donne edo siano sempre più padrone del proprio destino e delle proprie scelte, a meno che non giungano politiche governative che muovano in verso opposto ad una tendenza che, iniziata anche prima del colonialismo, trova sempre più spazio di azione e legittimità. 2) Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra Leone I Mende appartengono alla famiglia linguistica niger-kordofonian e sono penetrati nel sud della Sierra Leone attraverso una serie di ondate migratorie dalla regione dell’alta Guinea tra il XII e il XV secolo. 54 Il diritto di proprietà allodiale ha dato luogo a una serie di domini indipendenti tra loro e organizzati sulla base di una struttura gerarchica all’apice della quale stava un capo supremo, discendente del lignaggio, che per primo occupò il territorio interessato. I gruppi residenziali, basati sul principio della virilocalità, sono costituiti da un gruppo di fratelli e dalle loro mogli, retti generalmente dall’uomo più anziano. Spesso accade che, in momenti successivi, un figlio, con le proprie mogli, dia luogo ad un insediamento separato del quale sarà a capo. Un ruolo fondamentale all’interno dell’harem di ogni uomo è svolto dalla sua prima moglie, che ha il compito di organizzare tutto quanto ruota intorno al gruppo poliginico, inclusi i rapporti con eventuali clienti esterni e, in passato, la gestione del lavoro degli schiavi. Il “capo delle mogli” di un lignaggio al potere potrebbe essere chiamata dal marito a succedergli anche se non ha diritti di discendenza sul territorio retto dal lignaggio affine. Società poligamica basata su un sistema di discendenza patrilineare, quella Mende, è organizzata sulla divisione sessuale del lavoro e in base all’appartenenza alle società segrete del Poro per gli uomini e del Sande per le donne. Durante il periodo di iniziazione, uomini e donne vengono preparati al passaggio all’età adulta segnato dall’incorporazione vera e propria nelle società. Per quanto riguarda il Sande, con lo stesso termine ci si riferisce sia all’associazione vera e propria che allo spirito che protegge le donne e le guida durante il corso della loro vita pubertà; ogni suo membro viene istruito in merito al retto comportamento che una donna adulta è tenuta ad osservare sulla base di ideali di armonia, bellezza, amore e giustizia. Il Sande è l’essere unite nella propria femminilità, come sorelle che agiscono e si confrontano liberamente tra loro. E’ l’appartenenza alla Sande che rende maritabile una donna, lo spirito del Sande viene evocato e propiziato attraverso una serie di performances dove le maschere richiamano gli ideali propugnati dalla società ed evocano lo spirito stesso associato all’elemento acquatico. La struttura della società segreta è impostata gerarchicamente e al vertice troviamo la 55 figura della sowie, incarnazione massima dei valori di modestia ed equilibrio cui una donna mende deve aspirare. Ogni sowie detiene il controllo sui saperi segreti indispensabili al conseguimento della felicità individuale e collettiva ed è in contatto con gli spiriti degli antenati e con le forze della natura. Uno dei loro compiti fondamentali consiste inoltre nel proteggere le donne della loro comunità da abusi di ogni genere. I ranghi successivi corrispondono alla Ligba Wa (senior) e alle Ligba Wulo (junior). In ogni gruppo c'è una sola Ligba Wa, che svolge ruoli esecutivi all’interno del Sande, come quello di guida nelle attività artistiche. Il termine nyaha si riferisce ad un’ iniziata ordinaria. Un proverbio Mende riportato sulla brochure di una mostra sulle maschere sowei tenutasi nel 2010 al Bayly Museum of Art, University of Virginia, recita che: Sande nyaha ndopo ii le (una donna sande non è una bambina)”18 ad indicare che l’appartenenza al Sande assicura la trasformazione di una bambina in donna prima e in moglie poi. Le donne hanno esercitato attivamente la loro leadership politica come sowie, capi famiglia, capi delle mogli e come capi villaggio, giungendo ad avere, sotto la legittimazione del governo coloniale inglese, sfere di influenza molto ampie, che sono state oggetto di un dibattito il cui focus riguardava la legittimità, da un punto di vista tradizionale, dei ruoli di “paramount chief” detenuti da governanti femminili tra la fine del XIX e ‘inizio del XX secolo. Poco prima dell’imposizione del governo coloniale, sul finire del XIX secolo, il territorio Mende era caratterizzato da nove stati, cinque dei quali basati su confini territoriali (Shebro, Kpa-Mende, Bumphe, Lugbu e Gallinas); quattro definiti dalla fedeltà dovuta a leader specifici (Makavoray, Nyagua, Mendegla, e Kai Londo). Ognuno di questi stati era retto da un capo supremo cui ci si riferisce, nella letteratura, con il titolo onorifico di sovrano ( Abrham, 1978). Ciascuno di questi stati era suddiviso a sua volta in una serie di territori governati da figure chiamate ndͻ-maheisia (capi della terra, Sing, ndͻ mahei) ciascuno dei quali deriva il proprio potere su basi di discendenza o di rappresentanza di discendenti degli antenati fondatori del lignaggio che detiene il controllo su quel territorio e che è responsabile nei confronti della popolazione che vi risiede. 18 http://webcache.googleusercontent.com/searchq=cache:f5CaYl2tq4IJ:cti.itc.virginia.edu/~bcr/studentwork/milner/Writing s/handout.txt 56 A. M. S. Lavelie riporta l’emergere di un altro tipo di figura nelle turbolente vicissitudini che caratterizzarono il XIX secolo, ovvero i kͻ mahei (capi della guerra). La loro influenza poteva essere molto forte e giungere alla creazione di proto-stati o aree di influenza con i quali ogni ndͻ mahei era tenuto a fare i conti attraverso una serie di alleanze. Pur dovendo fedeltà ad uno dei nove re, ogni capo territoriale vedeva internamente legittimato il proprio potere, che non era mai imposto semplicemente attraverso l’uso della forza militare (A. M. S. Lavelie, 1976). Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) riporta dell’unico caso in cui a governare uno dei nove stati di cui sopra fu una donna, madame Yoko che, ereditata dal marito la reggenza sull’alto Bumpe, estese il proprio potere sull’intero stato dello Kpa Mende, con il riconoscimento, nel 1884, del governo coloniale. I resoconti locali e inglesi del periodo ce la descrivono come una donna dotata di una straordinaria grazia e modestia nei modi, ma allo stesso tempo ferma e coraggiosa. La madre di Yoko apparteneva al lignaggio a capo del Gorama, l’area dalla quale si diffuse l’espansione degli kpa mende, costola del più ampio gruppo mende mentre suo padre aveva partecipato come guerriero a quel movimento migratorio (P. Hoffer ,1977). Come tutte le sue coetanee, fu iniziata alla società Sande raggiunta la pubertà e si distinse particolarmente tra le sue compagne in special modo per quanto riguardava la grazia nella danza. Raggiunto lo status di donna maritabile, sposò il figlio della sorella di suo padre,19 ma si separò da questo in quanto particolarmente geloso e sospettoso. Strinse un secondo matrimonio con Gbenje, figlio di uno dei guerrieri che avevano portato avanti l’espansione Kpa- Mende verso Ovest. Pur non essendo la prima moglie, essa si distinse in modo particolare mostrando le sue capacità organizzative e il suo profondo senso di responsabilità, guadagnandosi il titolo di capo delle mogli. Tra i Mende una donna sposata non perde l’appartenenza al proprio lignaggio d’origine; Yoko seppe mantenere rapporti molto stretti con i propri consanguinei ricevendo spesso regali da questi; il più significativo le fu dato da uno dei suoi fratelli che, fatta benedire una lingua di leone da un anziano musulmano, la consegnò alla 19 Nella società patrilineare Mende la forma di scambio matrimoniale preferenziale, da un punto di vista di ego maschile, è quella con la cugina incrociata matrilaterale. 57 sorella affinché la sua grazia ed intelligenza potessero essere incrementate attraverso un legame con il potere cosmico racchiuso nel talismano. Alla morte del suo secondo marito, in accordo con le forme di levirato, scelse e fu scelta da Gbanya, nipote del defunto, per il suo terzo ed ultimo matrimonio. Tra il 1860 e il 1870, Gbanya si era distinto come guerriero valoroso nell’area superiore del fiume Bumpe fino ad essere considerato capo di quella zona, ottenendo anche il riconoscimento degli ufficiali coloniali di Freetown 20 che si avvalsero spesso dei servizi delle sue truppe. Nel 1861 in seguito a un incidente diplomatico Gbanya fu fatto prigioniero dal governatore Rowie e portato nella città di Taimawaro. Madame Yoko intervenne personalmente facendo appello al governatore per il rilascio del marito implorandone l’innocenza e assumendosi la responsabilità di organizzare la cattura del vero colpevole. In seguito a questa dimostrazione delle sue abilità diplomatiche, Yoko fu incoraggiata dal marito ad esercitare e valorizzare le proprie capacità politiche. Poco prima della propria morte (1878), Gbanya stabilì che Yoko gli sarebbe succeduta nella sua carica e si preoccupò che lo stesso governatore Rowe fosse informato della decisione presa. Nel 1884 Madame Yoko fu riconosciuta dagli inglesi come regina di Sennehoo. Come regina, avendo intuito l’entità politica dei cambiamenti che sarebbero sopraggiunti di li a pochi anni, intrattenne rapporti diplomatici costanti con il governo di Freetown, rinunciando alle prassi migratorie che avevano caratterizzato le attività dei primi capi mende. Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) descrive le strategie di alleanza da lei seguite sia nei confronti della sua popolazione che nei confronti degli inglesi. Grazie al suo carisma e alla sua femminilità costruì reti di relazioni importanti, ad esempio intessendo amicizie durature con gli interpreti nativi del Governatore Rowe o prestando le sue truppe nel momento in cui gli inglesi ne manifestavano il bisogno. Quando nel 1892 furono stanziate truppe di frontiera al di là dei confini della colonia, si preoccupò di assicurare alle truppe di stanza a Senehun ogni confort necessario a 20 La prima compagnia di commercio inglese in Sierra Leone risale al 1663; nel 1787 vennero fondati i primi insediamenti di Freetown, destinati ad accogliere gli schiavi liberati dai Britannici in seguito ad un trattato tra questi e i capi locali. Durante la seconda metà del XIX secolo i commerci inglesi subirono gravi perdite a causa di una serie di scontri locali, si giunse quindi, nel 1896, all’imposizione della Pax britannica e all’istituzione del protettorato della Sierra Leone. 58 soddisfare i loro bisogni quotidiani, ma le truppe erano perlopiù composte da ex-schiavi o da giovani che non nutrivano alcun rispetto nei confronti dei capi tradizionali. Episodi molto frequenti di saccheggio delle città scatenarono il malcontento di molti che ritenevano che la responsabilità principale era da attribuire a Yoko e che lei stessa stava depredando Senehun. Il malcontento si estese nel 1896, con l’imposizione del protettorato e la conseguente tassa di 5 scellini per nucleo residenziale che ogni capo avrebbe dovuto versare all’amministrazione inglese. Madam Yoko accettò il pesante carico e dispose che i sottocapi avrebbero dovuto raccogliere tali tasse. In molti sostennero che pagare per qualcosa che si possiede di diritto equivale a essere prossimi alla sua perdita e che il tradizionale rispetto dovuto loro era ormai riservato alle truppe. La situazione si aggravò ulteriormente con la requisizione da parte inglese di forza lavoro locale che fu impiegata nella costruzione dei nuovi centri amministrativi; le accuse si facevano sempre più pesanti, si parlava di Yoko come di una bambina irresponsabile che né la sua famiglia nè la Sande avevano educato correttamente. Nel frattempo la società Poro stava preparando la violenta rivolta delle tasse che esplose nel 1898 e durante la quale madame Yoko rimase leale ai suoi alleati britannici, cosa che le consentì di resistere ad attacchi rivolti anche contro di lei. Molti ragazzi e ragazze catturati come prigionieri le furono affidati e, sedata la rivolta, ricevette una medaglia d’argento come riconoscimento per la fedeltà dimostrata alla regina Vittoria. In questa occasione fu nominata, davanti ad altri capi, sovrana suprema dello Kpa Mende. La vendetta dei guerrieri Mende non tardò ad arrivare e Senehm venne distrutta. Il centro amministrativo fu trasferito a Moyaba, dove Yoko portò con sè circa 250 persone e dove insediò un ramo della Sande. Proclamò che ogni suo sottocapo avrebbe dovuto avere una residenza all’interno del suo compound, dove si sarebbe dovuto temporaneamente trasferire qualora lei li avesse chiamati a raccolta e stabilì che l’iniziazione delle ragazze ai Sande di tutta l’area sarebbe stata sua prerogativa. Questa strategia le consentì di stipulare numerose alleanze in quanto le famiglie delle ragazze iniziate consideravano le loro 59 figlie come proprietà di Madame Yoko, intravedendo la possibilità che queste avrebbero potuto essere scelte come spose di uomini importanti. Mentre un capo di sesso maschile stipula alleanze contraendo più matrimoni, che sono comunque limitati al numero di mogli che può permettersi di mantenere, il sistema di alleanze matrimoniali stretto attraverso la Sande consente una quantità di legami più ampi che muovono in una doppia direzione: da un lato la famiglia delle ragazze concesse in moglie, dall’altro personaggi influenti che le ricevono. Yoko non corrispondeva alcun prezzo della sposa alle famiglie delle ragazze, i loro figli quindi non le appartenevano. Pur intrattenendo altre relazioni, ed evitando di sposarsi nuovamente, probabilmente con il proposito di poter rendere un eventuale figlio suo erede, essa non ebbe mai figli. Alla sua morte, avvenuta nel 1906 di sua mano 21, la sua carica fu ereditata dal fratello minore, il quale però si ammalò gravemente e morì nel 1917 senza aver avuto la forza di esercitare un governo forte e stabile. Una serie di disgrazie aveva colpito i fratelli di Yoko e non era rimasto più nessuno per assumere la sua carica. Nel 1919 lo kpa-mende fu frammentato quindi in 14 unità autonome e non ci fu più nessuno che potesse onorare la memoria della regina. Carol P. Hoffer (Hoffer,1977)conclude affermando che le donne mende non erano semplici strumenti passivi in una società patriarcale, avevano esercitato forme di potere ad alti livelli e, nel 1914, il 15% dei domini erano governati da capi femminili. Contesta quindi gli approcci di coloro i quali sostenevano che solo con l’intervento coloniale le donne avevano potuto accedere a tali cariche in quanto appoggiate perché ritenute più manipolabili. La sua affermazione è diretta ad Abraham, l’autore di “Mende Government and Politics Under Colonial Rule” (1978), nel quale affermava che la chieftaincy femminile era stata un prodotto del colonialismo, sostenendo che prima di allora nessuna donna aveva detenuto alte cariche di potere in quanto tradizionalmente questo era stato acquisito attraverso la pratica della guerra, dominio del mondo maschile. Egli definisce Madame Yoko come una marionetta del governo inglese e afferma che non avesse goduto della 21 Madame Yoko era in conflitto con il capo del regno di Kakua per questioni territoriali. Si trattava di stabilire a quale dei due territori dovesse appartenere la città natale della regina. Il giorno della disputa il suo delegato si presentò in ritardo davanti alla commissione di distretto e madame Yoko perse lacausa. Pare che la vergogna per questa sconfitta abbia fiaccato definitivamente la volontà della regina che, in un gesto di estrema risoluzione, si tolse la vita 60 legittimità popolare. Laddove P. Hoffer sostiene che ben prima del governo coloniale le donne Mende abbiano legittimamente esercitato il potere in qualità di Capi delle mogli, capi-lignaggio, capi delle società segrete e sovrane di territori più o meno estesi, Abraham ribatte che il ruolo di Paramount chief era stato prerogativa degli uomini e che solo nel caso di Madame Yoko, un prodotto delle politiche del governatore Rowe, si era avuto che una donna avesse detenuto la carica su uno dei nove stati cui si è accennato sopra. I punti chiave del dibattito, come fa notare Lynda R. Day (R. Day, 2007), ruotavano attorno al ruolo di paramount chief, definizione di origine occidentale e coloniale, e nei riguardi di una prospettiva di genere sull’esercizio del potere tradizionale. Nel tentativo di mediare tra le due posizioni, Day riporta le vicende di Nyarroh un'altra figura femminile che aveva saputo stringere le alleanze più adeguate per mantenere la propria sfera di influenza nel distretto del Barrie, regno del Gallinas, all’apice del colonialismo. Le sue fonti, come gran parte di quelle di Hoffer, derivano da resoconti di amministratori inglesi; perlopiù si tratta di carteggi di corrispondenza e indicano che essa era già al potere nel momento in cui gli inglesi giunsero nella sua area. Tra le fonti di Day ci sono anche alcune interviste condotte da Abrahm che esprime nei suoi confronti le stesse riserve mostrate nei confronti di Madame Yoko, considerandola debole e manipolabile. Nyarroh era ndͻ Mahei del Barrie district al momento dell’arrivo degli inglesi nella zona. Essa aveva ereditato la carica di capo di Bandasuma dal proprio marito e aveva ricevuto l’incarico di reggere la città di Tunkia dal suo alleato e amante Boakie Gomna, una figura di rilievo nell’alleanza del Gallinas superiore. Entrambi dovevano fedeltà a Mendegala il re dell’omonimo territorio sotto la cui influenza ricadeva Tunkia. Il Barrie district era il risultato dell’unione di Tunkia e Bandasuma avvenuta all’incirca nel 1885 (R. Day, 2007). Gli interessi commerciali britannici portarono gli amministratori inglesi di Freetown a impegnarsi in una serie di sforzi diplomatici per sedare i conflitti che imperversavano nell’area. Al centro di queste attività diplomatiche si collocano le attività di Nyarroh, che agì in qualità di mediatrice tra le autorità inglesi e gli altri capi. 61 Il suo ruolo tuttavia non era limitato a questo e i resoconti studiati da Day mostrano come essa sia stata una ndͻ-mahei a tutti gli effetti. Sia il suo comportamento che la legittimità della sua carica, la collocano al pari degli altri capi ed il suo ruolo nell’alleanza si è dimostrato essere centrale. Essa inoltre, seppur legata a Boakie Gnomna, ha mantenuto autonomia decisionale in più di un caso ad esempio stipulando una pace separata con uno dei nemici del suo amante. La sua azione risulta essere tutt’altro che marginale, infatti il suo nome compare in ogni iniziativa presa da Gomna e da altri capi suoi sostenitori nei confronti dei suoi rivali 22, sia che si trattasse di negoziati sia in caso di rappresaglie. Nel 1885, un gruppo di guerrieri comandati da Kobah compì una serie di razzie a scapito di insediamenti costieri sotto la tutela inglese. Quando nel 1885 un inviato del governatore Rowe gli chiese un incontro, questi riferì di agire al soldo di sette capi, tra cui Nyarroh di Bandasuma, e che sarebbe stato opportuno rivolgersi a lei se era intenzione inglese quella di trovare una mediazione tra i capi del Gallinas superiore e quelli del basso fiume. Una visita a Bandasuma di un diplomatico civile, Edmund Peel, nel 1889, pose le basi per un rapporto che poteva sperarsi amichevole. Stando ai resoconti, Nyarroh mostrò di condividere l’intenzione di porre fine alle guerre che continuavano a imperversare nell’area, dichiarando che avrebbe riposto fiducia in loro anche se il parere di Gomna e dello stesso Mendegala si fossero rivelati contrari. Fu organizzato, di lì a poco e sotto iniziativa della donna, un incontro tra Rowe e i capi promotori della guerra in atto, oltre che con i comandanti dei soldati impegnati nelle operazioni belliche. L’organizzazione dell’incontro fu condotta in modo esemplare e l’accoglienza riservata al governatore fu degna di qualsiasi capo mende. L’incontro si protrasse per due settimane durante le quali Nyarroh mantenne costantemente informati i suoi sottocapi, Gomna e Mendegala, intorno a quanto stava avvenendo. L’esito risultò positivo agli occhi degli inglesi e lo stesso Gomna accettò di 22 Nel 1885 nell’ alto Gallinas, c’erano due importanti fazioni in lotta per il controllo del Massaquoi: una sosteneva Momo Kaikai, l’altra, cui apparteneva anche Boakie Gomna, parteggiava per Jabati. Gomna, che era visto come il naturale successore di Jabati in caso di una sua vittoria, fu accusato di aver complottato per l’ assassinio del principe Jaiah. Uno dei suoi nemici più accaniti era Fawundu, legato a Momo Kaik 62 accompagnare il governatore sulla costa per sigillare la pace; fu firmato un trattato noto come accordo di Lavannah dove, tra le altre cose, si stabilì che Bandasuma era e sarebbe rimasta un'area neutrale ed estranea ad ogni intervento armato, cosa che rese il ruolo di Nyarroh nell’alleanza qualcosa di assolutamente unico Ci furono altri incontri importanti nel 1886 quando Peel incontrò Mendegala; nel 1889 con l’incontro tra Mendegale e un commissario di Rowe che portò alla ratificazione di un trattato, cosa che Mendegala non aveva accettato di fare nel 1885; nel 1893 con l’organizzazione di un meeting che vide coinvolti all’incirca duecento capi che si incontrarono con l’allora governatore dell’Africa occidentale, Fleming. Questa neutralità però non era legata alla sola presenza inglese, in più casi infatti i capi del Gallinas si erano incontrati nel territorio di Nyarroh per risolvere le loro controversie. Si è già riferito di come i capi non partecipassero direttamente ai conflitti ma che ricorressero a guerrieri acquistati al soldo con i quali mantenevano alleanze più o meno instabili. Nyarroh non fu da meno, aveva i suoi due personali leader di guerra (krobas) ai quali faceva ricorso ogni volta che la necessità lo richiedeva. In quegli anni il conflitto, lo spargimento di sangue e le rappresaglie erano prassi politica e i legami obbligati con i guerrieri, mercenari disposti a vendersi al migliore offerente, erano sempre inficiati dalla paura del tradimento. Nel 1885 tale sospetto, tra l’altro giustificato, ricadde su Kobah, il leader guerriero che aveva suggerito a Festing di cercare una mediazione in Nyarroh e che fu ucciso in quello stesso anno su ordine del capo di Bandasuma. Da quel momento in poi Nyarroh agì in funzione della difesa sua e della sua gente, dalla rappresaglia che sarebbe seguita ad opera degli alleati di Kobah e si rifiutò di tornare sui suoi passi, sostenendo che così come un traditore era stato ucciso, i suoi sostenitori avrebbero potuto incorrere nella stessa sorte. Due anni dopo il temuto avvenne, la città fu distrutta e Nyarroh rapita. Il carteggio in merito all’azione del governo per il suo rilascio e i cambi di rotta di Ndawa, il capo dei guerrieri alleati di Kobah, che aveva guidato la rappresaglia è piuttosto consistente. Quello che qui interessa è notare come la stessa Nyarroh si rivolse al governatore in 63 persona domandando il suo intervento e facendo esplicito riferimento al fatto che gli inglesi si erano mossi costantemente nel perseguimento dei propri interessi, intromettendosi in quelli del Gallinas. Pertanto li invitava a compiere un'opera di bene nei confronti di un membro di quelle popolazioni che stavano contribuendo ad arricchire i loro commerci. Mai nessun capo aveva fatto esplicito riferimento a quanto alta era la posta in gioco nel coinvolgimento degli inglesi nei loro affari interni; inoltre non è irrilevante la consapevolezza da parte di Nyarroh di potersi permettere di richiedere l’intervento del governo coloniale. Lo stesso Ndawa era ben consapevole dei rapporti che legavano il governo Inglese al suo ostaggio, infatti nonostante le minacce continuava a trattare con la richiesta di un riscatto per il suo rilascio. Si sa che nel 1888 Nyarroh era a Freetown, ma non è chiaro se la sua liberazione fosse stata una conseguenza dell’assassinio di Ndawa o se il governo inglese avesse infine deciso di pagare il riscatto. Nel 1889 è di nuovo a Bandasuma e nel 1890 inizia a ricevere uno stipendio governativo assieme agli altri 12 capi firmatari del trattato di amicizia firmato con Allerdige in quello stesso anno. Alla sua morte, avvenuta nel 1914, la carica fu ereditata da sua figlia. Nyarroh ha agito in tutto e per tutto come avrebbe agito qualsiasi altro capo del suo tempo cercando le migliori strategie di difesa per sè e per la sua gente. Il suo, come altri ruoli di potere detenuti dalle donne e dagli uomini capi in seguito tradotti come paramount chief, erano legittimati dalla tradizione e riconosciuti dalla popolazione. La contestazione riguardo alla loro mancata partecipazione ai conflitti ha poco a che vedere con la legittimità delle cariche poiché le questioni belliche erano affrontate materialmente da appositi reparti di guerrieri e nessun capo partecipava attivamente ai conflitti. Essa ha agito tra pari, come soggetto attivo nei mutamenti storico politici in atto, non ultimo il passaggio alla nascente economia di mercato. Le osservazioni di Abram contengono però una qualche verità nel momento in cui afferma la fondamentale differenza tra il potere maschile e quello femminile in un ottica di genere. La straordinaria posizione di mediazione riservata esclusivamente a Nyarroh e i suoi 64 atteggiamenti nei confronti dell’amministrazione britannica può, entro certi limiti, essere intesa come una forma di collaborazione e non è da escludere che questo ruolo le fosse stato attribuito in quanto donna. Consuetudine voleva che in caso di tensioni e conflitti, fossero inviate mogli o figlie come messaggere, laddove il presentarsi fisicamente avrebbe potuto costituire un pericolo o significare debolezza. Questo sostrato potrebbe aver contribuito a determinare Nyarroh come mediatrice ideale riconosciuta come tale sia dagli amministratori coloniali che dalla popolazione. Inoltre tra i patrilineari mende, il rapporto con la propria madre continuava ad essere investito di una carica emotiva molto forte ed essa continuava ad essere trattata con rispetto e riverenza dai suoi figli anche una volta che questi avevano raggiunto l’età adulta. I capi femminili sono considerati come madri della comunità in senso lato e non va sottovalutato il fatto che, attraverso la Sande, le donne a capo dell’associazione erano responsabili del passaggio all’età adulta delle ragazze eleggendole a possibili mogli. In un momento di crisi e cambiamenti economici e politici, il potere femminile ha trovato spazi di azione creativa che, pur uscendo fuori dai consueti canoni comportamentali, trovavano la propria legittimità nella tensione alla difesa della propria popolazione dei capi alleati e, non ultimo, del mantenimento e riconoscimento del proprio potere. Per concludere, se è vero che i ruoli di potere maschile e femminile possono prevedere modalità di gestione diverse determinate dal genere, questo non autorizza a pensare che i ruoli femminili siano stati un’invenzione del governo coloniale e che non abbiano una loro propria legittimità tradizionale. 3 Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminili In un articolo del 2006 John K. Thornton, uno storico del regno del Kongo 23, ripercorre gli eventi salienti dell’area tentando di individuare in che modo le donne dell’élite reale hanno esercitato la propria influenza. Egli si preoccupa di sottolineare come inizialmente queste concorressero a tirare i fili da dietro le quinte, favorendo di volta in volta parenti a loro prossimi nella successione al trono e mostra come abbiano 23 Il Regno del Kongo comprendeva le regioni oggi situate fra lo Zaire e l’Angola. Fu fondato nel XIV secolo, ma una serie di conflitti interni incrementò le spinte disgregatrici fino alla sua disgregazione, nel XVII secolo, in numerosi domini. 65 acquisito sempre più potere arrivando ad esercitarlo in maniera aperta ed esplicita. Il regno si configurava come una struttura centralizzata le cui unità fondamentali di villaggio erano riunite in province (wene). Ogni wene aveva il suo capoluogo (mbanza), retto da un governatore (mwene) eletto dal re, la cui carica veniva riassegnata ogni tre anni. Alcune province, come Mbata, erano tradizionalmente assegnate a membri della famiglia reale. La successione non era determinata unicamente dal grado di consanguineità, infatti la scelta del nuovo re era determinata da un’assemblea di funzionari tra i quali gli mwene delle province più importanti. Tale impostazione limitava la funzione del lignaggio nel determinare il futuro regnante. Il ruolo fondamentale in questo senso era svolto dai mkanda (sing. kanda) che nella traduzione assegnata dai portoghesi indica il clan o la gerarchia. Con questo termine oggi si intendono delle fazioni che originatesi all’ interno dei singoli lignaggi, incorporavano sostenitori attraverso l’acquisizione di schiavi o altre forme di clientelismo. I gruppi di alleanza potevano essere più o meno labili. Questi si costituivano indipendentemente dal grado di consanguineità o di divario generazionale ed entravano in conflitto a ogni nuova successione dinastica. Secondo quanto riferito da Thornton (Thornton, 2006), per un lungo periodo di tempo le donne legate a vario titolo alla corte, esercitarono la loro influenza in modo più o meno indiretto attraverso i loro figli, fratelli e mariti. Da un punto di vista di genere può risultare interessante ripercorrere queste fasi per esplorare un’ altra delle forme attraverso le quali queste donne hanno espresso il loro potere politico, influenzando in un modo o in un altro la vita delle comunità di appartenenza. In questo caso non si tratta di regine in senso stretto come si è visto per la Sierra Leone. Non è in causa neanche la crescente capacità di autodeterminazione da parte di donne comuni come è stato nel caso della fuga delle mogli. Si tratta qui di intravedere, negli interstizi delle lotte per le successioni dinastiche, l’emergere di figure influenti le quali, sia che operassero nell’ombra sia che agissero in modo più scoperto e dichiarato, hanno avuto o avrebbero potuto avere un ruolo determinante nella scrittura della storia del regno del Kongo. Le vicende del regno sono state caratterizzate dall’incontro determinante con i portoghesi e con la loro opera di evangelizzazione. Il primo contatto risale al XV secolo 66 quando, tra il 1482 e il 1483, l’esploratore portoghese Diogo Cão rapì alcuni membri della nobiltà del regno, portandoli in Portogallo e riconducendoli indietro due anni dopo. Nel 1491, l’allora re Nzinga a Nkuwu e molti altri nobili decisero di convertirsi al cattolicesimo.24 In questo periodo le mogli dell’harem del re, sapendo che la loro posizione sarebbe stata compromessa dal dettame cattolico della monogamia, presero contatto con le mogli dei più importanti nobili affinché questi dissuadessero il re dal suo proposito. L’iniziativa non ebbe successo e il re cambiò il proprio nome in João I in onore al re portoghese dell’epoca João II. La moglie scelta per restare accanto al re, Leonor, chiese di ricevere il sacramento del battesimo ed agì da buona cattolica agli occhi del clero portoghese. Potendo gestire le risorse economiche e alimentari della città, si mostrò magnanima nel patrocinare la chiesa. Leonor era la cugina di primo grado del re; Thornton (Thornton, 2006) descrive questa forma matrimoniale come una prassi dovuta al sistema di alleanze dei mkanda sottolineando come di fatto, lo stretto legame di consanguineità nelle alleanze matrimoniali, avesse rafforzato il ruolo delle donne collocandole in posizioni strategiche rispetto alla scelta dei possibili contendenti al trono. Egli cita inoltre, più di un caso nel quale la moglie del re era anche una delle figlie di un precedente sovrano, cosa che deve avere conferito loro una certa sfera di influenza all’interno del proprio kanda. A Giovanni I (morto intorno al 1509) succedette suo figlio Mvemba a Nzinga, che prese il nome di Afonso I. Alla successione tentò di opporsi inutilmente un suo fratellastro. Afonso I spiegò di aver avuto un presagio di vittoria in cui gli erano apparsi San Giovanni e la Vergine Maria25 Tuttavia stando a quanto riferito da Thornton (Thornton, 2006),fù la madre di Afonso a spingerlo contro il fratellastro, fornendogli preziosi consigli per conseguire la vittoria. L’allora imperatore del Portogallo, João III, si riferì a Leonor come figlia e madre di un re sottolineando il fatto che essa deteneva tradizionalmente, il potere su tutto il Kongo. Nel 1513 Afonso I, dovendo assentarsi, affidò l’amministrazione e il controllo della capitale a un portoghese di nome Lopez. L’improvviso divampare di una rivolta di schiavi dà l’idea dell’influenza delle donne dell’élite reale. Infatti sedati i disordini e arrestati i sovversivi Lopez intendeva limitarsi a punirli, ma dovette cedere davanti alla 24 25 http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno 67 volontà della prima moglie di Afonso,(il cui nome ci è ignoto) che impose sugli schiavi un destino di morte. In questa fase di contatto con gli europei il commercio degli schiavi subì un’impennata tale che lo stesso re dovette rivolgersi all’ imperatore del Portogallo, affinché esortasse i suoi sudditi in Kongo a limitare il fenomeno. La seconda moglie di Afonso, Catarina, fu ritenuta essere una donna timorata di Dio e venne nominata istruttrice in una scuola femminile. A causa del loro legame molto stretto ( tre gradi di consanguineità) Afonso dovette ottenere una bolla papale affinché la loro unione fosse riconosciuta dalla chiesa. Alla sua morte si crearono due fazioni opposte che videro coinvolti i governatori di importanti province e membri del consiglio. Nella contesa entrarono in gioco anche gli interessi del clero, che aveva acquisito potere politico durante il regno di Afonso A contendersi la carica erano il figlio di Afonso (probabilmente avuto dalla sua prima moglie) che fu incoronato come Pedro I nel 1542, e Nkumbi a Mpudi che lo detronizzò nel 1545 prendendo in nome di Diogo I. Pedro fuggì in esilio a Mbanza Kongo ed ordì una cospirazione assieme ai suoi sostenitori e a un suo cugino di nome Rodrigo. Da un carteggio tra i due sappiamo che Diogo aveva fatto arrestare Catarina, (sorella o cugina di Pedro) assieme alla sorella di Rodrigo. Il titolo di manyluqueyne, riservato a Catarina,potrebbe indicare che lei sia stata in quel tempo, la più anziana discendente di una persona chiamata Lukeny, probabile fondatore o fondatrice del regno. Questo non fa che aumentare il sospetto che, vista la sua importanza, costei avrebbe potuto costituire un serio pericolo per Diogo il quale, venuto a conoscenza di un complotto, aveva deciso di imprigionare nemici potenzialmente temibili. Catarina doveva essere a capo del kanda Kilukeni al quale entrambi i contendenti appartenevano. Da questa contesa nacquero le fazioni di Kibala, cui faceva capo Pedro e una di cui non ci è giunto il nome che sosteneva Diogo. Nonostante vari complotti e qualche perdita, quest’ultimo mantenne il controllo del territorio fino alla sua morte (1561). Dopo una serie di regni di breve durata fu eletto re, Άlvaro I (1568) che sua madre Izabelle, (figlia di Afonso I), aveva avuto da una sua precedente unione, ma che era 68 ugualmente stato riconosciuto dall’ allora re Henrique I(figlio di Diogo). L’ attuale regnante era quindi esterno al kanda degli ultimi due. Izabelle come già prima di lei Leonor era figlia e madre di re, e la sua capacità di persuasione doveva essere molto grande altrimenti sarebbe stato difficile fare accettare come nuovo sovrano un figlio nato da un unione precedente. Essa era cugina in primo grado con Henrique ed aveva legami di parentela con molti esponenti del consiglio non le fu quindi così difficile fare eleggere suo figlio. Alla morte di questo però, i discendenti diretti di Diogo entrarono nella contesa e Alvaro II (1587), discendente dal deceduto reggente dovette stipulare una serie di alleanze con numerosi aristocratici a scapito dei propri parenti. Oltre le alleanze matrimoniali si servì del conferimento del titolo di mwene (da allora modificato in conte, duca, marchese) rendendolo permanente. Due dei beneficiari di questa politica avrebbero giocato un ruolo determinante nei futuri giochi di potere; si tratta di Manuel, nominato Conte di Soyo (a partire dal 1591) e António da Silva, eletto Duca di Mbamba. Nel frattempo, la figlia di Alvaro, al fine di legare le donne reali alla chiesa, si adoperava per l’apertura dell’ordine delle suore Carmelitane E’ il terzo esempio di donna che tenta di esercitare la propria influenza attraverso il clero, ma probabilmente si era spinta troppo oltre, infatti la sua proposta non venne accolta. Il potere di Da Silva era intanto cresciuto al punto che, nel 1614 poté permettersi di essere lui a nominare Alvaro III come nuovo regnante. Dopo circa due anni, Da Silva ordì una rivolta e anche Alvaro III fu costretto a stringere alleanze e elargire titoli importanti, come quello di Governatore di Nsundi, assegnato a Manuel Jorda˜o e quello di duca di Mbamba concesso a Pedro Nkanga a Mvika. Alvaro dovette far fronte a molti nemici e non potendo contare sull’aiuto di uomini adulti tra i suoi parenti, ricorse alle alleanze femminili inviando ad esempio,sua madre, sorella del Duca di Nsundi, a trattare con lui. Alla morte di questo, nel 1622, il duca Pedro di Mbamba si appellò alla sua parentela con la terza figlia di Afonso, Non si sa se qualche donna abbia avuto influenza diretta nell‘elezione di Pedro II, ma si ha notizia certa di almeno quattro potenti donne all’interno della sua corte, appartenenti a fazioni reali e non. Le conosciamo attraverso il rapporto di un Prete gesuita che visitò la corte nel 1925, quando a Pedro era 69 succeduto suo figlio Garcia I. Tra queste c’era la moglie di Pedro II, Luiza. Essa va considerata come la protagonista principale del kanda emergente di Pedro II,grazie al quale lo stesso, era giunto al potere L’altro kanda reale che potrebbe aver favorito l’ascesa di Pedro II era rappresentato da Leonor Afonso, figlia di Alvaro II e sorella di Alvaro III. Probabilmente si trattava di una di coloro che caldeggiavano la creazione dell’ ordine di Carmelitane all’interno del Kongo. Questo kanda era rappresentato dalla moglie di Alvaro II, Escolastica. Entrambi i makanda, capeggiati da donne, avevano reclamato immediatamente il trono per Pedro II. Cardoso, nel 1624 parla dell’ esistenza di due makanda, riferendoli a due famiglie reali. Uno sarebbe stato quello di Kwilu, cui faceva parte Alvaro I; l’altro era il kanda di Pedro II, ossia il kanda di Nsundi dove suo padre era stato duca e dove lui era nato. ( Thornton, 2006). Oltre le donne reali, altre figure femminili molto potenti agivano all’ interno della corte. Una di queste era Christina Afonso, vedova di quel Da Silva che aveva sostenuto Alvaro III alla successione,ed ex duchessa di Mbamba. Costei aveva una grandissima autorità ed agiva all’ interno del kanda Kwilu. In seguito a intricati giochi di potere, le potenti donne di corte ad eccezione di Luiza, la madre di Garcia I, succeduto a Pedro nel 1625, strinsero alleanza con il Duca di Nsundi Manuel Jorda˜o per detronizzare Garcia a favore di Ambrosio, (nipote di Alvaro III), Alla morte di Ambrosio si aprirono nuove lotte di successione e i makanda di Nsudi e di Kwilu si fusero nel Kinlaza cui apparteneva il nuovo re Garcia II, discendente di una figlia di Afonso. Dopo la morte del conte Paulo (1641), sostenitore della dinastia Kinlaza, la contea di Soyo passò nelle mani di Daniel da Silva, un aristocratico del casato di Kwilu probabile erede eredi di quel Da Silva che era stato eletto duca di Mbamba da Alvaro II. Egli era un sostenitore della casa di Kimpanzu, che si opponeva alla dinastia reale e cercò di svincolare progressivamente la contea di Soyo dal controllo di Garcia II. Il ducato di Soyo divenne quindi un rifugio per i delatori di Garcia II che si ritrovò ad assegnare le cariche lasciate vacanti a suoi parenti e clienti. I rapporti tra Soyo e la 70 capitale si inasprirono ulteriormente con il rifiuto da Parte di Da Silva, di sposare la figlia di Garcia II dopo che sia lui che suo fratello avevano preso due Da Silva come mogli Pur non essendo chiare le dinamiche è certo che le quattro donne di corte sono entrate nelle contese, esattamente come le donne reali anni addietro e che queste donne hanno cercato l’appoggio della chiesa in molti modi. Tra queste la più importante era Leonor Afonso, legata, come già accennato,al kanda Kwilu con il quale avrebbe potuto mediare. Essa era conosciuta come mwene nlaza, (capo di un kanza fondato da qualcuno di nome nlanza). Era anche conosciuta come mwene Simba uno Mpungi, titolo detenuto anche da Izabel, forse un titolo onorifico per il quale alle due era corrisposto un vitalizio. Una seconda Leonor, era sorella del conte di Soyo Da Silva e sorella della regina, avrebbe invece potuto costituire il ponte tra i Da Silva e il consiglio reale Garcia II però decise di fare ameno della attività diplomatica di queste due importanti donne di palazzo, considerando di non averne più bisogno: le arrestò entrambe assassinando la più giovane, mentre l’anziana Leonor potè in seguito rientrare nella capitale.Le due donne avrebbero potuto svolgere un ruolo diplomatico non indifferente con ambo i gruppi rivali del re, ma per la prima volta nella storia del regno si preferì estrometterle. Garcia II nel processo di consolidamento del suo potere, era stato insolitamente spietato nei confronti dei i suoi rivali. Egli sembra essere stato il primo re del Kongo a perseguitare direttamente le donne. Diogo ne aveva rimosse alcune dalla capitale, ma generalmente i re avevano tollerato la presenza di donne collegate ai loro rivali. Questo si vede bene durante il regno di Garcia I Queste donne, rappresentanti dei nemici mortali del re, erano trattate con deferenza e i i re si erano mantenuti neutrali nei loro confronti poiché si erano mostrate utili nelle negoziazioni. La persecuzione delle due Leonor, nel 1652 era stata ampiamente percepita come un orrore senza precedenti. (Thornton, 2006) A questa fase corrispondono le prime testimonianze nei confronti delle donne dell’ élite che operavano nelle aree rurali. La gestione autonoma delle ricchezze da parte di queste, ha certamente fornito loro un’indipendenza superiore rispetto a quella di chi 71 risiedeva all’interno della corte reale. In qualche fonte del XVII si fa riferimento a donne che governavano autonomamente piccole aree. Nel 1650 un Cappuccino si trovò ad attraversare il territorio di Mpemba Kasi, a nord della capitale San Salvador e primo insediamento governato dal primo re del Kongo. A reggere questo insediamento era una donna il cui nome ci è ignoto, ma che aveva l’appellativo di “Madre di tutto il Kongo” con evidente riferimento all’origine del potere reale a Mpemba. Ancora, dieci anni dopo, un altro sacerdote riferisce che non solo reggenze autonome femminili non erano rare, ma che queste donne potevano decidere di sposare chiunque e che l’uomo era visto dalla popolazione locale come un semplice aiuto alle attività della loro sovrana. Nel 1661 viene incoronato Antonio I. Durante il suo regno si scatenò la guerra civile contro il governo coloniale portoghese, che ottenne la vittoria nella battaglia di Mbwila(1665). Secondo quanto riferito da Thornton, parte dei motivi dell’ intervento portoghese erano legati al fatto che Antonio I intendesse spodestare Isabel dal suo governo di Mbwila Gli scontri portarono alla morte del re e di molti membri della corte indebolendo ulteriormente il potere reale a favore della contea di Soyo. Lo scontro fra le dinastie Kimpanzu e Kinlaza intanto continuava a protrarsi e a diventare più violento, tanto che, nel 1678, la stessa capitale San Salvador, fu saccheggiata e distrutta. Il controllo del territorio andò sempre più frammentandosi (a partire dall'indipendenza ottenuta dalla contea di Soyo), fino alla completa disgregazione del potere centrale. Persino le due dinastie principali si scissero in rami contrapposti. Alla fine del XVII secolo, i due principali gruppi erano i Kinlaza e la linea di Kibangu, che vantava discendenza mista Kinlaza e Kimpanzu. Nonostante le alleanze matrimoniali, la frattura tra questi makanda continuò a protarsi. Durante il periodo di crisi, una giovane donna di nome Kimpa Vita, sostenendo di avere ricevuto da Sant’ Antonio la missione di riunificare il regno, si attribuì il nome di Donna Beatriz. Fu ricevuta prima da Pedro IV della casa di Kibangu nel 1704 e poi da João III, che governava su Mbula. Non avendo ottenuto nulla dai due sovrani, si recò nella capitale abbandonata di San Salvador, e diede inizio a un movimento popolare che raccolse migliaia di persone e che rifondò formalmente l'antico Regno del Kongo. 72 Beatriz non ebbe la pretesa di essere regina come sarebbe stato nel suo pieno diritto, ma promise che sarebbe stata il tramite di Dio nella scelta del nuovo Re. Quando la sua scelta cadde su Constantinho, (alleato di un Da Silva), Pedro IV re di Kibangu decise di farla processare per stregoneria con un pretesto Nel 1707 Beatriz fu quindi arsa al rogo e Pedro IV, portò a termine l’ opera di riunificazione(1709). Per porre fine alle lotte di successione si stabilì un principio di rotazione,ma la regola fu seguita per poco tempo e senza continuità. Il periodo immediatamente successivo alla battaglia di Mbwila non è ben documentato, ma verso la fine del XVII secolo, emerge un quadro più chiaro, in cui le donne erano ormai impiegate attivamente nelle cariche di potere locale. Una di queste fu Donna Suzanna de No'brega, capo del lignaggio Kimpanzu. Supportata da potenti Conti di Soyo, Donna Suzanna vedeva costantemente assecondate le sue pretese e molti suoi figli detennero il potere a San Salvador Nel XVII secolo l’ apice del potere femminile è comunque rappresentato da Donna Ana Afonso de Leao, sorella di Garcia II e moglie di Afonso II. Dotata del titolo mwene nlaza, era il capo riconosciuto del kinlaza. Durante la resistenza contro Raphael I essa fu un membro molto attivo, per non dire che ne fu la principale promotrice. Rifugiatasi a Mbanza Nkondo ha operato inizialmente per l’installazione di Joao II, un suo parente, e in seguito per suo nipote Alvaro. Joao aveva come roccaforte Mbula, retta dal fratello Pietro III ed era sotto la guida di sua madre Potencia. La sorella di Joao era una collaboratrice stretta di Pietro, loro comune fratello, e aveva quindi più influenza rispetto a Potencia. Tuttavia, quando Pietro dovette allontanarsi lei fu disertata da molti nobili sostenitori di Pedro IV, che reclamava il suo diritto al trono in quanto discendente da i makanda Kimpanzu e Kinlaza. Mbula era divisa quindi in due fazioni anche se probabilmente i sostenitori di Re Pedro erano più che altro semplicemente ostili a Elena che comunque fu riconosciuta come avente diritto al governo della zona. Nel frattempo Donna Ana esercitava sempre più influenza nei dintorni di Nkondo e favorì molti suoi parenti e sostenitori nell’ acquisizione di importanti cariche. La sua autonomia e forza sono dimostrate da due fatti. 73 Primo:nel 1700 Ana firmò un trattato di pace scritto di suo pugno, nel quale si impegnava a mantenere la pace per conto dei suoi nipoti titolati. Secondo e ancora più sorprendente, le fu concesso addirittura l’ onore di indossare le vesti di frate Cappuccino. (Thornton, 2006) Durante il XVIII secolo, il potere effettivo era giocato a livello di province piuttosto che nella capitale. Alla morte di Manuel II (1743), gli successe nell'ufficio Garcia IV, appartenente alla stessa fazione di Joao II. Egli era probabilmente uno di quei nobili che avevano disertato per Pedro IV intorno al 1700. Quando il sacerdote cappuccino Bernardo Ignazio d' Asti visitò San Salvador nel 1747, notò che Garcia era un re molto pio giovane, mentre Luvota, una delle province, era controllata dalla vedova di Manuel considerata altrettanto pia(Thornton, 2006). La donna impose ai suoi seguaci di seguire la via del cristianesimo pur non avendo mai ricevuto missionari. Il compromesso di Pedro IV non fu accolto di buon grado e i governati di Luvota tentarono più di una volta di ascendere al trono. Oltre i casi citati numerose donne hanno dominato il paesaggio del Kongo a vario titolo, alcune come capi di piccole province, altre con ruoli più rilevanti in marchesati e ducati strategici. Queste erano legate agli uomini che si andavano succedendo al trono, da vincoli di parentela, ma mentre i re cambiavano abbastanza rapidamente, gli esercizi delle donne erano più o meno permanenti. C’era chi tra loro esercitava un potere quasi regale e chi era considerata una vera e propria regina Nkondo, ad esempio, riconosciuto semi-indipendente nel 1760, è stato sempre retto da una donna. Una figura interessante in questo senso è quella della Regina Violante. Costei aveva ricevuto il ducato di Wadu da una precedente donna il cui nome ci è ignoto, ma della quale sappiamo che tutti si rivolgevano a lei con l’appellativo di “madre. Quando Violante venne eletta regina,il vecchio ducato si era trasformato in uno dei quattro regni usciti fuori dal vecchio Kongo. Wandu era parte di quei territori che includevano Nkndo e Holo, percepiti dai governanti come una continuazione orientale del Regno del Kongo. La stessa regina percepiva se stessa come una parte vitale del vecchio Kongo; aveva infatti inviato,nel 1764, le sue truppe contro Alvaro XI in favore dei propri parenti. 74 Un’ altra azione militare a danno dei portoghesi in Angola le costò la carica nel 1766 e al suo posto fu insediata una Da Silva. In questo caso la regina deteneva un potere concreto ed effettivo al punto di sentirsi autorizzata ad organizzare spedizioni militari. Il regno era stato riunificato solo formalmente e nel corso del XVIII secolo i tumulti interni non si erano stabilizzati. Pedro V nella seconda metà dell‘ ottocento concesse poteri sempre più forti ai Portoghesi, i quali ottennero gran parte del regno del Kongo in seguito alla Conferenza di Berlino (1884-1885). La figura del sovrano si svuotò progressivamente del proprio potere, acquisendo un significato puramente simbolico L’ultimo re del Kongo fu Manuel III che rimase sul trono fino al 1914, quando il titolo fu definitivamente abolito dal governo potoghese.26 Da quanto riferito emerge che il ruolo delle donne dell’élite del Kongo è andato sempre più rafforzandosi nel corso del tempo. Se inizialmente queste agirono in qualità di consulenti, o ricorrendo a figure di uomini potenti per favorire i loro protetti, poi iniziarono ad esercitare potere, attraverso i kanda, all’interno della corte e del consiglio reale. Esse agirono sia come mediatrici che come tessitrici di complotti favorendo di volta in volta chi ritenevano opportuno. Se già nel XVII secolo quelle che detenevano il potere nelle aree rurali avevano una discreta autonomia decisionale, i loro ruoli si rafforzarono con la frammentazione del territorio. Con l’evolversi degli eventi acquisirono cariche dirette arrivando ad essere considerate regine a tutti gli effetti in grado anche, come nel caso della regina Violante di muovere un esercito in armi per il conseguimento dei propri interessi. CAPITOLO III REGINE MADRI 1)regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali 1.1) iyoba Nel descrivere le lotte di successione che hanno caratterizzato il regno del Lagos (attuale stato del Benin) tra il 1816 e il 1853, Sandra Barnes (Barnes, 1997) sottolinea il 26 http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Nascita_del_Regno 75 ruolo svolto da due ricche e influenti figure femminili dell’epoca. Si tratta di Opo Olu e Tinubu, entrambe madri adottive di uno dei re coinvolti nei conflitti per l’accesso al trono. Tra le due, solo la prima era stata insignita del titolo di iya oba ( o eruelu) che letteralmente significa: madre del re. Barnes non entra nello specifico dei ruoli svolti dalle regine madri, né sappiamo se ci siano state affinità di fondo con la carica di iyoba del regno del Benin che, nel XV secolo, aveva conquistato le popolazioni awori ( sottogruppo yoruba) del Lagos.27 Qualche notizia sul ruolo dell’iyoba dell’impero del Benin ci viene fornita da Flora Kaplan (Kaplan, 1997), il cui approccio combina lavoro sul campo e studio delle fonti orali all’analisi dell’arte di corte. In questo caso l’iyoba, la regina madre, è colei che tra le tante mogli dell’oba è predestinata a partorire il futuro sovrano. La prima regina madre a cui fu assegnato il titolo fu Idia, all’inizio del XIV secolo. II suo intervento a favore del figlio Esigie, nella lotta di successione che seguì la morte del precedente oba, salvò il regno dal concreto rischio di invasione nel quale si trovava a causa della forte instabilità politica. Le madri dei sovrani erano ritenute possedere speciali poteri magici e in ragione di questa forza incontrollabile, erano decapitate al momento dell’installazione. Questo costume cadde in disuso per intervento di Oba Esigie il quale ottenne che la vita di sua madre fosse risparmiata, in virtù del fatto che questa aveva salvato il regno dalla conquista straniera. Da allora le madri biologiche del nuovo re assumono il titolo di iyoba, ma vivono in una propria separata residenza a Uselu, un villaggio fuori dalla capitale. Re e regina madre non potranno avere più contatti diretti, ma l’iyoba ha il compito di continuare a proteggere suo figlio e lottare per la stabilità del regno. Un punto di interesse è determinato dal fatto che in questo caso la carica di regina madre nasce in seguito all’azione salvifica di una madre nei confronti del regno stesso. Inoltre, sempre secondo quanto riferito da Kaplan (Kaplan, 1997), la madre del re 27 Il primo oba insediato in Lagos fu Ashipa. Questi nonostante il suo compito fosse quello di tutelare gli interessi del Benin godette di una discreta autonomia. Da quel momento gli yoruba iniziarono a riferirsi a quel territorio con il nome di Eko. Questo termine significa campo di guerra, ma può essere interpretato anche come un termine derivato da Oko, che in linguaggio yoruba significa fattoria di manioca. Lagos fu un nome dato alla città dai coloni europei. Ancora oggi le popolazioni yoruba utilizzano questo termine per riferirsi a quel territorio. 76 accede al titolo solamente nel momento in cui questa ha raggiunto la menopausa, ossia quando la sua sessualità non ha più vita. Anche nella contemporaneità,a regina madre è l’unica, tra le mogli dell’oba, ad essere immortalata nell’arte di corte. Questo la pone al pari degli altri sovrani, ma Kaplan nota che la regina madre può accedere alla carica solo nel momento in cui la sua capacità riproduttiva, massima espressione di femminilità tra gli edo, viene meno( Kaplan,1997). Così, pur avendo l’ iyoba, ottenuto il diritto a una carica importante grazie alla sua capacità di concepire, questa carica le viene attribuita formalmente solo nel momento in cui la sua sessualità è inattiva. Avendo perso il potere di procreare, è come se fosse possibile non considerarla più una donna;è la perdita di un’identità sessuale definita, quindi, che la mette nella condizione di essere celebrata e ricordata, come è consuetudine per gli uomini della casa reale. La sua principale preoccupazione deve essere quella di assicurare la stabilità del regno e la continuità della stirpe attraverso la protezione del re, suo figlio. Questa protezione avviene a distanza in quanto la madre del re è ritenuta essere depositaria di poteri magici che potrebbero nuocere all’oba. In quanto iyoba essa ha anche il compito di intervenire in eventuali dispute portate alla sua attenzione esattamente come ogni altro capo nella propria area di influenza. Non sappiamo se e quali di queste caratteristiche possano essere assimilabili a quelle della iya-oba del regno del Lagos in quanto le notizie intorno al suo ruolo sono piuttosto scarse. La prima regina madre del regno è detto essere stata Erelu Kuti, sorella di Akinsemoyin, terzo oba del Lagos. Fonti orali raccontano che questo, legato da un profondo amore nei confronti della sorella e non potendo contare su figli maschi adulti, le conferì il titolo di Erelu e profetizzò che suo figlio sarebbe stato il futuro sovrano. Probabilmente questa onorificenza fu una conseguenza del matrimonio tra Kuti e un potente sacerdote di Ife che, oltre ad aver previsto la successione al trono di Akinsemoyin, gli era stato accanto come consigliere e lo aveva assistito con successo nel consolidamento del suo potere. Non sono chiare le funzioni svolte dalle regine madri in Lagos, cosi come non sembrano esserci delle regole stabilite per determinare chi potesse detenere il titolo di 77 diritto. Opo Olu, una delle donne coinvolte negli eventi di cui parla Barnes (Barnes, 1997), era sorella e madre adottiva di un re e pare che fu proprio durante il breve regno di quest’ultimo che le venne assegnato il titolo di erelu. In seguito ad una serie di eventi, questa fu accusata di aver causato la morte dei figli dell’eletu odibo, una sorta di primo ministro della città il cui compito più importante consisteva nella scelta del nuovo oba tra i possibili candidati. Queste accuse potrebbero suggerire che le regine madri del Lagos, al pari di quelle del Benin fossero considerate in possesso di speciali poteri magici. Tinubu, l’altra potente donna che esercitò una notevole influenza negli eventi di quegli anni, pur essendo anch’essa madre adottiva di un re, non ricevette il titolo di Iya oba. Essa era una commerciante venuta da Abomey (regno del Dhaomey) e giunse nella capitale in quanto moglie di un ex oba esiliato prima e richiamato al potere poi. Perché Tinubu non ha ricevuto il titolo come Opo-Olu? Entrambe erano donne ricche, influenti e soprattutto madri adottive di re. Forse le ragioni sono da ricercarsi nell’appartenenza al lignaggio reale. Sia Erelu Kuti che Opo-Olu erano infatti non solo madri, ma anche figlie e sorelle di precedenti re, mentre Tinubu era fondamentalmente un’estranea. Questa supposizione andrebbe supportata da una lettura più approfondita delle genealogie dei lignaggi reali e da un più approfondito corpus di dati etnografici. Il ruolo giocato da queste due madri reali può contribuire a sostanziare un punto di vista sulle donne legate al potere regale, che le vede come soggetti politicamente attivi e capaci di esercitare una propria specifica influenza nel contesto in cui si trovano ad agire. Oba Ologunkutere il figlio di Erelu Kuti, ebbe a sua volta tre figli: Eshinlokun, Adele e Akitoye. Tra questi tre, il successore designato fu Adele il quale, nel 1821, fu detronizzato dal fratellastro Eshinlokun e trovò rifugio nel villaggio natale della propria madre. Negli anni dell’esilio conobbe e sposò Tinubu, che aveva esteso i suoi commerci da Abomey allo stato del Lagos. Il complotto fu appoggiato da Opo-Olu, sorella di Eshinlokun che, in qualità di madre adottiva di suo figlio Idewu, assunse il titolo di Erelu. 78 Quest’ultimo morì in giovane età e il trono si trovò ad essere conteso tra Adele, che nel frattempo era stato richiamato in città, e Kosoko, fratello dell'oba deceduto (Barnes, 1997). Tinubu e Opo-Olu erano entrambe coinvolte nel commercio di avorio e nella tratta degli schiavi; si trovarono quindi a rivaleggiare sia su quel fronte che nel supporto offerto ai candidati al trono. Fu in questa occasione che l’eletu Odibo rivolse le sue accuse di stregoneria nei confronti di Olu-Opo la quale venne tuttavia assolta. E’ probabile che tale inimicizia da parte del primo ministro derivasse dal fatto che l’Erelu stesse perorando la successione di Kosoko, il quale aveva preso in moglie una giovane ragazza destinata all’Eletu, senza averne chiesto il permesso. (Barnes, 1997:7). La scelta finale ricadde su Adele e conseguentemente Tinubu ebbe la possibilità di ampliare i propri commerci nella capitale del Lagos. E’ possibile che ragioni squisitamente personali abbiano mosso il primo ministro a ignorare la volontà della Iya oba? Non sappiamo se Tinubu abbia avuto o meno un’influenza determinante sulla decisione dell’eletu, ma da questi fatti si potrebbe evincere che l’erelu in sè non avesse alcuna voce nella scelta dell’erede al trono. Nel 1836 Opo-Olu ordì una ribellione che ebbe esito negativo, in favore del suo protetto. Tale guerra è ricordata con il suo nome, cosa che lascia pensare che gran parte delle milizie inviate contro l’oba le appartenessero. In seguito a questo evento l’erelu venne esiliata e Tinubu diventò la donna più influente e importante del regno. Alla morte di Adele (1837), essa sostenne l’ascesa al trono del suo figliastro Oluwole e poco dopo sposò un capo guerriero a cui l’oba era stretto da forti legami di riconoscenza in quanto aveva guidato una spedizione volta a recuperare merci di proprietà dell’oba che erano state razziate da Kosoko. In segno di gratitudine, il re fece dono alla coppia di gran parte dei beni recuperati e Tinubu poté estendere ulteriormente i suoi traffici. La donna a quel tempo era diventata proprietaria di circa 360 schiavi, si era dotata di una propria milizia e si era immessa nel commercio delle armi acquisendo un ruolo molto rilevante all’interno degli affari di 79 stato (Barnes, 1997: 8) Nel 1841, alla morte dell’oba, riuscì ancora una volta ad avere la meglio su Kosoko, sostenendo l’ascesa al trono di suo cognato Akitoke che regnò fino al 1845, quando Kosoko, con un nuovo colpo di stato, riuscì ad accedere al potere28. Anche in questo caso Tinubu sostenne il suo protetto trasferendosi con gran parte dei suoi beni nella città natale della madre di suo cognato, dove questi si era rifugiato in esilio. Nonostante i numerosi attacchi sferrati contro il nuovo oba per mezzo delle milizie di Tinubu, fu solo grazie all’intervento delle truppe britanniche 29 che, nel 1851, Akitoye ottenne di nuovo il potere che gli era stato tolto. Opo-Olu e Tinubu hanno svolto in questi anni un ruolo politico di primo piano, sostenendo e proteggendo i loro favoriti attraverso l’attività diplomatica e la fornitura di supporto militare. L’erelu, nel sostenere Kosoko, è stata prima accusata di stregoneria e poi esiliata in seguito all’organizzazione di una guerra che porta il suo nome. Tinubu ha saputo tessere una trama di alleanze che hanno incrementato la sua ricchezza come il suo potere al punto che essa è stata definita “il potere che è dietro al trono” ( Barnes, 1997: 11). La sua influenza era così grande che gli inglesi, nel 1856, decisero di esiliarla nel villaggio in cui era stato precedentemente esiliato suo cognato, dove ricevette il titolo di Iyalode (lett. Madre dall’esterno). Se è vero che alla base dello spazio di azione delle madri reali c’era un’instabilità politica di fondo determinata dall’incertezza delle regole di successione, va loro riconosciuto il merito di aver saputo utilizzare la loro ricchezza per tessere alleanze che le hanno rese competitive sul piano dell’azione politica e che hanno allargato il loro potere e la loro sfera di influenza. 1.2) Kpojito 28 29 Questa guerra è passata alla storia con in nome di “guerra dell’acqua salata”. I lagosiani furono circondati e, non avendo accesso alle riserve d’acqua dolce, furono costretti ad attingere a quella della palude. In 21 giorni di assedio furono uccise tra le 1000 e le 2000 persone incluso l’eletu Obi e tutti i membri della famiglia dell’oba deposto. (Barnes, 1997: 9) L’intervento inglese avvenne in conseguenza all’impegno, da parte di Akitoye, di porre fine al commercio degli schiavi. La lotta alla tratta fu probabilmente uno dei motivi che portarono all’esilio di Tinubu. 80 E. Bay (Bay, 1995; 1997), nell’indagare la carica delle regine madri del Dahomey precoloniale30, rende conto della rete di relazioni intessute, attraverso le alleanze matrimoniali, tra il potere centrale e i vari strati della popolazione. Il palazzo reale di Abomey, capitale del regno, era il centro della burocrazia dove risiedevano le mogli e i famigliari del re. Il palazzo funzionava come un’enorme famiglia poliginica dove le mogli del re erano impegnate nello svolgimento di compiti di ogni genere (Bay, 1995: 8). Esse erano attive nei campi più disparati(militare, economico, politico, artigianale, rituale) e, provenendo da non importa quale,livello sociale, costituivano una sorta di ponte tra il potere centrale e i vari strati della popolazione. La macchina amministrativa era basata su principi di gerarchia e di merito in modo che chiunque fosse dotato di particolari capacità, poteva essere mess nelle condizioni di acquisire ricchezza e prestigio. Tra tutte le cariche di palazzo, la più prestigiosa e importante era quella di kpojito, la regina madre. Alcune di loro furono sacerdotesse di divinità di una certa rilevanza e questa loro posizione ne determinò il loro chiave nella legittimazione della dinastia Alladahonu al potere regale nel rafforzamento dello stesso. (Bay, 1997) Durante i secoli XVII e XIX, non solo la storia politica del regno, ma la stessa concezione del potere furono profondamente influenzate dalla sfera del sacro; inoltre i regnanti manipolarono coscientemente il pantheon dahomeyano, promuovendo alcune divinità (vodun) piuttosto che altre e introducendone di nuove. Nella visione del mondo fon, lo stretto legame che unisce delle dimensioni del visibile e dell’invisibile si rifletteva necessariamente sull’accettazione dei regnanti da parte delle divinità più seguite dalla popolazione; era quindi indispensabile che i sovrani fossero collegati a sacerdoti e sacerdotesse dei culti più sentiti. Nella concezione cosmologica del Dhaomey troviamo due tipologie di vodun: la prima era collegata alla casa regnante, mentre la seconda costituiva un eterogeneo insieme 30 Il regno del Dahomey è stato creato nel XVI secolo intorno al centro di Abomey (a sud dell'attuale repubblica del Benin) ed è diventato colonia francese nel 1899. Non ci sono dati certi riguardo la data della fondazione ufficiale del regno, nè sul luogo di origine degli Alladahonu, la dinastia Fon che detenne il potere durante tutto il periodo di durata del regno. L’unico dato storicamente accertato è che questi, in un periodo non meglio precisato, si sono insediati a Wassa, nei pressi di Abomey, e che da lì hanno perseguito la loro politica di espansione aprendo la strada al commercio con l'Europa. (Bay, 1995) 81 di divinità popolari associate alle forze della natura (Bay, 1995: 3). Il regno degli spiriti (kutome) era ritenuto essere uno specchio di quello dei vivi e gli abitanti dei due mondi erano legati da rapporti di dipendenza reciproca. Così, se da un lato gli esseri viventi avevano bisogno del sostegno degli spiriti, quest'ultimi traevano forza dai sacrifici offertigli nel mondo visibile. Le implicazioni politiche di questa concezione non sono irrilevanti, poiché non solo il raggiungimento del successo era la prova del favore delle divinità, ma l’introduzione di nuovi vodun legati alla casa regnante ha consentito il controllo di molti culti e incrementato la devozione da parte della popolazione nei confronti della dinastia in carica. La creazione del titolo di kpojito, il cui termine indica letteralmente la persona che ha generato il leopardo, sembra essere legata direttamente alla nascita della dinastia regnante e alla sua legittimazione nel nascente regno del Dahomey. Secondo il mito di fondazione degli Alladahonu, una principessa reale di nome Aligbonon si era accoppiata con un leopardo dando alla luce Agasu, una creatura ibrida con caratteristiche sia umane che animali. Entrambi sono diventati importanti vodun il cui culto era affidato a specifici officianti. Quando gli Alladahonu giunsero a Wassa, una città tra Cana e Abomey, la sacerdotessa di Aligobon era una donna del posto di nome Adonon. Costei pare essere stata il tramite tra Wegbala, padre putativo del casato di Alladahoun come dinastia regnante, e Dokodonu, sovrano che lo precedette e sulle cui origini le fonti hanno pareri discordanti. Quello che pare probabile è che Adonon fosse la sua sposa promessa e che egli avesse adottato Wegbala. In seguito ad un unione tra Adonon e Wegbala quest’ultimo fu diseredato dal padre adottivo, ma riuscì ad ottenere il suo perdono sconfiggendo un suo nemico (Bay, 1997). Più tardi, Wegbala riuscì ad accedere al trono di Wassa e compensò il lignaggio di Dokodonu assegnandogli permanentemente l’incarico di Agasunon (sacerdote del culto di Agasu). Il matrimonio di Wegbala con Adonon e l’assunzione del mito del leopardo come fondativo della dinastia, pose le basi per individuare in Adonon la madre putativa della dinastia Alladahonu. Il conferimento del primo titolo di kpojito ad Adonon, così come 82 l’associazione del mito di Wassa con la nascita del nuovo casato, hanno avuto luogo tra il 1716 e il 1740, durante il regno di Agaja. Da allora ogni re venne considerato la metaforica incarnazione di Agasu e ogni kpojito scelta tra le mogli del precedente sovrano, collegata a Aligobon. In questo caso, la regina madre non è solo madre metaforica del re, ma di una dinastia intera: il suo titolo è stato creato appositamente per legittimare il nuovo casato al potere attraverso il collegamento con due tra i più importanti vodun locali. Non si hanno molte notizie attorno alle prerogative delle regine madri del Dahomey, ma è certo che fino al XIX secolo esse hanno governato con i re come coppia reale. Il parallelismo di genere nei ruoli di comando era già presente nell’organizzazione sociale fon; infatti a capo di ogni lignaggio c’erano una figura femminile (taninon) e una maschile (hennugan). Nel XIX secolo tuttavia, i ruoli di potere di queste due figure furono indeboliti da una mutata politica delle alleanze che avrà come conseguenza anche la perdita di influenza politica delle regine madri. Essendo le kpojito mogli reali, e quindi persone esterne al lignaggio reale, non avevano ufficialmente alcuna voce in capitolo nella nomina del nuovo re. Questi era designato il più delle volte dal precedente sovrano, ma quasi sempre accadeva che alla sua morte si aprissero lotte di successione. Anche qui e influenti donne di palazzo complottavano in favore di uno dei pretendenti al trono; è quindi plausibile che il titolo di kpojito, conferito dal nuovo re, si sia configurato come premio per l’appoggio ricevuto già a comiciare da Hwanjile, seconda regina madre del regno, che aveva aiutato Tegbesu ad ottenere il trono alla morte di Agaja (1840). Anche Hawanjie, come Adonon, aveva familiarità con il mondo degli spiriti e la sua figura fu centrale nel rafforzare la legittimità della casa regnante. Tegbesu era salito al trono con la forza e qualche sacerdote iniziò a far circolare la voce che alcuni dei vodun popolari erano adirati per l’esito della battaglia. Ciò causò una disaffezione da parte del popolo. La soluzione trovata da Hawanjie fu quella di importare nuovi vodun che rafforzassero l’immagine del casato reale. L’introduzione della coppia di divinità creatrici Mawu e Lisa, del cui culto era responsabile la stessa Hwanjle, ribadiva il concetto che al centro del potere c’era una 83 coppia e che questa coppia si giovasse dell’equilibrio tra la regalità della coppia regnante nelle cui mani era accentrato il potere e le popolazioni che vivevano nelle aree periferiche del regno, da dove provenivano le regine. Da Hwanjile in poi, infatti, tutte le kpojito furono reclutate tra donne venute da aree lontane dalla capitale. La concezione del potere reale, durante il XVIII secolo, si appoggiava quindi su una coppia che rappresentava l’equilibrio e il legame tra strati alti e strati umili, essi governavano come pari e la kpojito aveva ruoli di rilevanza non indifferente. Durante il regno successivo furono introdotti culti legati alla casa reale come quello dei thohossu, bambini della famiglia reale morti subito dopo la loro nascita, o i nesuhwe che includevano tutti i morti divinizzati del casato. L’aumento di questi vodun legati al lignaggio al trono, indica una concezione del potere che tende a porre una certa distanza tra la popolazione e i regnanti, anche se il comando continuava ad essere espresso dalla coppia reale. Sul finire del XVIII secolo re Angolo, interessato ad espandere i propri commerci, introdusse il dio cristiano come vodun e prese contatto con i portoghesi affinché questi inviassero degli emissari evangelizzatori. Tuttavia i sacerdoti dei culti più importanti si opposero a questo tentativo ed ordirono un complotto che portò all’avvelenamento del re. Agontime, la donna che eseguì materialmente il regicidio, tentò allora di supportare Dogan come successore, ma il tentativo fallì, essa fu venduta come schiava e inviata nel Nuovo Mondo e Adandozan divenne il nuovo sovrano (Bay, 1997). Nel 1918, questi fu detronizzato da Gezo il quale, pur avendo ricevuto l’appoggio di numerose donne di palazzo, non ripose fiducia in nessuna di loro e scelse come suo consigliere un mercante di schiavi afro-brasiliano. In seguito mandò a cercare Agontime che fu eletta regina madre intorno al 1840. Probabilmente la donna fu infine scelta per la sua familiarità con il mondo degli spiriti in riconoscimento del suo impegno nella lotta alla cristianizzazione del regno. Tuttavia il consigliere effettivo del re rimase il mercante di schiavi e la coppia reale era ormai tale solo nominalmente, poiché non sembra che Angotime prendesse parte alle decisioni del re. 84 A partire dalla seconda metà del XIX secolo e precisamente dal regno di Glele, la visione del potere come prerogativa maschile si rende ancora più evidente. Egli scelse come kpojito sua madre Zoindi, ma concentrò i poteri e le responsabilità riservate alle regine madri nelle mani di suo cognato Gedegbe. Che fù nominato responsabile di tutti i culti attivi incluso quello di Manwu e Lisa, cosa che comportò l’annullamento dell’influenza delle donne anche all’interno della sfera del sacro. A partire da questo momento, le future kpojito riceveranno il titolo in quanto coloro che hanno partorito il re e non saranno più parte attiva nella vita politica e religiosa del regno. Anche se ci saranno ancora influenti donne di palazzo che complotteranno in favore di questo o di quell’atro candidato al trono, i riconoscimenti loro assegnati saranno di altro genere. Bay (Bay, 1997) spiega questa mutata concezione della dimensione della coppia reale con le influenze esercitate da una parte dal contatto con gli europei e dall’altra dall’introduzione di alcuni culti yoruba. Nel XVIII secolo la prassi, per la casa regnante, di prendere metaforicamente in moglie, gli uomini appartenti a lignaggi non reali aveva sminuito il ruolo di raccordo delle donne di palazzo tra il potere centrale e le altre fasce della popolazione. Attraverso questo stratagemma infatti, interi lignaggi, legati agli uomini presi come “mogli”entravano a far parte di un ramo della famiglia reale. Le influenze occidentali hanno contribuito a modificare la concezione del potere. I contatti sempre più frequenti con gli europei avvenivano infatti sempre attraverso governatori o rappresentanti di sesso maschile ed il sacerdozio del dio occidentale escludeva categoricamente la presenza femminile. L’introduzione del culto yoruba della divinazione Ifa contribuì in modo decisivo ad affermare la concezione della supremazia maschile in termini di controllo politico e religioso. Non solo si trattava di un sacerdozio di prerogativa maschile, ma le stesse divinazioni si concentravano su problematiche che interessavano gli uomini e alle donne venivano concesse solo predizioni di carattere molto generico, in quanto il loro destino era visto come legato a quello di un uomo. Nel XVIII secolo, le donne in generale e le kpojito in particolare ebbero un ruolo fondamentale nel legittimare il potere regale attraverso appoggi di tipo politico e grazie 85 alla loro competenza in materie religiose. Progressivamente e attraverso una serie di influenze esterne, l’asse del potere si è spostato da una visione di equilibrio tra centro/periferia, a una visione accentratrice maschio-centrata. Tutte le donne di palazzo erano diventate sul finire del XX secolo semplici ausiliarie del re e la cosa è stata vista da qualche informatore di Bay (Bay, 1997: 38) come una delle cause dell’indebolimento del potere regale che precedette la dissoluzione dell’impero, conquistato dai francesi nel 1890 2) Regine madri in Ghana tra Ashanti e Krobo Nel Dahomey precoloniale, come abbiamo visto, le regine madri erano scelte direttamente dal re tra le mogli del suo predecessore. A Lagos invece, ruoli di primo piano tra le mogli reali sono assegnati dal re in carica o, come nel caso di Erelu Kuti, dal loro predecessore. In Entrambi i casi il potere loro assegnato è, subordinato alla figura del sovrano. Per quanto le donne agissero attivamente sul piano politico, esercitando un potere concreto, la ragione prima delle loro cariche risiede nella salvaguardia del sovrano e, cosa più importante, esse non sono state riconosciute come tradizionali figure di comando. Tornando agli ashanti,31di cui si era parlato a proposito dele regine dei mercati, troviamo una situazione differente per la quale il ruolo delle regine madri è ampiamente riconosciuto sia a livello tradizionale che di governo nazionale. La chieftaincy è quindi ancora attiva e ben radicata nella regione. Nel XVII secolo, Osei Tutu creò la confederazione degli stati ashanti diventando il primo asantehene. La suddivisione amministrativa tradizionale è basata su una scala gerarchica al vertice della quale si hanno una figura di potere maschile, l’ashantehene, e un’altra femminile detta ashantehema. Al gradino immediatamente successivo si hanno delle divisioni, più o meno ampie, che includono un certo numero di città e villaggi. Ognuna di queste unità politiche è retta da una coppia di sovrani, maschio e femmina, i cui ruoli 31 Gli ashanti appartengono al gruppo Akan (stanziati nelle aree centrali e meridionali del Ghana e nelle zone a sud-est della Costa D’Avorio). La loro lingua è il Twi, sottogruppo della famiglia linguistica Volta-Comoe. L’attuale regione Ashanti occupa la fascia centrale del Ghana e la sua capitale amministrativa è Kumasi. 86 differiscono completandosi a vicenda. Il lignaggio, unità politica fondamentale, rispecchia in piccolo questa formula di potere duale basato sul genere ed ha alla sua testa una coppia di membri probabilmente scelti tra i più anziani del segmento di discendenza. Rattray (Rattray, 1923) traduce con il termine queen mother 32 ogni livello di carica femminile accennata sopra, ma tra gli ashanti esistono specifiche definizioni twi per ognuna di queste cariche (B.J. Stoeltje, 1997). A livello di lignaggio i termini con i quali ci si riferisce all’autorità sono abusuapaniyin per gli uomini e obapanin per le donne. Queste avranno cura di rappresentare tutte le figlie del proprio abusua (termine a grandi linee, riferibile al clan o al lignaggio) nelle occasioni pubbliche, mentre il primo diventerà un sottocapo dell’odikro, capo maschile a livello di villaggio o città, e farà parte dei consigli tradizionali locali. Odikro per l’uomo e obapanin per la donna sono i termini utilizzati in riferimento ai villaggi e alle città, mentre per quanto riguarda la reggenza sulle divisioni più ampie, i titoli sono quelli di ahemaa (per le donne) e omhanene (per gli uomini). Infine, come già ricordato, a livello più alto troveremo l’ashantehene, l’ashantehema. Costoro sono considerati i sovrani di tutti gli ashante a livello assoluto. Il sistema di governo tradizionale sopra descritto, è definito nella stessa costituzione del Ghana come chieftaincy. Entrambi i governi, coloniale e nazionale, ne hanno riconosciuto la legittimità lasciando ai capi tradizionali un discreto margine di azione (Stoeltje, 1997). Grazie a queste politiche, la chieftaincy ha mantenuto la propria vitalità. Non è facile invece stabilire fino a che punto l’impatto con le società occidentali abbia influenzato la concezione del potere femminile in un’area dove questo si è comunque mantenuto forte, ma l’esclusione delle queen mother dalle case nazionali e regionali dei capi33 potrebbe essere un segnale del ridimensionamento del loro impatto politico a 32 33 La definizione queen mother è entrata a far parte del linguaggio comune a ogni livello della popolazione Akan. Pertanto quando non farò riferimento a cariche specifiche con la propria definizione twi utilizzerò indifferentemente il termine inglese sopra riferito o la sua traduzione italiana, regina madre. Le case dei capi vengono istituite dalla costituzione del 1969 come strumento di raccordo tra i poteri tradizionali e il governo centrale. La costituzione del 1992 ne definisce ulteriormente limiti e competenze. Per un approfondimento si veda il titolo 22 della costituzione del Ghana reperibile all’indirizzo: http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/constitution 87 livello più ampio. La base dell’organizzazione politica appena descritta è costituita dalla parentela e dal sistema di discendenza matrilineare. Prerequisito fondamentale per accedere a una qualsiasi delle cariche tratteggiate sopra è l’appartenenza, in linea materna, al lignaggio che detiene legittimamente il potere sulla base del diritto allodiale. Le queen mother sono quindi regine in un sistema gerarchico che si basa sul lignaggio ed è caratterizzato da parallelismo di genere (Stoeltje, 1997: 44). Tale parallelismo si riflette nella patrifiliazione ashanti e nella loro concezione della procreazione. I figli sono ritenuti ricevere il sangue e l’appartenenza lignatica dalla madre, ma è dal padre che ricevono lo ntoro (l’anima/nome dell’anima). Inoltre, cosi come ci sono otto grandi gruppi di discendenza provenienti da un’ancestrale antenata comune, esistono otto gruppi di ntoro e coloro i quali posseggono lo stesso nome dell’anima sono ritenuti avere lo stesso spirito. Secondo tale concezione quindi padre e madre concorrono in egual misura alla procreazione e alla perpetuazione del lignaggio. Inquadrando il ruolo delle queen mother di questa specifica area in un’ottica di parallelismo di genere, Stoeltje (Stoeltje, 1997) fornisce un quadro delle loro attività. Si è detto che re e regina ricoprono due cariche parallele e complementari inscindibili l’una dall’altra. Entrambi hanno la propria residenza ed il proprio seggio (simbolo del potere reale, qualcosa di simile a quello che è il trono per i monarchi europei); i due operano a stretto contatto consultandosi frequentemente. Una delle responsabilità principali di ogni queen mother deriva dal suo ruolo di “madre” nei confronti del re, con tutto ciò che questo comporta. Nel sistema di discendenza matrilineare, il sangue e l‘appartenenza al lignaggio si trasmettono per linea femminile, in un lignaggio che detiene il seggio quindi questa trasmissione riguarderà anche il potere reale. E’ in questo senso che può essere intesa la maternità della regina nei confronti del re, infatti uno dei suoi compiti riguarda la scelta, che dovrà essere approvata dagli anziani del lignaggio, del futuro monarca nel momento in cui il posto diventa vacante. 88 Non si hanno fonti certe riguardo al coinvolgimento del re nella scelta della sua queen mother, ma le fonti di Stoeltje riferiscono che nessuno dei due potrà essere coinvolto nella deposizione dell’altro in caso di cattiva condotta. Tale incarico spetta agli anziani che osserveranno attentamente il loro comportamento. I due appartengono entrambi al lignaggio reale, ma difficilmente la relazione di parentela che intercorre tra loro sarà del tipo madre-figlio. Più frequentemente questi saranno fratello e sorella oppure zio/zia e nipote etc. Il ruolo di madre nei confronti del re assume connotati politici in quanto la regina dovrà avere cura di consigliarlo sulle questioni attinenti gli affari politici nelle aree di loro competenza e su tutti gli affari che riguardano la sfera del sacro affinché non vengano violati importanti tabù. La queen mother è colei che detiene la memoria genealogica del lignaggio e che conosce a fondo le norme della tradizione. Questa sua conoscenza, unita alla saggezza che ci si aspetta provenire da qualunque madre, devono essere messe a disposizione del re per consigliarlo, sostenerlo e proteggerlo. Un proverbio ashante recita che “ il re succhia il seno alla regina” (Stoeltje, 1997: 58), ossia: il nutrimento del re, sotto forma di saggezza proviene dalla sua queen mother. Uno degli ambiti di azione più rilevanti per entrambi risiede nella gestione delle controversie che possono sorgere all’interno della loro giurisdizione. I casi di natura pubblica o le dispute che riguardano il possesso delle terre sono prerogativa dei re in quanto tradizionalmente è stato uno dei suoi predecessori ad assegnarle in forma più o meno permanente alla popolazione. Le altre questioni possono essere portate all’attenzione di entrambi, ma generalmente le liti che occorrono tra donne a livello domestico e non, o quelle che insorgono tra moglie e marito, vengono presentate alle corti delle queen mother, nelle loro rispettive residenze. Le ͻhema e la Asantehemaa dispongono di un gruppo di portavoce denominati Akyeame che fanno da tramite tra queste e chi viene ricevuto a colloquio. Generalmente le regine madri sono assistite dagli anziani che le consigliano in merito alle risoluzioni da adottare. Il più delle volte colui che verrà ritenuto colpevole dovrà pagare una multa o eseguire 89 un rituale conciliatorio. Ogni queen mother inoltre farà regolarmente visita alla famiglia del re e farà in modo di mantenere la pace al suo interno. Da una prima ricognizione intorno al significato simbolico del suo ruolo di madre e della sua posizione come giudice, sembra uscire fuori l’immagine di una figura che, oltre ad avere su di sè la responsabilità del re e del lignaggio, sia anche responsabile della condotta delle donne e, più in generale, dell’equilibrio all’interno della sua area di competenza. Il loro ruolo in quanto capi e le loro corti sono riconosciuti a livello istituzionale e tradizionale. La risoluzione delle controversie non avviene in modo informale, ma all’interno di una corte vera e propria, poco importa se a livello di villaggio questa coinciderà con il compound di residenza. Le queen mother ashante, sono ritenute essere in diritto e dovere di esercitare la propria competenza in materia di norme tradizionali, per mantenere l’equilibrio sociale e il loro ruolo di giudici è istituzionalizzato nella corte. Tra le sfere di azione in ambito rituale se ne possono citare due, come esempi di intervento a livello di lignaggio e nei confronti delle donne della sua giurisdizione. Ogni sei mesi re e regina devono svolgere un rituale di purificazione dei rispettivi seggi, ma mentre la presenza del re non è richiesta durante la cerimonia dello seggio della sua queen mother, quest’ultima dovrebbe partecipare alla purificazione di quello del re. Il seggio, simboleggiando il potere regale, incorpora anche quello dei sui precedenti detentori. Essendo la regina madre colei che possiede la memoria genealogica di tutto il lignaggio, nonché madre dello stesso, ella si pone come tramite ideale tra il presente e il passato assicurando la continuità del regno. Per quanto riguarda le attività svolte nei confronti delle altre donne, ella è responsabile dell’inserimento, in un apposito registro, di tutte le ragazze che raggiungono l’età della pubertà. Poiché sarebbe disdicevole per una ragazza, rimanere incinta prima che essa sia dichiarata ufficialmente fertile, la queen mother deve assicurarsi che la giovane non sia in stato interessante prima di effettuare la registrazione. Al di là delle pratiche comuni, è interessante notare l’utilizzo della posizione di capo, da 90 parte di qualcuna, nello sviluppo economico e sociale delle donne in generale. Stoeltje riporta l’esempio di Nana Ama Serwah Nyarko, Offinsahemaaa della divisione di Offinso. Questa al momento della sua installazione aveva trent’anni e ha chiesto consiglio a membri del clero e insegnanti su come essa avrebbe potuto agire per promuovere il benessere tra le donne. Per acquistare la fiducia di queste ha reintrodotto il Dabone, un costume che era stato abolito in seguito a pressioni della chiesa cattolica e che prevedeva l’assenza dai campi per un giorno a settimana in segno di rispetto della madre terra Asase Yaa. L’Offinsahemaaa ha istituito un incontro mensile con tutte le queen mother sotto la sua giurisdizione e come membro attivo del movimento “31 Dicembre” 34 le ha esortate ad associarsi al gruppo. Visto che le regine madri sono tenute fuori dalle case regionali e nazionali dei capi, la militanza in associazioni femminili ad ampio raggio potrebbero costituire un momento formativo e di organizzazione mirati allo sviluppo e al raggiungimento di un miglior tenore di vita. Mijke Steegstra (Steegstra, 2009), nel suo lavoro sulle regine madri tra i patrilineari krobo35, mostra come queste utilizzino l’associazionismo per rafforzare la loro influenza in termini di azioni concrete e mirate. Fino al XVIII secolo non c’è traccia, nell’area, di un’istituzione simile alla chieftaincy e le responsabilità politiche, giudiziarie e religiose erano concentrate nelle mani dei sacerdoti (djemeli). Secondo Steegstra, l’adattamento al modello akan avvenne in concomitanza con l’instabilità del XVIII secolo, che portò i capi della guerra ad assumere sempre più rilievo. Steegstra non riferisce tuttavia di capi guerrieri che avessero assunto le prime cariche di potere come regnanti. Egli propone che tra i cambiamenti che hanno portato alla creazione di nuove strutture di governo tradizionale, ci siano l’espansione del 34 35 Il movimento delle donne 31 Dicembre è stato creato nel 1982 per volontà di Nana Konadu Agyeman Rawlings, moglie dell’allora presidente del Ghana. La nascita del movimento si inserisce in un più ampio contesto di riforme volte a favorire il coinvolgimento della popolazione nei processi decisionali ed è mirato a favorire la creazione di progetti di sviluppo da parte delle donne. Le iniziative si rivolgono in particolar modo alle aree rurali e negli ultimi anni ha visto la partecipazione sempre più attiva di regine madri provenienti da tutto il Ghana. Cfr http://www.modernghana.com/news/329173/1/31st-december-womens-movement-marks-29th-anniversa.html I krobo appartengono al gruppo linguistico Ga-Dagme e occupano le zone a sud-est del Ghana, vicino al lago Volta. Il governo coloniale ha diviso il loro territorio in due aree denominate rispettivamente Krobo Ilo e Krobo Manya. Situati tra gli ewe e gli akan, hanno preso questi ultimi come modello di riferimento per l’istituzione di un governo tradizionale, sotto forma di chieftaincy, a partire dal XVIII secolo. 91 mercato di olio da palma e i contatti sempre più frequenti con le popolazioni akan e con quelle occidentali. L’attuale organizzazione politica, a livello tradizionale, ricalca in tutto e per tutto quella ashante. Per ognuna delle due aree tradizionali stabilite dal governo coloniale, Krobo Ilo e Krobo Manya, c’è un capo denominato konor. Ognuna di queste aree è composta da sei divisioni rette da un proprio capo e a loro volta formate da unità minori composte da grandi gruppi di discendenza, ognuno dei quali ha a capo il suo asafoatse, un ex capo militare. L’introduzione della carica di regina madre (manye in dagme) non avvenne in contemporanea con la creazione dei titoli maschili, si è trattò di un processo graduale incominciato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ancora prima dell’istituzione del titolo di manye (lett. Madre), le fonti d’archivio consultate da Steegstra36riportano notizie dalle quali si può dedurre che le sorelle dei re godessero di un discreto grado di prestigio e influenza (Steegstra, 1999). Tanto per fare un esempio: nel diario di un missionario che si trovava nell’area nel 1848 è scritto che la sorella di Odonkor Azu, primo konor riconosciuto dei manya krobo, era stata inviata presso di lui in qualità di messaggero per informarsi sul perché costui non si fosse recato in visita a casa del re. Questa notizia, oltre a rendere conto della partecipazione delle sorelle reali alla vita del regno, riferisce di un costume ampiamente diffuso tra gli akan e cioè la necessità che qualunque straniero in visita presso le loro terre si rechi dal capo locale per presentarsi e dichiarare il motivo della propria presenza. Nel 1892 Emmanuel Mate Kole fu insediato come konor. L’istituzione della carica di regina madre è dovuta alla sua volontà e pare essere legata a una più larga diffusione delle cariche maschili a ogni livello dell’organizzazione politica krobo. La prima regina madre risulta essere stata Giuliana Makutu Sakite, figlia del re precedente e cugina di Mate Kole. A quanto pare questa fu anche una delle prime bambine della famiglia reale ad aver ricevuto una formazione scolastica presso la missione di Basilea. 36 Si tratta di rapporti e diari redatti dai missionari della confessione protestante di Basel che vanno dal 1857, data di fondazione della prima missione permanente nell’area, al 1917, anno in cui i missionari hanno abbandonato la Costa d’Oro. 92 Gli informatori di Steegstra riferiscono che alla morte di suo padre, Giuliana fu chiamata dal governatore britannico per avere consigli sulla nomina del successore (Steegstra, 2009: 110). Questo aneddoto può essere letto come il risultato della familiarità, da parte delle amministrazioni britanniche, con il modello akan, dove le queen mother sono direttamente coinvolte nella selezione del futuro regnante, ma in quel periodo la carica di manye non era ancora stata introdotta, né la scelta del nuovo capo è mai determinata dall’intervento delle regine madri. Potrebbe darsi che Giuliana godesse di una certa influenza e che, in essendo stata istruita in una missione protestante, fosse vista come il ponte ideale tra il governo coloniale e le locali strutture di potere. La scelta ricadde su Emmanuel Mate Kole che era stato istruito assieme a lei. Non è da escludere che la nascita del ruolo di regina madre sia stata condizionata anche dai rapporti che legavano i due cugini e dalle capacità diplomatiche di quest’ultima. Inoltre le autorità coloniali, avendo in qualche modo seguito l’usanza akan per la selezione del nuovo re, potrebbero avere avuto una certa influenza nella creazione del titolo di manye. Nel 1939 fu scelto come erede al trono Fred Mate Kole e nel 1947, tre anni dopo la morte di Giuliana Makutu Sakite, fu installata come regina madre Manye Maku Aplam, una cugina di primo grado di Emmanuel Mate-Kole (Steegstra, 2009). Il nuovo konor proseguì la campagne di riforme amministrative avviate dal suo predecessore: cercò di collegare il ruolo delle regine madri alla promozione dello sviluppo e, nel fare ciò, istituì la carica di Yewie uno manye (“regina madre delle giovani donne”). Pur non essendo legittimata da un proprio seggio e non avendo posto nel consiglio di stato, la Yewie uno manye ricopre un ruolo di primaria importanza in quanto responsabile della promozione di attività mirate alla crescita delle attività economiche delle giovani. Durante il regno di Fred Mate Kole il numero di regine madri aumentò considerevolmente e oggi ogni capo fa in modo di avere la propria manye al suo fianco. Si è detto che il governo tradizionale krobo ha preso le mosse dalla chieftaincy akan, in 93 particolar modo ricalcando il modello ashante. Tuttavia vi sono differenze fondamentali tra le queen mother di questi ultimi e la carica di manye. A livello simbolico troviamo che il seggio di queste ultime ha un valore puramente onorifico, ma non è consacrato al legame con gli antenati come è invece per tutte le queen mother akan e per i re krobo. E’ solo attraverso la cerimonia di installazione che il loro ruolo viene legittimato, ma il loro potere non si lega a quello degli antenati nonostante la loro appartenenza al lignaggio reale. Questo fatto potrebbe essere associato al sistema della discendenza patrilineare, all’interno del quale il potere femminile non può essere trasmesso direttamente Tuttavia tra i matrilineari ashanti abbiamo visto che entrambi i seggi sono connessi al potere degli antenati. La spiegazione, a parere di chi scrive, va cercata nella modernità stessa della carica di manye, collegata fin dalla sua nascita con la nozione di sviluppo femminile. Non c’era alcun bisogno che le regine madri trovassero legittimità attraverso la connessione con le precedenti regine. Inoltre collegare la manye al potere ancestrale avrebbe posto le regine madri allo stesso livello dei capi, minandone potenzialmente l’autorità. Si noti che, sebbene attualmente la quasi totalità delle regine madri più giovani ha ricevuto un’adeguata istruzione, esistono ancora diversi capi anziani che preferiscono sostenere una donna analfabeta e manipolabile rispetto a una donna di “moderna” generazione che, preparata e consapevole, potrebbe oscurarne l’immagine (Steegstra, 2009). Una seconda importante divergenza è data dal fatto che, come accennato, la manya non ha voce in capitolo nella selezione del futuro capo, cosa che rientra tra le principali prerogative delle regine madri akan. Sono gli anziani, con il sostegno del re, a determinare la successione e la manya non ha il diritto di trasmettere il potere. Anche in questo caso non è semplice stabilire un confine tra le influenze del sistema di discendenza nella reinvenzione del modello e le esigenze alle quali questo modello corrisponde. Stando a quanto riferito da Stoeltje per gli ashante, tra questi ultimi non si può affermare con certezza l’esclusione dei re dalla selezione della futura regina (Stoeltje, 94 1997). Tra i matrilineari nzema (popolazione akan molto vicina a quella ashante), il capo, almeno a livello formale, non ha alcuna influenza nel determinare la nuova regina e lo stesso discorso è valido per gli akan di Akuropon, a sud est del Ghana (Gilbert, 1993). Il fatto che il sistema di discendenza sia matrilineare è solo uno dei motivi che determina la posizione della regina madre nella selezione del nuovo re. Essa è la persona che conserva la memoria della genealogia del lignaggio ed è in virtù di questa sua conoscenza che il nuovo re potrà legittimamente essere insediato. La modernità dei sistemi di governo tradizionale krobo non rendeva necessaria la conoscenza di genealogie tanto recenti formatesi in un periodo in cui la scrittura e l’archiviazione dei dati erano diffuse da tempo. Senza contare inoltre che mettere nelle mani delle donne un potere di questo tipo avrebbe potuto ancora una volta minare l’influenza dei capi. L’altro scarto notevole è dato dalla risoluzione delle controversie. Mentre tra gli ashanti uno dei compiti principali risiede appunto nella risoluzione dei conflitti, tra i krobo questo compito pare essere marginale, poiché generalmente le donne sono dette risolvere i loro problemi in modo autonomo, magari ricorrendo all’aiuto degli anziani del proprio lignaggio. Al di là di queste variazioni quello che appare essere degno di nota è che l’introduzione di un governo tradizionale mutuato da una popolazione vicina è stata dettata dalle spinte verso la modernizzazione. Le nascenti cariche di regine madri sono state collegate alle idee di sviluppo e partecipazione portate avanti da soggetti politici che avevano avuto larga parte nella lotta all’emancipazione del paese dal retaggio coloniale. I movimenti per la mobilitazione femminile, come abbiamo visto nel caso dell’Offinsahemaa, fungono anche da strumento di raccordo per le politiche di sviluppo da parte delle regine madri, ma si tratta di situazioni che non sono attecchite in profondità, non fosse altro che per le difficoltà a sostenere economicamente le spese degli spostamenti. Tra le regine madri krobo, il cui ruolo si è sviluppato in un contesto di spinte modernizzatrici, la tendenza a lavorare insieme in una prospettiva di sviluppo femminile si è sviluppata in parallelo all’aumento delle donne che detnevano il titolo 95 Intorno agli anni 60, il CPP 37 aveva creato i comitati di sviluppo cittadini nei quali erano coinvolte molte di loro, già durante il periodo in cui la regina madre dei manya krobo era Manye Maku Aplam. Il dato di maggiore interesse in questo senso è la creazione ad opera di Manye Mamle Okleyo, dell’associazione delle “queen mother krobo” (MKQMA), inaugurata ufficialmente nel 1998. Manye Mamle Okleyo era stata insediata nel 1983 e durante i sette anni di interregno, trascorsi tra Konor Azu Mate-Kole e Sakite II, aveva governato il territorio manya krobo come se fosse stata un konor. Durante gli anni della sua attività, sono state insediate molte regine madri, ma il segno più grande del suo lavoro consiste appunto nella promozione di azioni collettive mirate allo sviluppo. L’ MKQMA, oggi registrata come ong, tiene incontri mensili a Koforidua, capitale della regione occidentale krobo. Tra i suoi membri (370 al momento della ricerca di Steegstra) ci sono anche le regine madri del mercato. Questa cosa ha attirato alcune critiche, soprattutto da parte dei membri più anziani della società, manya e non, che sostengono che le donne del mercato non hanno il proprio seggio e non possono quindi essere coinvolte nelle attività delle regine madri. In questo caso il seggio acquisisce importanza e viene posto come discriminante nonostante il suo valore sia fondamentalmente rappresentativo. I rapporti tra chi detiene il titolo e le donne dei mercati, nonché il ruolo di queste all’interno dell’associazione meriterebbero sicuramente un’analisi più approfondita. E’ comunque interessante notare che, mentre tra gli ashante era stata un’ͻhemma (una delle cariche di livello più elevato) a contestare i titoli delle market queen, in quanto non riconoscibili dalla tradizione, tra i krobo queste sono entrate a far parte del più ampio gruppo di regine madri associate per volontà della sua fondatrice nonché regina di un’intera regione tradizionale. All’interno dell’associazione, queste donne uniscono le loro forze e organizzano forme 37 Il CPP (Partito della Convenzione dei Popoli) nasce nel 1949 durante la lotta per l'indipendenza del (1956). Il suo fondatore fu il primo presidente Osagye Dr. Kwame Nkrumah. E 'stato il primo partito a governare il Ghana dopo l'indipendenza. Il CPP si è posto come un veicolo di emancipazione della nazione e di tutta l'Africa. L’immagine che lancia è quella di un partito di massa che abbraccia contadini, pescatori e agricoltori e si rivolge tutti gli strati sociali della popolazione. Per saperne di più cfr: http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/cpp.php 96 di microimpresa e solidarietà. Una delle attività perseguite con maggior abnegazione riguarda l’assistenza dei bambini che hanno perso i genitori a causa dell’AIDS/HIV. Attraverso l’autofinanziamento (raccolta fondi, ma anche produzione e vendita di monili e saponi artigianali) hanno creato un fondo destinato a sovvenzionare le famiglie che accetteranno di prendere gli orfani in affidamento. In questo modo i bambini non subiscono ulteriori stigmatizzazioni che deriverebbero dal loro isolamento in un orfanotrofio e le famiglie che decidono di partecipare al progetto sono supportate economicamente. Un altro ambito di intervento riguarda la promozione dell’educazione femminile. Uno dei membri più attivi nel gruppo ha riferito a Steegstra che il loro motto consiste nel detto: “se educare un uomo vuol dire educare un individuo, educare una donna vuol dire educare una nazione” (Steegstra, 2009: 115). Gran parte dei membri dell’associazione hanno un discreto grado di istruzione e sono piuttosto benestanti. Molte tra loro esercitano pressioni per favorire l’ingresso delle donne nelle case regionali e nazionali dei capi e poter partecipare attivamente ai processi decisionali, ma per il momento non paiono esserci aperture in questo senso. Le regine madri, che per ragioni economiche non sono in grado di affrontare gli spostamenti previsti per le riunioni mensili, si organizzano a livello locale attraverso reti di solidarietà e raccolte fondi che avvengono per lo più durante i funerali, una delle rare occasioni di ritrovo con le loro “colleghe” più o meno vicine. I krobo si sono impossessati del modello tradizionale akan, piegandolo alle loro esigenze; questo è avvenuto in seguito alle esigenze poste da contingenze contemporanee ed è stato sempre sulla scia di rapidi cambiamenti che il ruolo della manye si è potuto configurare come direttamente collegato alle esigenze reali della popolazione. Questo è stato possibile solo grazie alla presenza di politiche nazionali che si muovevano in una certa direzione ma, mentre tra gli akan la commistione tra tradizione e modernità pare essere ancora un’eccezione, tra i krobo sta diventando la norma. Non stupisce quindi che la presenza delle regine del mercato sia stata accolta di buon 97 grado da molte regine madri; il loro ruolo è stato legato quasi fin dalla nascita alla nozione di sviluppo, di conseguenza persone avvezze alle attività economiche non possono che essere le benvenute in un’associazione che si propone di favorire il raggiungimento del benessere femminile attraverso microattività generatrici di reddito. Per concludere si può dire che l’adozione della chieftaincy da parte dei krobo è stata una scelta operata da uomini che hanno rimodellato la base akan a seconda delle proprie esigenze. Nello stesso tempo le loro regine madri stanno creativamente cercando di ritagliarsi spazi di azione attraverso canali più aperti ad ascoltare le loro proposte in quanto rappresentanti dei bisogni femminili. Se le cariche maschili sembrano essere rivolte più allo spazio chiuso della propria personale area di influenza, le regine madri krobo, e in una certa misura anche quelle ashanti, paiono avere una visione più ampia che miri allo sviluppo e al miglioramento della condizione della donna a livello nazionale. Capitolo IV Il ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History: Finora è stato effettuato un excursus etnografico sul modo in cui, in diverse aree e in diversi periodi storici, le donne hanno esercitato ed esercitano forme di potere e autodeterminazione. In molti casi esse sono depositarie di saperi fondamentali al mantenimento dell’equilibrio sociale e che, in quanto tali, andrebbero tutelati e valorizzati. Si è potuto osservare che anche in assenza di ruoli tradizionalmente accreditati, le donne hanno saputo cogliere le opportunità contingenti al fine di migliorare la propria condizione. Quello che mi propongo di fare in questo capitolo, attraverso la descrizione di un museo sorto recentemente in area nzema, è proporre l’applicabilità del concetto di patrimonio come fattore di sviluppo al contesto africano. Le proposte di sviluppo locale, in Africa, dovrebbero tenere in grande considerazione la posizione della donna, la quale è spesso il centro di gran parte delle attività 98 economiche nelle aree rurali, ma nonostante questo viene spesso lasciata al margine delle concrete politiche decisionali. Il loro potenziale andrebbe quindi promosso sia attraverso la tutela e valorizzazione dei saperi di cui sono depositarie, sia favorendo la loro partecipazione, anche a livello associato ad attività mirate al rafforzamento della loro condizione. Attraverso la mia esperienza di campo, mi propongo di sollevare questioni in merito all’effettiva parte che le regine madri nzema potrebbero svolgere nel loro territorio in questo senso. Inoltre tenterò di avanzare alcune proposte di percorsi volti al rafforzamento femminile nell’area. Infine abbozzerò un’ipotesi d’installazione sulle regine madri nzema che parta dalla mia indagine e che sia in linea con l’impostazione generale del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History. 1 Musei e sviluppo 1.1 Quadro generale Il termine sviluppo entra a far parte dello statuto dell’ICOM (International Council of Museums) nel 1971, nel corso di un dibattito tutt’ora in atto che metteva in discussione l’istituzione museale in un tentativo di ridefinizione della sua funzione e legittimazione sociali. Nel corso di quegli anni si incominciò a parlare di eco-musei tratteggiandoli, in linea di massima, come una tipologia di musei volti a promuovere la conoscenza dell’ambiente da parte del pubblico, sensibilizzandolo nei suoi confronti e spronandolo alla sua difesa. Si tratta di una realtà che ha assunto forme estremamente diverse, non solo da paese a paese, ma da realtà a realtà e che è stata recentemente inquadrata come pratica partecipata di valorizzazione del patrimonio culturale L’eco-museo assume quindi un valore diverso da quello assegnato al museo inteso come istituto di cultura e sostituisce il concetto di collezione permanente con quello di patrimonio comunitario e collettivo, dove il patrimonio è inteso come l’attività congiunta e creativa dell’uomo e della natura (De Varine, 2005) e come eredità di conoscenze e valori che, agito nel presente e a partire dallo stesso, può assumere senso e 99 configurarsi come fondamentale fattore di sviluppo (Jalla in De Varine, 2005). Non esiste una regola fissa per questo tipo di esperienza; piuttosto il concetto di ecomuseo si è allargato fino a raccogliere più idee tra loro complementari. Tra queste troviamo la centralità dell’intero patrimonio di una comunità o di un territorio rispetto a qualsivoglia collezione; il fatto che l’ambito di azione si estenda all’intero territorio; l’autonomia decisionale della comunità in merito ai propri ambiti di partecipazione; la vocazione educativa della pratica eco-museale e l’idea che la conservazione e la valorizzazione siano mezzi di promozione piuttosto che fini o funzioni (De Varines, 2005). Questa pratica è andata ad integrare quegli approcci alla gestione dei patrimoni locali che trovano la loro espressione nei musei di sito (o centri di interpretazione), in quelli comunitari e in quelli del territorio. Ognuna di queste tre espressioni fa riferimento a pratiche e tipologie specifiche. I centri di interpretazione possono avere o meno una collezione; la loro finalità consiste nel valorizzare un tema o un contesto specifici. Il patrimonio si trova all’esterno della struttura che è finalizzata, attraverso il suo commento, a preparare il visitatore. Esso è quindi un punto di partenza o di ritorno rispetto a un incontro che ha luogo sul territorio che lo ospita. Il museo del territorio può essere considerato come un’applicazione più ampia del centro di interpretazione, con la differenza che mentre quest’ultimo è di carattere prevalentemente tematico, il primo ha come obiettivo la valorizzazione del territorio nella sua globalità. Anche in questo caso il museo si pone come tramite, e strumento di interpretazione di quanto è all’esterno. Le popolazioni presenti sul territorio non partecipano alla sua realizzazione, ma il museo dovrebbe farvi costantemente riferimento integrandole in tutte le sue fasi di crescita e in una prospettiva di sviluppo. (De Varines, 2005) Si noti che non necessariamente esiste identità tra un territorio e le sue comunità e che un museo del territorio non è in sé per sé un museo di comunità. Il museo comunitario infatti non parte dal territorio, ma nasce per volontà di una comunità che opera delle scelte soggettive ed esprime se stessa. Museo comunitario e patrimonio tendono a coincidere e sono espressione 100 dell’orizzonte di senso, selezionato da una specifica comunità che si guarda dentro in un momento specifico. Poiché nasce nel presente ed esprime valori contingenti, soggetti a mutamenti, il museo comunitario è soggetto a trasformazioni o finanche alla propria dissoluzione. Le realtà brevemente passate in rassegna possono essere accomunate tra loro da due caratteristiche. Innanzitutto l’idea di patrimonio cui fanno riferimento prende le distanze dalla concezione istituzionalizzata che ha come fulcro l’eccezionalità dei beni (culturali e ambientali) la cui fruizione e tutela sono regolamentate e finalizzate al turismo di massa. Per contro, il patrimonio concepito come bene comune che vive nel presente, deve essere promosso ai fini dello sviluppo ( De Varines, 2005). In quest’ottica i responsabili primi della gestione e salvaguardia del patrimonio sono coloro che lo mantengono in vita e per i quali esso costituisce il retaggio culturale di riferimento. A queste due opposte tendenze ne corrispondono altre due, ossia quella di direzionare le attività di promozione e tutela per beneficiare dei flussi turistici e quella che invece, concentrandosi sulla comunità, la pone al centro delle politiche da intraprendersi.38 Un’altra distinzione, di tipo interno, si rende necessaria per quelle realtà che operano a livello locale. Esistono due tipi di tendenze: una riguarda le istituzioni che si rivolgono al passato e che ruotano intorno a collezioni di oggetti morti; mentre l’altra riguarda quelle che si focalizzano sulla partecipazione della comunità come agente di un patrimonio vivo e attivo. L’attuale panorama museale è caratterizzato dall’invecchiamento di molte strutture e dalla costante diminuzione di finanziamenti. Mentre per quanto riguarda i siti di una certa rilevanza, i flussi turistici giustificano l’intervento di fondi pubblici e privati, per quanto riguarda i musei locali la situazione è differente. Nel periodo successivo alla II guerra mondiale, i rapidi processi di urbanizzazione e globalizzazione hanno provocato, soprattutto nelle nascenti classi medie europee, una sensazione di spaesamento. Come conseguenza, queste si sono rivolte al passato alla ricerca di un orizzonte di 38 De Varines, intervento tenutosi a Pontebernardo(CU)il 22 maggio 2011 101 senso che stava venendo a mancare. In Italia, tanto per fare un esempio, negli anni '60 iniziò una diffusa campagna di raccolta di oggetti legati al mondo contadino in via di dissoluzione sotto la crescente urbanizzazione in atto. Tale fenomeno è stato letto come l'effetto di un sentimento nostalgico, prodottosi dall'allontanamento di condizioni preesistenti, in concomitanza con il mancato raggiungimento di situazioni immaginate come nettamente migliori (Cirese, 2002). A livello europeo, a cavallo tra gli anni 60 e 70, si è assistito a un proliferare di musei. Questa tendenza si è amplificata nel ventennio successivo, sotto la speranza di una rapida crescita economica legata allo sviluppo del turismo di massa. La realizzazione di strutture che, a vario titolo, si caratterizzavano per la loro vocazione locale, trovava la propria giustificazione nei discorsi sul patrimonio come collante sociale e come strumento identitario di preservazione della memoria delle comunità. Pur non sminuendo il valore del patrimonio come eredità di conoscenze e valori in cui una comunità si rispecchia, occorre fare attenzione a non cadere in una retorica identitaria astratta, a-storica e a-critica che appiattisca le diversità insite in ogni collettività. Senza entrare nel merito del dibattito intorno alle questioni sulla costruzione dell’identità e sulla sua potenziale strumentalizzazione politica, bisogna comunque ricordare che qualsivoglia collettività è composta da elementi differenti i cui interessi e le cui esigenze non sempre coincidono e che anzi spesso entrano in conflitto tra loro. Di conseguenza, qualsivoglia iniziativa in ambito locale non può prescindere da queste relazioni conflittuali e deve tenere conto di tutti gli attori, politici e sociali, che potrebbero concorrere alla stessa. Il panorama attuale è caratterizzato da un molteplicità di realtà museali, ormai slegate dal contesto nel quale si erano prodotte e che non hanno gli strumenti (o la volontà) di raccogliere gli imput che giungono dalla modernità. Essi non sono cioè nelle condizioni di esprimere la conflittualità e il mutamento né tantomeno di creare connessioni sociali. Rischiano di trasformarsi in realtà asettiche, prive di una connessione con il tessuto vivo della società, perdendo il loro potenziale attrattivo e non ultima la loro già debole sostenibilità economica. La tendenza ad accordare finanziamenti a istituti e siti prestigiosi e rilevanti va a 102 scapito delle realtà che operano a livello locale e che vanno quindi necessariamente ripensate. Il punto fondamentale, emerso già negli anni 70 e richiamato da De Varines (De Varines, 2005), riguarda la necessità di legare il concetto di patrimonio a quello di sviluppo locale inteso come miglioramento sostenibile della vita della comunità. Il patrimonio non costituisce solo il retaggio materiale e immateriale del passato, ma anche e soprattutto la cultura viva; esso va quindi considerato come ponte con il futuro. Così come, ogni processo che abbia come oggetto lo sviluppo locale deve tenere conto del patrimonio, quest’ultimo acquisisce senso solo se preso come riferimento costante di ogni processo di sviluppo locale ( De Varines, 2005). Conseguentemente, è in una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita che la valorizzazione del patrimonio acquisisce senso, ed è solo a partire da questo che i cambiamenti connessi ad ogni piano di crescita possono essere ammortizzati dalle comunità senza causare eccessivi traumi. I musei locali, in quanto espressione diretta del patrimonio, sono responsabili del territorio e del coinvolgimento di tutte le parti politiche e sociali che detengono il patrimonio stesso mantenendolo in vita. Compito di tali istituzioni è quindi quello di adeguarsi alle esigenze reali dell’uomo moderno integrandosi alla comunità. Dovrebbero essere strumenti flessibili, centrati sulla comunità ed avere come scopo principale quello di servire l’essere umano, sia accompagnandolo durante le fasi di cambiamento, sia aiutandolo a ripensare e ridefinire se stesso in armonia con il proprio contesto ambientale e con il proprio universo culturale. Queste tendenze, opportunamente rimodellate, potrebbero giocare un ruolo non indifferente in un contesto sottoposto a rapidi e traumatici come quello africano. La stessa idea di museo nasce in Africa ad opera degli occidentali. Se questa istituzione è in fase agonizzante presso le popolazioni che l’hanno prodotta, essa necessita di ripensamenti ancora più urgenti presso popolazioni ai quali è stato imposta e che non ne hanno mai tratto alcun tipo di vantaggio. 1.2 L’istituzione museale Africa 103 Quando si parla di processi di patrimonializzazione e, nello specifico, di musei africani non si può prescindere dal discorso coloniale. Sia che si tratti di contesti occidentali, sia che si faccia riferimento al continente africano, i musei e le collezioni africane sono nate come istituzioni coloniali pensate per un pubblico europeo. Le prime raccolte etnografiche allestite in ambito occidentale si costituivano come laboratori di rappresentazione dell’alterità, frutto di viaggi di missionari, commercianti e avventurieri. Gli oggetti esposti venivano presentati in una dimensione cristallizzata e a-storica, frutto di un paradigma evoluzionista che, decontestualizzandoli dal loro territorio di provenienza e sottraendogli la loro funzione, li relegava a espressioni d'arte primitiva. Questo tipo di impostazione trovava la sua ragione d'essere nella ricerca di consenso alle missioni coloniali, che venivano quindi ritenute necessarie per la “missione civilizzatrice” di popolazioni presentate come ferme a uno stadio evolutivo inferiore rispetto ai più moderni popoli occidentali. Tale approccio, presente anche laddove gli intenti non erano spiccatamente propagandistici, contribuì alla costruzione di un immaginario permeato da una forte tensione esotizzante che escludeva ogni problematizzazione di tipo,storico politico e sociale. Si diffuse una sorta di mania nei confronti degli oggetti di produzione africana concepiti, è bene ricordarlo, come oggetti d'arte primitiva, senza che però a tale fascinazione corrispondesse alcuna volontà conoscitiva nei confronti delle civiltà che li avevano prodotti. Nel mutato panorama odierno, con la presa di coscienza della necessità di instaurare un dialogo con la massiccia presenza di popolazioni immigrate dalle ex colonie, e con la presa di distanza dalla prospettiva evoluzionista, il ripensamento dell'esperienza museografica, sopra delineata, si va traducendo in diverse tendenze. Ai due estremi si collocano da un lato la scelta di ignorare le esigenze di rinnovamento degli impianti allestitivi e dall'altro quella di restituire alle popolazioni di origine le collezioni di cui ci si era indebitamente appropriati. Altrove si lavora in direzione della creazione di allestimenti temporanei che, 104 risemantizzando di volta in volta gli oggetti in contesti differenti, consentono il superamento di una visione straniata e a-storica, reincorporandoli in discorsi dotati di senso ed inquadrabili entro specifiche coordinate. Non mancano in questo panorama scelte che muovono verso una ridefinizione degli interi apparati espositivi. Un'altra interessante tendenza punta infine al coinvolgimento delle comunità presenti sul proprio territorio nella riorganizzazione e riallestimento delle proprie collezioni (Pennacini in Remotti, 2000). Per quanto riguarda le colonie, i governi si dotarono immediatamente di tre strumenti atti a esprimere il nuovo stato di cose: l'archivio, le carte geografiche ed il Museo. Le implicazioni di questo procedimento sono molteplici; la creazione di archivi, in una cultura dell'oralità, imponendo un nuovo modo per fissare il passato, crea squilibri non indifferenti non solo perché spesso impone logiche estranee attraverso uno strumento parimenti estraneo, ma anche perché con la delegittimazione degli strumenti di trasmissione dei saperi, si delegittimavano anche i contenuti da essi veicolati. Inoltre, sulle carte topografiche è del tutto assente la toponomastica locale. Quello che si viene a creare è l'imposizione di un nuovo ordine che, anche attraverso il concetto di etnia, istituisce categorizzazioni, crea gerarchie e rapporti sociali, costruisce nuovi immaginari attraverso la sostituzione dei simboli. “Questo è un po’ il contesto: l’estirpazione dello spazio e del tempo attraverso cui l’autopercezione collettiva dei popoli veniva sostituita dalle rappresentazioni del colonizzatore. E quindi il museo, così come ha vissuto e vive in Africa, è una gigantesca operazione da riferire a quella corrente filosofica che possiamo definire etnofilosofia” (Touadi, in Cristofano, Palazzetti, 2011: 172). I Musei coloniali in Africa, pensati non per le popolazioni locali, ma per gli europei che vivevano nelle città, diventano espressione di un nuovo ordine costruito, ancora una volta, senza alcuna attenzione ai processi e alle dinamiche conflittuali che lo avevano determinato. Intorno gli anni 50, ha luogo una sorta di operazione di “archeologia del sapere” da parte di missionari e studiosi. Questi incominciano ad interessarsi allo studio degli oggetti prodotti in terra africana, con la pretesa di restituire alle popolazioni locali il 105 passato che precedentemente avevano estirpato. Ma il criterio che informa queste forme di rappresentazioni continua ad essere un criterio di stampo occidentale e dà luogo, ancora una volta, a istituzioni lontane dal vissuto collettivo. I musei continuavano a vivere in una torre d’avorio, privi di ogni rapporto con i luoghi di produzione e riproduzione del senso legato agli oggetti esposti, i quali perdevano logicamente ogni interesse agli occhi delle popolazioni locali. L’oggetto diventava “altro” non solo per il processo di de-funzionalizzazione e musealizzazione cui era sottoposto, ma soprattutto in virtù del fatto che “altri” erano coloro i quali gli attribuivano un certo significato (Touadi, in Cristofano, Palazzetti, 2011). Negli anni che seguirono le indipendenze nazionali, la tendenza è stata quella di una problematica riappropriazione della memoria storica da parte delle nascenti istituzioni governative. Spesso l'impostazione ha teso a prescindere dalle contaminazioni dinamiche con il quotidiano, concentrando il focus su una costruzione identitaria basata su anacronistiche condizioni precoloniali. Altre volte si dà il caso che i musei non subiscano sostanziali revisioni rispetto al periodo in cui vennero realizzati, mantenendo fondamentalmente un’impostazione di stampo coloniale. Quello che permane è un modo di leggere il passato (e di rappresentarlo) secondo un’impostazione di stampo occidentale, a volte ancora intrisa di letture coloniali. Si tratta di realtà in cui mancano sia la dialettica tra il recupero del passato e il presente sia una visione complessa e articolata di una realtà in trasformazione. Questo non meraviglia più di tanto, in quanto il museo africano, come ricordato, nasce sotto una certa concezione e tale concezione viene trasmessa a coloro i quali si erano trasferiti nelle città e avevano ricevuto un formazione di stampo occidentale. Nel panorama attuale, la trasmissione orale della cultura sta perdendo smalto sotto le spinte globalizzanti della modernizzazione e della scolarizzazione e non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione e la sopravvivenza di determinati saperi. In siffatto contesto, costumi e credenze rischiano di venire travolti senza che ci sia il tempo per elaborare altri orizzonti di senso. 106 Alla luce di queste considerazioni, il ripensamento del ruolo dei musei nei territori africani è di vitale importanza. L'impostazione museale di stampo coloniale investe di sé le politiche dei musei nazionali, attraverso una rappresentazione che non tiene conto delle esigenze reali di coloro i quali vivono e vivificano il proprio patrimonio. E’ significativo che, sebbene l’occidentalizzazione del pensiero sia entrata a far parte dei sistemi di rappresentazione del passato, queste culture continuino ad essere radicate nell’oralità. L’heritage, il custom, il patrimonio, sono da inquadrarsi come un qualcosa che, ricevuto in dono dagli antenati, ha sempre a che vedere con le sue ricadute sul quotidiano. La prima cosa da tenere presente è che il rapporto con la tradizione e il rispetto per la stessa si legano direttamente al rapporto con e al rispetto per gli antenati (e con gli spiriti). Le storie locali, i miti di fondazione o le pratiche di medicina tradizionale, tanto per fare qualche esempio, ben lungi dall’essere reminiscenze di un lontano passato, agiscono nelle pratiche in modo diretto. Quello che qui è considerato heritage, è qualcosa di attivo che incide sulla vita delle comunità ed è qualcosa che va tutelato in quanto parte attiva delle culture africane. La concezione occidentale-istituzionale di tutela non è applicabile a un terreno di questo genere. L’idea di valorizzazione e promozione a livello locale dei saperi e delle pratiche, dovrebbe favorire le condizioni che ne consentano la roproduzione e creare un terreno a partire dal quale i processi di cambiamento siano guidati dalla popolazione in modo consapevole. Come si è già accennato sopra, le rapide trasformazioni in atto stanno seriamente compromettendo tutto questo insieme di pratiche e conoscenze, e il rischio di una loro rapida scomparsa, che lascerebbe il vuoto, va arginato attraverso delle strategie mirate ed elaborate di volta in volta a seconda dei contesti. I patrimoni africani mantengono la loro vitalità ed incidenza nel quotidiano e qualsivoglia operazione di salvaguardia e tutela non va inquadrata in un'ottica di "salvataggio" (raccogliere e censire prima che scompaiano del tutto), quanto piuttosto in una dimensione progettuale che miri al loro rilancio soprattutto tra i giovani. 107 L'approccio storiografico andrebbe messo in dialogo con le storie locali tramandate oralmente, e queste ultime dovrebbero essere registrate ed archiviate affinché non se ne perda memoria nelle nuove generazioni scolarizzate e cresciute in una cultura della scrittura. In questo senso i musei del locale, in una versione ibrida e concepiti come centri di cultura aperti sulle attività circostanti, potrebbero svolgere un ruolo di una certa rilevanza. Tali strutture dovrebbero puntare su una stretta collaborazione con le comunità locali che intendono salvaguardare e promuovere, tenendo conto delle trasformazioni e delle contaminazioni in atto, anche in funzione di uno sviluppo sostenibile, che miri alla gestione comunitaria delle potenzialità insite nel territorio e nelle pratiche locali. Si vuole a questo proposito rendere conto di un’esperienza che potrebbe essere definita come un buon esempio di pratica museale, verificatasi presso gli nzema del Ghana. 2 Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History Nel 2010 ho trascorso tre mesi e mezzo in territorio nzema, con lo scopo di partecipare alla realizzazione di un museo, il cui studio progettuale era stato avviato anni addietro. Durante questo periodo mi sono potuta confrontare con le problematiche di tipo sociale, politico, e materiale che stanno dietro a una proposta di così ampio respiro come la realizzazione di un museo locale pensato come centro per lo sviluppo. Tale complessità non può essere trasmessa solamente dalla narrazione del percorso espografico e dalle poetiche che soggiacciono l’allestimento. Si rende pertanto necessario raccontarne i propositi e dare un nome a tutte le istituzioni che hanno cooperato assieme. Vanno sottolineate le possibilità di sviluppo e le aperture sul territorio e per rendere comprensibili le iniziative auspicate nel progetto occorre dare un’idea del contesto nel quale questo è nato e si è sviluppato. Nel corso di questo paragrafo, si procederà a fornire tutte le indicazioni necessarie alla comunicazione dell’esperienza che ha portato alla nascita del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History. 108 Si fornirànno pertanto indicazioni intorno alla popolazione nzema e in merito alla storia del forte che ha accolto il Museo. Si procederà poi alla descrizione del progetto e alla descrizione del museo. Infine si renderà conto della mia esperienza di campo che vuole aprire un’ulteriore prospettiva di ricerca, sempre nell’ottica del rafforzamento femminile per il tramite dei processi di patrimonializzazione. 2.1 Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopolitico Durante il periodo della dominazione coloniale, la zona era nota col nome Apollonia o Amanhea. L'area, da un punto di vista amministrativo, consta di tre unità: Jomoro District con capoluogo Half Assini, l'Ellembelle District con capuologo Nkroful e infine lo Nzema East Municipality, con capoluogo Axim, che include i territori evaloe ad ovest del fiume Ankobra. Lo Jomoro coincide con la Western Nzema Traditional Area, antico regno precoloniale la cui capitale è Beyin, mentre L'Ellembelle District coincide con l’antico Eastern Nzema la cui capitale tradizionale è Atuabo. Queste due aree sono frutto di una divisione avvenuta nel 1851 dopo l’uccisione, ad opera degli Inglesi di Kaku Aka, ultimo re unitario. La regione Nzema propriamente detta è delimitata ad est dal basso corso del fiume Ankroba mentre a ovest il confine geografico è segnato dal basso corso del fiume Tano e dal sistema lagunare che separa il Ghana dalla Costa D' Avorio. A sud confina direttamente con l'Oceano Atlantico, mentre a nord confina con le aree Wassa e Aowin. La costa, con un'estensione di oltre 90 km, si caratterizza per la presenza di dune e lagune retro-costiere, mentre all'interno l'Ankasa River Forest reserve costituisce l'ultimo residuo di foresta pluviale dell'area. Il clima è essenzialmente umido, la temperatura è mite con escursione termica irrilevante. Le popolazioni locali distinguono tre stagioni prinipali: wawa (stagione secca, da dicembre a aprile-maggio), fɔsϵlϵ (stagione delle grandi piogge, da maggio a luglio) e bokile (stagione delle piccole piogge da agosto a novembre). Gli nzema appartengono al gruppo akan e sono stanziati prevalentemente nell'area del 109 Ghana sopra delineata. Vi sono tuttavia consistenti enclaves di Nzema che risiedono stabilmente in Costa D'Avorio, in una serie di villaggi collocati nella parte settentrionale della laguna di Ehy, e che dipendono dal seggio di Kyapum. La loro lingua, lo Nzema anye, è classificata tra le lingue Volta-Comoë ed è più prossima a quelle del sottogruppo Proto-Bia (Anyi), che a quelle del sottogruppo ProtoTano (Grottanelli, 1977). Le principali risorse economiche sono la pesca (praticata negli ambienti marini, lagunari e fluviali) e l'agricoltura. I prodotti maggiormente coltivati sono: manioca; banano da fecola; igname; cocolasia; riso; mais; melanzane; pomodori; patate dolci; cipolle; fagioli; banane da frutto; arance; limoni; ananas e arachidi. L'intera area è inoltre ricoperta da piantagioni di palme da cocco i così detti Cashcrops, destinate al commercio, ma di regola ciascun abitante della zona può usufruire tranquillamente delle noci cadute a terra o procurarsele direttamente dalle palme. Altra pianta regolarmente adibita allo sfruttamento commerciale è la palma da olio, che è anche una componente basilare (il frutto e l'olio) dell'alimentazione quotidiana locale. Sono presenti, seppur in modo meno consistente, piantagioni di caffè e di cacao anch'esse destinate alla vendita. Per quanto riguarda l'allevamento, si registra una consistente quantità di pecore, (che però non producono latte sufficiente per essere munte) polli, anatre, faraone, cani e gatti. La carne, sopratutto quella di maiale, viene solitamente utilizzata per rimpolpare le zuppe che possono altresì contenere pesce o entrambi gli ingredienti. Molto apprezzata è la carne di tartaruga, specie recentemente dichiarata protetta, e quella di pitone. In generale nessun tipo di carne è disdegnata e non è raro che vengano uccise scimmie a scopo alimentare. La società nzema è organizzata in sette gruppi tradizionali di discendenza chiamati Abusua e tradotti col termine famiglia: Adahonle Alɔnwɔba Azanwule 110 Ezohile Mafole Ndweafoɔ Nvavile Come gran parte delle società akan, gli nzema hanno un sistema di discendenza matrilineare, ragion per cui Ego appartiene all’abusua della madre ed eredita dal proprio zio materno (awuvonyi). In questo specifico sistema di parentela, assimilabile pur con qualche divergenza ai sistemi di tipo Crow (Palumbo, 1992), si suole riferirsi, indipendentemente dal proprio sesso, alle sorelle della madre col medesimo termine col quale ci si riferisce a quest' ultima (Nli,ɔmo). Per quanto riguarda la linea uterina della famiglia del padre, va rilevato che i suoi figli si riferiranno a tutti i suoi membri con l'appellattivo egya (padre) e saranno a loro volta chiamati da questi ultimi mralɛ (figli). La norma della virilocalità e della patrifiliazione fa si che l’abusua non sia identificabile come unità residenziale e che i vari segmenti del gruppo di discendenza siano dispersi nel territorio. La patrifiliazione porta con sè conseguenze anche sul piano delle relazioni padre-figli. Questi ultimi infatti nascono e vengono allevati nella casa del padre rimanendovi in alcuni casi anche dopo il suo decesso. Il legame che si instaura tra il genitore e la sua prole è fortissimo ed essi son tenuti a darsi mutua assistenza. Nonostante viga un sistema a discendenza matrilineare, l’importanza del padre nel processo di concepimento e formazione dei figli è molto sentita: l’individuo è ritenuto ricevere la carne (nwonane) e le ossa (mbowulɛ) dalla madre e il sangue (mogya) e il soffio vitale (sunsum) dal padre. Il padre è inoltre colui che dà il nome (nzabelano) al figlio ed è da uno dei suoi figli che si fa sostituire in caso di impedimento a partecipare a occasioni importanti. Si rende a questo punto necessario operare una distinzione nei riguardi del termine abusua. Esistono infatti due livelli dell’abusua : quello del suakunlu e quello dell'asalo, termini che indicano rispettivamente la camera da letto e l’ingresso (salotto, vestibolo) della casa. 111 Il termine sua(casa)kunlu(utero in senso sociale) si riferisce anche al palazzo reale inteso come utero della città, in quanto sua indica sia la città che la casa (Pavanello 2007). Questi due ambienti sono presenti in ogni abitazione e tutti vi si riferiscono in questi termini. L'accesso alla camera da letto è riservato a pochi intimi, mentre l'asalo è il luogo dove si ricevono i visitatori. suakunlu abusua ed asalo abusua vanno a designare l'insieme delle matrilinee legittime e quello che comprende le linee illegittime derivanti da schiave o da persone adottate. La differenza tra questi due livelli è data dal fatto che gli appartenenti ai rami illeggittimi non "mangiano l'agya", ossia non possono usufruire dell'eredità della famiglia (Pavanello 2007). Ne "Il segreto degli antenati", Pavanello mette in discussione la sovrapposizione operata dagli antropologi italiani, che da Grottanelli in poi hanno fatto coincidere i concetti di suakunlu abusua e di asalo abusua con le tradizionali categorie antropologiche di lignaggio e clan (Pavanello, 2007). Per quanto una simile problematizzazione si renda necessaria, questa non può essere affrontata nei limiti di una breve introduzione alla struttura sociale Nzema. Nel corso di questa presentazione quindi, utilizzerò il termine abusua per riferirmi ai tradizionali gruppi di discendenza all’interno dei quali i loro membri riconoscono avere un' ancestrale antenata in comune, ma che non sono necessariamente legati da stretti vincoli di parentela, e il più specifico suakunlu abusua in riferimento ai gruppi di persone discendenti in linea uterina dalla stessa riconosciuta antenata e nei quali sia possibile stabilire con precisione le relazioni genealogiche tra gli individui appartenenti allo stesso. All'interno di ciascun suakunlu abusua viene eletto un capo denominato abusua kpanily (grande) che ha, tra gli altri, il compito di rappresentare i suoi membri davanti alla comunità. Per quanto riguarda le norme di alleanza matrimoniale, a livello di abusua non è riscontrabile la norma esogamica che viene invece osservata a livello di suakunlu abusua. Per quest'ultimo va inoltre osservato che, stabilita un'alleanza matrimoniale tra due suakunlu abusua, nessun altro vincolo di tale natura potrà essere contratto tra i loro 112 membri. Gli appartenenti a un medesimo suakunlu abusua sono detti genericamente mmusuanli e si riferiranno l'uno all'altro a seconda dei legami di parentela esistenti tra loro. Viceversa gli appartenenti al medesimo abusua si riconosceranno, indipendendemente dall’età, come fratelli (adiema pl. Mediema). I sette tradizionali gruppi di discendenza quindi, pur non avendo alcuna funzione sul piano politico e sociale, conservano comunque un certo valore simbolico. La zona, come sopra accennato, è divisa in tre aree tradizionali di origine precoloniale, ognuna delle quali è sottoposta all'autorità di un capo supremo (Twi:ɔmanhene). Il potere tradizionale (chieftaincy) è stato istituzionalizzato dalla costituzione del 1992, ma già in epoca coloniale godeva di riconoscimento da parte del governo inglese(Pavanello, 2002). L'autorità tradizionale poggia sulla base di memorie orali, secondo le quali i sette abusua occuparono gradualmente il territorio nel corso di flussi migratori insediandovisi per primi. Ogni porzione di territorio fu dunque originariamente presa (o perchè non popolata o in seguito a uno scontro con popolazioni che si trovavano in loco) da una parte dei sette abusua che vi si stabilirono, acquisendone il possesso in modo permanente. Questi primi abitatori disboscarono la terra, rendendola adatta alla coltivazione. Successivamente, altri membri dello stesso o di differenti gruppi di discendenza vi si insediarono ed ebbero in usufrutto porzioni di terra per il loro sostentamento. In accordo con queste memorie, ciascun gruppo portò con se degli elementi che sarebbero diventati i loro simboli distintivi. Ogni villaggio ha il suo mito di fondazione e, a partire da questi racconti dell'origine, si sviluppano le linee di successione legittimate a esercitarvi il potere il cui simbolo è l'ebia (seggio). Materialmente questo consiste in un piccolo seggiolino ricavato, intagliandolo in un pezzo unico, dall' albero emenle, mentre lo spirito incorporato in esso, ha il potere di regolare le vicende tra gli uomini che sono sotto la sua influenza. L'autorità si manifesta soprattutto in due aspetti: quello della giustizia locale e quello riguardante il diritto sulle terre. Si è sopra accennato al fatto che il capo supremo di ogni area tradizionale sia 113 l'ɔmanhene, ma questo non è l'unico livello in cui il potere tradizonale trova espressione. Ogni città è infatti subordinata al potere dell'ɔhene (pl. ahene), cui ci si rivolge generalmente con l'appellativo nanà (nonno) fatto seguire dal nome della città stessa. Costui è scelto tra i discendenti in linea uterina dell’originario gruppo che per primo prese possesso del territorio. Questo significa che i suoi figli non potranno mai aspirare a tale carica in quanto appartenenti per nascita al suakunlu abusua della loro madre. Per ogni nanà c'è una corrispondente figura femminile denominata ahemaa (tradotto in inglese col termine queen mother) che è la depositaria ufficiale delle memorie genealogiche e dinastiche. Generalmente sorella o nipote dell’ɔhene, essa può essere scelta dagli anziani della famiglia o nominata direttamente da colei che la precede nell'incarico. La sua opinione, assieme a quella dell' abusua kpanily, è determinante nella scelta del nuovo nanà ed è sempre lei che può scegliere di destituirlo qualora non si mostrasse all'altezza del suo compito o nel caso adottasse comportamenti inappropriati. Queste figure compongono il Traditional Council con competenze giuridiche tradizionali riconosciute dalla legge. In ogni villaggio è presente inoltre la figura del tufuhene, la cui carica è generalmente elettiva. Questo, oltre ad essere il capo dell' asafo (compagnia militare), ha il dovere di amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà, col quale i rapporti possono essere di collaborazione o di antagonismo. 2.2 Fort Apollonia La scelta di ubicare un museo nei locali di un forte coloniale britannico è particolarmente significativa e se da un lato è legata alla volontà, da parte del Ghana Museum and Monument Board (l'istituzione ghanese che ha l’incarico di custodire e gestire i forti presenti sulle coste), di patrimonializzazione dello stesso, dall’altro si allaccia ai rapporti che nel corso di oltre cinquant'anni di ricerche sono intercorsi tra la MEIG39 e la popolazione locale. 39 La Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) è stata la prima missione etnologica, a carattere interdisciplinare, realizzata nel nostro paese. Prese avvio con le ricerche di Vinigi L. Grottanelli tra gli Nzema del Ghana (1954 - 1976), ed ha ripreso le sue attività dal 1989 con le ricerche di Mariano Pavanello ed altri studiosi. La MEIG, nella sua prima fase, ha avuto la sua sede nell'Università di Roma dove Vinigi L. Grottanelli ha ricoperto la prima cattedra di Etnologia 114 Dalla fine degli sessanta fino al 2001, il forte è stato la sede dei ricercatori italiani, configurandosi in un certo senso come il simbolo dell’isolamento di una parte di questi, piuttosto che come immagine dell'incontro tra due mondi. Se la realizzazione di un museo sulla cultura nzema vuole essere anche figlio della fondamentale pratica antropologica della restituzione, collocarlo negli ambienti della fortezza significa favorirne la riappropriazione (forse sarebbe più corretto parlare di appropriazione) da parte della popolazione locale. Il Castle, come è chiamato dagli abitanti della zona, fu costruito dagli inglesi nella seconda metà del 700 e, come tutti i forti di origine coloniale, aveva prevalentemente funzioni di difesa e di controllo dei traffici commerciali (prevalentemente oro schiavi ed armi, ma anche materie prime come legnami pregiati e avorio). I primi europei a giungere in Africa Sud-occidentale furono i portoghesi (9 febbraio 1471). Questi battezzarono Cabo de Santa Apollonia (dal nome della santa del giorno) il piccolo promontorio al quale erano approdati. Gli europei, interessati all’oro dell’impero ashanti, costruirono numerose fortezze militari lungo tutta la Costa d'Oro. Nella seconda metà del 500, l'Olanda si impadronì di tutte le piazzeforti portoghesi, trasformando la zona nel più importante nodo della rete di tratta degli schiavi in Africa occidentale. Oltre agli schiavi, ad essere oggetto di commercio erano prevalentemente oro e tabacco. Nel frattempo altri attori si erano inseriti nel complessivo scenario coloniale. Tra questi i francesi, che si insediarono nell'attuale Costa d' Avorio, e gli inglesi. Nel 1750 Amihya Kpanyinli, un capo locale entrato in conflitto con gli olandesi per il controllo dei traffici costieri, cercò l'appoggio della Gran Bretagna e mise a disposizione il Cape Apollonia per la costruzione di un bastione di difesa. Questo fu eretto tra il 1765 e il 1771 e prese il nome di Fort Apollonia. istituita in Italia. Nella seconda fase, sotto la direzione di Mariano Pavanello, la sede della MEIG è stata l' Università di Pisa dal 1989 al 2004. Dal 2005, la Missione è di nuovo incardinata nella Sapienza Università di Roma, dove M. Pavanello è stato chiamato a succedere al suo maestro. La MEIG ha recentemente esteso i propri interessi nella regione Ashanti, dove, con la collaborazione del Prof. Kwame Arhin, sono in corso ricerche etnologiche e storiche. Inoltre, dal 2008, sono state avviate ricerche anche in Mali. 115 Nel 1867, il conflitto anglo-olandese terminò a vantaggio della Gran Bretagna che l’anno successivo abbandonò il forte. Gli anni seguenti videro gli inglesi impegnati in un conflitto con la confederazione ashanti che aveva inflitto delle offensive militari ad alcuni alleati britannici. Poiché il forte si trovava nel territorio degli nzema, alleati degli ashanti, fu bombardato dagli inglesi nel 1873. Il conflitto terminò l'anno successivo con l'occupazione di Kumasi e la proclamazione della colonia della Costa d’Oro. Il Ghana è stata la prima colonia europea a raggiungere l'indipendenza nel 1957. Nel 1960 fu proclamata la repubblica presidenziale sotto lo nzema Kwame Nkrumah. Agli inizi degli anni 60, il GMMB (Ghana Museum and Monument Board), approvò il restauro della struttura che lo stesso Nkrumah voleva vedere trasformata in monumento nazionale. I lavori furono portati a termine nel 1968. Durante gli anni 70 nei suoi locali fu costruita una guest house che ospitò gli studiosi della MEIG fino al 2001, anno in terminò la convenzione stipulata tra la missione e il GMMB. In quello stesso anno, il GMMB chiese sostegno all'università di Pisa e all'ONG toscana "Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti" (COSPE), per la realizzazione di un Museo sulla cultura nzema nei locali del Forte. Nel 2010 fu necessario un nuovo restauro. Durante un'analisi preliminare infatti la struttura fu trovata in condizioni di pesante degrado dovute all'azione degli agenti atmosferici. Nell'Ottobre del 2010 è stato ufficialmente inaugurato il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History. 2.3 Un progetto di valorizzazione integrale Il progetto basa la sua strategia di intervento sul riconoscimento che le popolazioni nzema dispongono di un importante patrimonio naturale, sociale, culturale e storico, che ne determina la coesione sociale. Tale patrimonio è sempre più minacciato da un insieme complesso di fattori quali: lo sfruttamento indiscriminato delle risorse; le nuove domande e nuovi bisogni legati al processo di modernizzazione; la mancanza di partecipazione delle comunità nei 116 processi decisionali e gestionali legati al proprio territorio; la carenza di sbocchi occupazionali e conseguenti fenomeni migratori vero i grandi centri urbani; la mancanza di adeguati investimenti per lo sviluppo degli insediamenti rurali. La tutela del patrimonio naturale e culturale delle comunità nzema rappresenta quindi il primo passo verso la difesa della loro memoria storica e collettiva e delle loro risorse. Al tempo stesso la valorizzazione di tale patrimonio può rappresentare un’opportunità di sviluppo, favorendo l’accesso a più elevati livelli di consumo e di benessere, e un’accresciuta consapevolezza delle risorse e delle potenzialità del proprio territorio. Il primo “obiettivo generale consiste (quindi) nel migliorare le condizioni materiali delle comunità locali attraverso la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale come forma di reddito e nell'ottica di uno sviluppo eco-compatibile ed autosostenibile”40. Il paese non si trova ancora nelle condizioni per poter valorizzare in maniera adeguata le proprie risorse e cogliere così le opportunità di sviluppo socio-economico che il turismo può offrire. Tra i vari problemi con i quali occorre fare i conti si annoverano, la precaria situazione igenico-sanitaria, la mancanza di adeguate strutture di ricezione turistica (in particolare al di fuori della capitale e nelle aree rurali), l’erogazione di acqua ed elettricità insufficiente e discontinue. Inoltre la distribuzione dei benefici economici derivanti dal settore del turismo è limitata nelle mani di pochi. E le popolazioni locali sono spesso rimaste escluse dalla maggior parte dei profitti derivanti dallo sviluppo del settore turistico ed eco-turistico. Le aree rurali inoltre soffrono della mancanza o inadeguatezza di infrastrutture produttive, soprattutto legate all’agricoltura, magazzini, mercati e strade. La realizzazione di una struttura museale aperta al territorio circostante e la creazione di percorsi eco-turistici, unita all’implementazione di attività culturali e a forme di accesso a microfinanziamenti, rispondono alla duplice esigenza, da un lato di promuovere, soprattutto tra le nuove generazioni, la conoscenza e il rafforzamento della propria cultura, dall’altro di porre la stessa alla base di attività generatrici di reddito. 40 Riferimento diretto al documento di progetto elaborato dal COSPE nel settembre 2005. 117 Il criterio informatore della pianificazione e attuazione operativa del progetto si basa dunque sulla volontà di inquadrare il patrimonio, ambientale e culturale, in un’ottica di gestione integrata e partecipata affinchè questo sia posto al servizio delle comunità locali che ne sono depositarie e che lo mantengono in vita. Di particolare importanza per la realizzazione del progetto è stata l’adesione allo stesso da parte del GMMB (Ghana Museum and Monument Board) e della National Commision on Culture. In base al dettato costituzionale, la National Commission on Culture, istituita nel 1990, rappresenta il massimo organismo deliberativo, di supervisione e controllo sulle altre istituzioni culturali, tra i quali il Ghana Museums and Monuments Board.41 Il National Museum Decree del 1969, riconosce allo stesso l’autorità di dichiarare monumento nazionale ogni monumento di proprietà statale e di disporne secondo le modalità giudicate più opportune per la sua conservazione e valorizzazione. Nel 1972 è stato pubblicato il decreto esecutivo in base al quale una serie di forti e castelli, tra cui Fort Apollonia, sono stati proclamati monumenti nazionali.42 Durante lo studio di fattibilità del progetto, il GMMB ha mostrato la sua volontà di raggiungere un accordo con le strutture di potere tradizionali (Western ed Eastern Nzema Traditional Councils) per l’uso del Forte come centro di sviluppo locale a gestione comunitaria. A tale proposito è stato firmato un accordo di impegno e collaborazione tra le ONG promotrici (Cospe e GWS), le autorità tradizionali, le amministrazioni locali e le istituzioni governative (GMMB e Commission on Culture) che hanno costituito un comitato di supervisione sulle attività del progetto. Oltre queste fondamentali collaborazioni, un altro elemento a favore dell’accoglimento della proposta è stato determinato dal fatto che questa si è collocata in un clima propenso a cogliere le possibilità offerte dall’interazione tra sviluppo locale e patrimonio culturale. Per quanto riguarda l’attività di consultazione scientifica, tra le istituzioni coinvolte a livello nazionale, possiamo citare la University of Science and Technology, Kumasi, e il Center for Science and Industrial research, Accra, per la consulenza sulla raccolta e 41 42 ivi ivi 118 conservazione dei campioni di flora e fauna nell’allestimento del museo. In Italia, relativamente alle attività di consulenza e attuazione del progetto sono state invece coinvolte: l’Università degli Studi di Pisa e il Dipartimento di Ingegneria civile, per la realizzazione della progettazione esecutiva e per consulenza sui lavori di restauro di Fort Apollonia; la Missione Etnologica Italiana in Ghana, per le ricerche etnologiche e storiche sul territorio e la cultura nzema e per l’allestimento del museo; i vari attori della cooperazione decentrata toscana (Provincia di Pisa, Comune di Peccioli, Associazione Ghanese di Prato, regione Toscana) coinvolti negli ultimi anni nelle iniziative di scambio e collaborazione con il territorio nzema. Nella progettazione e realizzazione del Museo, i vari punti di vista, (italiani e ghanesi, ma anche istituzionali e tradizionali) si sono confrontati dando vita ad un’esperienza di patrimonializzazione condivisa. Con questo termine non ci si riferisce a costruzioni prive di conflitti e resistenze, bensì all’azione di mediazione tra universi semantici differenti, portata avanti da singoli “traghettatori culturali”, in un processo dialettico caratterizzato da una reciproca appropriazione di concetti e immaginari che si caricano continuamente di significati nuovi, imprevisti e almeno in parte inediti 43. Altra fondamentale peculiarità della proposta portata avanti risiede, come già accennato, nel porre il patrimonio al servizio dello sviluppo locale. Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History nasce quindi come centro di sviluppo comunitario, intorno e attraverso il quale promuovere iniziative volte a favorire il rafforzamento delle capacità di promozione economica, sociale e culturale delle popolazioni dell’area nzema. Tale assunzione di fondo si è concretizzata nella scelta strategica di promuovere la creazione di una struttura museale intesa come punto focale di un programma più ampio di promozione dell’eco-turismo nell’area. Questo è stato assunto dal progetto come trampolino per la crescita e la qualificazione di altre attività generatrici di occupazione e di reddito per le comunità, in particolare quelle legate all’accoglienza turistica e alla produzione artigianale. L’obiettivo finale è quindi di attirare visitatori stranieri e ghanesi in una struttura pensata 43 http://www.formazione.univr.it/documenti/Seminario/documenti/documenti870633.pdf 119 e realizzata in costante collegamento col territorio e la cultura dell’area, i cui beneficiari principali rimarranno comunque le comunità rurali dei villaggi circostanti, sia per quanto riguarda gli introiti derivanti dall’eco-museo e dalle attività economiche indotte (dall’artigianato alla ristorazione, dalle guide ai trasporti, dalle manifestazioni culturali all’organizzazione di soggiorni turistici), sia per le attività di promozione culturale, educazione ambientale e miglioramento della qualità della vita. La stretta connessione tra gli aspetti di tutela e di valorizzazione risponde ad un approccio di sviluppo locale sostenibile che collega la creazione di nuove opportunità di sviluppo alla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale delle comunità. Il Fort Apollonia Museum vuole infatti rappresentare uno strumento che possa consentire alle comunità locali di partecipare in prima persona alla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale di un territorio a forte vocazione turistica, traendone adeguati benefici economici ed occupazionali e limitando il monopolio di sfruttamento delle risorse turistiche dei grandi operatori turistici. La sfida principale consiste nel salvaguardare quella linea di confine che separa una istituzione culturale redditizia, gestita e fruita dalle comunità locali, da una mostra mercato di carattere folkloristico ad uso prevalentemente o esclusivamente turistico. Ecco perché accanto a strategie di redditività, rimangono centrali spazi culturali ed educativi, con strumenti e strutture di informazione, ricerca e divulgazione. 2.4 Il Museo Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History non può essere ricondotto alle esperienze di musei etnografici occidentali o a quelle degli eco musei o musei del territorio. Esso si pone piuttosto come un’esperienza ibrida, che tenta di coniugare armonicamente i tre diversi aspetti della sua missione dichiarata44: Rappresentare un riferimento culturale, simbolico e storico per la popolazione locale nonché per la preservazione della sua lingua e cultura. Fornire in special modo alle generazioni future gli strumenti per il rafforzamento della loro cultura; promuovere la conoscenza e la tutela del territorio. Sviluppare una migliore consapevolezza all'interno della collettività, della sua 44 Per la missione del museo faccio riferimento diretto al Project Proposal Final, redatto da Mariano Pavanello, Mariaclaudia Cristofano e Stefano Maltese nel dicembre del 2009 120 importanza strategica attraverso la creazione di una rete di percorsi ecoturistici e specifici programmi di educazione ambientale. Essere il luogo della restituzione da parte degli studiosi della MEIG che, nel corso degli anni 1954-2009, hanno condotto le loro ricerche storiche ed etnografiche: un luogo dove condividere con le popolazioni locali i risultati delle loro ricerche. Le varie anime del museo (culturale, storica, naturalistica) sono state pensate come in dialogo costante tra loro e in questa direzione si è mosso l’impianto allestitivo. Le installazioni e i pannelli esplicativi sono il frutto dell’incontro dei diversi punti di vista della popolazione locale e dei ricercatori italiani. Un altro tipo di sguardo viene coinvolto nel percorso museale e cioè quello del visitatore. L’esposizione è infatti concepita in modo che egli sia stimolato a percepire i diversi aspetti rappresentati, come un tutto nel quale trovare connessioni piuttosto che come settori differenziati che pretendano di esaurire un discorso a sé stante. All’esibizione permanente, che è comunque suscettibile di futuri arricchimenti o modifiche, andranno accompagnati allestimenti temporanei per i quali è stato predisposto un apposito spazio. Il museo e le sue attività di connessione con il tessuto culturale e ambientale, sono comunque da intendersi come il punto di partenza di un discorso in divenire, che non dovrebbe mai considerarsi chiuso del tutto. Appena si accede alla coorte esterna, dove sono collocati gli stand degli artigiani, un cartello di akwaba (benvenuto in nzema) accoglie il visitatore. Sempre nello stesso spazio, sono illustrate le formule di saluto nzema, aspetto molto importante delle relazioni quotidiane. Nell’attraversare la soglia che introduce alla coorte interna, il museo dichiara la sua amaneε (missione), la quale sarà a sua volta chiesta al visitatore nel passaggio immediatamente successivo. L’amaneε è una componente essenziale nell’universo relazionale nzema; essa è la dichiarazione dei motivi di una visita, senza tale dichiarazione è come se non esistesse l’interrelazione. Al visitatore viene quindi dichiarata la propria missione e gli viene chiesto di scrivere su un apposito registro il motivo della propria visita. In questo modo il dialogo può avere inizio. Non si vuole qui dare una descrizione dettagliata dell’esposizione, ma rendere conto 121 dei criteri che soggiacciono alla sua realizzazione, facendo qualche riferimento all’impianto allestitivo. Per quanto riguarda l’aspetto storico del museo, occorre tenere presente che in esso sono state considerati sia l’approccio storiografico di matrice occidentale, che la concezione tradizionale di derivazione orale. Le fonti di archivio degli studiosi occidentali sono state utilizzate per illustrare i rapporti intercorsi tra le popolazioni nzema e gli occidentali a partire dall’epoca precoloniale e per rendere conto della storia del forte nei suoi rapporti con le popolazioni akan e con quelle europee. Nel medesimo spazio è stata realizzata la mappa del villaggio di Beyin allo scopo di rispondere a una triplice esigenza: contestualizzare ulteriormente il forte (e il visitatore che si trova al suo interno) in rapporto allo spazio circostante; fornire un quadro generale della presenza, in loco, dei vari abusua; essere un luogo dove gli abitanti del posto possano riconoscersi individuando la propria e le altrui abitazioni anche attraverso una serie di punti di riferimento. Si opera, in questo modo, una connessione tra l’approccio storiografico e quello tradizionale legato all’usufrutto delle terre, trasmesse tradizionalmente all’interno dei suankulu abusua. Per quanto riguarda invece il possesso delle terre si apre una questione più delicata che si lega alla legittimità del seggio regnante. Si è detto di come i diritti di proprietà di un seggio poggino su memorie tramandate oralmente e questo comporta talvolta l'insorgere di controversie riguardo alla legittimità del potere in carica. E' significativo a questo proposito segnalare quanto esposto da Stefano Maltese nel corso di un convegno su i patrimoni africani tenutosi all' Università La Sapienza di Roma, nel mese di aprile 2010. Nel corso dei suoi colloqui con i capi intorno alla realizzazione del museo, egli si è sentito più volte dire quanto la musealizzazione di Fort Apollonia fosse di cruciale importanza, soprattutto per la risoluzione delle controversie in merito alle proprietà dei seggi. La loro attenzione era ed è concentrata soprattutto sulla funzione dell’archivio come 122 luogo della verità: testimonianza incontrovertibile in grado di fissare una volta per tutte i diritti sui propri seggi. Ho potuto riscontrare io stessa questo tipo di atteggiamento durante la fase di rilevazione topografica per la realizzazione della mappa. Nei miei discorsi con Noel, la guida che mi accompagnato anche nel corso dell’indagine preliminare sulle regine madri, è saltata fuori una questione interessante; infatti nella sua mente era da tempo maturata la convinzione che la mappa sarebbe stata registrata in qualche ufficio della capitale e avrebbe sancito una volta per tutte la proprietà delle concessioni, ponendo fine alle liti e alle occupazioni abusive che nel corso degli anni continuavano a riproporsi. Così come i capi vedono nel museo-archivio una fonte di verità storica sulla proprietà delle terre, Noel aveva creduto che una rappresentazione cartacea delle concessioni avrebbe avuto valore testimoniale. Tradizioni tramandate oralmente e approccio occidentale di registrazione della storia coesistono, non solo idealmente nel museo, ma nella mente stessa di coloro i quali di queste memorie sono i portatori. Essi mostrano tutta la flessibilità del loro universo culturale aprendosi a uno strumento estraneo alla tradizione ai fini di legittimarla. Occorre a questo punto aprire una parentesi in merito al discorso dell’archivio che al momento è in fase progettuale. L’idea è quella di creare due archivi differenziati: l’archivio del museo conterrà il corpus di testi e documenti prodotti dagli studiosi italiani (tradotti in lingua inglese e auspicabilmente in futuro anche in Nzema), le foto e il materiale audio e video raccolto sul campo mentre l’archivio richiesto dai capi conterrà le storie dei seggi e queste dovranno periodicamente essere verificate ed approvate dai traditional councils. Nell’esibizione sui miti di fondazione dei villaggi vengono mostrati una serie di lavori realizzati dai bambini delle scuole primarie delle zone interessate. In uno dei programmi di collaborazione con le scuole, un artigiano locale ha raccontato alle classi la storia della nascita dei loro luoghi. Dopo averla ascoltata i bambini erano invitati a rappresentarla, disegnando o utilizzando materiale prevalentemente locale come rafia, legno e erba. Il discorso sulla chieftaincy intende mostrare sia l’organizzazione politica, attraverso 123 pannelli che hanno richiesto l’approvazione delle autorità tradizionali, sia i simboli legati alla regalità, come i seggi e i simboli dei rispettivi gruppi di discendenza. Nel medesimo spazio sono stati ubicati inoltre i pannelli recanti informazioni sul sistema di discendenza matrilineare, secondo il modello elaborato dagli studiosi italiani ed approvato dalle medesime autorità di cui sopra. Alla medicina tradizionale è dedicata una sala a parte destinata ad illustrare tre particolari categorie di professionisti nel trattamento della sofferenza: il ninsilima(una sorta di erborista), l’ahomenle (figura legata al culto di divinità locali) e l’asofo (sacerdoti della setta dei water carriers). Tutte queste pratiche sono messe in relazione con la diffusione della medicina occidentale. Tra gli nzema la sofferenza del corpo e della mente è sempre associata all’infrazione di un norma e a una componente di disordine. La cura è quindi un processo articolato la cui complessità è espressa dalla varietà delle opzioni terapeutiche disponibili. Per quanto riguarda l’illustrazione della biodiversità e delle attività economiche connesse ai differenti ambienti, un’apposita sala è stata dedicata ai risultati degli studi della Ghana Wildlife Society. A questi aspetti sono stati inoltre connessi i processi di trasformazione del cibo illustrati attraverso una serie di fotografie scattate da una studentessa italiana nei mesi precedenti l’inaugurazione. Uno dei punti della missione del museo sottolinea la volontà di illustrare le potenzialità insite nella varietà del territorio nzema. Alla descrizione dell’ecosistema e alle campagne di educazione ambientale da condursi nelle scuole, sono stati affiancati dei percorsi eco turistici. Questi non si limitano ad essere sentieri, ma si configurano come appendici del museo attraverso le quali il visitatore può osservare con i propri occhi le informazione ricevute nel museo. Si può qui riportare a titolo di esempio la percorrenza già attiva che interessa la tratta Beyin (Forte Apollonia) – Nzulezu – Mienda. Il programma prevede la visita a Nzulezo, un villaggio interamente costruito su palafitte che è situato all’interno della “Amansuri Community Nature Riserve” a circa 5 Km da 124 Beyin, con una popolazione di 500 abitanti. Il villaggio consiste in un camminamento centrale in rafia e legno, lungo il quale sono disposte circa 25 capanne ed è raggiungibile solo in canoa da Beyin. In questo tragitto è possibile ammirare la laguna situata nella riserva e la sua flora, visitare il villaggio ed entrare a contatto con la piccola comunità, le sue attività economiche (pesca, distillazione del gin locale, coltivazione di rafia) e sociali (la scuola, la casa dello “spirito del lago”). Da Nzulezo è possibile visitare il Lago Sacro di Mienda, situato nella foresta retrostante il villaggio. La zona del lago, densa di mitologia e spiritualità tradizionali, è anche popolata da coccodrilli e scimpanzé. Altri percorsi riguardano l’osservazione, a seconda delle stagioni, della fauna locale, ma ne sono previsti altri di vocazione non spiccatamente naturalistica e che riguardano gli altri aspetti trattati nel museo come ad esempio quelli collegati alla vita spirituale della comunità. Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History quindi, non è una struttura chiusa in sé stessa, ma si apre verso l’esterno, attraverso un insieme di percorsi turistici nell’area geografica e culturale del territorio, che vive di tutte quelle attività culturali e tradizionali proprie delle comunità locali. Il museo quindi costituisce solo il punto di partenza (o di ritorno) per l’esplorazione del territorio, offrendo gli strumenti di conoscenza e le chiavi di lettura (oggetti, documenti grafici, testi e fotografie) del patrimonio naturale, culturale e storico. E questa funzione di rendere visibili i nessi storici, culturali e ambientali che sottintendono il patrimonio e la vita di un territorio, è rivolta sia ai visitatori che alle comunità locali. 2.5 Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempi Qualche parola in più va spesa per i progetti legati allo sviluppo locale tramite le attività connesse al museo. Oltre alle fonti di reddito derivanti dalle attività di ricezione turistica e di ristorazione sono previste iniziative volte a rafforzare l’associazionismo culturale e la piccola imprenditoria artigianale. Per quanto riguarda il primo punto va segnalata la presenza di tre gruppi tre gruppi 125 culturali giovanili nell’area: a Beyin, Nzulezu e Megyina. Questi gruppi costituiranno la base per un programma di formazione tra pari per la diffusione dei saperi tradizionali attraverso la promozione di altri gruppi culturali giovanili e di attività nelle scuole. Festival e manifestazioni artistiche tradizionali saranno promossi nei locali del Forte e nelle aree limitrofe del potere tradizionale, come l’Ahenfie (l’antico palazzo del re). Gli eventi culturali saranno promossi attraverso la realizzazione di filmati e depliant, la realizzazione di articoli sui principali quotidiani nazionali e servizi sulla rete pubblica nazionale. Saranno ricercate collaborazioni con agenzie di turismo per promuovere l’organizzazione di tour guidati o pullman speciali in occasione dei festival e delle più importanti cerimonie tradizionali. In questo modo la valorizzazione diffusione del patrimonio immateriale nzema sarà coniugato alla promozione turistica. Il rischio di una eccesiva strumentalizzazione economica dei saperi tradizionali può essere contenuto attraverso i seminari previsti. Questi infatti oltre a migliorare le tecniche esecutive contribuiranno ad approfondire i contenuti veicolati dal corpus di conoscenze trasmesse. Un’attenzione particolare è stata rivolta all’artigianato locale. Il progetto ha inteso (e intende) infatti sostenere la produzione ed esposizione di manufatti artigianali locali per la trasmissione del sapere tecnico-artistico e la sua promozione economica. Nella corte esterna, come già riferito, sono presenti stand per la vendita delle manifatture locali. Ancora più importante è l’intenzione di promuovere dei laboratori di produzione artigianale aperti al pubblico. Tali laboratori saranno affidati ad artigiani nzema, sulla base di progetti che dovranno essere presentati ad una apposita commissione. Le proposte saranno valutate sulla base della loro sostenibilità economica, originalità e sbocchi di mercato, ma anche ponendo attenzione al genere e alle fasce più svantaggiate della popolazione (giovani disoccupati, donne, etc). Sarà inoltre possibile per gli artigiani ottenere macchinari di base, usufruendo delle agevolazioni di credito per i piccoli imprenditori messi a disposizione dal progetto. Per migliorare e rendere più efficienti, tecnicamente ed economicamente, le capacità produttive degli artigiani, saranno organizzati specifici moduli formativi relativi a tutte le 126 fasi di produzione e vendita: dall’ideazione del prodotto, alle più appropriate tecniche di realizzazione, alla presentazione del prodotto per la vendita (cataloghi). Una prima sperimentazione di tali corsi si è avuta durante i lavori di allestimento del Museo. Un gruppo di artigiani locali, hanno partecipato ad attività formative retribuite contribuendo in modo decisivo alla realizzazione della struttura. I futuri corsi di formazione saranno pianificati e realizzati in collaborazione con ATAG (Aid to artisans in Ghana), un’organizzazione ghanese specializzata nel supporto all’artigianato artistico tradizionale. Saranno anche organizzati periodi di stage con imprese qualificate per l’apprendimento o il miglioramento delle tecniche di produzione. I prodotti saranno rivolti ad un mercato locale, in cui gli acquirenti potranno essere i turisti in visita al Forte e alla Riserva, i visitatori in occasione di festival e cerimonie tradizionali, ma anche le popolazioni locali, come i capi tradizionali per stools (i seggi dei capi) e bastoni del potere tradizionale, o le donne per cesti e ornamenti femminili. Saranno comunque sfruttate le occasioni di festival e ricorrenze tradizionali per allestire particolari esposizioni e fiere. Inoltre, sempre in collaborazione con ATAG, saranno selezionati i prodotti di qualità migliore per tentare il loro inserimento nel mercato nazionale, attraverso i punti vendita gestiti dalla stessa associazione e in corrispondenza delle principali attrazioni turistiche. I prodotti di successo e più innovativi saranno poi inviati da ATAG a fiere ed esposizioni internazionali. Saranno infine esplorati in Italia i canali del mercato equo e solidale per l’esportazione dei prodotti artigiani. Uno dei problemi principali denunciati dai piccoli imprenditori dell’area è la mancanza di capitali per avviare o espandere attività economiche. E’ stato quindi istituito un fondo rotativo di microcredito al quale potranno avere accesso sia piccoli imprenditori che vogliono espandere attività economiche esistenti sia nuovi imprenditori che intendono avviare attività generatrici di reddito nell’area. Le modalità di erogazione del credito e i criteri di eleggibilità sono stati identificati attraverso uno studio effettuato nel corso del 2002 dalla Ghana Wildlife Society. Secondo quanto stabilito, i gruppi che saranno selezionati dovranno presentare un progetto imprenditoriale, sia tecnico che finanziario. Saranno inoltre sovvenzionati soltanto proposte finalizzate alla creazione o allo 127 sviluppo di attività economiche legate alla valorizzazione delle risorse locali. Infine, come per i laboratori, i progetti saranno valutati in base a criteri di compatibilità ambientale, promozione di fasce svantaggiate della popolazione e sostenibilità economica. Da quanto esposto l’immagine di un museo, come centro promotore di uno sviluppo locale integrato e sostenibile, si delinea in modo più definito. Lo sviluppo integrato va inteso come sviluppo umano in tutta la sua complessità, dove le componenti ambientali, culturali e sociali sono considerate come interconnesse ed interdipendenti, e questo risulta in piena armonia con la missione stessa del Museo. Per quanto riguarda la sostenibilità generale del progetto, questa è assicurata dal fatto che si inserisce nel quadro della promozione di un settore, come quello turistico, in forte crescita a livello internazionale e nazionale ed ormai fondamentale per lo sviluppo economico del paese. Inoltre lo sviluppo sostenibile coniuga la possibilità di crescita economica alla tutela e salvaguardia del patrimonio delle comunità locali, favorendo la loro capacità di gestire ed assorbire le novità introdotte. In siffatto panorama, le possibilità di porre le donne come tra gli attori principali cui sono rivolte le politiche di sviluppo è di prioritaria importanza. Esse costituiscono infatti una fondamentale risorsa economica per la società nzema, ma non godono di grande autonomia. Esse sono dedite all’agricoltura, ai processi di trasformazione e vendita del cibo e alle attività commerciali. Inoltre la loro abilità nella produzione di stoffe tessute e dipinte a mano potrebbe essere considerato un punto di forza da valorizzare e inserire in un programma volto al rafforzamento della posizione della donna. Gli ambiti di applicazione artigianale femminile non si limitano alla produzione di tessuti; esse sono infatti esperte nella realizzazione di cesti ed oggetti in paglia, ceramica e terracotta tradizionali, gioielleria. Si intendono qui suggerire solo due dei percorsi percorribili in un'ottica di miglioramento della condizione femminile: uno legato alla produzione alimentare, l’altro ai tessuti e agli abiti tradizionali. Per quanto riguarda il primo punto, va sottolineato il fatto che i flussi turistici 128 generalmente scelgono di usufruire dei punti di ristoro offerti dai resort. In queste strutture di ricezione, gli alimenti che generalmente vengono proposti non hanno nulla a che vedere con l’alimentazione locale; si tratta per lo più di prodotti standard destinati a un consumo globalizzato. I punti vendita del cibo locale sono pensati per la gente del posto e constano perlopiù di banchetti e a volte qualche panca. Nel migliore dei casi si ha un tavolo con una panca coperto da un tetto in rafia. In linea i massima l’aspetto generale non invita il turista a tentare un approccio verso il cibo locale. Un programma mirato alla realizzazione di una struttura più attraente potrebbe incoraggiare l’incontro con la cucina del posto. Potrebbe trattarsi di un unico spazio, dove qualche accortezza (pentole rialzate rispetto al terreno, piatti e ciotole in ceramica sistemati in scaffali, etc.), potrebbe aiutare a superare la diffidenza della gente di passaggio. Potrebbero anche essere realizzati dei percorsi sulla preparazione del cibo. I visitatori avrebbero la possibilità di osservare in diretta quanto hanno appreso all’interno del museo e come culmine del viaggio conoscitivo, scoprire il sapore della cucina locale. L’iniziativa andrebbe studiata attentamente, soprattutto nelle ricadute che potrebbe avere a livello locale. Infatti quello del pasto è tra gli nzema un momento di condivisione molto importante e ad esso si lega anche il divieto di utilizzare la mano sinistra nel portare il cibo alla bocca. Andrebbero prese quindi le opportune misure affinché queste strutture non risultino essere un luogo di separazione tra il turista e i locali quanto piuttosto un luogo di un vero e proprio incontro “a tavola”. I turisti potrebbero camminare tra i vari banchi e operare una o più scelte tra la molteplicità delle offerte. Anche in questo caso andrebbe prevista una formazione di base in merito all’offerta di migliori condizioni igieniche e una presentazione più accattivante del prodotto. Tali strutture potrebbero essere tra l’altro realizzate facilmente, ricorrendo a materiali locali come legno e rafia, in molti dei punti interessati dagli altri tipi di percorsi previsti. Parimenti andrebbe incentivata la circolazione di stoffe prodotte localmente, 129 abbinandole alla possibilità di farsi fare un vestito su misura dal una delle tante sarte che lavorano nei vari villaggi dell’area. A questo proposito, andrebbero senz’altro attivati dei corsi di crescita professionale per rispondere in modo più adeguato alle richieste provenienti da un’utenza piuttosto esigente. Tali attività andrebbero dislocate, piuttosto che concentrate, esclusivamente nell’area di Beyin; in questo modo, il turista interessato a un’abito tradizionale su misura, sarebbe stimolato ad andare a cercare la sarta locale in uno dei villaggi della zona. Offrire la possibilità di avere, ad un prezzo tra l’altro irrisorio, il proprio vestito, scelto e concordato direttamente, sarebbe arricchirebbe l’esperienza del visitatore e stimolerebbe il commercio locale. 3 regine madri Nzema e proposta di installazione nel Museo A questo punto si vuole rendere conto dell’indagine condotta nell’area, e valutare una possibile installazione all’interno nel museo sulla base dei risultati raggiunti. Durante la mia permanenza sul campo (luglio-novembre 2010), ho avuto modo di intervistare otto regine madri nell’area dello Nzema occidentale col proposito di individuarne funzioni e peculiarità. Prima di entrare nel merito più specifico dell’indagine, sarà bene richiamare brevemente l’organizzazione politica della società nzema nel suo insieme. Come descritto sopra, ognuna delle tre aree tradizionali è retta da un ɔmanhene (capo supremo). Ogni città o villaggio di suddette aree è invece subordinata al potere dell'ɔhene (nanà). Per ognuno di questi capi, incluso l’ɔmanhene, esiste una carica femminile, parallela e complementare donominata ahemaa (pl. ahemaa). In accordo col principio della matrilinearità, ognuna di queste cariche viene trasmessa in linea uterina a coloro i quali appartengono suakunlu abusua che possiede il seggio in un determinato villaggio o area. L’abusua kpanily di ogni suakunlu al potere esercita, un ruolo determinante nella gestione degli affari del trono. Infine, in ogni villaggio è presente la figura del tufuhene, il quale ha il dovere di 130 amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà. I miei incontri con le regine madri sono avvenuti sempre per il tramite di Noel, il mio traduttore, non solo per regioni linguistiche, ma anche per il fatto che nessun incontro formale può avvenire senza un tramite tra il visitatore e un’esponente del potere tradizionale. A questo proposito, occorre precisare che Noel ha costituito un filtro molto forte tra me e le risposte che mi venivano fornite. Egli si era convinto di capire cosa io stessi cercando e molte volte sceglieva arbitrariamente di tralasciare la traduzione di alcune parti del discorso. Parte delle interviste sono state trascritte in loco alla sua presenza e anche in quei momenti, nonostante le ripetute raccomandazioni di fornirmi una traduzione che potesse essere il più letterale possibile, egli riprendeva dopo poco ad operare la sua sintesi personale. Noel si era in qualche modo appassionato alla questione e mi aveva domandato di spedirgli un registratore dall’Italia affinché egli avesse potuto continuare le interviste da solo per poi inviarmi i risultati. Purtroppo le nostre strade si sono separate in modo frettoloso prima che io potessi condurre un’intervista sull’idea che egli stesso si era fatto intorno al lavoro che stavamo portano avanti, e in questo caso, a differenza che per il la mappatura del villaggio di Beyin, non si era lasciato andare a commenti espliciti. In diversi casi, le risposte da me ottenute risultano poco chiare o non del tutto incisive. Risulta difficile stabilire dove finisca la reticenza delle regine madri e dove incominci la noia o il riserbo di Noel nell’approfondire determinate questioni. Tali vuoti si sono aperti in special modo nel momento in cui cercavo di approfondire quali potessero i motivi di litigio tra due o più donne e mi sono più volte domandata se il fatto che Noel fosse un uomo non abbia portato a un maggior riserbo in merito a questioni femminili. Le questioni che ho tentato di affrontare sul campo si possono suddividere in due macro-ambiti e cioè: un piano sociopolitico e uno che abbraccia la sfera del personale e della rappresentazione del sé. Per quanto riguarda il primo livello, si è tentato di individuare quali sono i doveri delle regine madri, nei confronti del villaggio e del seggio. 131 Questo ambito va ad abbracciare quello della loro selezione e formazione e da ultimo della cerimonia, in quanto aspetti che si legano al ruolo che le stesse devono svolgere. La sfera del personale riguarda invece il rapporto che le ɔhema intrattengono con la propria carica e il modo in cui lo descrivono. In questo caso, entrano in gioco l’autorappresentazione e le storie di vita di ognuna, il senso di responsabilità e di fierezza, ma anche la dimensione umana di ogni singola storia. Queste categorie sono chiaramente interrelabili, ma si rendono necessarie ai fini di una maggiore chiarezza espositiva. Infine, qualche spunto di riflessione mi è stato offerto da conversazioni informali avute con donne e ragazze dei villaggi di Beyin e Ngherekazo a proposito del loro rapporto con le regine madri. 3.1 Ambito socio-politico Il potere tradizionale nzema (e quello akan in generale) è basato su un sistema di governo che prevede, a ogni livello, una carica maschile e una femminile. I loro ruoli sono complementari e l’uno non può esistere senza l’altra. Entrambi devono discendere, in linea materna, dall’abusua che detiene il potere. Una delle responsabilità prinicipali delle regine madri riguarda la scelta del nuovo ɔhene ed è anche in questo senso che lei viene considerata madre del re; infatti raramente tra i due intercorre un legame di tipo biologico. L’ahemaa è anche colei che conserva la memoria della genealogia del lignaggio reale fino ad otto generazioni; il suo intervento nella selezione del futuro re garantisce la purezza della sua linea d’origine. Infatti, l’elezione di qualcuno che discende da una linea di schiavi incorporata generazioni addietro nel lignaggio, non sarebbe accettabile. La selezione del futuro regnante avviene di concerto con l’abusua kpanily(il capo del suakunlu abusua), il quale deve approvare il candidato da lei proposto. Questo può opporre due rifiuti, ma alla terza proposta dovrà accettare perché il posto di un nanà non può rimanere vacante per troppo tempo. Quanto detto vale in linea di principio, ma spesso capita che la regina madre si lasci consigliare dall’anziano del 132 lignaggio in questa come in altre questioni. Per quanto riguarda la selezione dell’ ɔmanhene, il procedimento è differente. Secondo quanto riferitomi da Nda Bozoma II (ahemaa dell’ɔmanhene dello Nzema Ovest), il futuro sovrano deve essere scelto da tutti i capi, maschili e femminili, dell’area tradizionale in questione. La scelta avviene tra tre candidati selezionati dall’abusua kpanily e dagli altri anziani del lignaggio. L’ahemaa ha il diritto di porre il veto su tale scelta e in questo caso il candidato vincitore non potrà essere insediato. I doveri delle regine madri nei confronti del re non si esauriscono nella selezione; esse infatti sono tenute a consigliarlo e a consultarsi con lui in merito a ogni questione. I loro incontri possono avvenire con frequenza quotidiana o settimanale, a seconda che risiedano nello stesso villaggio o meno, ma i due devono essere in contatto costante. L’ahemaa ha infine il potere, previo appoggio dell’abusua kpanily, di destutire il nanà qualora questo non si mostri all’altezza del suo incarico. Viceversa, l’ɔhene non ha alcuna voce in capitolo sull’operato della sua regina madre. Essa può essere detronizzata solamente dal capo del suakunlu abusua e dagli altri anziani. In entrambi i casi questo avviene dopo reiterati errori o comportamenti ritenuti poco consoni alle cariche che i due detengono. Il fatto di essere depositarie della genealogia del lignaggio, rende centrale il ruolo delle regine madri nei casi in cui qualche altro abusua rivendichi il seggio. Si è già accennato al fatto che il diritto allodiale sui territori poggi su memorie trasmesse oralmente e che spesso questo genera conflitti in merito alla legittimità del potere di questo o quell’altro gruppo di discendenza. In caso di contenzioso, l’intervento dell’ahemaa è fondamentale per il mantenimento o la riacquisizione del trono. Poiché il sistema di discendenza è matrilineare, è attraverso la donna che il potere viene trasmesso; quindi è alle ɔhema che spetta il compito di difenderè il seggio. I parametri in base ai quali si sceglie la futura regina madre paiono essere variabili: in due casi mi è stato riferito che si segue un principio di rotazione tra le varie matrilinee del lignaggio, mentre nei restanti sei si è fatto riferimento esclusivamente a doti caratteriali. Una brava regina madre deve infatti avere un comportamento decoroso e allo stesso tempo mostrare coraggio e buona proprietà di linguaggio. 133 La scelta della futura ahemaa non segue uno schema fisso; essa può infatti essere eseguita da colei che la precede, oppure dagli anziani della famiglia. Nel primo caso, sarà la stessa ahemaa a preoccuparsi della corretta formazione della sua erede, mentre nel secondo ci sono diverse figure ritenute idonee all’assunzione di questa responsabilità. Un’ulteriore distinzione va fatta tra coloro le quali ricevono la carica nel momento in cui avviene il decesso della regina madre, e tra quelle che sono chiamate a sostituirla mentre questa è ancora in vita, ma troppo stanca per continuare nel suo lavoro. In tal caso si instaura una sorta di continuità tra le due donne; infatti non verrà eseguita alcuna cerimonia di insediamento e non si avrà la “cattura” che avviene invece nel primo caso. Poiché la nomina avviene per bocca di colei che sta per lasciare la carica, la neo eletta è automaticamente legittimata ad assumere su di se il ruolo. Essa prenderà inoltre il nome di colei che l’ha preceduta, sottolineando il fatto che non c’è rottura. Se la vecchia ahemaa ha le forze per farlo, si occuperà di formare la sua erede, consigliandola e assistendola durante i primi periodi di attività, in caso contrario potrà essere l’abusua kpanily assieme a qualche anziana donna della famiglia, ad assisterla durante i suoi primi passi oppure un’altra ahemaa che risiede nei paraggi. La “cattura” cui si faceva riferimento prima avviene nel caso in cui la nomina segue un decesso. In questo caso la futura regina madre viene invitata a presentarsi a casa del capo lignaggio o dal nanà e viene rinchiusa in una stanza per un periodo che può variare dai tre ai sette giorni. Dai dati in mio possesso risulta che questa camera può essere una stanza utilizzata normalmente, cosi come uno spazio appositamente riservato al periodo di isolamento che precede la cerimonia. In questo lasso di tempo la donna rinchiusa non può vedere nessuno all’infuori del l’abusua kpanily e di qualche anziana della sua famiglia, che si preoccuperanno di darle consigli e di istruirla in merito alla genealogia del proprio lignaggio. Essa può uscire solamente per lavarsi, ma in un orario in cui nessuno può vederla. Ci sarà un’unica persona incaricata di prepararle il cibo visto che è sempre presente il 134 rischio di un avvelenamento da parte di qualche rivale. Qualcuna utilizza delle speciali protezioni contro eventuali malefici, ma quelle che abbracciano la fede cattolica si proteggono pregando. Anche se, in entrambi i casi, la formazione vera e propria avviene solo a nomina avvenuta, quelle che sono ritenute essere potenziali candidate vengono indirizzate fin dalla prima infanzia verso un comportamento decoroso. Inoltre, le anziane donne della famiglia incominciano a raccontare loro la storia del lignaggio affinché inizino ad apprenderla. Per quanto riguarda l’ahemaa dell’ɔmanhene, essa sarà informata in merito alla storia di tutti i villaggi e città dell’area tradizionale che è sotto la sua giurisdizione. Trascorso il tempo necessario, avviene il taglio dei capelli; la regina madre deve infatti distinguersi da tutte le altre donne e questo è uno dei segnali più forti che marcano tale distinzione. Nello stesso giorno avviene la cerimonia di insediamento. La nuova ahemaa viene sul palanchino reale assieme a un bambino e trasportata innanzi all’abitazione del nanà. Durante il tragitto essa agita uno “scacciamosche” (un asticella di legno al quale è applicata una coda ovina), per indicare che tutta la terra che le è intorno le appartiene. Una volta giunta a destinazione hanno luogo due giuramenti: uno rivolto alla popolazione e uno rivolto alla famiglia. Nel rivolgersi alle persone, essa dichiara che sarà sempre disponibile a prestare loro soccorso in qualunque momento sarà chiamata. La formula viene ripetuta tre volte e al termine del giuramento la folla risponderà in coro con il suono”iiiiiii”. Nel rivolgersi alla famiglia essa parla con umiltà, dichiara di avere accettato di essere ahemaa, perché il seggio appartiene alla famiglia, chiede perdono anticipatamente per gli errori che commetterà ed invoca il loro aiuto per il difficile compito che l’attende. Nelle formule di giuramento troviamo alcuni elementi essenziali per la comprensione del ruolo delle regine madri. Innanzitutto lei è responsabile del villaggio e di tutti i suoi abitanti, inoltre essa assume il ruolo di rappresentare la sua famiglia che sarà comunque presente nelle decisioni che verranno prese. Si è già riferito dei doveri che legano la regina madre al suakunlu abusua di cui rappresenta il potere. 135 Il suo ruolo di madre non si esaurisce nella gestione dei problemi di varia natura che potrebbero riguardare la famiglia. Essa, in quanto madre ha doveri precisi anche nei confronti del villaggio. Capita spesso tuttavia, che la residenza dell’ahemaa, come quella del nanà, non coincidano con il luogo dove questi detengono il seggio. In tal caso, se dovesse esserci qualche problema particolarmente grave, occorrerà che lei si metta in viaggio per discutere la situazione e concordare una soluzione. Questo è vero più nella teoria che nella pratica. Si era accennato al fatto che a livello di villaggio esiste una figura di tipo elettivo, il tufuhene, che funge da tramite tra la popolazione e la famiglia al potere. Spesso la coppia reale è distante dalla propria zona e se ne disinteressa. La gente tende quindi a rivolgersi al tufuhene che vive quotidianamente a contatto con le esigenze e i problemi della gente. La casa di Egya Belecci, il tufuhene di Kenghen dove sono stata ospite, era un continuo viavai di persone, che si rivolgevano a lui per ogni tipo di questione. Da un certo punto di vista, la vera ragione d’essere della regina madre sembra risiedere nella difesa del potere del suo lignaggio e questa cosa mi è stata confermata in più colloqui. Quasi sempre manca il contatto con la gente, questa considerazione mi è stata suggerita da due fatti. Nel corso delle interviste, ogni volta che chiedevo in modo diretto alle regine madri quali fossero le ragioni (a livello personale o di conflitti interpersonali) per i quali le persone si rivolgevano loro, la risposta era più o meno la stessa, ossia: se qualcuno chiede il loro aiuto, loro intervengono perché è loro dovere. Ho pensato che probabilmente per un questione di riservatezza queste preferissero non entrare nel merito. Il secondo suggerimento mi è venuto dai colloqui informali avuti con le ragazze e le donne dei villaggi di Beyin e Ngherekazo. Ho domandato loro a chi chiedono consiglio in caso di problemi e quello che è saltato fuori mi ha lasciata inizialmente perplessa. Tutte hanno infatti dichiarato che in caso di problemi o di litigi esse si sarebbero dirette al tufuhene, il quale avrebbe poi valutato se gestire lui stesso la situazione o se mandare a chiamare il nanà. 136 La mia perplessità derivava dalle mie letture sulle regine madri ashanti (appartenenti come gli nzema al gruppo akan e tra i quali ci sono molte somiglianze), le quali hanno una propria corte nella quale ascoltano e giudicano i casi che riguardano le questioni femminili. Solo dopo aver parlato con le donne dei villaggi ,mi è sorto il dubbio, confermatomi poi da altre conversazioni, che le regine madri nzema non avessero alcuna incidenza nella risoluzione delle controversie che riguardano le donne. I problemi e i conflitti che riguardano la popolazione vengono quindi gestiti esclusivamente dai capi. Restava comunque da chiarire in che modo le regine madri concorrano al benessere della propria gente e al miglioramento dei villaggi. Eva Avilabob mi ha fornito qualche indicazione più specifica, facendo riferimento a sostegni di tipo economico in caso di malattia o estremo bisogno. Ama Gnamole Alloi mi ha riferito che nel caso in cui dovesse esserci un problema che riguarda le giovani del villaggio, lei vi si recherebbe per discutere la questione con la popolazione, ma non è entrata nel merito del tipo di problemi. Un’altra differenza con le regine madri ashanti risiede nel fatto che in area nzema l’ahemaa non ha nessun ruolo connesso alla maturazione sessuale delle ragazze, mentre le prime, come già segnalato, appuntano in un apposito registro i nomi delle ragazze che hanno avuto la loro prima mestruazione. La sfera di intervento delle ɔhema a livello di villaggio si applica ad ambiti più che altro gestionali-organizzativi o di costume e trova applicazione nel momento in cui la regina madre risiede sul posto. L’unica persona dalla quale ho avuto una descrizione più dettagliata dei lavori della regina madre nel proprio villaggio è stata Ebala Etchi, ahemaa di un villaggio in cui il seggio è conteso da decenni da due differenti lignaggi. Ebala è una donna molto forte e determinata che ha particolarmente a cuore la sua gente. Spesso si reca a casa di famiglie particolarmente indigenti e offre loro un sostegno economico. Tutti nel villaggio sembrano tenerla sinceramente in grande considerazione. Ella mi ha spiegato che la cosa più difficile del suo lavoro consiste proprio nel ruolo di 137 comando sulle persone. Quando c’è bisogno di indire una riunione, occorre informare tutta la gente affinché l’intera popolazione sia presente. A tal fine lei manda per le strade un portavoce che al suono del gongon (una campana utilizzata anche nell’esecuzione delle musiche tradizionali) annuncia l’imminente raduno. Questo però può non essere sufficiente. L’ahemaa manda allora un messo di porta in porta affinché la notizia raggiunga più gente possibile. Una delle cose più difficili è quindi convincere le persone a partecipare alle riunioni. I motivi per i quali organizza incontri sono di vario tipo, ma mi pare opportuno riportare tutti quelli che mi sono stati riferiti. La chiamata della popolazione avviene nel momento in cui occorre fare dei lavori di pulizia del villaggio; bisogna diffondere notizie intorno a un’epidemia contagiosa; è prevista la visita di qualche autorità politica; c’è un problema che riguarda la frequenza scolastica; i giovani e le giovani assumono comportamenti poco decorosi, come indossare vestiti troppo succinti o portare i capelli lunghi; è necessario informare in merito a eventuali possibilità lavorative. Si tratta fondamentalmente di azioni volte al miglioramento del villaggio e alla sua salvaguardia, sia sotto il puto di vista sanitario che morale. L’ahemaa dell’ɔmanhene mi ha riferito che a volte convoca le donne del villaggio e offre dei suggerimenti per le migliorie che potrebbero essere apportate. Pare non esserci una grande differenza tra quest’ultima e le altre ɔhemaa; l’unica cosa che la rende riconoscibile sta nel fatto che essa è l’unica che può sedere al lato sinistro dell’ ɔmanhene durante gli incontri pubblici. In caso di grandi eventi essa può rivolgersi alle altre per avere il loro aiuto, ma, a differenza del re, non ha voce in capitolo sugli affari dei seggi che non le competono. Da questi dati si può affermare che i doveri delle regine madri nei confronti della loro popolazione ricalchino quelli che hanno nei confronti del re ossia: consigliare; preservane l’integrità e l’ordine; proteggerlo da eventuali minacce. Tutti questi attributi sono da collegarsi alla maternità, che trova nel ruolo dell’ɔhemma la sua massima espressione. Bisognerebbe però verificare, sulla base di una casistica più ampia, se tale 138 abnegazione riguarda pochi casi isolati dovuti alla solerzia individuale, o se è prassi laddove residenza e villaggio sul quale le regine madri detengono il potere coincidono. 3.2 Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazione In che modo le regine madri nzema si rapportano con le loro responsabilità? Quali sono secondo loro, le caratteristiche che le rendono riconoscibili rispetto altre donne? Come descrivono la propria carica? Questi aspetti mi sono sembrati particolarmente interessanti da esplorare, soprattutto nell’ottica di un’eventuale proposta di installazione nei locali del Museo. Ho cercato innanzi tutto di comprendere la relazione che c’è tra le responsabilità cui sono investite e la loro sfera emotiva; a tal fine ho domandato ad ognuna di loro di raccontarmi come hanno vissuto la notizia della propria nomina. In secondo luogo, ho domandato loro come io avrei potuto riconoscere un’ɔhemma in mezzo ad altre donne e quali sono le eventuali interdizioni cui le regine madri sono sottoposte. Infine ho chiesto ad ognuna di loro di citarmi un proverbio sul loro ruolo. L’atteggiamento generale nei confronti della carica è investito in cinque casi su otto, da una volontà di rifiuto iniziale. Una tra queste, mi ha raccontato di essere fuggita prima che potessero convocarla per catturarla e metterla nella stanza, perché aveva sentito delle voci intorno alla sua nomina. In seguito, al momento del decesso della regina madre scelta al suo posto, lei si è sentita pronta ed ha accettato la carica che le era stata riproposta. Un’altra mi ha invece riferito di una sua fuga temporanea, e di essere però stata in seguito convinta dalla famiglia a tornare sui suoi passi e ad accettare. Le altre quattro hanno ammesso che se avessero conosciuto in anticipo il motivo della loro convocazione, non si sarebbero presentate e si sarebbero allontanate dal villaggio. Una volta ricevuta la nomina in via ufficiale non è possibile opporre un rifiuto, l’unica soluzione rimane quindi la fuga. Solamente due su otto hanno dichiarato di non avere avuto alcuna esitazione, di essere state felici perché veniva offerta loro la possibilità di battersi per la difesa della loro famiglia e per il bene della propria gente. 139 Le motivazioni di questa tendenza al rifiuto stanno nei problemi che provengono dalla carica. Questa è vista come continua fonte di rischi e problemi. Eva Avilabob, che è stata insediata all'età di 35 anni, ritiene che, anche se per il momento il suo lavoro è interessante e le condizioni generali sono tranquille, in futuro giungeranno sicuramente dei problemi, perché questi provengono dal passato e non si può mai prevedere il momento in cui torneranno a manifestarsi. I problemi potrebbero giungere dalle stesse persone che l’hanno scelta come ahemaa, perché inizialmente tutti si mostrano riverenti, ma sembra che il tempo porti necessariamente con sè delle complicazioni. Eva Avilabob prima di rispondere a questa domanda ha voluto conoscere l’uso che avrei fatto di queste informazioni e se sarebbero circolate anche in area nzema. Solo dopo essere stata rassicurata su questo punto ha iniziato a parlare liberamente, questo non fa che confermare le sue parole in merito alla delicata situazione in cui le regine madri si trovano ad operare. I problemi possono essere interni alla famiglia così come riguardare la legittimità del seggio, ma si possono anche collegare ai rapporti con l’ɔmanhene o con agenti esterni. Ena II mi ha fornito un esempio di situazione conflittuale nel suo villaggio per il quale lei continua a battersi strenuamente. A Nhaule, il villaggio di Ena II, esistono pesanti tensioni tra la popolazione e la casa regnante. Vent’anni fa il precedente nanà aveva sottoscritto un contratto con un cementificio. Tale contratto era stato stipulato senza previa consultazione con la regina madre e con l’abusua kpanily, cosa che in sé va contro la tradizione. A quanto pare, le attuali condizioni contrattuali tendono a svantaggiare la popolazione la quale, tuttavia, vede nell’impresa interessata un’opportunità lavorativa. Lo stesso ɔmanhene appoggia la ditta. Le parole dell’ahemaa lasciano intravedere due livelli di conflitto: uno nei confronti della popolazione, che deve essere convinta ad accettare decisioni prese per il suo bene, l’altro nei confronti dello stesso ɔmanhene il quale riceve degli introiti dalla concessione delle terre all’impresa, ma che non potrebbe ignorare la volontà dell’ahemaa e dell’abusua kpanily. Questo preambolo è servito ad Ena II come esempio per spiegare quale sia la vera 140 natura della regina madre in area nzema. Essa dichiara senza mezzi termini che, poiché è attraverso la linea materna che si trasmette il lignaggio ed il potere ad esso connesso, sarà l’ahemaa, piuttosto che il nanà, a lottare più forte per difendere il diritto sulla gestione delle terre di famiglia. Ribadisce inoltre l’importanza della conoscenza della storia perché il potere è sempre soggetto a rovesciamenti, è quindi essenziale essere in possesso delle giuste conoscenze per difendere la posizione della propria famiglia. Tra i proverbi citatimi uno può illustrare bene questo pensiero e cioè: "Abusua bedi ye be nli akunlu nu" che significa che “il ventre della madre è la vera catena dell’abusua”. Un’ahemaa deve sempre essere di esempio e mantenere un comportamento che sia composto e rispettoso della tradizione. Per questo motivo sono a lei precluse attività quali mangiare o danzare in mezzo alla strada e discutere in pubblico. L’immagine che le ɔhema trasmettono in merito a loro stesse è quella di una persona dotata di una straordinaria forza di carattere ed educata ad avere decoro e rispetto. Essa deve essere nello stesso tempo combattiva e protettiva. Gli attributi della sua maternità non si limitano alla propria area di giurisdizione. Infatti, quando un’ahema è in viaggio essa è immediatamente riconoscibile. I suoi capelli devono essere corti, altrimenti non ci sarebbe differenza con tutte le altre donne. I sandali sono di una foggia particolare rispetto alle scarpe indossate comunemente, ed essa indossa sempre abiti tradizionali e comunque non può mai portare i pantaloni. Un altro segno distintivo è costituito dai bracciali e dalle collane di pietre dipinte, che sono tipici attributi della regalità. Anche se questi ornamenti hanno ormai un’ampia diffusione anche a livello turistico, non è mai decoroso che un locale ne indossi troppi o di troppo elaborati perché sarebbe indice di superbia. Quando una regina madre è in viaggio è tenuta a prestare soccorso a chiunque ricorra al suo aiuto, foss’anche uno straniero, perché “l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo”. Il suo ruolo di protezione come madre è invece espresso dalle formule che stabiliscono che “un buon pollo copre i suoi pulcini” e che “mai le zampe di un pollo pestano i suoi 141 pulcini”. Ho incontrato due livelli di rappresentazione del potere tradizionale femminile presso gli nzema: da un lato, quello delle dirette interessate che descrivono se stesse come soggetti combattivi e che hanno in mano la sopravvivenza del suakunlu abusua e del villaggio. Dall’altro quello della gente che, pur esplicitando l’importanza del ruolo delle ɔhema, ha dichiarato che in caso di problemi gravi ricorrerebbe non a quest’ultima, ma al giudizio del nanà o al consiglio del tufuhene. La mia impressione è che, nonostante la dichiarata responsabilità nei confronti della popolazione, il loro ruolo effettivo consiste nel salvaguardare il potere e mantenerlo nelle mani della propria famiglia. Le regine madri sono spesso viste come ausiliarie dei capi visto che :"raalε sie boane a renya a pε ye bolε a" (anche se la donna alleva la pecora, è l’uomo che conosce il prezzo al quale venderla). Sarebbe auspicabile una più approfondita analisi dei rapporti che intercorrono tra le regine madri e i propri villaggi, in particolare dove seggio e residenza coicidono. Tale indagine dovrebbe essere mirata a verificare se esistano o meno le premesse per utilizzare queste donne come punto di raccordo per iniziative volte al miglioramento della condizione femminile. Idealmente, le regine madri potrebbero costituire un ponte tra i villaggi e le attività del Museo. Queste infatti, in linea teorica, dovrebbero essere a conoscenza dei problemi che riguardano la loro zona; inoltre gran parte di loro ha dichiarato di svolgere un lavoro (piccolo commercio, sartoria, etc.) per potersi permettere gli spostamenti legati ai loro doveri, cosa che le rende più vicine al quotidiano delle donne comuni; infine godono di una maggiore mobilità che le porta ad incontrarsi tra di loro in occasioni pubbliche o durante i funerali. Si tratta di verificare fino a che punto il loro coinvolgimento in eventuali programmi di sviluppo rivolti alle donne, sia fattibile e potenzialmente fruttuoso. Un’ipotetica installazione sul senso comune che gira intorno alle regine madri dovrebbe tenere conto sia del punto di vista delle stesse, che di quello della popolazione. 142 Quello che mi pare opportuno mostrare, è l’esaltazione delle ɔhema in quanto madre del seggio in primis e di tutto il mondo poi. La mia proposta è di localizzarla nella sala “della tradizione” dove sono trattate le storie di fondazioni dei villaggi; il festival del Kundum (capodanno Nzema); la memoria storica di tradizione orale; le musiche e gli strumenti tradizionali. L’esibizione potrebbe consistere in un dipinto su tela di medie dimensioni. Questo potrebbe rappresentare una donna che sia immediatamente riconoscibile come un ɔhemma e cioè: dai capelli rasati, abbigliata in modo tradizionale (vestiti e ornamenti) e con in mano “lo scacciamosche”. Per quanto riguarda l’esaltazione della maternità, si potrebbe pensare a un cordone ombelicale che termina in un seggio (“il ventre della madre è la vera catena dell’abusua”). Parallelamente, si potrebbe disegnare un globo terrestre all’interno del ventre della donna (l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo). Sullo sfondo andrebbero scritti i proverbi in lingua nzema. Accanto a questi potrebbe essere disegnate le perline con le quali si realizzano i bracciali e le collane regali. Queste servirebbero come richiamo per un breve commento in inglese di ognuno, da trascriversi su un piccolo pannello da porsi accanto al dipinto. Il richiamo potrebbe essere reso concreto incastrandovi materialmente il corrispettivo tangibile delle perline disegnate. Nella sala dedicata al potere tradizionale, posta al pian terreno, il visitatore ha già ricevuto informazioni sul sistema di discendenza e sull’organizzazione politica tradizionale. Attraverso le fotografie dei capi e delle regine madri ha inoltre presente il modo in cui questi si presentano ed è quindi in grado di stabilire un collegamento. Questo tipo di installazione risulterebbe quindi leggibile anche da chi non è avvezzo all’universo culturale nzema e fornirebbe una rappresentazione coerente sia con quanto espresso dalle stesse regine madri, che con il generale senso comune veicolato dai proverbi. Il resto del materiale, raccolto con tanto di documentazione audio, dovrebbe essere inserito nel futuro archivio, per consentire una panoramica più completa e fornire la 143 basi per eventuali future ricerche Conclusioni I casi etnografici riportati, eterogenei sia sotto il punto di vista dei contenuti che sotto il profilo della contestualizzazione storica, forniscono un ampio panorama di situazioni che hanno a che vedere con i ruoli di potere femminile in alcune società dell’Africa Occidentale. Dalla comparazione di questi casi è emerso che l’azione delle donne, che svolgono funzioni tutt’altro che marginali, è mirata e consapevole. Ciò è valido sia per quella serie di situazioni in qualche modo riconducibili all’ambito tradizionale, sia per quanto riguarda tendenze, individuali o associative, volte al miglioramento della propria condizione. Le figure di potere passate in rassegna si configurano in molti casi come fonti di cambiamento e di conflitto, soprattutto in situazioni d’instabilità politica. In altri casi,il ruolo è formalizzato ed ha principalmente la funzione di mantenere l’ordine e la stabilità,ma questo non esclude spazi d’intervento individuali. Per quanto riguarda l’ambito rituale si è potuto osservare che questo incorpora tendenze potenzialmente disgregatrici e contribuisce a preservare l’ordine. Questa caratteristica non è pertinente solamente ai rituali di ribellione presenti tra gli ondo yoruba, ma è ravvisabile anche nel culto di Nne Mmiri osservato tra gli igbo di Onithsa. Nel primo caso le donne esprimono il proprio disappunto nei confronti del re La disapprovazione e la ribellione al controllo esercitato sulle donne si esprime attraverso i versi satirici durante l’oramfe, e per il tramite del “ritardo” delle mogli reali durante l’odun-obi. Tra gli igbo invece, le tensioni latenti nei rapporti tra generi sono espresse dal fatto che adepte e officianti del culto della divinità acquatica sono soprattutto donne che non accettano di sottomettersi ai dettami della vita coniugale. Sempre tra gli igbo, i gruppi delle “figlie del lignaggio”, delle “mogli del lignaggio” e quelli costituiti dalle classi d’età, svolgono funzioni di educazione e sostegno, ma sono 144 anche uno strumento di pressione e controllo sociale dal quale possono muoversi istanze conflittuali. A livello di comando, donne di corte e mogli reali hanno agito singolarmente o in gruppo, per favorire i propri interessi. In Benin, Lagos e Dhaomey, coloro le quali sarebbero poi state scelte come regine madri, hanno parteggiato attivamente in favore di un candidato alla successione al trono, fornendo in qualche caso anche supporto militare ed organizzando ribellioni. Nel Dahomey, le kpojito hanno governato alla pari con il re, favorendo in modo decisivo il riconoscimento della dinastia attraverso l’introduzione di nuovi culti. Anche se, attualmente, le donne del palazzo reale sono considerate semplici ausiliarie e vivono nel più rigoroso isolamento, queste muovono le fila per favorire i propri famigliari nell’accesso a cariche importanti. L’instabilità politica e l’incertezza delle regole di successione hanno probabilmente giocato in favore di queste donne, ma ciò non deve sminuire il fatto che le azioni intraprese siano state il frutto di scelte individuali, mirate ad aumentare e consolidare il proprio potere e la propria ricchezza. Nel regno del Kongo, le donne legate all’elite reale hanno acquisito sempre più potere, inizialmente attraverso gli eredi al trono, in seguito esercitando il controllo diretto di molte aree periferiche. Queste giunsero a muovere eserciti e ad essere considerate vere e proprie regine. A livello di leadership politica tradizionale le regine mende hanno esercitato il loro potere in aree molto ampie. Esse hanno agito come qualunque altro capo avrebbe agito: stringendo alleanze e mobilitando truppe. Hanno inoltre colto la portata dei cambiamenti in corso e costruito buoni rapporti con il governo coloniale. Ben lungi dall’essere state soggetti deboli nelle mani degli amministratori britannici, esse hanno elaborato, in un momento di crisi, la migliore strategia per mantenere il proprio potere e per difendere la propria gente. In area Akan, dove le regole della successione sono ben definite, il ruolo di regina madre viene a assumere connotati più specifici. La carica ha mantenuto la sua legittimità sia durante l’imposizione dei governi coloniali che con l’entrata in vigore delle varie costituzioni nazionali. 145 Al di là delle responsabilità specifiche, che differiscono sotto alcuni aspetti a seconda che ci si trovi in territorio nzema o in area ashanti, la loro peculiarità risiede nell’essere considerate “madri” del re e del lignaggio reale. Esse sono responsabili prima che di ogni altra cosa, di mantenere saldo il potere nelle mani della propria famiglia ed incarnano tutti i valori connessi alla maternità. Le regine madri Krobo, presso i quali il modello di governo tradizionale si è costituito alla fine del XVII secolo sulla base di quello akan, lavorano in modo congiunto e associato per favorire il miglioramento delle condizioni economiche femminili e si battono per la propria inclusione nelle case regionali e nazionali dei capi. Forti tendenze all’autodeterminazione sono esistite in passato tra le donne dello stato di Edo, le quali hanno saputo approfittare della benevolenza mostrata nei loro confronti da parte dell’amministrazione coloniale, per scappare da situazioni di vessazione e abbandono. In tempi più recenti le commercianti edo, riunite nei gruppi di mercato, hanno cercato un collegamento con le associazioni che operano a livello nazionale, ai fini di incrementare le loro possibilità di crescita economica. L’associazionismo e il cooperativismo, soprattutto nelle aree rurali, sono da considerarsi a pieno titolo strumenti attraverso i quali le donne dell’Africa Occidentale contemporanea manifestano la propria azione politica e la propria spinta all’autodeterminazione. Generalmente, i programmi nazionali e locali per il miglioramento della condizione delle donne prendono le mosse dalle attività di produzione e trasformazione del cibo e dall’artigianato locale. Questo rientra in piena linea con le riflessioni condotte in precedenza in merito all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo locale. Da un lato abbiamo i luoghi, i saperi, le tecniche, le memorie genealogiche e i ruoli di potere che si legano alla tradizione e che sono indispensabili all’equilibrio sociale; dall’altro c’è la tendenza al rafforzamento della propria condizione, che abbiamo visto affiorare nel corso della storia laddove le circostanze l’hanno reso possibile e che trovano oggi espressione in forme di sostegno reciproco che spaziano dalle raccolte di fondi alla partecipazione a forme di associazionismo. In qualche caso questi due aspetti dialogano tra loro, come nel caso delle regine madri 146 krobo o in quello delle associazioni di commercianti edo. Questa volontà delle donne di porre in relazione saperi tradizionali, potenzialità insite nel territorio, con il miglioramento generale delle condizioni materiali dell’esistenza (propria e dei loro villaggi), potrebbe trovare un valido campo di applicazione nelle tendenze museali cui si è fatto riferimento. Nelle aree prese in considerazione, i processi di valorizzazione e tutela dei patrimoni locali al servizio dello sviluppo, dovrebbero porre una particolare cura verso il miglioramento della condizione femminile e puntare al coinvolgimento di coloro che detengono ruoli di potere. Le donne, infatti, soprattutto nelle aree rurali, pur godendo di una relativa autonomia economica, sono ancora subordinate all’autorità maschile. Come proposto per il caso nzema occorrerebbe implementare programmi di sviluppo collegandoli, dove possibile, alle reti associative locali e nazionali e le figure di potere potrebbero svolgere in questo senso un’importante funzione di raccordo. 147 Bibliografia: ABIMBOLA W.,1997, Images of women in the Ifa literary corpus. The New York Academy of Sciences,New York ABRAHM A.,1978, Mende Government and Politics Under Colonial Rule, Sierra Leone University Press ,Oxford -Freetown AMADIUME I,1987,Gender and Sex in an African Society, Zed Books,Londra/New Jersey AIME, M.; LATOUCHE, S.,2002, La casa di nessuno i mercati in Africa occidentale Marco Aime introduzione di Serge Latouche,Boringhieri,Torino AKYEAMPONG, E.; OBENG, P.,1995, Spirituality, Gender, and Power in Asante History. The International Journal of African Historical Studies, Vol. 28, No. 3 AMSELLE, J.-L.,1999,Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove. 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