Canofari Annalisa, Potere femminile in Africa Occidentale

Transcript

Canofari Annalisa, Potere femminile in Africa Occidentale
Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantorpologici
Potere femminile in Africa Occidentale
Candidata
Relatrice
Annalisa Canofari
Prof.ssa Cecilia Pennacini
1
INDICE
Introduzione
4
Capitolo I
Figure di potere femminile tra Ghana e Nigeria
1
Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali
tra gli oru-igbo e gli ondo-yoruba.
9
1.1
Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di Oguta
12
1.2
Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni rituali.
21
2
Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igbo
27
3
Il controllo nei mercati cittadini:
market-queen e associazioni di commercianti
35
Capitolo II
Potere politico e ricerca di autonomia
1
Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo
di Benin City.
42
2
Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra Leone
54
3
Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminili
65
Capitolo III
Regine Madri
1
Regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali 75
1.1
Iyoba
75
1.2
Kpojito
80
2
Regine madri in Ghana tra Ashanti e Krobo
86
2
Capitolo IV
Il ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio del
Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History:
1
Musei e sviluppo
98
1.1
Quadro generale
99
1.2
L’istituzione museale Africa
103
2
Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History
108
2.1
Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopolitico
109
2.2
Fort Apollonia
114
2.3
Un progetto di valorizzazione integrale
116
2.4
Il Museo
120
2.5
Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempi
125
3
Regine madri Nzema e proposta di installazione nel Museo
130
3.1
Ambito socio-politico
132
3.2
Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazione
139
Conclusioni
144
Bibliografia
148
Sitografia
151
3
Introduzione
Il presente lavoro nasce da un’esperienza di campo durata tre mesi e mezzo, in area
nzema, da luglio a novembre del 2010 Durante la mia permanenza ho assistito e
collaborato alla realizzazione del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History,
una struttura che non si chiude in se stessa, ma che vuole aprirsi al territorio
circostante attraverso la creazione di sentieri eco-turistici e la creazione di attività volte
allo svilupo locale. Il mio interesse si è rivolto prevalentemente alle aemaa, le
rappresentanti femminili del potere tradizionale. La Missione Etnologica Italiana in
Ghana (MEIG), presente sul territorio dal 1945, ha prodotto una cospicua quantità di
studi sulla chieftaincy, ma nessuno di questi ha approfondito il ruolo delle regine madri
nell’area. La mia indagine ha quindi preso le mosse dalla letteratura scientifica
riguardante altre zone, in particolare sulla regione degli ashanti, che rientrano, come gli
nzema nel gruppo Akan. Il mio campo di interesse si è poi allargato
ad un più
composito insieme di autorità femminili che operano, o hanno operato, in alcune zone
dell’Africa occidentale.
Gli studi occidentali che si sono occupati di questioni relative il potere femminile in
Africa hanno utilizzato il termine “regine madri” per riferirsi ad un insieme eterogeneo di
cariche detenute da donne legate a vario titolo al lignaggio reale. Tali figure, presenti
sia in gruppi con sistemi di discendenza patrilineare che matrilineare, esercitano un
potere spesso complementare a quello esercitato dal re.
4
Sul piano simbolico esse rappresentano un modello ideale che deve essere di esempio
per tutte le altre donne.
La carica può essere ereditata all’interno dello stesso lignaggio o conseguita per
merito. Nel primo caso re e regina sono legati da rapporti di parentela, come
fratello/sorella, zia/nonna-nipote, etc. Nel secondo caso la regina madre potrebbe
essere la moglie o la sorella di un ex sovrano, la madre biologica, classificatoria o
adottiva del re o addirittura un membro della società esterno alla casa regnante, ma
dotato d’influenza e ricchezza.
Roscoe (Roscoe, 1911) e Oberg (Oberg, 1948), concentratisi sulla regione dei grandi
laghi, hanno tentato di offrire una chiave interpretativa della carica di regine madri in
senso rituale.
Secondo gli autori, la ragione principe dell’esistenza di simili figure fornire protezione
magica al re e al suo trono è considerata la ragione principe dell’esistenza di simili
figure
Choen critica questa posizione facendo notare come, sebbene spesso molte di loro
ricoprano anche responsabilità nell’ambito rituale, non va dimenticata la presenza di
professionisti della sfera magico-religiosa dediti alla tutela della casa regnante (Choen,
1997).
Nello stesso articolo, Choen prende le distanze anche dalla posizione espressa da Luc
De Heusch, 1958, il quale aveva focalizzato la sua attenzione sul significato
dell’incesto reale.
Egli elabora la sua teoria a partire da dati inerenti vari rituali di corte nelle regioni
interlacustri dell’Africa centro-orientale. Il focus della sua analisi risiede nella
separazione rituale del re attraverso la cerimonia d’insediamento. Durante tale
cerimonia, nelle società prese in considerazione, il re consuma una pratica incestuosa
con una delle sue sorellastre. De Heusch propone che quest’ultima sia una sostituta
simbolica della madre del re: questa, infatti, ricoprirà la carica di co-reggente e dovrà
rimanere casta per il resto della sua esistenza, mentre alla sorellastra sarà precluso
partorire figli (De Heusch, 1958).
Sempre secondo De Heusch, le strutture di autorità centralizzata vanno oltre i legami di
parentela poiché ogni classe e gruppo di discendenza concorre all’organizzazione del
5
sistema politico (De Heusch, 1962).
La separazione del futuro re dal resto della società è frutto, secondo De Heusch, di una
serie di pressioni selettive, sviluppatesi su uno sfondo politico non statalizzato, che ha
dato forma allo statuto simbolico della regalità (Choen, 1997: 15).
Affinché il re possa governare è necessario quindi che esso sia separato sia dal suo
gruppo di discendenza sia dalla popolazione.
La cerimonia d’insediamento e la recita (concreta o simbolica) del dramma edipico
coincidono con la rappresentazione di questa separazione.
Il fatto che il nuovo re assuma al suo fianco la propria madre implica la vittoria di
questo sul suo predecessore. In quest’ottica, la carica di regina madre è strettamente
legata al riconoscimento del nuovo potere e non ha altra ragione che fornire legittimità
allo status simbolico del neo-eletto sovrano.
Choen (Choen, 1997) si distacca dalla rappresentazione che abbiamo qui brevemente
descritto di De Heusch fornendone una di stampo sociopolitico. La sua analisi prende
le mosse da una serie di dati sul regno di Biu (nord-est della Nigeria) in cui si può
vedere che la regina madre rappresenta il segmento di lignaggio che viene escluso
dalla successione al trono. Egli assume che l’organizzazione statale necessita di
accordi tra governanti e governati; le relazioni che nascono da questi accordi sono alla
base dell’organizzazione dello stato e della sua continuità (Choen, 1997: 16).
La carica di regina madre aveva la funzione di arginare il pericolo di disgregazione del
fragile sistema politico concorrendo così all’unità simbolica dello stato.
Sul piano politico era in grado di stringere alleanze fondamentali al mantenimento di
equilibri precari; è stata quindi vista da Choen, come uno degli elementi che hanno
permesso il passaggio ad una forma di governo politico centralizzato (Choen, 1997).
L’accento posto sulla centralità delle regine madri come punti di equilibrio e ponti per le
alleanze trova riscontro in molti casi documentati, ma Choen commette l’errore di
reificare la figura femminile relegandola a ponte passivo di alleanze strette tra uomini.
Secondo Barnes (Barnes,1997) Choen non riesce a superare l’approccio che classifica
aprioristicamente la donna come agente passivo e l’uomo come attore attivo. Da
questa dicotomia se ne generano altre per le quali l’uomo è agente di
divisione/conflittualità mentre la donna incarna l’integrazione e la stabilità; il tutto come
6
in un gioco di potere dominato da soli uomini.
Va detto che, mentre il re trova la propria ragione d’essere in se stesso, il titolo di
regina madre è sempre acquisito in relazione ad un’altra figura.
Il rapporto che lega i due può essere più o meno formalizzato a seconda dei contesti,
ma da questa relazione vengono fuori le funzioni attribuite alla carica in questione.
Aspirare al titolo o detenerlo già vuol dire incarnare tutte quelle caratteristiche legate
alla maternità (protezione, nutrimento, cura, difesa, punizione).
Nel caso delle regine madri, queste caratteristiche sono amplificate, escono dalla sfera
domestica ed agiscono nella sfera del pubblico e del sociale.
In sintesi: il titolo rende formali i doveri di ogni madre e poiché l’accesso al potere è
sempre conseguenza di una competizione, queste caratteristiche assumono contorni
politici (Barnes, 1997).
Gli studi femministi hanno aperto una prospettiva di genere sulle figure di potere
femminile. I casi passati in rassegna non si concentrano esclusivamente sulle regine
madri, ma riguardano un ampio spettro di situazioni in cui a vario titolo, le donne hanno
esercitato ed esercitano il proprio potere politico.
Ho voluto mutuare da Flora Kaplan (Kaplan, 1997) una definizione allargata di potere
politico inteso come “possibilità di prendere decisioni intorno a risorse, materiali e
immateriali, che interessano uno o più gruppi nelle arene pubbliche…(tale potere è)
ampiamente definito e applicato alle associazioni di donne basate su interessi reciproci
e attività scarsamente strutturate e anche informali” (Kaplan, 1997: 248).
Quello che mi propongo di fare è mostrare come le donne, in Africa Occidentale hanno
agito ed agiscano attivamente, ponendosi, a volte, come elementi in grado di generare
conflitto. Intendo inoltre mostrare la loro capacità di cogliere opportunità offerte dalle
circostanze contingenti per ottenere un miglioramento della propria condizione e
proporre che questa predisposizione dovrebbe essere tenuta in considerazione nelle
pratiche di patrimonializzazione applicate al contesto africano.
Si vedrà quindi che non sempre l’influenza dei governi coloniali ha causato una perdita
di potere da parte delle donne, ma che, in qualche caso, questi si sono mostrati
interlocutori aperti che ne hanno incentivato e promosso l’azione individuale e politica.
Nel primo capitolo si prenderanno in considerazioni tre diverse sfere di esercizio del
7
potere che mettono in risalto la tensione conflittuale nei rapporti tra generi (sfera rituale
e gruppi femminili incorporati nella struttura sociale), e la spinta verso tendenze
modernizzatrici a partire dalla tradizione (associazioni di commercianti e regine dei
mercati)
Il secondo capitolo intende rendere conto della capacità di operare scelte soggettive
allo scopo di servire i propri interessi personali. Si farà riferimento sia a importanti
donne di palazzo (regno del Kongo) che a capi femminili legittimati dalla tradizione
(regine mende).
Ci si riferirà infine alle azioni delle donne dello stato di Edo, che durante il periodo
coloniale, hanno lottato per raggiungere un maggior margine di autonomia rispetto alle
rigide strutture patriarcali che le vedevano come poco più che merce.
Il terzo capitolo esamina il ruolo delle regine madri in diversi contesti storico-culturali. I
casi proposti riguardano sia situazioni in cui l’ascesa delle madri reali si è legata
fondamentalmente a situazioni d’instabilità politica (Dhaomey e Lagos precoloniali), sia
contesti contemporanei (ashanti, krobo) dove le regole di successione sono ben
definite ed il ruolo delle regine madri assume contorni più specifici.
Il quarto capitolo vuole rendere conto della mia esperienza di campo in area nzema e
della realizzazione di un museo dedicato al loro territorio e alla loro cultura.
A partire dalle tematiche al centro dei dibattiti museali contemporanei, in merito
all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo (De Varines, 2005), si vuole
proporre il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History come buon esempio
di pratica museale nei contesti africani. Si renderà conto della mia indagine sulle
aehmaa nzema e si avanzeranno delle proposte in merito al coinvolgimento attivo delle
donne nelle attività di sviluppo previste dal progetto del Museo.
8
Capitolo I
Figure di potere femminile tra Ghana e Nigeria
1. Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali tra gli oru-igbo e gli
ondo-yoruba.
Si vuole qui rendere conto di alcune sfere di azione femminile che trovano spazio
nell’ambito delle performances rituali, sia che si tratti di un agire concreto, in qualità di
sacerdotesse o officianti, sia che si parli di partecipazione a determinati rituali. Le
popolazioni prese in considerazione sono quella degli oru-igbo, e gli ondo-yoruba.
Il gruppo linguistico degli igbo è situato soprattutto in Nigeria, della quale costituisce il
17% della sua popolazione, ma sono presenti significativi insediamenti anche in
Cameron e nella Guinea Equatoriale.
In questo contesto si fa riferimento più specificatamente agli oru-igbo della zona di
Oguta.
Prima di passare alla trattazione vera e propria pare opportuno dare una sommaria e
più generale descrizione dell’organizzazione socio-politica di questo variegato insieme
di popolazioni comunemente riunito sotto il nome di olu non igbo (coloro che vivono
nelle pianure e negli altipiani).
Prima del colonialismo europeo, i sottogruppi igbo vivevano in localizzate comunità di
villaggio interrelate tra loro da scambi matrimoniali e commerciali come da migrazioni
9
o guerre di conquista.
A livello di organizzazione politica si hanno due differenti situazioni:1
repubblica democratica di villaggio: si tratta di comunità gestite da un capo (obi o
eze), visto come a servizio della comunità, e dai suoi consiglieri (nze) che hanno il
compito di rappresentarlo e di aiutarlo nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella
difesa da eventuali intrusioni esterne;
Monarchia costituzionale: comunità con a capo un vero e proprio sovrano (obi),
come nel il caso di Onitsha e da una serie di consiglieri ed alti capi.
A questa figura di potere maschile ne corrispondeva una femminile, parallela e
complementare (omu) il cui ruolo fu però sospeso in epoca coloniale e mai più
reintrodotto.
L’organizzazione sociale è basata su unità esogamiche patrilineari (umunna, ogbe,
idumu, esi), ma in passato in determinate aree si sono avute anche forme di
discendenza matrilineare o bilaterale.
Il compound, la fondamentale unità residenziale, è abitato da un uomo, i suoi figli, le
sue co-mogli ed eventuali cugini patrilineari. Generalmente ogni moglie ha il proprio
spazio, dove vive con i bambini piccoli e le figlie femmine, mentre i figli maschi abitano
in residenze separate. Qualche villaggio è cresciuto fino a diventare una città o un
regno.
In epoca precoloniale, la giustizia era amministrata soprattutto a livello di lignaggio e
solo nei casi più gravi, o laddove non si fosse riusciti a risolvere le controversie
all’interno dei nuclei famigliari, si ricorreva al consiglio di villaggio o di città, che era
composto dal capo (o dal re a seconda delle zone), dai suoi consiglieri o sotto- capi e
da altri uomini titolati.
La costa del Niger è stata un importante punto di contatto, nel periodo che va dal 1434
al 1807, per quanto riguarda il commercio degli schiavi.
I primi europei venuti in contatto con le città costiere tra il XV e il XVI secolo furono i
portoghesi seguiti dagli olandesi nel XVII e dagli inglesi Nel XVIII secolo. Nel tardo XIX
secolo gli interessi coloniali e quelli della missione cristiana collaborarono per la
colonizzazione dei territori igbo. L’impatto del colonialismo ha avuto forti ripercussioni
1
http://www.everyculture.com/Africa-Middle-East/igbo-Sociopolitical-Organization.html
10
sull’influenza attiva delle donne a livello amministrativo.
Esistono tuttavia numerosi spazi di intervento e influenza da parte delle donne, a livello
associativo e individuale.
La società igbo è spesso descritta come altamente egualitaria, nel senso che il potere
e le varie prerogative sono distribuite attraverso varie forme di titoli e associazioni,
secondo una divisione che va dal genere alle classi d’età e che consente una discreta
mobilità sociale. Per quanto riguarda gli yoruba2, con questo termine ci si riferisce ad
un composito gruppo di popolazioni appartenenti a uno dei sottogruppi linguistici dei
linguaggi kwa, all’interno della più vasta famiglia Niger-Congo.
Siti in gran parte della Nigeria sud-occidentale, in parte del Benin (ex Dhaomey) e in
Togo, occupano un territorio caratterizzato da una situazione climatica che spazia dalla
foresta tropicale pluviale all’aperta savana.
La popolazione negli anni 90 era stimata aggirarsi intorno ai 20 milioni di persone. Per
quanto riguarda i sistemi di discendenza, sono presenti forti tendenze bilaterali ma
mentre a nord, dove in passato il gruppo di discendenza coincideva con l’unità
residenziale, si tende a porre maggior enfasi sui legami agnatizi, a sud c’è più
dispersione e si accentua il legame cognatico.
Spesso questi gruppi portano il nome dei propri fondatori e al loro interno la posizione
degli anziani ancora riveste una certa importanza nella risoluzione delle controversie e
nelle decisioni da prendere, mentre in passato svolgevano anche funzioni di
rappresentanza per quanto riguardava le relazioni con l’esterno.
Lo status sociale è determinato dall’età, dal genere e dalle linee di discendenza anche
se c’erano (e ci sono) casi in cui una persona riusciva ad emergere grazie alla propria
istruzione, occupazione e benessere economico.
Spesso l’unità residenziale era composta dal largo gruppo degli agnati, le loro mogli
che vivevano in spazi separati e i loro figli.
Raggiunta la pubertà i figli maschi coabitavano in uno spazio dedicato a loro mentre le
ragazze lasciavano in giovane età la residenza natale per raggiungere quella del
marito.
2
Il termine yoruba è stato dato a queste popolazioni dalle popolazioni confinanti ed in seguito adottato dai missionari
verso la metà del XIX secolo. Gradualmente queste popolazioni hanno accettato questa definizione, ma quando si
riferiscono a se stessi parlando tra di loro utilizzano le denominazioni dei rispettivi sottogruppi come ad esempio ondo ,
Ife, Ibadan…
11
Il sistema politico era basato su un capo supremo e sull’assemblea consultiva dei capi
che a vario titolo rappresentavano i settori più disparati della società.
I loro compiti, oltre la consulenza, riguardavano la sfera amministrativa, legislativa, e
giudiziaria.
Prerogative del re erano l’esecuzione di alcuni rituali, le relazioni estere, il
mantenimento della pace, il diritto di vita e di morte sui propri sudditi.
Le strutture dei villaggi periferici replicavano in piccola scala quella della capitale ed i
rapporti tra questi ed il centro erano tenuti assieme dai funzionari di palazzo. Le cariche
reali e di comando erano ereditarie e i rami di una casa regnante potevano scegliere
tra i vari candidati. Per quanto riguarda la sfera di azione femminile, sebbene a costoro
non fosse impedito di accedere a determinate cariche, questo avveniva raramente,
perché nell’opinione comune era l’uomo ad essere ritenuto più adatto allo svolgimento
di determinati incarichi.
Oggi queste cariche permangono con funzioni mutate e perlopiù al servizio del governo
locale.
La prima annessione, da parte della Gran Bretagna, del territorio yoruba, avvenne nel
1861 e essa riguardava gli insediamenti costieri del Lagos.
Agli albori del XX secolo tutti gli yoruba erano sotto il controllo dell’impero.
Una precoce esposizione alla formazione cristiana ha agevolato l’accesso a maggiori
risorse economiche. Al momento dell’indipendenza (1960), gran parte delle più alte
cariche amministrative della regione erano ricoperte da esponenti yoruba.
Questo stato di cose ha consentito un passaggio relativamente agevole a una forma di
governo burocratizzato di stampo occidentale.
1.1 Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di Oguta
Oguta è una città fluviale dello stato di Imo famosa per il lago omonimo nel quale
confluiscono i fiumi Urashi, Njaba e Okposha.
In epoca precoloniale il sistema politico era basato sulla coesistenza di una carica
suprema maschile e di una femminile. Le due cariche erano parallele e complementari.
Il patrilignaggio esercitava ed esercita il controllo sui propri membri e sulle terre nonché
su tutti gli affari interni ed esterni.
12
Gli oru tracciano le loro origini a partire da una massiccia migrazione dal Benin
avvenuta dieci generazioni fa.
L’obi (il re) prende l’appellativo di eze igwe (re divino), ma le sue funzioni differiscono
da quelle dell’obi del Benin poiché quella degli oru si configura come una società
essenzialmente egualitaria.
Al di là delle strutture tradizionali sono presenti associazioni di commercianti, devoti al
culto delle divinità acquatiche, classi d’età e società segrete.
Si vuole qui dare un’idea del culto della principale divinità acquatica nota come Nne
mmiri (madre acqua) tra gli igbo e come Obguide o Ubammiri 3 tra gli oru-igbo di Oguta
facendo riferimento ai lavori di Sabine Jell Bahlsen (Bhalsen,1993) e a quello di Flora
Nwapa (Nwapa,1991).
Presso gli igbo il termine per indicare la parola acqua è mmiri. Le sacerdotesse di Nne
mmiri portano il nome di eze mmiri (regina dell’acqua), mentre i suoi devoti sono riferiti
come ndi mmiri (popolo dell’acqua). (Jell Bhalsen,1993).
E’ interessante notare che il termine utilizzato per designare i sacerdoti di sesso
maschile non fa riferimento all’acqua, infatti eze ugo sta a significare “re coronato” o re
con una piuma d’aquila”.
Uno dei principali attributi della divinità è quello di proteggere la gente di Oguta dagli
invasori: la leggenda vuole che durante la guerra civile 4 tenne lontane le truppe
nemiche grazie al suo ventaglio gigante.
La sua figura è talmente popolare che le sue sacerdotesse, raccolta l’acqua del lago
Oguta dove si ritiene che essa risieda, la vendono al mercato come se fosse parte
della divinità stessa.
Prima dell’avvento delle strade, le vie di trasporto acquatiche sono state a lungo
fondamentali per i rapporti di tipo commerciale sui quali le donne di Oguta avevano il
dominio quasi assoluto.
Generalmente le sacerdotesse conducono una vita isolata e agiscono individualmente,
3
4
Nel corso di questo paragrafo per fare riferimento alla divinità in questione si utilizzeranno indifferentemente i suoi vari
nomi (Nne mmiri, Obguide, Ubammiri).
La guerra civile nigeriana, nota anche come “Guerra del Biafra”, ebbe luogo fra il 6 luglio 1967e il 13 gennaio 1970, in
seguito al tentativo di secessione delle province sudorientali igbo, autoproclamatesi repubblica del Biafra. L'azione
militare del governo centrale nigeriano portò la popolazione di intere regioni a essere decimata dalla fame, e accuse di
genocidio furono mosse da esponenti igbo alla Nigeria.
13
ma in caso di grandi pericoli come guerre, inondazioni 5, carestie o pestilenze possono
giungere in gruppo in mezzo alla comunità e scongiurare il pericolo pregando e
danzando. La loro prerogativa assoluta è quella di mantenere la pace e la stabilità.
La controparte maschile esiste, ma è piuttosto raro trovare degli uomini che si
dedichino al sacerdozio di Obguide/Nne mmiri.
Secondo Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Nwapa, questo è dovuto al fatto che
il celibato è un sacrificio troppo grande per loro, mentre le donne riescono ad affrontare
con più disciplina le restrizioni cui sono sottoposte dal loro ruolo (Nwapa,1991). Il loro
potere deriva da una divinità di potere superiore, ma è la dea a scegliere i suoi adepti e
nessuno può impedire a una persona di esercitare ciò che ha così ricevuto in dono.
Sabine Jell Bhalsen (Bhalsen, 1993) si concentra sull’analisi di un’ immagine popolare,
importata dalla Germania nel 1926, in cui è raffigurata una bellissima donna con i
capelli lunghi e affiancata da una coppia di serpenti.
Opera di un autore ignoto, la cromo-poligrafia rappresentava in origine una divinità
indiana che è stata identificata a Oguta e nei suoi dintorni con una divinità acquatica il
cui nome inglese si è affermato come Mammy Water.
Prendendo le distanze dalle interpretazioni che ipotizzavano l’origine straniera del culto
e influenze esterne nell’immaginario locale, l’autrice rintraccia nella mitologia e nella
simbologia locali quegli elementi che han fatto sì che l’immagine in questione si
guadagnasse lo status di icona della dea Obguide.
Il lavoro di analisi di J. Bhalsen, prende quindi le mosse dall’analisi di quegli elementi
iconografici che hanno una forte valenza simbolica all’interno dell’universo culturale
igbo e precisamente: la figura femminile; i pitoni; il colore bianco, da solo o in
combinazione con il rosso e l’aspetto selvaggio della capigliatura fluente.
Agli approcci che vedevano nell’accoppiata donna-serpente, o la soppressione del
dramma edipico (Wintrob, 1970) o il desiderio represso nei confronti della donna
bianca e quindi del benessere degli occidentali (Fabian, 1978), Bahlsen identifica, in
accordo con i suoi informatori, i due serpenti come la coppia di serpenti reali e i quattro
serpenti nel riquadro in basso a destra come i quattro giorni settimanali del mercato
5
Le inondazioni determinano l’andamento dei cicli agricoli sono quindi necessarie, ma anche molto pericolose nella loro
imprevedibilità. Questo aspetto è dunque di fondamentale importanza ed è necessario eseguire rituali specifici e offrire
sacrifici ai santuari sotto la supervisione di sacerdotesse e sacerdoti.
14
delle donne di Oguta ed associa il numero quattro al lato femminile dell’universo.
Se qualcuno dovesse uccidere un coccodrillo, animale prediletto della dea, morirà
avvelenato da un pitone. Questo rettile, che si rinnova cambiando la propria pelle, è
associato ai cicli di morte e rinascita, alla fluidità dell’acqua come a quella della donna
e in definitiva a quella della dea.
L’immagine della coppia di serpenti reali ricorre spesso associata a coccodrilli o
tartarughe ed è ritenuto molto pericoloso uccidere uno dei due perché si andrebbe
incontro a morte certa per intervento dell’altro.
La figura del pitone ricorre anche sui tamburi da guerra in quanto anch’esso, come gli
aggressori, circonda le proprie vittime.
Guardati con riverenza e timore esattamente come la dea, non hanno nulla a che
vedere con un simbolo di sessualità repressa, piuttosto sono ritenuti seminare veleno
per conto degli dei ed incarnano il potere divino sulla vita e sulla morte.
Il colore bianco assume un connotato che si lega al ciclo nascita-morte e fa riferimento
anche all’argilla bianca del lago Oguta, ritenuta essere il cibo degli spiriti ed impiegata
per placare le febbri dei posseduti.
Viene utilizzato come ornamento di sacerdotesse e sacerdoti ad indicare il tocco e la
vista degli spiriti e durante i rituali di nascita e nei funerali viene adoperato per colorare
il corpo di donne e parenti. Essendo ritenuto il colore preferito di Obguide si crede che
la dea preferisca ricevere animali bianchi in sacrificio.
Elemento di transizione associato alla freddezza e alla mobilità dell’acqua e della
donna è assimilato anche al blu turchese del lago.
La freddezza e la mobilità connaturati all’essere femminile sono elementi acquatici,
caratteristici del lago e della dea che lo abita, ma in una valenza tutt'altro che negativa.
Il femminile, in tutta la sua fluidità e mutevolezza, è ritenuto essenziale al perpetuarsi
del ciclo vita -morte-rinascita. La donna, come la dea, è il tramite tra il mondo della vita
e il mondo che la precede e la segue; l’atto del procreare è assimilato all’attività
creatrice del dio e ogni nascita è vista come segnale di buon auspicio.
A sottolineare l’importanza accordata dagli igbo all’atto procreativo, Bhalsen fa notare
come il bianco compare sempre associato al rosso in ogni occorrenza rituale che ha a
che vedere con Mammy Water. Se il bianco è un colore femminile, associato alla
15
fluidità e alla potenza vitale dell’elemento acquatico, il rosso è associato al calore e alla
virilità maschili nonché al sangue e alla noce di cola, altro elemento che ricorre spesso
in offerte sacrificali e in rituali divinatori. Così come il blu è assimilato al bianco, allo
stesso modo il giallo-marrone del calcare giallo è assimilato al rosso. Giallo torbido è
anche il colore del fiume Urashi il cui dio, che porta lo stesso nome, è sposo di
Obguide.
Figura 1 Mammy Water nella popolare icona del 1926 (Fonte: Jell Bhalsen , 1993)
L’accoppiamento dei due colori nel poster di cui si sta trattando rimanda, tra gli igbo,
all’indispensabile equilibrio tra maschile e femminile per il perpetuarsi dell’esistenza.
Per quanto riguarda l’inusuale capigliatura fluente e selvaggia dell’icona, J. Bhalsen,
facendo riferimento all’universo simbolico degli igbo, si pone in posizione critica nei
16
confronti degli approcci che considerano questo elemento di derivazione occidentale.
In realtà, presso queste popolazioni, la crescita incontrollata della capigliatura è
associata al disordine e a ciò che sfugge al controllo. Stregoneria, malattia, morte,
forze della natura e spiriti acquatici sono collegati a questo elemento.
La crescita incontrollata dei capelli è vista come un pericolo per la persona che
potrebbe ammalarsi nel corpo e nella mente. Come per la chiamata sciamanica, la crisi
può nascondere qualcosa di più profondo.
I Dada (persone con i dreadlocks) sono considerati individui speciali, folli o in contatto
con le forze della natura.
Per le donne la crescita incontrollata dei capelli assume una valenza ancora più
profonda. Ci sono due diversi tipi di bellezza negli ideali femminili igbo.
Esiste la bellezza adolescenziale, ed esiste una bellezza più matura, che si acquisisce
quando con il matrimonio si diventa donne a pieno titolo.
Le capigliature femminili sono molto elaborate, ma sempre composte, come composto
è l’ideale di fascino della donna adulta che assume su di sè le responsabilità
assegnatele dai dettami sociali.
Il passaggio all’età adulta è segnato dall’ingrassamento forzato tra le mura domestiche,
dall’acquisizione delle capacità di governare una casa e dalla clitoridectomia, che
segna la morte rituale della ragazza e la sua rinascita come donna.
Se già ai tempi della ricerca di Jelsen, spesso tale l’intervento era praticato in
ospedale, tuttavia una donna che avesse usufruito di tale opzione era considerata
meno appetibile, in
termini matrimoniali, rispetto ad una che seguiva i metodi
tradizionali.
Questa transizione è un momento così difficile e delicato, che non tutte accettano
senza remore di uniformarsi alle norme imposte dalla tradizione.
Negli anni a cavallo tra il 1870 e il 1940 coloro le quali erano dedite al commercio,
fornivano bellissime donne, avute come pagamento o tramite adozione, a influenti
mercanti inglesi e francesi nel tentativo di mantenere la loro centralità commerciale nel
nuovo panorama che si andava configurando.
I figli nati da questa unione erano chiamati Mammy Water ed è in questo periodo,
secondo Flora Kapwa, che l’immagine di Obguide cominciò ad assumere connotati di
17
una bellissima donna mulatta dai lunghi capelli fluenti (Nwapa, 1991).
La crescita incontrollata dei capelli è uno dei segni della chiamata al sacerdozio come
si arguisce dalle parole della madre di una sacerdotessa: “Lei è diventata una
sacerdotessa di Mammy Water. Dalla preparazione dei suoi capelli, si vede che lei è
Mammy Water in persona” (Jell-Bahlsen 1993: 118 ).
L’associazione qui è tra l’essere umano e il non conforme, il selvaggio, le forze della
natura e uno dei segnali di questo legame è appunto da ravvisarsi nella capigliatura
non curata. Al di là dei ruoli inerenti il sacerdozio, il culto di Obguide ha moltissimi
adepti che sono in gran parte di sesso femminile.
Anche se maritate, le donne son tenute a dedicare uno dei quattro giorni settimanali
riservati al mercato, alla devozione della dea, essendo legittimate a trascurare gli
impegni domestici e muliebri.
C’è quindi una sorta di rifiuto per le regole derivanti dalla condizione di mogli, che porta
alcune donne ad abbracciare il culto di Mammy Water.
Sacerdotesse e adepte scambiano la vita e i doveri matrimoniali con il coinvolgimento
spirituale legato al rapporto con la dea dell’acqua, il cui culto viene ad assumere un
significato di rivolta e di riscatto perfettamente incorporato nell’universo culturale igbo.
Per comprendere appieno la portata di questo tipo di sacerdozio 6 occorre far
riferimento all’universo cosmologico igbo, dove all’apice del pantheon è posto ChiUkwu.
Si tratta di un’entità astratta e asessuata, pertanto indescrivibile che può manifestarsi
sotto forma di pitone e al di sotto del quale esiste una moltitudine di spiriti, maschili e
femminili seguiti dagli spiriti degli antenati.
Gli spiriti addetti a far da tramite tra questa entità e il mondo degli umani sono gli Arishi
e tra questi vi è la deità acquatica generalmente nota come Nne mmiri (madre acqua) o
Obguide/Ubammiri.
Chi-Ukwu, l'entità astratta di ordine superiore, è conosciuta anche come divinità del
destino (Chi).
Al momento dell’incarnazione, l’anima riceve un proprio destino da perseguire in terra.
6
Oltre la vocazione/possessione esistono altre due forme di sacerdozio tra gli igbo: una si eredita per linea maschile ed
una riguarda le mogli dei capi. In entrambi i casi come nel caso della possessione si può avere che inizialmente ci sia
riluttanza nell’accettare la carica, per i pesanti sforzi che queste comportano.
18
Prima di entrare nel mondo dei vivi, cosi come avviene prima dell’uscita dallo stesso,
l’anima deve attraversare il fiume dove entra in contatto con il dio della terra
Onabulowa o con Nne Mmiri, che lo sfidano a scommettere sulla sua impresa.
A questo punto l’individuo può scegliere se mantenere il patto con Chi-Uwku o se
stringere un nuovo patto con la dea; nel secondo caso, parte della sua vita sarà
dedicata a lei in forma devozionale o di sacerdozio.
Sebbene i poteri provengano dalla divinità del destino, è la dea a decidere a chi
trasmetterli. La crisi del corpo e della mente è segno di disordine, indica la rottura di un
equilibrio tra l’essere singolo e la sfera sociale o quella naturale e sovrannaturale. La
malattia, che preannuncia la chiamata, è segno dell’infrazione di questo patto, che va
ricomposto se non si vuole incorrere in conseguenze sempre peggiori.
La gelosia delle divinità acquatiche può colpire in vari modi.
Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Kwapa, aveva ricevuto la sua chiamata in
giovane età e per tutto il tempo della sua adolescenza era stata considerata pazza.
La consapevolezza di essere stata chiamata le giunge solo dopo il matrimonio e dopo
aver messo al mondo tre figli. Una volta compiuto un sacrificio e diventata
sacerdotessa di Obguide, la sua vita diventò soddisfacente e più serena.
In Efuru (Nwapa, 1966), una delle novelle della studiosa, la donna è descritta come
dotata di straordinarie capacità e dai rinomati successi in ambito commerciale, ma
piuttosto sfortunata riguardo altre sfere della vita.
Infatti i suoi due matrimoni erano falliti e il suo unico figlio deceduto.
Per lei la vocazione si manifesta in tarda età e questo può portare a chiedersi se la
chiamata non fosse una sorta di compensazione per le sofferenze occorse.
Ne La concubina (Nwapa, cit. in Bhalsen, 1993) troviamo una situazione analoga: in
quanto compagna favorita del dio del mare essa non poteva essere corteggiata senza
che i suoi aspiranti subissero una qualche disgrazia a causa della di lui gelosia.
Ezemiri, allo stesso modo di Efuru, era una bambina diversa dalle atre, nessuno poteva
comprenderla e solo una volta accettato il suo destino poté condurre una vita normale.
Nonostante fosse stata abbandonata dal marito, una volta riconciliatasi col proprio
destino, fece in modo che la propria sorella gli andasse in moglie.
Questo gesto potrebbe rivelare una superiorità della sacerdotessa nei confronti del
19
marito, ma come fa giustamente notare Kwapa, potrebbe trattarsi anche di una
sottolineatura del ruolo di moglie che è tenuta ad avere cura del proprio marito.
Quando Ezemiri si era sposata, creando un disequilibrio col suo chi, veniva visitata di
notte da Urashi che si mostrava geloso. Ogni notte era portata nel bosco dagli spiriti
che le insegnavano i segreti delle erbe affinché fosse in grado di poter curare chi si
sarebbe rivolto a lei.
Una volta riabbracciato il proprio destino Ezemiri ha iniziato a condurre una vita serena
e a guarire le persone riappacificandole, se fosse il caso, con il proprio chi.
Una sacerdotessa di Obguide è ritenuta essere al servizio di chiunque si rivolga a lei,
anche se straniero.
Essa conosce le proprietà benefiche e malefiche delle piante acquatiche e grazie a
queste conoscenze esercita funzioni di guaritrice, ma non è l’unica persona in grado di
assolvere a questo compito e allo stesso tempo la sua sfera di azione non si riduce a
quelle di guaritrice. Ci si rivolge loro soprattutto per quanto riguarda questioni legate ai
bambini: vita, morte, reincarnazione, scelta del nome.
Sacerdoti e sacerdotesse rispondono direttamente alla dea che parla per loro tramite,
se qualcuno dovesse fare un uso improprio dei poteri acquisiti sarebbe duramente
punito con malattie, disgrazie e in alcuni case anche con la morte.
Obguide esprime la centralità del ruolo della donna nella continuità dell’esistenza.
Questo ruolo supera la complementarità tra maschile e femminile nell’atto procreativo e
ciò è ben espresso nella capacità di Nne Mmiri di cambiare i destini umani.
La divinità acquatica è connessa alla concezione circolare del tempo, alla mobilità e
fluidità del femminile e alla maternità come asse fondamentale attorno a cui la vita può
perpetuarsi.
I rituali officiati reiterano il concetto di complementarità tra vita e morte, statico e
dinamico, creazione e conservazione spiriti/antenati e esseri umani.
Tra gli oru igbo, la figura di Mammy Water come divinità femminile è rimasta centrale
nonostante il boicottaggio da parte del governo britannico.
La devozione da parte maschile nei confronti di antenati e divinità del loro stesso sesso
sono state meglio documentate in coerenza con la volontà da parte delle potenze
europee, di imporre il proprio modello di completa dominazione maschile in tutte le
20
sfere del sociale.
Si veniva così ad ignorare completamente il delicato equilibrio su cui era basata la
divisione di competenze tra i generi.
La coppia di pitoni reali non è asessuata e come coppia riflette il delicato equilibrio del
cosmo. Non è un caso se il culto di Obguide si è conservato e se l’immagine di
Mammy Water abbia attecchito in modo così profondo.
Obguide rappresenta il lato femminile dell’universo che nutre e dà la vita, ma è anche
molto esigente, gelosa e potenzialmente pericolosa.
Meravigliosa e terribile, benevola e misteriosa, richiede che i suoi devoti siano persone
straordinarie. La sua figura è anche un modo per trattare il non conforme, come non
conformi sono i dada, i parti gemellari, le inondazioni e i contatti con gli stranieri.
Non è un caso se anche per quanto riguardava i commerci erano le donne ad
occuparsi di quest’ultimo aspetto.
Spesso può essere difficile per una donna dotata di talento conciliare gli affari
domestici con la propria autoaffermazione nel mondo degli affari, così può capitare che
qualcuna scelga la devozione rituale come mezzo per raggiungere uno statuto di
benessere e di parità con l’uomo.
Pertanto si hanno più sacerdotesse che sacerdoti non tanto perché (come spiegato da
Ezemiri) le donne sono più predisposte al sacrificio, quanto perché tali ruoli offrono loro
una possibilità di riscatto e di avanzamento sulla scala sociale.
La vocazione può rappresentare una via di fuga attraverso la quale legittimare il proprio
rifiuto nei confronti dello status di moglie. Il fatto che il destino di una persona sia
contrattato dalla nascita e che, se disatteso, possa comportare gravi conseguenze, ne
è ulteriore conferma.
Un ex paziente delle sacerdotesse potrebbe anche intraprendere la strada
dell’iniziazione ed è generalmente considerato pericoloso sposare una potenziale
sacerdotessa, poiché in quanto moglie di spiriti acquatici non dovrebbe accompagnarsi
a persone ordinarie.
Una sacerdotessa di Obguide potrebbe anche fondare e comandare un proprio
lignaggio.
La crisi della mente e del corpo è, il segno di un disagio più profondo che trova
21
soluzione nella ricomposizione, attraverso il sacerdozio, tra l’individuo che infrange la
norma e le regole sociali.
1.2 Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni rituali
Il potere rituale non va inteso come prerogativa esclusiva di sacerdotesse devote a una
divinità ben determinata.
Esistono altre figure che, a vario titolo, svolgono importanti funzioni in questo senso pur
senza abbracciare nessun culto.
Nello stesso tempo ci sono rituali che sottolineano la centralità dell’essere femminile e
che sono fondamentali al mantenimento della stabilità e alla riaffermazione del potere
vigente.
Jacob K. Olupona (Olupona, 1991), nell’analizzare una serie di rituali tra gli ondoyoruba7, esplora i rapporti di potere che intercorrono tra i generi e rintraccia in questi
una costante tensione che affonda le proprie radici in un passato mitico.
La parola ondo è il risultato della contrazione di edo du do, che sta ad indicare che il
bastone di jam non riesce ad entrare nel terreno.
Il mito di fondazione yoruba designa come progenitore mitico Oduduwa.8
Il racconto vuole che una delle sue mogli diede la nascita a due gemelli, ma trattandosi
della sua favorita, la vita fu loro risparmiata. La madre e i gemelli dovettero tuttavia
abbandonare ile ife.
Nel corso del loro peregrinare ricevettero la profezia secondo la quale si sarebbero
dovuti insediare laddove, appunto, edo du do.
Ad essere nominata obi, regnante suprema, fu Pupupu, una dei gemelli nati da
Oduduwa. Nel mito le origini matrilineari della società ondo.
Sempre all’interno del medesimo però si narra di come fu chiesto all’obi, che era molto
in là con gli anni, di nominare qualcuno che avrebbe potuto assumere i suoi compiti e
di come costei scelse suo figlio, chiamato in seguito Aisero (il sostituto).
Un’altra versione della stessa storia, parla di una presa di potere da parte degli anziani,
che insediarono il figlio di Pupupu in quanto uomo poiché la loro obi precedente si era
7
8
Nel corso del testo i termini ondo e yoruba vanno intesi come interscambiabili.
Secondo speculazioni di vario genere Oduduwa potrebbe anche essere stato di sesso femminile, ma mancano dati solidi
che supportino questa ipotesi (Olupona ,1991)
22
mostrata più volte inadempiente nei confronti del suo ruolo e aveva prediletto gli affari
domestici.
Nel mito è presente anche la descrizione di insediamento di Aisero, durante il quale
l’ormai ex obi aveva avuto, come vedremo, una parte più che determinante.
Peter Lloyd e Donald Bender, sottolineano come in passato il sistema di discendenza
ondo fosse bilaterale e nel mito troviamo indicazioni che vanno oltre la suggestione in
merito ad un sistema originariamente matrilineare.
L’organizzazione sociale ondo continua a configurarsi come basata sul parallelismo di
genere.
Le strutture di potere tradizionali si basano su una tradizionale gerarchia di governo a
capo del quale è l’obi. L’organo immediatamente al di sotto nella scala gerarchica è
costituito dall’ehare, il consiglio dell’obi e dei suoi capi.
A ogni figura di capo maschile ne corrisponde una femminile denominata opoji.
Il titolo femminile più alto è quello di lòbun, che corrisponde non ad una regina parallela
al re, quanto al ruolo di capo delle donne. La sua sfera di azione spazia dall’ambito
rituale a quello commerciale, ma il suo ruolo più importante è quello di installare il
nuovo obi.
In caso di decesso della lòbun, la carica rimarrà vacante fino al momento in cui non
sarà necessario proclamare un nuovo obi :
“ obi wa Utiade‘
se duo kù o
Di’ lòbun jè” (Olupona, 1991: 327)
(Muori o nostro re Utiade e lasciaci nominare una nuova lòbun)
Questi versi fanno parte di una delle canzoni registrate da Olupone durante l’oramfe,
l’annuale festival destinato a propiziare un eroe culturale ondo.
Il cuore di queste celebrazioni, detto Opepee, è una notte di danza itinerante durante la
quale, al ritmo del tamburo sacro, chiunque può inserirsi e introdurre una nuova
canzone.
I temi spaziano da un più generico quadro di riferimenti valoriali, come l’importanza
attribuita all’alfabetizzazione e all’istruzione, ad argomenti che riguardano una buona
condotta morale.
23
La maggior parte delle volte sono le donne a proporre un nuovo argomento che, se a
volte riguarda genericamente questioni femminili, spesso coincide con il dileggio o la
messa in discussione del comportamento dell’obi. Costui è, di volta in volta, accusato
di non essere in grado di mantenere le proprie mogli o di non aver rispettato la norma
che prevede la restituzione del pegno pagato dagli aspiranti a cariche di comando.9
Nell’esempio di cui sopra si giunge ad auspicare il decesso del re per poter installare
una nuova lòbun.
Pur trattandosi di versi satirici che fanno riferimento a voci popolari, queste canzoni
sono pur sempre espressione della vox-populi e in quanto tali sono indice di qualcosa
che va oltre lo scherno.
Le critiche nei confronti dell’obi, l’invito rivolto allo stesso a morire, riflettono le tensioni
insite tra componente femminile e regalità maschile.
La notte satirica dell’opepee ha quindi come principale funzione quella di ricomporre
ritualmente la protesta, serrandola nei ranghi dell’universo culturale.
Le tensioni sono dunque rese innocue e incorporate dall’ordine costituito, che in tal
modo viene riaffermato ( Turner, 1957; Gluckman, 1965). Una funzione analoga, anche
se limitata alla cerchia di mogli dell’obi, è svolta dalla seconda parte dell’odun-obi,
l’annuale festival dedicato al mantenimento e alla continuità della regalità.
La cerimonia consta di due parti: una ha luogo al mattino ed è rivolta principalmente
alla figura dell’obi, mentre la seconda, che incomincia alle tre del pomeriggio di fronte
al palazzo reale, è rivolta alle mogli e ai figli del re.
Si tratta di una situazione abbastanza particolare perché è l’unica durante la quale l’obi
attende, assieme agli altri capi e alla popolazione, anziché essere atteso.
Una delle caratteristiche peculiari di questa fase della celebrazione è data dal
prolungarsi dell’attesa.
Pur se invitate più volte da Baba Mesi (emissario del re) a presentarsi alla folla, le
mogli con i loro figli si lasciano attendere fino al momento in cui l’impazienza degli
astanti, obi in primis, raggiunge il culmine.
Quando arriva il momento ha inizio la processione: tutte le donne devono portare un
9
E’ costume tra gli ondo, che tutti gli aspiranti ad una carica, paghino un tributo all’obi e agli altri capi che compongono il
consiglio elettorale. La consuetudine vuole che, una volta giunti alla nomina, i candidati non vincitori abbiano indietro
quanto versato.
24
bambino sulla schiena e nel caso di madri con figli non troppo piccoli si rimedia
ricorrendo ad una bambola. Durante la processione vengono offerti sacrifici e preghiere
per la famiglia reale e nel medesimo tempo la folla prega anche per se stessa.
In questa occorrenza è il rinnovamento della stirpe reale, possibile solo grazie alla
capacità riproduttiva delle mogli dell’obi, ad essere esaltata.
Il fatto che tutte le mogli debbano avere un bambino sulla schiena, sia esso vero o sia
una bambola, esplicita molto bene questa funzione.
Nel pregare per il rinnovarsi e perpetuarsi della chieftancy, la comunità prega anche
per sé, nel potere procreativo c’è anche quello di investire tutta la comunità di una forza
di auto rinnovamento.
L’elemento della maternità non è l’unico aspetto portante di questa cerimonia.
L’apparente ritardo con il quale la famiglia del re si manifesta è indice anch’esso di
tensioni latenti.
In primo luogo si mette alla prova la pazienza dell’obi, il quale in questo caso non è
trattato come essere divino, cosa che è accordata alle sue mogli e ai loro figli. Secondo
e più importante aspetto è l’affronto perpetrato nei confronti dell’obi da parte delle sue
consorti.
Si tratta anche in questo caso di una ribellione rituale nei confronti di chi detiene il
controllo della loro sessualità. Se ad essere esaltata è la maternità, come unico
strumento che possa garantire il perpetuarsi della stirpe reale, ad essere esorcizzata è
la ribellione di coloro che detengono il potere riproduttivo.
Il bisogno di ricomporre ritualmente le tensioni tra la sfera di potere maschile e quella
femminile non si limita a cerimonie che vedono le donne in qualità di partecipanti, per
quanto attive, alle medesime, ma anche e soprattutto in quelle che le vedono come
protagoniste attive in qualità di officianti.
Si è detto che il massimo titolo femminile è quello della lobun e che la sua ragion
d’essere principale è quella di insediare un novo obi.
Se è vero che un re può essere in carica senza che ci sia in vita una lobun, è anche
vero che senza la presenza di costei nessun re potrà essere nominato. Tralasciando
l’intera fase di selezione e preparazione del candidato vincitore, ci si concentrerà sulla
cerimonia di insediamento vera e propria (ifobiie).
25
Dopo i tre mesi di reclusione previsti, il nuovo obi si reca in pellegrinaggio all’odierna
Epe, il luogo mitico di fondazione dello stato di ondo, ribadendo in tal modo il legame di
discendenza con la progenitrice Pupupu e rinnovando il legame con il passato
ancestrale. Compiuto questo passo la lòbun esegue i rituali di insediamento in
conformità con il racconto mitico.
Nel racconto Pupupu, avendo raggiunta l’età di 220 anni ed essendo stata invitata a
scegliere qualcuno come sostituto, scelse suo figlio Aisero.
Condottolo fuori di casa, lo fece inginocchiare e gli pose la corona sopra il capo per tre
volte. Effettuata questa operazione chiese alla gente di accompagnarlo in casa dove lei
li avrebbe raggiunti. Una volta giunta nei pressi del trono dove il neo eletto re sarebbe
asceso, eseguì qualche altro rito.
Durante l’installazione, la lòbun trasferisce il potere al nuovo obi prendendogli la mano
destra; insieme girano intorno all’akoko, l’albero sacro che simboleggia l’axis mundi.
Mentre la folla acclama in segno di accettazione al grido di “Abaye”, lei lo nomina re
per tre volte. La cerimonia termina con l’ascesa dei due alla collina primordiale che
indica l’ascesa al trono.
“è una grande gioia per noi che la conoscenza esca fuori oggi, essa segue sentiero
della verità come all’inizio dei tempi” ( Olupona, 1991: 331)
In queste parole, la lòbun intervistata da Olupona esprime la necessità di ribadire il
passato mitico e di perpetuarne la conoscenza.
La stessa lòbun parla dell’obi come di suo figlio. Non esistono tabù tra di loro.
E se questa parentela serve a rinnovare ancora una volta il legame tra passato e
presente essa sottolinea ulteriormente la centralità della lòbun, in quanto madre,
nell’affermazione della regalità.
La cerimonia di insediamento legata al racconto mitico porta con sé due fondamentali
conseguenze: nel rinnovare il legame tra presente e passato ancestrale, la regalità
trova la propria legittimità, che è rafforzata dall’acquisita parentela tra la lobun e l’obi.
La lòbun, in un certo senso, veste ritualmente i panni di Pupupu, è questo il motivo che
rende fondamentale il suo ruolo. La cerimonia seda il conflitto latente generato
dall’estromissione delle donne dal potere. Tale estromissione ebbe luogo nel momento
in cui, alla progenitrice ancestrale subentrò un uomo.
26
La ricomposizione è legata al fatto che la successione può essere legittimata soltanto
dall’approvazione della “madre” del nuovo obi.
Nei tre rituali passati in rassegna, appare chiaro come tensioni e conflitti siano sempre
presenti, in virtù di un soppresso passato in cui la sfera di azione politica non era di
esclusivo appannaggio degli uomini.
In questo spazio non è possibile analizzare tutti i rituali della società ondo, basterà
accennare al fatto che il santuario più importante dedicato al dio della guerra Odun, è
affidato ad una sacerdotessa e non ad un sacerdote.
Anche per quanto riguarda quindi affari ritenuti di sensibilità più prettamente maschili,
la figura della donna è di centrale importanza tra gli ondo.
Se, in base a quanto abbiamo visto finora, l’ambito devozionale tra gli oru coincide con
una possibilità di riscatto e di rafforzamento da parte delle donne, qui abbiamo
constatato che la concentrazione di grandi responsabità rituali in mano a esponenti di
sesso femminile, risponde all’esigenza di contenere conflitti e tensioni che potrebbero
destabilizzare gli equilibri di potere che sono, almeno per quanto riguarda il massimo
grado di autorità, di appannaggio maschile.
2.Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igbo
Si è detto che presso gli igbo sono presenti una serie di istituzioni, titoli e associazioni
che partecipano all’organizzazione sociale esercitando funzioni di controllo, pressione
o svolgendo un ruolo riconciliatorio e di appoggio.
Uno dei cardini dell’organizzazione sociale igbo è costituito dalla divisione per classi
d’età maschili e femminili che raggruppano tutte le persone dello stesso sesso nate
nell’arco di due o tre anni.
Le persone appartenenti allo stesso gruppo d’età stabiliscono un particolare legame di
solidarietà tra loro.
A prescindere dallo status sociale dei suoi membri, la classe d’età d’appartenenza
pone tutti sullo stesso livello e, se è abbastanza forte, può intervenire in modo decisivo
in caso di controversie che riguardano uno dei propri membri.
Questo aspetto è particolarmente importante, per quanto riguarda eventuali problemi
che potrebbero insorgere tra una donna e il proprio marito.
27
Presso gli igbo, il gruppo ritenuto veramente attivo è costituito dagli uomini tra i 18 e i
45 anni.
Oltre ad esercitare pressione per l’approvazione di leggi riguardanti la moralità
pubblica, costoro si pongono come garanti dell’ordine pubblico e assolvono il compito
di recuperare debiti insoluti per conto dei creditori che si rivolgono loro.
La loro attività investe anche l’ambito ludico ricreativo superando quindi i confini del
villaggio nella realizzazione di eventi e festival (Ijoma, 2000).
Si è detto che la società igbo è caratterizzata da una discreta mobilità sociale che
consente ai propri membri di accedere a posizioni di prestigio attraverso l’acquisizione
di titoli10.
L’uomo titolato gode di gran prestigio in quanto il suo status lo pone agli occhi della
comunità come una persona saggia e in discrete condizioni economiche.
La nomina di maggior prestigio è quella di Ozo (o Ndi Nze). Fino ai primi anni del XX
secolo solamente gli uomini potevano accedervi, spesso aiutati economicamente dalle
mogli e dalle sorelle di lignaggio che svolgevano e svolgono un ruolo determinante nei
confronti della vita dei propri fratelli.
Gli uomini così titolati raggiungevano il rango di sacerdoti, avvicinandosi in tal modo
allo spirito degli antenati.
Ad essi era consentito svolgere cerimonie dalle quali le donne erano escluse,
comprese quelle che riguardavano l’accesso alle risorse economiche e spirituali del
patrilignaggio. Alle donne era preclusa la carica di capo ed erano pertanto estromesse
dai casi di giudizio che potevano comportare una condanna a morte.
Helen Kreider Henderson ci informa di come tra gli igbo di Onitsha, nonostante la
soppressione della carica di omu, esistono vari gruppi attraverso i quali le donne
esercitano la loro influenza all’interno della società. (Henderson 1997)
Simili, ma non del tutto corrispondenti sono i gruppi di cui ci parla Flora Nwapa
(Nwapa, 1991) in riferimento agli oru-igbo.
Onitsha è stata la città stato degli onitsha-igbo. Sorta sulla riva orientale del fiume
Niger è oggi un importante centro commerciale, crocevia tra le regioni della Nigeria
occidentale e orientale, ma già in epoca precoloniale era famosa per il suo grande
10
L’acquisizione dei titoli, a seconda delle zone, può avvenire per merito personale o può essere acquistata da altri detentori.
In questo caso occorrerà dimostrare che il denaro utilizzato per la transazione sia stato guadagnato in modo onesto.
28
mercato che era di dominio prettamente femminile.
Nel 1992 la popolazione era stimata intorno ad un milione di persone circa di cui 25000
erano igbo. L’insediarsi di nuove attività da parte di persone non igbo è un fattore di
rischio per la partecipazione delle donne alle attività di mercato e rischia inoltre di
compromettere i luoghi dove sorgono i santuari tradizionali di Onitsha. Sebbene le
richieste da parte delle donne di reintrodurre la figura dell’omu, ad oggi non siano state
ancora soddisfatte, costoro possono agire ed acquisire prestigio attraverso altri canali.
Henderson (Henderson,1997) riporta l’esistenza di un’associazione denominata Otu
Odu (portatrici d’avorio), ancora attiva negli anni 60 e ben documentata nei racconti dei
viaggiatori del XIX secolo.
L’appartenenza a questo gruppo è di norma appannaggio di ricche commercianti, una
volta favorita l’acquisizione del titolo di Ozo da parte del marito.
Anche se in qualche caso l’acquisizione del titolo onorifico può essere sponsorizzata
dai figli della donna, indicando così i forti legami esistenti tra la stessa e i propri affini di
lignaggio, spesso è la persona stessa a provvedere da sé a tale acquisto.
L’appartenenza a questo gruppo non è segno dell’incorporamento nel lignaggio del
marito, infatti si può appartenere all’Otu Odu sia nel proprio lignaggio che in quello
affine.
Solitamente le donne dotate di questo titolo provvedono ad acquistare avori anche per
le loro figlie dichiarando che difficilmente un uomo farà lo stesso per una moglie o per
le proprie figlie (Henderson 1997). Il prestigio e il rispetto acquisito le avvicina in
qualche modo agli uomini Ozo, ma anche se i loro funerali rispecchiano l’alta
considerazione di cui godono in società per aver elevato se stesse ad un rango
superiore, ad esse non è consentito officiare rituali nei santuari degli antenati.
Sia Henderson che Nwapa (Henderson, 1997; Nwapa, 1991), fanno riferimento a due
gruppi d’appartenenza per le donne degli oru e onitsha igbo.
All’interno dell’organizzazione sociale igbo infatti le donne sono ritenute appartenere al
lignaggio paterno in quanto figlie e a quello del marito in quanto mogli.
Nel trattare delle sacerdotesse di lignaggio, Henderson si riferisce a tale carica come
isi ada, capo delle mogli, senza fare riferimento all’umuada, cui pure aveva fatto cenno
e di cui fa esplicita menzione anche Kwapa.
29
Pertanto quando si utilizzerà il termine Umuada si intenderà dire che si sta parlando
degli oru-igbo.
Sotto il nome di Umuada, si intende l’insieme di tutte le figlie di un lignaggio, maritate o
meno (Henderson, 1997; Nwapa, 1991).
Il loro potere proviene dagli antenati e le loro azioni sono svolte collettivamente.
E’ infatti dalla loro unità che esse traggono potere ed è dalla loro soddisfazione che
deriva la stabilità del lignaggio. Il loro potere all’interno del lignaggio è talmente grande
che un uomo tenderà a scontentare la propria moglie piuttosto che le proprie sorelle.
Questa forza ha valore solamente all’interno del proprio segmento di origine, mentre
perde totalmente valore nei confronti del lignaggio del marito.
Il legame con il patrilignaggio non è mai scisso del tutto e a conferma di ciò, al
momento della morte di una donna, il corpo di costei sarà seppellito nella casa dalla
quale proviene.
Va da sé che una madre e una figlia non potranno mai appartenere allo stesso gruppo
di Umuada. Il capo del gruppo delle figlie è la figlia maggiore tra tutte, assistita dalle
due che la seguono in età.
La loro azione è rivolta ai propri fratelli: il loro dovere principale è quello di lottare per
loro, difenderli in caso di controversie o offese ricevute, occuparsi dei loro funerali e
celebrarli degnamente nel caso in cui dovessero acquisire un titolo.
In occasione delle onoranze funebri si occupano della veglia funebre piangendo,
intonando lodi e preghiere, controllando che ogni cosa vada per il verso giusto. Fino a
che i riti non sono conclusi è loro dovere occuparsi dei figli del defunto accogliendoli
nelle loro case e offrendo loro cibo e protezione. Nei confronti della moglie del defunto
hanno invece un atteggiamento decisamente poco benevolo. Infatti, in caso di morte
prematura, la moglie è la prima ad essere accusata del decesso ed è costretta a subire
prove e umiliazioni di vario genere, come bere l’acqua utilizzata per lavare il corpo del
marito per dimostrare la propria innocenza e per far sfogare la rabbia delle sorelle.
Come si è già detto, il gruppo trova nella coesione la propria forza, non partecipare al
funerale di un membro del proprio patrilignaggio sarebbe considerata una gravissima
mancanza e la colpevole potrebbe essere multata o ostracizzata giungendo al
boicottaggio in massa dei suoi funerali.
30
L’altra occasione in cui la forza dell’umuada è resa manifesta si ha in occorrenza di
un’eventuale presa di titoli da parte di uno dei loro fratelli.
E’ necessario in questo caso, informare immediatamente le sorelle dell’avvenuta
nomina; se qualcuno dovesse ignorarle tralasciando questo fondamentale passaggio
incorrerebbe nella loro ira.
Durante le celebrazioni esse sono le invitate d’onore: i migliori cibi e bevande son
riservate loro in quantità spropositate. Alla moglie del festeggiato non è consentito
invitare il proprio Umuada, ma è dato il permesso di far partecipare le appartenenti alla
sua classe d’ età. Queste devono, in ogni caso, mantenere un comportamento
rispettoso e non offendere in alcun modo le sorelle del marito.
Se dovessero crearsi dei malcontenti da parte di questo gruppo, l’intero lignaggio ne
risentirebbe, in quanto la loro capacità di destabilizzazione è particolarmente forte. Allo
stesso modo, se dovessero verificarsi delle tensioni al suo interno ci sarebbe il rischio
che l’umuada possa interrompere le proprie funzioni generando caos e disequilibrio.
Le mogli del clan sono raggruppate all’interno dell’umunwunyeobu nel quale entrano a
far parte automaticamente al momento del matrimonio.
Il potere di questo gruppo non è minimamente paragonabile a quello dell’umuada ed è
fondamentalmente atto a istruire le giovani mogli sul corretto comportamento che è
necessario osservare in quanto spose.
Se questo gruppo è abbastanza influente e coeso può essere un utile strumento di
difesa contro la tirannia dei mariti, ma generalmente la loro premura principale, in caso
di fuga da parte di una moglie, è quella di convincerla a ricongiungersi al loro sposo.
Sebbene possano esercitare una certa forma di pressione sui consorti delle
consociate, esse possono facilmente trovarsi di fronte l’ostilità dell’umuada che ha
pieno diritto di interferire negli affari che riguardano i propri fratelli.
Come gruppo esse possono in qualche modo contestare le decisioni prese dai mariti
nei loro confronti rifiutandosi di cucinare per loro e, in casi estremi, sfruttando il loro
potere riproduttivo e astenendosi dal dormire con loro.
In linea di massima però va ribadito ancora una volta come questo sia un gruppo con
funzioni più riconciliatorie che di effettiva tutela reciproca.
Questo ruolo è invece svolto con più successo dal gruppo di donne della stessa classe
31
d’età, in quanto caratterizzato da una grandissima solidarietà derivante dall’aver
attraversato insieme tutte le fasi della vita.
Le appartenenti al gruppo avvertono quindi con più forza il bisogno di difendersi le une
con le altre essendo in generale, anche se non necessariamente, svincolate da legami
di parentela con il marito in questione.
Una donna maltrattata dal marito potrà rivolgersi a loro, che accoreranno in massa per
intimargli di desistere dal suo comportamento. In caso di accuse sarà loro cura aiutare
la donna a dimostrare la sua innocenza o, al contrario, convincerla a scusarsi e trovare
una riconciliazione. Si è visto come questi tre gruppi svolgano, ognuno a suo modo,
funzioni di rilievo all’interno della società oru. Essi hanno inoltre la facoltà di creare
risorse, a cominciare da un autofinanziamento che viene di regola ridistribuito e messo
in circolazione in modo da creare una minima base di reddito.
Parte di quanto già riferito per gli oru vale anche presso la gente di Onithsa e cioè: il
patrilignaggio esercita e continua ad esercitare il pieno controllo sui propri membri
anche una volta sposati o, nel caso delle donne, trasferitesi nella residenza cui fa capo
un altro patrilignaggio.
Una donna divorziata, anche se non ha diritti sulle risorse del patrilignaggio, può
comunque essere accolta nella casa del fratello e reclamare per suo figlio il diritto di
accesso alle terre finanche il conseguimento del titolo di Ozo.
In riferimento all’organizzazione del patrilignaggio, Henderson (Henderson,1991)
riporta dell’esistenza di due figure di potere, una maschile e una femminile, nel ruolo di
sacerdoti e sacerdotesse. Entrambe queste figure sono Investite del potere degli
antenati grazie all’ofo, il bastone sacro del lignaggio e attengono ai diversi ambiti rituali
che competono loro.
Alla sacerdotessa spettano le pratiche di purificazione di un corpo prima
dell’inumazione o delle case dei membri maschili in caso di tradimento da parte delle
mogli. E’ inoltre suo compito controllare le figlie del lignaggio in qualità di capo. Queste
si riuniscono periodicamente per condividere il cibo a partire dalla persona più anziana,
risolvere eventuali dispute, scegliere canti e danze e discutere di questioni riguardo ai
santuari di villaggio che sono principalmente propiziati dalle donne.
Come per L’Umuada oru, sarebbe gravissimo se una di costoro non assolvesse alle
32
funzioni cerimoniali o se si rifiutasse di pagare la tassa regolarmente dovuta. In caso di
inottemperanze di questo genere, il capo delle figlie potrebbe multarle sequestrando
loro gli utensili da cucina per non restituirli fino a debito saldato.
E’ opinione diffusa presso gli anziani di Onitsha che abilità e responsabilità delle
sacerdotesse non siano equiparabili a quelle dei sacerdoti maschi (Henderson, 1997), i
quali per poter avere accesso a questa carica devono necessariamente aver
conseguito il titolo di Ozo.
Qualcosa di simile all’umunwunyeobu oru è rintracciabile nell’organizzazione delle
mogli del villaggio, che racchiude tutte le mogli di un determinato patrilignaggio a capo
delle quali è la donna maritata da più tempo. Anche in questo caso il gruppo deve
formare le nuove arrivate in merito alla giusta condotta da tenere e funge da deterrente
per i cattivi comportamenti da parte dei mariti nei riguardi delle rispettive consorti.
Il loro ruolo durante le celebrazioni funebri riveste una certa importanza in quanto sono
loro ad essere incaricate della preparazione del banchetto cerimoniale. Inoltre esse
gestiscono un piccolo fondo con il quale acquistare costumi per le danze e per offrire
dei doni a chi riceve un lutto, cosa che potrebbe indicare sia una certa solidarietà tra
affini che una condizione di inferiorità delle mogli nei confronti del patrilignaggio di cui
sono spose.
Come tra gli oru, anche presso gli igbo di Onithsa, se qualcuna dovesse venire meno ai
propri doveri o dovesse essere continuo motivo di destabilizzazione nei riguardi di
decisioni prese in assemblea, sarebbe punita con una multa o cadrebbe vittima
dell’ostracismo da parte degli altri membri.
Un discorso a parte va fatto per l’ikporo (“la città delle mogli/madri”) che raggruppa
nominalmente tutte le donne sposate indipendentemente dal segmento di lignaggio cui
sono legate. A capo di questo gruppo c’è la donna più anziana della città, le cui
decisioni possono tuttavia essere messe in discussione da altri membri anziani.
Intervengono in casi di emergenza come carestie, epidemie o invasioni straniere anche
se a partecipare alle riunioni sono i membri più maturi come le donne in menopausa o
coloro che detengono il titolo di portatrici d’avorio e di madre della Masquerades11.
Henderson riferisce che, negli anni 60, pur avendo perso gran parte dell’influenza sui
11
La società segreta delle Masquerades ha funzioni di controllo sociale ed è preclusa alle donne, a meno che non abbiano
raggiunto la menopausa e non posseggano risorse sufficienti ad accedere al titolo di Madre delle Masquerades
33
mercati in seguito ai processi di occidentalizzazione, il loro capo conservava la
prerogativa di vietare alle donne, sotto pena di una multa, di recarsi al mercato nei
giorni che coincidevano con le festività religiose. Rimaneva intatto inoltre il diritto a
presiedere alle controversie che potevano sorgere nei mercati minori.
Altro ruolo importante riguarda la propiziazione dei santuari in zone d’acqua o in
prossimità dei mercati più importanti. Tali santuari erano ritenuti tenere lontani i pericoli
di malattie, invasioni e quant’altro poteva giungere dall’esterno.
Sebbene la donna in carica fosse in grado di eseguire le oblazioni necessarie ai rituali
di comunione con gli antenati, questo privilegio non le era accordato; quando si trattava
di pregare per la città dovevano essere assistite dai membri appartenenti alla classe
d’età degli uomini maturi. Costoro erano chiamati dalla donna “i miei figli” e loro si
rivolgevano a lei nei termini di “nostra madre” ( Henderson 1991).
Le donne a loro volta erano considerate figlie dei santuari di loro pertinenza che,
generalmente, si trovavano presso fonti acquatiche di ogni genere e il cui elemento
liquido era ritenuto spegnere “i fuochi delle difficoltà”.
Poteva capitare a volte che lo spirito di un luogo sacro apparisse in sogno ad una delle
mogli/madri per avvertire della necessità di un rito purificatore.
Le dimensioni del gruppo, che includeva tutte le donne sposate degli igbo di Onitsha,
poteva generare delle scissioni.
Poteva infatti capitare in caso di conflitti tra vari segmenti della società, che i membri
della 2città delle madri” interrompessero le proprie attività perché ognuna sosteneva
parti differenti a seconda dell’eventuale grado di affinità o consanguineità che le legava
alle parti in causa.
Tendenzialmente manifestavano un certo favore per il lignaggio del marito, in quanto i
suoi figli appartenevano a quel segmento, ma se la controparte avesse dovuto
coincidere con il segmento paterno, allora costei avrebbe forse tenuto segretamente le
parti del proprio patrilignaggio.
In ogni caso, eventuali periodi di inattività possono essere indice di ostilità, più o meno
estese.
Quanto esposto finora, riflette il conflitto e la tensione delle tradizioni Onitsha che
esprimono le posizioni contraddittorie delle donne di potere in un contesto sociale e
34
culturale sostanzialmente patriarcale.
Anche se le donne sono state in grado di realizzare la loro libertà di azione e l'accesso
alle risorse economiche, è chiara la matrice restrittiva di divieti culturali intesi a limitare
questi poteri. Già ai tempi in cui scriveva Henderson (Henderson 1991), il ruolo delle
donne nei mercati era particolarmente compromesso.
Gran parte dei santuari è stata messa a repentaglio dall’azione di gente non igbo, e il
fatto che le donne continuassero a premere affinché il ruolo dell’omu fosse reintrodotto
non fa che sottolineare la loro consapevolezza in merito all’esigenza di avere un
referente politicamente forte che le aiuti a rivendicare le loro sfere di azione.
3. Il controllo nei mercati cittadini: market-queen e associazioni di commercianti
In molte zone dell’Africa occidentale, in epoca precoloniale, la gestione di gran parte
delle attività mercantili era prerogativa femminile.
Tra gli igbo di Onitsha le attività commerciali erano considerate poco virili e le donne si
occupavano anche di gestire i rapporti con mercanti che giungevano dall’esterno.
Costoro erano scoraggiati dal vendere i loro prodotti in prima persona; la cosa più
opportuna era che commercianti femminili acquistassero da loro per poi rivenderli al
mercato principale. Gli igbo dell’interno potevano però, dietro pagamento di una tassa
al re, ai capi e al capo donna del mercato, vendere le proprie merci direttamente.
Il capo della città delle madri eseguiva periodici rituali purificatori per i mercati oltre a
risolvere le controversie che sorgevano al suo interno. Inoltre, gran parte dei santuari
che ricadevano sotto la sfera femminile erano ubicati in zone d’acqua o nelle vicinanze
di un mercato (Henderson,1991).
I processi di occidentalizzazione degli scambi economici hanno ridotto notevolmente
l’influenza delle donne nelle transazioni commerciali, ma esistono ancora oggi, seppur
con poteri limitati, importanti figure femminili nell’organizzazione di molti mercati
cittadini.
In qualche caso queste figure hanno assunto il titolo di Market Queens, cosa che
riveste una certa importanza in un contesto matrilineare come quello ashante.
Gli ashante appartengono al gruppo degli akan, un composito insieme di popolazioni
perlopiù caratterizzate da un sistema di discendenza matrilineare e diffuso in tutto il
35
sud del Ghana e in Costa d’ Avorio.
Kumasi è la capitale amministrativa della regione Ashanti e corrisponde grosso modo al
territorio occupato dagli ashante in epoca precoloniale.
L’organizzazione politica tradizionale è basata sulla chieftaincy, a capo della quale ci
sono l’ashantehemma (ahemaa degli ashante) e l’ashantehene, (ohene degli ashante)
rispettivamente tradotti come king e queen mother. Questo modello è replicato per ogni
città o villaggio e, in ogni caso,i capi, gli ohene e le ahemaa devono essere
costantemente in contatto con il consiglio degli anziani, il mpanyinfuo (J.Stoeltjes,
1997).
Garcia Clark (Clark, 1997) riferisce della presenza di donne con ruoli di potere
all’interno dei mercati dell’area a cominciare dal XX secolo.
Costoro detenevano e detengono il titolo onorifico di ͻhema (sing. di ahemaa)
nonostante non godano di alcun riconoscimento né a livello amministrativo né sul piano
dell’organizzazione politica tradizionale.
Nel 1979, l’ashantehemma collaborò con i tentativi del governo di delegittimare le
leader di mercato sottolineando che queste non avevano alcun diritto di assumere il
titolo di ahemaa, tradizionalmente ereditato all’interno dei lignaggi reali. Si spinse oltre
dichiarando
ironicamente
che
sarebbe
stato
meglio
chiamarle
"capi-tribù”,
sottintendendo che, avendo assunto competenze che prima della conquista coloniale
erano di appannaggio maschile, in qualche modo avevano cambiato la loro identità
sessuale (Clark, 1997).
Pur non godendo di alcun riconoscimento, esse hanno giocato un ruolo chiave nei
processi economici, soprattutto durante i periodi crisi.
Tanto per fare un esempio, quando nel 1979 il governo nazionale dichiarò che, nel giro
di un mese e mezzo circa, il sistema di valuta sarebbe stato rinnovato con un cambio di
dieci a sette, le leader dei vari gruppi si preoccuparono di condurre campagne
informative e di discussione fino a giungere alla decisione di chiudere alcuni cantieri di
vendita all’ingrosso per minimizzare le perdite che sarebbero seguite allo svantaggioso
cambiamento (Clark, 1997).
Per ogni tipologia di bene esistono dei gruppi (anche se non era scontata
l’appartenenza agli stessi per il semplice fatto di condividere la tipologia di merce
36
messa in vendita), ognuno dei quali elegge la propria ͻhema che prende il nome dal
prodotto in questione.
Il nome di un’ͻhema tradizionale è preceduto da quello della città o villaggio cui fa
capo; così la responsabile del gruppo del bayere (yam) si chiama bayere-hemma
(Clark, 1997).
All’interno del proprio gruppo di pertinenza, ogni ͻhema agisce per suo conto e,
qualora il caso lo richieda, consultandosi con il mpanyinfuo (consiglio degli anziani), ma
quando si rende necessario discutere di questioni più generali, costoro si riuniscono e
decidono collettivamente. Nel mercato di Kumasi la massima autorità tra i leader è il
capo dei commercianti di igname, la bayerehemma, che in occasione di cerimonie o
nelle trattative esterne, guida la delegazione di ahemma e parla per loro.
Ciò sembra riflettere l'importanza economica dei tuberi in questo particolare mercato,
che occupa ancora oggi una posizione centrale per il commercio interregionale nei
prodotti alimentari. La bayerehemma non può prendere una decisione importante
senza consultarsi con le ahemaa di patate dolci, manioca, pomodori, cocoyam, e altri
prodotti di una certa importanza. Se convocate, esse hanno il dovere di rispondere alla
chiamata ufficiale per partecipare alle discussioni di interesse comune.
La principale funzione cui deve rispondere un leader di un gruppo di commercio è la
risoluzione delle controversie che inevitabilmente possono sorgere tra i co-membri. Per
rafforzare la solidarietà e la collaborazione tra le venditrici occorre che si crei fiducia e
questo è possibile solo nel caso in cui le loro postazioni siano vicine. La loro prossimità
rende possibile lo scambio di informazioni e di mutua assistenza, come nel caso in cui
una di loro debba allontanarsi momentaneamente.
La copresenza nel medesimo
spazio facilita la ricomposizione delle liti da parte degli anziani che assumono
un’importante e non ufficiale ruolo di mediazione.
La mutua assistenza, la possibilità di accedere a forme di credito e la veloce
risoluzione di eventuali controversie rendono appetibile la partecipazione a queste
“associazioni”, ma non per tutte è possibile accedervi.
Uno dei doveri fondamentali dei membri risiede infatti nel partecipare ai funerali delle
proprie compagne e inoltre esse devono essere presenti alle riunioni. Tutto ciò
comporterebbe un eccessivo dispendio di tempo e denaro per coloro che vivono a
37
distanze non gestibili. Tali gruppi sono perlopiù caratterizzati dal medesimo sesso e
dalla medesima appartenenza etnica.
Questa omogeneità etnica e di genere porta a un accordo generale sulle caratteristiche
dei leader e facilita la condivisione delle occorrenze cerimoniali (Clark, 1997).
L’elezione di un’ͻhema, a differenza di quanto avviene a livello di chieftaincy, non ha
nulla a che vedere con l’ereditarietà, e coinvolge tutte le commercianti associate.
I criteri per la selezione sono più orientativi che vincolanti. Questi riguardano il
temperamento, l’esperienza, l’età, le condizioni economiche, la proprietà di linguaggio
e le abilità diplomatiche.
La candidata ideale deve essere una persona che si è mostrata paziente e di
temperamento pacifico. Questi tratti, così come le capacità di fungere da pacieri
possono emergere nelle pratiche quotidiane designando una preliminare rosa di
probabili favorite.
Un altro elemento da non sottovalutare è la capacità di esprimersi con un vocabolario
articolato e in modo incisivo, sia per incrementare il prestigio del gruppo, che per avere
maggiori probabilità di successo nelle negoziazioni con l’esterno. In linea di massima si
ritiene che la candidata ideale debba avere accumulato sufficiente anzianità di servizio
all’interno del mercato, ma nello stesso tempo non debba essere eccessivamente
anziana, in modo da poter assicurare una stabilità prolungata al gruppo.
D’altro lato un’ ͻhema troppo giovane oltre che inesperta potrebbe risultare troppo
occupata nella cura dei suoi figli per poter assolvere ai suoi molteplici doveri.
Il ruolo di leader comporta un notevole dispendio di tempo e non prevede introiti di
nessun genere se non in termini di prestigio. Per questo motivo si crede che una
discreta ricchezza rispetto agli altri membri sia un requisito importante.
Un eccessivo benessere però potrebbe comportare il disinteresse nei confronti delle
questioni di gruppo per mancanza di tempo o peggio di volontà.
Anche le relazioni con l’esterno possono essere d’aiuto in quanto per gruppi
particolarmente forti e grandi può essere opportuno godere del favore e della
protezione di ambienti politicamente influenti.
Si è accennato a come, presso gli igbo di Onitsha, il capo della “città delle madri”
svolga dei rituali di purificazione dei mercati cittadini.
38
Nulla di tutto ciò compete alle ahemaa, il cui ambito di azione riguarda più che altro
l’apparato cerimoniale in qualità di partecipante. In ossequio alla coesione tra i membri
di un medesimo gruppo, la partecipazione collettiva al funerale di uno dei suoi membri
è un fattore di cruciale importanza, così come l’assistenza reciproca in caso di malattia
o di feste. Dovere di una leader è quello di partecipare alle esequie delle proprie
associate e dei loro parenti più stretti come a quelle delle altre ahemaa e dei loro
familiari più prossimi.
In qualità di rappresentante deve partecipare anche alle occasioni pubbliche in cui si
ricevono ospiti importanti e rendere omaggio all’ashanthema e all’ashanthene in
occasione di festività ritenute importanti.
Quest’assenza di un corpus rituale formalizzato si può forse spiegare con il carattere
non tradizionale del suo ruolo. Ogni cosa risponde a funzioni immediate ed esplicite,
prima tra tutte la difesa e la rappresentanza del gruppo ed il proseguire del flusso dei
commerci.
In caso di liti o dissapori non c’è modo di fare appello alla rabbia degli antenati e la
cosa non avrebbe alcun senso. L’unica cosa sulla quale essa può fare conto è la buona
volontà da parte delle contendenti nel risolvere i loro dissapori nel modo più rapido e
indolore possibile. Essere partecipi di questa volontà è nell’interesse delle associate
che preferiscono rivolgersi alla loro ͻhema piuttosto che ricorrere ai canali ufficiali, sia
per una questione di tempistica che per mantenere buone relazioni con le proprie
colleghe.
Inoltre, molte convenzioni che non hanno alcuna rilevanza dal punto di vista legale, si
basano sul buon senso. Per esempio, sottrarre un cliente a una compagna fino al
momento in cui questa non ha abbandonato definitivamente la trattazione è
considerato poco opportuno (Clark, 1997).
Le norme fondamentali di buona condotta necessitano quindi dell’intervento di una
persona imparziale e con una profonda conoscenza delle consuetudini di mercato che
le faccia rispettare.
Se un membro ritiene di aver subito un torto da parte di un’altra commerciante, per
prima cosa inizierà a lamentarsi della cosa con una persona anziana e in seguito, in
caso di mancata ricomposizione, si rivolgerà all’autorità del loro capo.
39
Se qualche creditrice dovesse rivolgersi a lei per recuperare quanto gli è dovuto,
nessuna conseguenza graverebbe sulla debitrice, a meno che questa non si rifiuti
ancora di saldare, commettendo una sorta di “oltraggio alla corte” (Clark, 1997).
L’operazione di libero assemblaggio di elementi della tradizione, quali quelli cui si è già
fatto riferimento, con il cooperativismo di stampo occidentale e la tensione ad
incorporare figure di tipo amministrativo, era funzionale ad ottenere legittimità su
entrambi i piani e a rafforzare la coesione interna ed esterna dei gruppi.
Quando i venditori di yam si registrarono come cooperativa, la loro ͻhema divenne
presidente, gli anziani divennero vice-presidente, tesoriere, etc, e il consiglio degli
anziani fu rinominato come comitato esecutivo (Clark, 1997).
Questo status ufficiale è stato inseguito nella speranza di poter ottenere qualche
agevolazione di tipo finanziario e nella speranza di ridurre le ostilità del governo che, a
partire dagli anni 80, aveva mostrato un forte accanimento nei confronti dei gruppi di
commercianti e delle loro leader.
Tale prassi solo raramente diede qualche risultato e le politiche persecutorie (pestaggi,
confische, arresti) ridussero notevolmente l’ambito di azione dei gruppi. L’uhemmafuo
di Kumasi, pur essendo ancora attivo, ha perso gran parte della sua attrattiva e le
funzioni delle leader sono molto limitate.
Gruppi di beni suscettibili di un mercato in espansione, come quello della stoffa, sono
scomparsi sotto i costanti attacchi del governo.
La creatività delle donne dei mercati ha dovuto fare i conti con tutti quei fattori esterni
che, pure in qualche modo, aveva cercato di accattivarsi.
Sebbene a livello tradizionale abbiano incontrato un’aperta opposizione solo nel 1979,
di sicuro non hanno mai goduto dei favori della chieftaincy.
Scorporati da entrambi i modelli cui avevano fatto riferimento, rappresentano
comunque uno straordinario esperimento di auto-regolamentazione e incremento delle
proprie possibilità in un’ottica di gestione democratica di risorse e attività dove
l’interesse del singolo non è nemmeno pensabile se non riferito al benessere degli altri
soci-membri.
Il lavoro di Adesuwa C. Emovon (Emovon, 1997), rende conto di una situazione
formalmente simile tra i mercati dello stato di edo, in Nigeria, ma dagli sviluppi
40
notevolmente differenti.
Anche qui troviamo associazioni di venditrici, una per ogni tipo di bene venduto, con a
capo un leader che svolge varie funzioni. Oltre la risoluzione delle controversie, si
occupano di verificare che nessuno dei membri operi una concorrenza sleale nei
confronti degli altri e fissa i prezzi cui membri son tenuti ad adeguarsi.
In alcuni casi può essere richiesto un tributo periodico che costituirà una base di credito
per finanziare i membri in difficoltà e Il tasso d’interesse è di norma inferiore a quello
degli istituti di credito ufficiali (C. Emlovon, 1997).
Al di là del sostegno finanziario, il gruppo si sostiene in caso di lutto, malattia, o
sventure di qualunque genere. Se qualche socio del mercato muore, la sezione adibita
alla sua associazione è chiusa per l’intera giornata.
Tutti i membri della sezione saranno tenuti a partecipare alla veglia funebre e alla
sepoltura, pena l’applicazione di una penale. Poche settimane dopo la sua morte,
all’interno del mercato hanno luogo rituali di fuoriuscita dell’anima del defunto dal
mercato per evitare che questa continui a vagare al suo interno.
Nel corso degli ultimi anni le donne appartenenti a queste associazioni sono entrate a
far parte di organi di governo ed esercitano una notevole influenza. Spesso sono
invitate a prendere parte a discussioni che riguardano decisioni seriamente importanti e
son tenute in grande considerazione dallo stesso obi.
Un esempio che valga su tutti a riprova della grande influenza da loro esercitata,
riguarda la decisione di non accettare il prestito del fondo monetario internazionale
(Emovon, 1997).
Queste donne sono associate anche al National Council of Women’s Societies12 i cui
membri sono in gran parte esponenti di una élite istruita.
Nel 1986 è stato istituito il Mamser (Mobilisation for Social and Economic
reconstruction for Social Justice)13 allo scopo di coinvolgere la popolazione e di portarla
ad interessarsi alle questioni che avevano a che vedere con la politica.
Le donne del mercato dello stato di Bendel erano in dialogo costante con la Direzione
12
13
L’associazione è stata inaugurata in Nigeria nel 1959, con lo scopo di favorire lo sviluppo femminile. Nel 2010 una sua
filiale è stata inaugurata in a Denver, in Colorado e raccoglie donne americane come donne nigeriane. Attualmente
entrambe sono registrate come ONG
MAMSER era l'acronimo di: “mobilitazione di massa per l'autonomia, la giustizia sociale e la ripresa economica”. La sua
creazione fu voluta dall’allora presidente della repubblica Federale di Nigeria Babangida. Attualmente porta il nome di
NOA (Agenzia Nazionale di Orientamento) ed ha filiali in ognuna delle 774 aree di governo locali.
41
del Mamser sulle azioni da adottare per mobilitare le donne per la partecipazione
politica.
Seminari e workshop sono stati organizzati per gruppi di donne per l’accrescimento
della loro consapevolezza sociale e politica.
Il numero di donne che sono andate a votare o che hanno votato per loro nelle elezioni
amministrative del 1990, è una testimonianza per le attività delle associazioni delle
donne in Bendel (Clark, 1997).
Perché le associazioni di mercato femminili che nel Bendel godono di tanta popolarità
hanno riscontrato invece una così profonda ostilità nella regione Ashanti? Forse le
ragioni del fallimento sono da ricercarsi nella mancata capacità di dialogare con le
realtà politiche che in vario modo potevano rafforzare la loro posizione attraverso
mutue collaborazioni e percorsi condivisi di rafforzamento della condizione femminile,
anche attraverso una presa di coscienza politica che non fosse primariamente diretta a
un immediato ritorno economico.
Inoltre la forza delle donne di Benin city è stata quella di agire in gruppo per l’interesse
di tutta la collettività, aprendosi così dei canali che hanno loro consentito di accedere a
cariche influenti.
I gruppi di Kumasi agivano per interposta persona tramite le loro ahemaa, cosa tra
l’altro abbastanza comprensibile considerato il contesto matriarcale di appartenenza.
Se da un lato quindi c’è stata l’incapacità reciproca tra governi e gruppi di commercio
nel dialogare tra loro, dall’altro si è avuta la totale mancanza di appoggio e
probabilmente anche una forma di invidia da parte di altri influenti strati della società.
Capitolo II
Potere politico e ricerca di autonomia
1) Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo di Benin
City.
In uno studio sulle donne edo di Benin City pubblicato nel 1997 ( Kaplan, 1997), Kaplan
definisce il potere politico come “ La possibilità di prendere decisioni intorno a scarse
risorse, materiali e immateriali, entrambe percepite come reali, che interessano uno o
42
più gruppi nelle arene pubbliche.” (Kaplan, 1997: 248)
I gruppi di mercato delle donne edo (e fino a un determinato momento anche quelli
ashante) del Bendel esercitano, come si è visto, una forte influenza politica, e pur non
essendo riconosciuti né a livello tradizionale né istituzionale, sono rispettati e tenuti in
grande considerazione.
Se a livello associativo l’azione politica, come sopra definita, si fa più esplicita ed è
agita collettivamente, lo studio di Kaplan mostra come nei primi tempi del governo
coloniale britannico, le donne edo di Benin City 14, abbiano trovato nei nuovi tribunali
coloniali,
spazi
di
azione
pubblica
dove
rivendicare
il
proprio
diritto
all’autodeterminazione.
Potere politico inteso quindi come espressione del sé in uno spazio pubblico e come
azione tesa a conquistare il diritto all’autodeterminazione.
Anche se il loro ruolo è agito a livello individuale in qualità di testimoni, querelanti o
imputate, l’effetto cumulativo delle loro azioni ha inciso sulla possibilità di scegliere
personalmente il proprio marito ed ha inoltre migliorato le aspettative di qualità di vita
per individui che nella società precoloniale erano considerati poco più che schiavi.
La prospettiva adottata da Kaplan è interessante in quanto, come vedremo, rovescia lo
sguardo sugli effetti del colonialismo, che caratterizza gran parte degli studi di genere
in Africa occidentale.
Benin City è la capitale dell’attuale stato di edo nella Nigeria centro-occidentale. Gli edo
appartengono al gruppo linguistico edoid all’interno della famiglia kwa.
Si hanno fonti certe riguardo alla loro presenza nel territorio dell'ex regno del Benin a
partire dalla fine del XV secolo, ma ipotesi non ancora dimostrate ritengono che i loro
primi insediamenti possano risalire all’XI secolo (Connah’s, 1975).
Il sistema di discendenza patrilineare non comportava la trasmissione ereditaria di titoli,
ad eccezione che per la famiglia reale. Per ciascuno dei 35 egbee (termine che è
riferito sia al gruppo di discendenza più ampio che al segmento di lignaggio cui si
appartiene) sono previsti dei taboo alimentari e dei saluti specifici per il mattino.
14
Benin City è una città della Nigeria, capitale dello stato di Edo che fu accorpato al protettorato inglese della Nigeria Del
Sud nel 1897. Il regno di Edo conosciuto anche come regno del Benin conobbe vicende alterne. Al momento dell’arrivo
dei primi esploratori portoghesi, all’inizio del XV secolo, il regno era all’apice della sua espansione ed esercitava la sua
autorità a vari livelli sui popoli confinanti tra cui gli igbo occidentali e gli yoruba del Nord-est. Nel 1963 il territorio fu
separato dalla Nigeria e assunse il nome di Midwest che divenne poi Bendel nel 1976 per essere infine diviso nel 1991 in
regno del Benin, e stato di Edo della repubblica Federale della Nigeria.
43
L’organizzazione sociale è basata prevalentemente sulle classi d’età. Raggiunta la
pubertà i ragazzi vengono iniziati al grado Iroghae e svolgono operazioni di pulizia e
manutenzione del villaggio.
Gli uomini intorno ai 25-30 anni entrano a far parte degli ighele ed eseguono quanto
ordinato loro dagli edion (anziani); costoro costituiscono il consiglio giudiziario del
villaggio e sono sotto la guida dell’odionwere, un anziano titolato.
Al vertice dell’organizzazione politica c’era l’oba (re) che, oltre ad essere il teorico
proprietario di tutte le terre, aveva l’ultima parola sulle questioni amministrative,
religiose, commerciali, e giudiziarie. Sua madre, l’iyoba, deteneva un titolo in una delle
società di palazzo ed aveva la sua propria corte vicino a Benin City.
La burocrazia era composta da tre tipologie di capi: i sette uzama , i capi di palazzo, e i
capi villaggio. Costoro costituivano il Consiglio di Stato, che aveva un ruolo importante
nella creazione delle leggi, nella regolazione del ciclo rituale, nell’aumentare le tasse e
nelle questioni militari. I titoli erano concessi dall’oba in persona, che non poteva
revocarli
se
non
in
caso
di
provato
tradimento.
Il regno era suddiviso in unità territoriali localizzate che erano tenute a versare tributi ai
capi locali che fungevano da intermediari tra questi e l’oba.
Un altro importante compito dei titolati era quello di raccogliere informazioni e prove
durante una controversia portata all’attenzione dell’oba che era anche l’amministratore
della giustizia. Chiunque poteva ricorrere al consiglio del re di Benin City, ma
generalmente la tendenza era quella di ricomporre le controversie a livello familiare o
locale.
Il principio generale del sistema giudiziario prevedeva che ogni capo di lignaggio,
villaggio o città fosse giudice nelle controversie sorte nella propria giurisdizione. Per i
casi più gravi quali accuse di stregoneria, questioni relative all’eredità o sospetto
tradimento, si ricorreva al consiglio del re a Benin City.
La riforma amministrativa operata dagli inglesi portò alla creazione di un sistema
bipartito tra corte suprema, basata sul diritto britannico, e i native council che agivano
sulla base del diritto tradizionale. Il Benin native council, istituito nel 1908, venne in
seguito chiamato native court e poi ancora rinominato customary court (Kaplan, 1997).
Durante i primi anni di attività il native council era presieduto da un commissario di
44
distretto inglese che assieme al vicepresidente obaseki 15 e ad altri cinque capi,
ascoltava e giudicava i casi. La presenza inglese nei tribunali nativi aveva teso a
mitigare le punizioni perpetrate nei confronti delle donne portate a giudizio e si era
spesso schierata dalla loro parte per la questioni che riguardano la richiesta di divorzio.
Questa situazione non durò a lungo, infatti nel 1914 un tentativo di riforma operata da
Sir Frederik Lugard rimosse gli amministratori coloniali dalla presidenza dei concili
locali riducendo la loro influenza nei casi portati all’attenzione della corte nativa. La
costituzione del 1947 istituì un sistema giudiziario dotato di una corte suprema, una
corte d’appello e un’alta corte a livello federale.
Lo stato di edo ha oggi la sua alta corte che coesiste con la corte d’appello tradizionale.
Lo studio di Kaplan è basato sul confronto di due serie di casi portati all’attenzione di
corti native coloniali nel periodo che va dal 1912 al 1916 e in quello che abbraccia gli
anni 1959-1965. Per entrambe le serie, la fonte di riferimento principale è costituta
dagli Archivi del Benin Traditional Council (BTCA).
Kaplan ha preso visione inoltre di fonti d’archivio riguardanti i casi registrati nel 1908 e
quelli registrati nel periodo 1909-1911, ma data l’incompletezza dei dati, non si è
avvalsa di queste ultime fonti a livello statistico.
Durante il primo lasso di tempo, ad andare in giudizio come querelanti erano
soprattutto gli uomini, che denunciavano la fuga delle proprie mogli e ne reclamavano il
ritorno.
Presso gli edo, come in altre società africane, il matrimonio non è una semplice unione
tra due individui, ma un patto che lega due famiglie. I relativi dell’uomo, maschi e
femmine, si rivolgevano alla sua sposa nei termini di “nostra moglie” e anche alla morte
di questo era difficile per lei potersi allontanare dalla nuova famiglia cui apparteneva.
L’importanza del matrimonio per un uomo e per la sua famiglia è legato anche qui alla
capacità riproduttiva della donna e al bisogno di perpetuare il nome del lignaggio, oltre
che alla risorsa che costituisce in sé in quanto forza-lavoro.
Il patto matrimoniale veniva stipulato tra le due famiglie fin dalla primissima infanzia
15
Quando nel 1987 il regno del Benin fu annesso al protettorato della Nigeria del sud l’allora oba Ovonrawen fu esiliato e
la carica temporaneamente sospesa. Gli inglesi affidarono l’amministrazione locale ad alcuni capi da loro nominati a
comando dei quali posero obaseki. Alla morte dell'oba esiliato, gli inglesi tronizzarono suo figlio, oba Eweka II (1914).
Ne risultarono considerevoli tensioni che il nuovo oba tentò di appianare conferendo a obaseki il titolo di iyase
(comandante dei capi villaggio) e dandogli in moglie una delle sue figlie.
45
della bambina e, a volte, prima ancora che questa venisse al mondo.
Non c’era nessuna possibilità di scegliere il proprio compagno di vita e una volta
maritate erano obbligate a restare con lui.
Il processo acquisizione di una moglie era lungo. Si incominciava con una serie di
regali e servizi prestati alla famiglia della ragazza. Dopo che il prezzo della sposa era
stato pagato, la ragazza avrebbe dovuto essere consegnata all’uomo appena entrata in
età riproduttiva, ma per varie ragioni poteva capitare che i tempi si allungassero.
Tra i servizi richiesti al promesso sposo dalla famiglia della ragazza c’era a volte il
saldo di debiti contratti da quest’ultima. Poteva capitare quindi che una bambina fosse
promessa a due uomini differenti per trarre vantaggi economici dalla tradizionale
consuetudine del prezzo della sposa. Poteva anche darsi di famiglie che tendevano a
consegnare la loro figlia con gran ritardo rispetto alla raggiunta età puberale affinché
l’uomo continuasse a prestare mano d’opera gratuita.
Nei primi anni di attività della corte si hanno varie testimonianze di simili situazioni. Una
volta che il prezzo era stato pagato, la ragazza apparteneva alla famiglia del futuro
sposo che poteva disporne a proprio piacimento, maltrattarla, picchiarla e anche
abbandonarla impunemente. In caso di vedovanza senza prole la donna poteva essere
ereditata dal primogenito del defunto. In caso di impotenza si ricorreva spesso a un
tacito accordo che consentiva alla donna di avere figli da un altro uomo, ma la
questione era in genere trattata con gran discrezione.
Da una buona moglie ci si aspettava (e ci si aspetta) che sia sottomessa al marito, di
carattere docile e non lamentoso.
Una volta abbandonata la famiglia essa avrebbe potuto farvi ritorno solo raramente e
con il consenso del marito poiché questo spostamento avrebbe potuto costituire
l’occasione per fuggire.
In linea di massima il lignaggio di origine non accoglieva di buongrado eventuali
lamentele da parte della figlia, sia perché una separazione avrebbe comportato la
restituzione di quanto ricevuto in pagamento, sia per il disonore che ne sarebbe
inevitabilmente seguito. Rompere il patto matrimoniale era considerato un atto
riprovevole e vergognoso che sarebbe stato di onta per tutta la famiglia.
Un’altra forma di maltrattamento era costituita da un'eccessiva applicazione degli iwu,
46
marchi tribali incisi sul corpo di uomini e donne.
La pratica fu resa illegale da oba Azenuka II nel 1940 (Kaplan, 1997), ma ancora oggi
quello del maltrattamento fisico delle mogli è un problema diffuso.
Mogli turbolente e figlie intrattabili potevano anche essere inviate presso l’harem
dell’oba dove sarebbero state rieducate attraverso il duro lavoro e punizioni fisiche.
Per quanto riguarda le mogli reali, le iloy, costoro dovevano essere di buon esempio e
ci si aspettava quindi che il loro comportamento fosse ancora più docile e remissivo.
L’oba può scegliere le proprie future spose a ogni livello sociale, anche tra gli strati più
umili. Generalmente la prima moglie o la sua favorita sarà colei che partorirà l’erede al
trono e verrà titolata come iyoba.
Molte delle mogli dell’oba sono frutto della sua libera scelta, ma alcune tra loro gli sono
state assegnate in dono: o a titolo di pagamento di un debito, o nella speranza di
ricavare da ciò dei benefici o per punire una moglie che aveva fatto adirare il marito. In
qualche caso si ha che la rinunzia a una figlia faccia seguito a un voto espresso alla
sua nascita o alla speranza di una vita migliore per essa. Una volta entrate a far parte
dell’harem, la loro diventava una vita di confino e nessuno, ad esclusione di eventuali
relative al loro seguito in qualità di servitrici, poteva entrare in quello spazio separato.
Se la condizione di mogli reali poteva offrire una possibilità di innalzamento sociale
attraverso il conseguimento del titolo di iyoba, per tutte le altre la condizione generale
non era di molto superiore a quella delle donne comuni, in quanto costrette a vivere in
isolamento e senza la possibilità di vedere la propria madre se non in rare occasioni.
Oltre al titolo riservato alla madre del futuro oba ne esistevano altri che erano simili a
quelli riservati ai capi16, ma le loro funzioni erano segrete e venivano esercitate
all’interno del palazzo dell’harem, in privato piuttosto che in spazi pubblici come era per
gli uomini (Kaplan, 1993).
Una iloy fuggiasca non poteva ricevere cerimonie funebri pubbliche e chiunque avesse
tentato di aiutarla sarebbe stato considerato un nemico dell’oba, gettando grave
disonore sulla propria famiglia.
I dati raccolti da Kaplan mostrano come al momento dell’istituzione dei primi tribunali
coloniali, la fuga delle mogli fosse già una pratica diffusa da tempo e che, soprattutto
16
Tanto per citarne alcuni ricordiamo quello di Eghaevbho nbre corrispondente alla carica maschile di capo villaggio, e
quello di Eghaevbho nbgbe, ossia capo di palazzo.
47
nei primi anni di dominazione coloniale, subì una rapida impennata. Non c’è traccia
presso gli edo di gruppi di solidarietà come quelli che abbiamo visto tra gli igbo, né di
classi d’età al femminile che potessero dare sostegno e mostrarsi amichevoli nei
confronti dei propri membri.
In caso di maltrattamento, l’unica alternativa al rassegnarsi era scappare.
Da quanto si evince dalle testimonianze raccolte durante le cause che coinvolgevano le
donne, violenza e abbandono a danno di queste ultime era la regola anziché
l’eccezione.
Gran parte dei casi che coinvolgevano le donne, nel primo periodo preso in
considerazione da Kaplan (1912-1916), faceva riferimento proprio al preteso ritorno
delle mogli in fuga (63% dei casi). A esercitare il diritto di proprietà sulle mogli non
erano solo i mariti, ma anche i loro parenti che reclamavano il possesso della donna,
fuggita dopo il decesso del consorte. Questi casi andavano spesso ad inglobare parte
di quelli per adulterio.
Difficilmente il querelante ricorreva in giudizio per ottenere il risarcimento della dote e
regolarizzare la separazione; sia perché lo status di un uomo era misurato in base al
numero di mogli e figli che esso possedeva, sia perché non erano previste sanzioni per
un uomo che abbandonava la propria donna.
Gli inglesi sovrapposero il significato del prezzo della sposa, a quello occidentale di
dote e stabilirono un prezzo unico, da versarsi in moneta.
In caso di risarcimento di casi precedenti l’immissione della nuova norma, il dovuto
veniva calcolato anche in base ai servizi resi alla famiglia della consorte (Kaplan,
1997).
C’è una duplice accettazione in questa norma. Da un lato gli uomini edo che
intravedono la possibilità di acquisire una sposa in modo più rapido; dall’altro i
funzionari inglesi, che incorporarono nella loro idea di dote anche i regali e i lavori
offerti alla famiglia della futura consorte.
Affinché una separazione fosse legittima occorre che tale dote sia risarcita e in molti
casi il rifiuto, da parte della famiglia dell’uomo, di accettare tale rimborso, era oggetto di
controversia.
Durante i primissimi anni di attività del benin native council, il ruolo dei funzionari interni
48
come presidenti era teso a favorire le donne che erano evase da una situazione di
violenza e maltrattamento continue, ma la situazione cambiò dopo la riforma del 1914.
I dati analizzati da Kaplan (Kaplan, 1997) mostrano come nel totale dei casi dei due
periodi presi in considerazione, la percentuale di concessione di divorzi si aggirava
intorno al 50%. Le accuse mosse dagli anziani e dagli esponenti della chiesa
anglicana, secondo i quali l’attività coloniale aveva favorito il decadimento della
moralità a causa della facile concessione di divorzi, non trovano riscontro in queste
percentuali.
Se è vero che il fenomeno delle mogli in fuga subì una rapida impennata con
l’istituzione di questi nuovi strumenti giudiziari, è anche vero che gli stessi uomini
seppero trarre vantaggio dal nuovo stato di cose.
Nel periodo compreso tra il 1912 e il 1916, i querelanti erano soprattutto uomini che
citavano in giudizio altri uomini in quanto il loro diritto alla proprietà era stato leso. Molti
casi riguardavano fughe avvenute anche dieci o dodici anni prima e che avevano dato
seguito alla nascita di figli tra la donna e il nuovo compagno.
L’amministrazione inglese dovette pertanto porre un limite temporale di tre anni
trascorsi tra la fuga e il ricorso in giudizio, ma la regola fu quasi sempre disattesa. La
nuova fisionomia del prezzo della sposa e del risarcimento monetario inoltre rendevano
più immediata e semplice l’acquisizione di nuove spose come si evince dal fatto che,
tra il 1959 e il 1965, la percentuale dei casi in cui si richiedeva il ritorno della moglie
scende al 10%.
Gran parte dei casi riportati da Kaplan fanno riferimento a donne evase dal compound
del marito, che si sono unite ad altri uomini e con loro hanno intrattenuto relazioni
stabili, generando prole, ma si dava anche il caso di mogli che tentavano di
raggiungere stati confinanti alla ricerca di migliori condizioni di vita senza
necessariamente legarsi ad altri compagni.
Questa cosa era spiegata dagli uomini come una frivolezza femminile che le spingeva
a cercare stili di vita mondani in città vicine.
Igbafe (Igbafe, 1979) riporta di come gli abitanti dell’area Ishan si fossero rivolti al
commissario delegato in visita affinché si stabilissero delle sanzioni per gli autisti che
aiutavano le donne a raggiungere Lagos e altre aree limitrofe.
49
Il favore accordato alle donne nel riconoscimento della separazione riguarda in realtà
solo i primissimi anni di attività dei tribunali coloniali.
Nel 1920 uno scandalo coinvolse Obaseki e altri capi che facevano parte delle corti
native. Le accuse loro rivolte si basavano sul fatto che spesso le donne alle quali era
stato concesso il divorzio entravano a far parte temporaneamente o in via definitiva nei
loro harem (Kaplan, 1997). Le accuse di abusi di potere assieme alla riforma del 1914
che aveva escluso i commissari britannici dalla presidenza delle corti native aveva reso
più improbabile l’acquisizione di libertà da parte delle mogli in fuga. Nonostante ciò
l’imput iniziale era stato dato e la possibilità di migliorare le proprie condizioni, intravista
all’inizio del secolo, continuava a dare coraggio e spinta alle consorti maltrattate.
I loro tentativi di fuga ripetuti, nonostante le ordinanze della corte, sono segno di una
loro presa di coscienza più forte e di una grande volontà di autodeterminazione a
dispetto delle tradizioni che le volevano come proprietà privata, dei padri prima e dei
mariti poi.
A questo proposito un altro dei dati forniti da Kaplan merita di essere commentato. Tra
il 1912 e il 1916 solo il 13% dei casi che riguardavano le donne, le vedeva come
querelanti, il restante 87% era composto dalla controparte maschile.
Ben diversa appare la situazione tra il 1959 e il 1965, quando la percentuale femminile
di querelanti sale al 35%.
Questi dati ci dicono che le aspettative delle donne nei confronti di una migliore qualità
di vita erano aumentate. Si tratta principalmente di donne che reclamano il divorzio
perché maltrattate o perché il disinteresse del primo marito nei confronti dei loro figli ,
ne aveva causato il decesso.
Il 17,20 % dei casi è rapprsentato da mogli abbandonate dai loro mariti che
reclamavano un aiuto economico per il mantenimento dei propri figli, nonostante
questo genere di richiesta gettasse il disonore sulla donna e sulla sua famiglia.
Questo è un importante segnale di emancipazione, soprattutto considerando il fatto
che, nei casi precedentemente esaminati, non si facaveva minimamente cenno a
questo tipo di richieste.
L’introduzione del prezzo unico da versarsi in moneta e il conseguente risarcimento
monetario in caso di separazione ha trovato una rapida accettazione tra gli uomini edo,
50
come dimostra lo scarto percentuale delle richieste di ritorno della moglie nei due lassi
di tempo presi in considerazione da Kaplan (63,3% tra il 1912 e il 1915; 10 % tra il
1959 e il 1965).
Durante la prima fase oggetto della contesa erano le donne mentre nella seconda si
punta più sul risarcimento monetario, che avrebbe agevolato l’acquisto di nuove mogli.
Sull’aumentata fiducia delle donne nei confronti della possibilità di scegliere il proprio
destino ha pesato anche il diffondersi, verso la metà del XX secolo, della famiglia come
unità monogama e il conseguente venir meno del controllo coercitivo esercitato da
parte degli anziani.
Non si ha infatti più traccia di richieste da parte di madri o altri parenti del marito
affinché dopo il decesso di questo la vedova restasse presso di loro.
Per una serie di mutate condizioni era diventato più probabile che la donna andasse a
vivere presso i propri figli in una sua casa qualora ne avesse avuto i mezzi.
Fin dal 1863 il governo inglese aveva tentato di arginare il fenomeno della poligamia
attraverso una serie di ordinanze che non ebbero però alcun effetto nell’immediato. La
prima ordinanza di monogamia in questo senso risale al 1863. Ne fece seguito una
seconda nel 1884 cui seguì la validazione nel 1914.
Nessuna di queste imposizioni ebbe però effetto e le norme furono costantemente
disattese(Kaplan, 1997).
La tendenza verso questa nuova forma di unione fu piuttosto determinata da ragioni di
ordine economico e dalle mutate credenze religiose anche se ancora oggi esistono
forme di unione non ufficialmente riconosciute che continuano comunque ad avere
luogo in una forma di poligamia reinventata.
Si ha infatti che, prima o dopo il matrimonio considerato legittimo, un uomo possa
avere una o più amanti, amiche, giovani mogli alle quali si unirà attraverso il solo rito
tradizionale. I figli nati da queste unioni ricevono sostentamento a seconda delle
possibilità dell’uomo, ma non sono considerati legittimi come legittime non sono le
unioni.
Attualmente il matrimonio è visto principalmente come una scelta dettata da un
sentimento reciproco che unisce due individui, ma si tratta di un’affermazione
applicabile perlopiù a esponenti di una classe medio-agiata, istruita anche all’estero e
51
con più opportunità di mobilità.
Ancora si ha il caso di mogli inviate a giovani che stanno completando la loro
formazione lontano dal villaggio di provenienza. I due potrebbero incontrarsi anche solo
un paio di volte prima che la donna raggiunga il futuro compagno.
Pur essendo venuta meno la coercizione da parte dei membri della famiglia dell’uomo
sulla sua sposa, il matrimonio resta un affare di famiglia. Attualmente un matrimonio
legittimo ,oltre l’approvazione delle due famiglie, prevede sia il rituale tradizionale che
quello civile o ecclesiastico. Inoltre il pagamento della dote (e la sua restituzione in
caso di separazione ), resta imprescindibile. Tale restituzione deve avvenire anche in
caso di vedovanza senza prole. Solo a risarcimento avvenuto, la donna potrà
legittimamente unirsi a un nuovo compagno e avere dei figli da quest’ultimo.
Nelle aree urbane si tende oggi a dare lo stesso tipo di educazione ai propri figli e le
donne sono impiegate ad ogni livello, come medici, poliziotte, avvocati etc. Eppure
ancora oggi è possibile per un uomo maltrattare la propria moglie in mezzo alla strada
senza incorrere nella riprovazione sociale.
Per questo motivo le donne dei vicini igbo o yoruba difficilmente accettano di prendere
un uomo edo come consorte e donne edo sono generalmente più propense ad unirsi
con gli uomini delle sopracitate popolazioni.
La mancanza di gruppi di solidarietà dotati di una certa influenza, all’infuori di
associazioni di ordini professionali, ha probabilmente un certo peso nel limitare l’azione
sopraffattrice dei mariti sulle mogli.
Le associazioni riguardano gruppi professionali che condividono interessi e attività
comuni, alcune delle quali si legano alle attività del National Council of Women’s
Societies, fondato nel 1958 in Nigeria per favorire il rafforzamento della componente
femminile della popolazione, come nel caso delle associazioni di commercianti del
Bendel.
Nel 1987 l’allora First Lady della Nigeria, Maryam Babangida, istituì il Better Life
Programme (BLP) rivolto alle donne che vivono nelle aree rurali, al fine di promuovere
piani di sviluppo e miglioramento delle tecniche di produzione e vendita dei prodotti
alimentari. Il piano si è basato sulla messa in condivisione delle esperienze acquisite,
soprattutto per quello che riguardava saperi direttamente connessi alle sfere di attività
52
commerciali, come il saper far di conto. Il sistema di istruzione istituzionale primario è
legato a nozioni considerate inutili ai fini delle attività pratiche e quotidiane e questo
causava un abbandono precoce del percorso di istruzione.
Queste pratiche di insegnamento alternative suscitavano interesse da un lato e
dall’altro fornivano gli strumenti per poter svolgere un’attività commerciale che desse
risultati soddisfacenti.
L’attività di produzione e vendita del cibo nelle aree rurali è stata sempre prerogativa
femminile, in questa come in altre aree. Non stupisce quindi che un programma di
rafforzamento delle attività delle donne in aree rurali si sia concentrata soprattutto su
questo punto.
La crescita economica e l’espandersi delle attività dei gruppi di mercato ha portato ad
una conseguenza importante nel modo comune di vedere le donne: da proprietà
privata del marito e cittadini di seconda classe son passate ad essere viste come
indispensabili produttrici di risorse alimentari per l’intera comunità piuttosto che al solo
livello familiare.
Nel 1991 nasce ad opera di alcune influenti donne del Benin, l’edo State Women
Association (ESWA) che durante le prime fasi di attività si era rivolta al supporto del
lebbrosario di Abudu. Le donne commercianti si sono rivolte a loro per chiedere aiuto
poiché le condizioni in cui si trovavano a lavorare la terra dei mariti e a vendere i loro
prodotti erano di scarso livello e senza prospettiva di sviluppo17.
Non interessa in questa sede ripercorrere le iniziative che, a vario titolo, hanno favorito
lo sviluppo delle attività commerciali delle donne edo. Si vuole piuttosto sottolineare
ancora una volta l’impulso autonomo,verso un miglioramento delle proprie condizioni.
Così come nei primi anni di attività delle corti coloniali, queste avevano colto
l’occasione per vedere legittimati i loro tentativi di conseguire un livello di qualità di vita
decente, negli ultimi 30 anni si sono appoggiate ad associazioni con connessioni
istituzionali per migliorare la propria esistenza.
Se nelle aree urbane l’accesso a livelli più alti di mobilità e istruzione ha portato in molti
casi a concrete realizzazioni personali, nelle aree rurali la condizione femminile soffre
ancora di un elevato grado di incuria e sottomissione da parte delle famiglie.
17
Per saperne di più sulle attività dell ESWA cfr. http://www.edowomen.org/EdoBrochure.pdf
53
La principale attività economico-riproduttiva delle donne in quelle aree è legata appunto
alla coltivazione della terra e alla vendita di beni alimentari ed è quindi naturale che le
spinte associative e di mutua collaborazione si siano mosse in quella direzione.
Se gran parte delle riflessioni nei confronti delle conseguenze dell’azione del
colonialismo sulla condizione di vita delle donne hanno sottolineato il fatto che le
amministrazioni coloniali hanno limitato, se non escluso, la sfera di influenza femminile
a livello politico e rituale, questo caso dimostra come gli amministratori inglesi si siano
mostrati sensibili verso la condizione femminile ed abbiano offerto loro una possibilità
di riscatto.
Appena le donne hanno intravisto la possibilità di vedere legittimate le loro scelte sono
ricorse inizialmente a qualche loro parente maschio prima, individualmente poi, per
cambiare la propria condizione. La loro azione è stata una sfida continua all’autorità:
sia quella detenuta dagli anziani e dai loro mariti, che quella dei tribunali, cui
ignoravano le disposizioni ripetendo costantemente le loro fughe, in caso di insuccesso
giudiziario.
Anche se non si può certo affermare che la condizione femminile delle donne edo sia
oggi prossima all’emancipazione e all’acquisizione di pari diritti con la controparte
maschile, qualcosa in quella direzione si è sicuramente mossa e questo è stato frutto
dell’effetto cumulativo di azioni individuali che hanno saputo muoversi in un campo
tutto sommato favorevole.
La spinta nata all’inizio del XX secolo e l’influenza dei fattori economici e religiosi, uniti
ad un incremento del livello di istruzione e mobilità delle nuove generazioni e alle
attività delle associazioni che agiscono su più fronti nel territorio nigeriano, lascia
sperare in un futuro in cui le donne edo siano sempre più padrone del proprio destino e
delle proprie scelte, a meno che non giungano politiche governative che muovano in
verso opposto ad una tendenza che, iniziata anche prima del colonialismo, trova
sempre più spazio di azione e legittimità.
2) Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra Leone
I Mende appartengono alla famiglia linguistica niger-kordofonian e sono penetrati nel
sud della Sierra Leone attraverso una serie di ondate migratorie dalla regione dell’alta
Guinea tra il XII e il XV secolo.
54
Il diritto di proprietà allodiale ha dato luogo a una serie di domini indipendenti tra loro e
organizzati sulla base di una struttura gerarchica all’apice della quale stava un capo
supremo, discendente del lignaggio, che per primo occupò il territorio interessato.
I gruppi residenziali, basati sul principio della virilocalità, sono costituiti da un gruppo di
fratelli e dalle loro mogli, retti generalmente dall’uomo più anziano. Spesso accade che,
in momenti successivi, un figlio, con le proprie mogli, dia luogo ad un insediamento
separato del quale sarà a capo.
Un ruolo fondamentale all’interno dell’harem di ogni uomo è svolto dalla sua prima
moglie, che ha il compito di organizzare tutto quanto ruota intorno al gruppo poliginico,
inclusi i rapporti con eventuali clienti esterni e, in passato, la gestione del lavoro degli
schiavi.
Il “capo delle mogli” di un lignaggio al potere potrebbe essere chiamata dal marito a
succedergli anche se non ha diritti di discendenza sul territorio retto dal lignaggio
affine.
Società poligamica basata su un sistema di discendenza patrilineare, quella Mende, è
organizzata sulla divisione sessuale del lavoro e in base all’appartenenza alle società
segrete del Poro per gli uomini e del Sande per le donne.
Durante il periodo di iniziazione, uomini e donne vengono preparati al passaggio all’età
adulta segnato dall’incorporazione vera e propria nelle società.
Per quanto riguarda il Sande, con lo stesso termine ci si riferisce sia all’associazione
vera e propria che allo spirito che protegge le donne e le guida durante il corso della
loro vita pubertà; ogni suo membro viene istruito in merito al retto comportamento che
una donna adulta è tenuta ad osservare sulla base di ideali di armonia, bellezza, amore
e giustizia.
Il Sande è l’essere unite nella propria femminilità, come sorelle che agiscono e si
confrontano liberamente tra loro.
E’ l’appartenenza alla Sande che rende maritabile una donna, lo spirito del Sande
viene evocato e propiziato attraverso una serie di performances dove le maschere
richiamano gli ideali propugnati dalla società ed evocano lo spirito stesso associato
all’elemento acquatico.
La struttura della società segreta è impostata gerarchicamente e al vertice troviamo la
55
figura della sowie, incarnazione massima dei valori di modestia ed equilibrio cui una
donna mende deve aspirare. Ogni sowie detiene il controllo sui saperi segreti
indispensabili al conseguimento della felicità individuale e collettiva ed è in contatto con
gli spiriti degli antenati e con le forze della natura.
Uno dei loro compiti fondamentali consiste inoltre nel proteggere le donne della loro
comunità da abusi di ogni genere. I ranghi successivi corrispondono alla Ligba Wa
(senior) e alle Ligba Wulo (junior). In ogni gruppo c'è una sola Ligba Wa, che svolge
ruoli esecutivi all’interno del Sande, come quello di guida nelle attività artistiche. Il
termine nyaha si riferisce ad un’ iniziata ordinaria. Un proverbio Mende riportato sulla
brochure di una mostra sulle maschere sowei tenutasi nel 2010 al Bayly Museum of
Art, University of Virginia, recita che: Sande nyaha ndopo ii le (una donna sande non è
una bambina)”18 ad indicare che l’appartenenza al Sande assicura la trasformazione di
una bambina in donna prima e in moglie poi.
Le donne hanno esercitato attivamente la loro leadership politica come sowie, capi
famiglia, capi delle mogli e come capi villaggio, giungendo ad avere, sotto la
legittimazione del governo coloniale inglese, sfere di influenza molto ampie, che sono
state oggetto di un dibattito il cui focus riguardava la legittimità, da un punto di vista
tradizionale, dei ruoli di “paramount chief” detenuti da governanti femminili tra la fine
del XIX e ‘inizio del XX secolo.
Poco prima dell’imposizione del governo coloniale, sul finire del XIX secolo, il territorio
Mende era caratterizzato da nove stati, cinque dei quali basati su confini territoriali
(Shebro, Kpa-Mende, Bumphe, Lugbu e Gallinas); quattro definiti dalla fedeltà dovuta a
leader specifici (Makavoray, Nyagua, Mendegla, e Kai Londo). Ognuno di questi stati
era retto da un capo supremo cui ci si riferisce, nella letteratura, con il titolo onorifico di
sovrano ( Abrham, 1978).
Ciascuno di questi stati era suddiviso a sua volta in una serie di territori governati da
figure chiamate ndͻ-maheisia (capi della terra, Sing, ndͻ mahei) ciascuno dei quali
deriva il proprio potere su basi di discendenza o di rappresentanza di discendenti degli
antenati fondatori del lignaggio che detiene il controllo su quel territorio e che è
responsabile nei confronti della popolazione che vi risiede.
18
http://webcache.googleusercontent.com/searchq=cache:f5CaYl2tq4IJ:cti.itc.virginia.edu/~bcr/studentwork/milner/Writing
s/handout.txt
56
A. M. S. Lavelie riporta l’emergere di un altro tipo di figura nelle turbolente vicissitudini
che caratterizzarono il XIX secolo, ovvero i kͻ mahei (capi della guerra). La loro
influenza poteva essere molto forte e giungere alla creazione di proto-stati o aree di
influenza con i quali ogni ndͻ mahei era tenuto a fare i conti attraverso una serie di
alleanze.
Pur dovendo fedeltà ad uno dei nove re, ogni capo territoriale vedeva internamente
legittimato il proprio potere, che non era mai imposto semplicemente attraverso l’uso
della forza militare (A. M. S. Lavelie, 1976).
Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) riporta dell’unico caso in cui a governare uno dei nove
stati di cui sopra fu una donna, madame Yoko che, ereditata dal marito la reggenza
sull’alto Bumpe, estese il proprio potere sull’intero stato dello Kpa Mende, con il
riconoscimento, nel 1884, del governo coloniale.
I resoconti locali e inglesi del periodo ce la descrivono come una donna dotata di una
straordinaria grazia e modestia nei modi, ma allo stesso tempo ferma e coraggiosa.
La madre di Yoko apparteneva al lignaggio a capo del Gorama, l’area dalla quale si
diffuse l’espansione degli kpa mende, costola del più ampio gruppo mende mentre suo
padre aveva partecipato come guerriero a quel movimento migratorio (P. Hoffer ,1977).
Come tutte le sue coetanee, fu iniziata alla società Sande raggiunta la pubertà e si
distinse particolarmente tra le sue compagne in special modo per quanto riguardava la
grazia nella danza. Raggiunto lo status di donna maritabile, sposò il figlio della sorella
di suo padre,19 ma si separò da questo in quanto particolarmente geloso e sospettoso.
Strinse un secondo matrimonio con Gbenje, figlio di uno dei guerrieri che avevano
portato avanti l’espansione Kpa- Mende verso Ovest.
Pur non essendo la prima moglie, essa si distinse in modo particolare mostrando le sue
capacità organizzative e il suo profondo senso di responsabilità, guadagnandosi il titolo
di capo delle mogli.
Tra i Mende una donna sposata non perde l’appartenenza al proprio lignaggio
d’origine; Yoko seppe mantenere rapporti molto stretti con i propri consanguinei
ricevendo spesso regali da questi; il più significativo le fu dato da uno dei suoi fratelli
che, fatta benedire una lingua di leone da un anziano musulmano, la consegnò alla
19
Nella società patrilineare Mende la forma di scambio matrimoniale preferenziale, da un punto di vista di ego maschile, è
quella con la cugina incrociata matrilaterale.
57
sorella affinché la sua grazia ed intelligenza potessero essere incrementate attraverso
un legame con il potere cosmico racchiuso nel talismano. Alla morte del suo secondo
marito, in accordo con le forme di levirato, scelse e fu scelta da Gbanya, nipote del
defunto, per il suo terzo ed ultimo matrimonio.
Tra il 1860 e il 1870, Gbanya si era distinto come guerriero valoroso nell’area superiore
del fiume Bumpe fino ad essere considerato capo di quella zona, ottenendo anche il
riconoscimento degli ufficiali coloniali di Freetown 20 che si avvalsero spesso dei servizi
delle sue truppe.
Nel 1861 in seguito a un incidente diplomatico Gbanya fu fatto prigioniero dal governatore Rowie e portato nella città di Taimawaro. Madame Yoko intervenne personalmente facendo appello al governatore per il rilascio del marito implorandone
l’innocenza e assumendosi la responsabilità di organizzare la cattura del vero
colpevole.
In seguito a questa dimostrazione delle sue abilità diplomatiche, Yoko fu incoraggiata
dal marito ad esercitare e valorizzare le proprie capacità politiche. Poco prima della
propria morte (1878), Gbanya stabilì che Yoko gli sarebbe succeduta nella sua carica e
si preoccupò che lo stesso governatore Rowe fosse informato della decisione presa.
Nel 1884 Madame Yoko fu riconosciuta dagli inglesi come regina di Sennehoo. Come
regina, avendo intuito l’entità politica dei cambiamenti che sarebbero sopraggiunti di li a
pochi anni, intrattenne
rapporti diplomatici costanti con il governo di Freetown,
rinunciando alle prassi migratorie che avevano caratterizzato le attività dei primi capi
mende.
Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) descrive le strategie di alleanza da lei seguite sia nei
confronti della sua popolazione che nei confronti degli inglesi.
Grazie al suo carisma e alla sua femminilità costruì reti di relazioni importanti, ad
esempio intessendo amicizie durature con gli interpreti nativi del Governatore Rowe o
prestando le sue truppe nel momento in cui gli inglesi ne manifestavano il bisogno.
Quando nel 1892 furono stanziate truppe di frontiera al di là dei confini della colonia, si
preoccupò di assicurare alle truppe di stanza a Senehun ogni confort necessario a
20
La prima compagnia di commercio inglese in Sierra Leone risale al 1663; nel 1787 vennero fondati i primi insediamenti
di Freetown, destinati ad accogliere gli schiavi liberati dai Britannici in seguito ad un trattato tra questi e i capi locali.
Durante la seconda metà del XIX secolo i commerci inglesi subirono gravi perdite a causa di una serie di scontri locali, si
giunse quindi, nel 1896, all’imposizione della Pax britannica e all’istituzione del protettorato della Sierra Leone.
58
soddisfare i loro bisogni quotidiani, ma le truppe erano perlopiù composte da ex-schiavi
o da giovani che non nutrivano alcun rispetto nei confronti dei capi tradizionali.
Episodi molto frequenti di saccheggio delle città scatenarono il malcontento di molti che
ritenevano che la responsabilità principale era da attribuire a Yoko e che lei stessa
stava depredando Senehun.
Il malcontento si estese nel 1896, con l’imposizione del protettorato e la conseguente
tassa di 5 scellini per nucleo residenziale che ogni capo avrebbe dovuto versare
all’amministrazione inglese. Madam Yoko accettò il pesante carico e dispose che i
sottocapi avrebbero dovuto raccogliere tali tasse.
In molti sostennero che pagare per qualcosa che si possiede di diritto equivale a
essere prossimi alla sua perdita e che il tradizionale rispetto dovuto loro era ormai
riservato alle truppe.
La situazione si aggravò ulteriormente con la requisizione da parte inglese di forza
lavoro locale che fu impiegata nella costruzione dei nuovi centri amministrativi; le
accuse si facevano sempre più pesanti, si parlava di Yoko come di una bambina
irresponsabile che né la sua famiglia nè la Sande avevano educato correttamente. Nel
frattempo la società Poro stava preparando la violenta rivolta delle tasse che esplose
nel 1898 e durante la quale madame Yoko rimase leale ai suoi alleati britannici, cosa
che le consentì di resistere ad attacchi rivolti anche contro di lei. Molti ragazzi e
ragazze catturati come prigionieri le furono affidati e, sedata la rivolta, ricevette una
medaglia d’argento come riconoscimento per la fedeltà dimostrata alla regina Vittoria.
In questa occasione fu nominata, davanti ad altri capi, sovrana suprema dello Kpa
Mende.
La vendetta dei guerrieri Mende non tardò ad arrivare e Senehm venne distrutta.
Il centro amministrativo fu trasferito a Moyaba, dove Yoko portò con sè circa 250
persone e dove insediò un ramo della Sande.
Proclamò che ogni suo sottocapo avrebbe dovuto avere una residenza all’interno del
suo compound, dove si sarebbe dovuto temporaneamente trasferire qualora lei li
avesse chiamati a raccolta e stabilì che l’iniziazione delle ragazze ai Sande di tutta
l’area sarebbe stata sua prerogativa. Questa strategia le consentì di stipulare
numerose alleanze in quanto le famiglie delle ragazze iniziate consideravano le loro
59
figlie come proprietà di Madame Yoko, intravedendo la possibilità che queste avrebbero
potuto essere scelte come spose di uomini importanti.
Mentre un capo di sesso maschile stipula alleanze contraendo più matrimoni, che sono
comunque limitati al numero di mogli che può permettersi di mantenere, il sistema di
alleanze matrimoniali stretto attraverso la Sande consente una quantità di legami più
ampi che muovono in una doppia direzione: da un lato la famiglia delle ragazze
concesse in moglie, dall’altro personaggi influenti che le ricevono. Yoko non
corrispondeva alcun prezzo della sposa alle famiglie delle ragazze, i loro figli quindi
non le appartenevano.
Pur intrattenendo altre relazioni, ed evitando di sposarsi nuovamente, probabilmente
con il proposito di poter rendere un eventuale figlio suo erede, essa non ebbe mai figli.
Alla sua morte, avvenuta nel 1906 di sua mano 21, la sua carica fu ereditata dal fratello
minore, il quale però si ammalò gravemente e morì nel 1917 senza aver avuto la forza
di esercitare un governo forte e stabile.
Una serie di disgrazie aveva colpito i fratelli di Yoko e non era rimasto più nessuno per
assumere la sua carica. Nel 1919 lo kpa-mende fu frammentato quindi in 14 unità
autonome e non ci fu più nessuno che potesse onorare la memoria della regina.
Carol P. Hoffer (Hoffer,1977)conclude affermando che le donne mende non erano
semplici strumenti passivi in una società patriarcale, avevano esercitato forme di potere
ad alti livelli e, nel 1914, il 15% dei domini erano governati da capi femminili.
Contesta quindi gli approcci di coloro i quali sostenevano che solo con l’intervento
coloniale le donne avevano potuto accedere a tali cariche in quanto appoggiate perché
ritenute più manipolabili.
La sua affermazione è diretta ad Abraham, l’autore di “Mende Government and Politics
Under Colonial Rule” (1978), nel quale affermava che la chieftaincy femminile era stata
un prodotto del colonialismo, sostenendo che prima di allora nessuna donna aveva
detenuto alte cariche di potere in quanto tradizionalmente questo era stato acquisito
attraverso la pratica della guerra, dominio del mondo maschile. Egli definisce Madame
Yoko come una marionetta del governo inglese e afferma che non avesse goduto della
21
Madame Yoko era in conflitto con il capo del regno di Kakua per questioni territoriali. Si trattava di stabilire a quale dei
due territori dovesse appartenere la città natale della regina. Il giorno della disputa il suo delegato si presentò in ritardo
davanti alla commissione di distretto e madame Yoko perse lacausa. Pare che la vergogna per questa sconfitta abbia
fiaccato definitivamente la volontà della regina che, in un gesto di estrema risoluzione, si tolse la vita
60
legittimità popolare.
Laddove P. Hoffer sostiene che ben prima del governo coloniale le donne Mende
abbiano legittimamente esercitato il potere in qualità di Capi delle mogli, capi-lignaggio,
capi delle società segrete e sovrane di territori più o meno estesi, Abraham ribatte che
il ruolo di Paramount chief era stato prerogativa degli uomini e che solo nel caso di
Madame Yoko, un prodotto delle politiche del governatore Rowe, si era avuto che una
donna avesse detenuto la carica su uno dei nove stati cui si è accennato sopra.
I punti chiave del dibattito, come fa notare Lynda R. Day (R. Day, 2007), ruotavano
attorno al ruolo di paramount chief, definizione di origine occidentale e coloniale, e nei
riguardi di una prospettiva di genere sull’esercizio del potere tradizionale.
Nel tentativo di mediare tra le due posizioni, Day riporta le vicende di Nyarroh un'altra
figura femminile che aveva saputo stringere le alleanze più adeguate per mantenere la
propria sfera di influenza nel distretto del Barrie, regno del Gallinas, all’apice del
colonialismo.
Le sue fonti, come gran parte di quelle di Hoffer, derivano da resoconti di
amministratori inglesi; perlopiù si tratta di carteggi di corrispondenza e indicano che
essa era già al potere nel momento in cui gli inglesi giunsero nella sua area. Tra le fonti
di Day ci sono anche alcune interviste condotte da Abrahm che esprime nei suoi
confronti le stesse riserve mostrate nei confronti di Madame Yoko, considerandola
debole e manipolabile. Nyarroh era ndͻ Mahei del Barrie district al momento dell’arrivo
degli inglesi nella zona.
Essa aveva ereditato la carica di capo di Bandasuma dal proprio marito e aveva
ricevuto l’incarico di reggere la città di Tunkia dal suo alleato e amante Boakie Gomna,
una figura di rilievo nell’alleanza del Gallinas superiore.
Entrambi dovevano fedeltà a Mendegala il re dell’omonimo territorio sotto la cui
influenza ricadeva Tunkia. Il Barrie district era il risultato dell’unione di Tunkia e
Bandasuma avvenuta all’incirca nel 1885 (R. Day, 2007).
Gli interessi commerciali britannici portarono gli amministratori inglesi di Freetown a
impegnarsi in una serie di sforzi diplomatici per sedare i conflitti che imperversavano
nell’area. Al centro di queste attività diplomatiche si collocano le attività di Nyarroh, che
agì in qualità di mediatrice tra le autorità inglesi e gli altri capi.
61
Il suo ruolo tuttavia non era limitato a questo e i resoconti studiati da Day mostrano
come essa sia stata una ndͻ-mahei a tutti gli effetti.
Sia il suo comportamento che la legittimità della sua carica, la collocano al pari degli
altri capi ed il suo ruolo nell’alleanza si è dimostrato essere centrale.
Essa inoltre, seppur legata a Boakie Gnomna, ha mantenuto autonomia decisionale in
più di un caso ad esempio stipulando una pace separata con uno dei nemici del suo
amante.
La sua azione risulta essere tutt’altro che marginale, infatti il suo nome compare in ogni
iniziativa presa da Gomna e da altri capi suoi sostenitori nei confronti dei suoi rivali 22,
sia che si trattasse di negoziati sia in caso di rappresaglie.
Nel 1885, un gruppo di guerrieri comandati da Kobah compì una serie di razzie a
scapito di insediamenti costieri sotto la tutela inglese. Quando nel 1885 un inviato del
governatore Rowe gli chiese un incontro, questi riferì di agire al soldo di sette capi, tra
cui Nyarroh di Bandasuma, e che sarebbe stato opportuno rivolgersi a lei se era
intenzione inglese quella di trovare una mediazione tra i capi del Gallinas superiore e
quelli del basso fiume.
Una visita a Bandasuma di un diplomatico civile, Edmund Peel, nel 1889, pose le basi
per un rapporto che poteva sperarsi amichevole. Stando ai resoconti, Nyarroh mostrò
di condividere l’intenzione di porre fine alle guerre che continuavano a imperversare
nell’area, dichiarando che avrebbe riposto fiducia in loro anche se il parere di Gomna e
dello stesso Mendegala si fossero rivelati contrari.
Fu organizzato, di lì a poco e sotto iniziativa della donna, un incontro tra Rowe e i capi
promotori della guerra in atto, oltre che con i comandanti dei soldati impegnati nelle
operazioni belliche.
L’organizzazione dell’incontro fu condotta in modo esemplare e l’accoglienza riservata
al governatore fu degna di qualsiasi capo mende. L’incontro si protrasse per due
settimane durante le quali Nyarroh mantenne costantemente informati i suoi sottocapi,
Gomna e Mendegala, intorno a quanto stava avvenendo.
L’esito risultò positivo agli occhi degli inglesi e lo stesso Gomna accettò di
22
Nel 1885 nell’ alto Gallinas, c’erano due importanti fazioni in lotta per il controllo del Massaquoi: una sosteneva Momo
Kaikai, l’altra, cui apparteneva anche Boakie Gomna, parteggiava per Jabati. Gomna, che era visto come il naturale
successore di Jabati in caso di una sua vittoria, fu accusato di aver complottato per l’ assassinio del principe Jaiah. Uno
dei suoi nemici più accaniti era Fawundu, legato a Momo Kaik
62
accompagnare il governatore sulla costa per sigillare la pace; fu firmato un trattato noto
come accordo di Lavannah dove, tra le altre cose, si stabilì che Bandasuma era e
sarebbe rimasta un'area neutrale ed estranea ad ogni intervento armato, cosa che rese
il ruolo di Nyarroh nell’alleanza qualcosa di assolutamente unico
Ci furono altri incontri importanti nel 1886 quando Peel incontrò Mendegala; nel 1889
con l’incontro tra Mendegale e un commissario di Rowe che portò alla ratificazione di
un trattato, cosa che Mendegala non aveva accettato di fare nel 1885; nel 1893 con
l’organizzazione di un meeting che vide coinvolti all’incirca duecento capi che si
incontrarono con l’allora governatore dell’Africa occidentale, Fleming.
Questa neutralità però non era legata alla sola presenza inglese, in più casi infatti i capi
del Gallinas si erano incontrati nel territorio di Nyarroh per risolvere le loro controversie.
Si è già riferito di come i capi non partecipassero direttamente ai conflitti ma che
ricorressero a guerrieri acquistati al soldo con i quali mantenevano alleanze più o meno
instabili.
Nyarroh non fu da meno, aveva i suoi due personali leader di guerra (krobas) ai quali
faceva ricorso ogni volta che la necessità lo richiedeva.
In quegli anni il conflitto, lo spargimento di sangue e le rappresaglie erano prassi
politica e i legami obbligati con i guerrieri, mercenari disposti a vendersi al migliore
offerente, erano sempre inficiati dalla paura del tradimento.
Nel 1885 tale sospetto, tra l’altro giustificato, ricadde su Kobah, il leader guerriero che
aveva suggerito a Festing di cercare una mediazione in Nyarroh e che fu ucciso in
quello stesso anno su ordine del capo di Bandasuma.
Da quel momento in poi Nyarroh agì in funzione della difesa sua e della sua gente,
dalla rappresaglia che sarebbe seguita ad opera degli alleati di Kobah e si rifiutò di
tornare sui suoi passi, sostenendo che così come un traditore era stato ucciso, i suoi
sostenitori avrebbero potuto incorrere nella stessa sorte.
Due anni dopo il temuto avvenne, la città fu distrutta e Nyarroh rapita.
Il carteggio in merito all’azione del governo per il suo rilascio e i cambi di rotta di
Ndawa, il capo dei guerrieri alleati di Kobah, che aveva guidato la rappresaglia è
piuttosto consistente.
Quello che qui interessa è notare come la stessa Nyarroh si rivolse al governatore in
63
persona domandando il suo intervento e facendo esplicito riferimento al fatto che gli
inglesi si erano mossi costantemente nel perseguimento dei propri interessi,
intromettendosi in quelli del Gallinas. Pertanto li invitava a compiere un'opera di bene
nei confronti di un membro di quelle popolazioni che stavano contribuendo ad arricchire
i loro commerci.
Mai nessun capo aveva fatto esplicito riferimento a quanto alta era la posta in gioco nel
coinvolgimento degli inglesi nei loro affari interni; inoltre non è irrilevante la
consapevolezza da parte di Nyarroh di potersi permettere di richiedere l’intervento del
governo coloniale.
Lo stesso Ndawa era ben consapevole dei rapporti che legavano il governo Inglese al
suo ostaggio, infatti nonostante le minacce continuava a trattare con la richiesta di un
riscatto per il suo rilascio.
Si sa che nel 1888 Nyarroh era a Freetown, ma non è chiaro se la sua liberazione
fosse stata una conseguenza dell’assassinio di Ndawa o se il governo inglese avesse
infine deciso di pagare il riscatto. Nel 1889 è di nuovo a Bandasuma e nel 1890 inizia a
ricevere uno stipendio governativo assieme agli altri 12 capi firmatari del trattato di
amicizia firmato con Allerdige in quello stesso anno.
Alla sua morte, avvenuta nel 1914, la carica fu ereditata da sua figlia.
Nyarroh ha agito in tutto e per tutto come avrebbe agito qualsiasi altro capo del suo
tempo cercando le migliori strategie di difesa per sè e per la sua gente.
Il suo, come altri ruoli di potere detenuti dalle donne e dagli uomini capi in seguito
tradotti come paramount chief, erano legittimati dalla tradizione e riconosciuti dalla
popolazione.
La contestazione riguardo alla loro mancata partecipazione ai conflitti ha poco a che
vedere con la legittimità delle cariche poiché le questioni belliche erano affrontate
materialmente da appositi reparti di guerrieri e nessun capo partecipava attivamente ai
conflitti. Essa ha agito tra pari, come soggetto attivo nei mutamenti storico politici in
atto, non ultimo il passaggio alla nascente economia di mercato. Le osservazioni di
Abram contengono però una qualche verità nel momento in cui afferma la
fondamentale differenza tra il potere maschile e quello femminile in un ottica di genere.
La straordinaria posizione di mediazione riservata esclusivamente a Nyarroh e i suoi
64
atteggiamenti nei confronti dell’amministrazione britannica può, entro certi limiti, essere
intesa come una forma di collaborazione e non è da escludere che questo ruolo le
fosse stato attribuito in quanto donna.
Consuetudine voleva che in caso di tensioni e conflitti, fossero inviate mogli o figlie
come messaggere, laddove il presentarsi fisicamente avrebbe potuto costituire un
pericolo o significare debolezza.
Questo sostrato potrebbe aver contribuito a determinare Nyarroh come mediatrice
ideale riconosciuta come tale sia dagli amministratori coloniali che dalla popolazione.
Inoltre tra i patrilineari mende, il rapporto con la propria madre continuava ad essere
investito di una carica emotiva molto forte ed essa continuava ad essere trattata con
rispetto e riverenza dai suoi figli anche una volta che questi avevano raggiunto l’età
adulta.
I capi femminili sono considerati come madri della comunità in senso lato e non va
sottovalutato il fatto che, attraverso la Sande, le donne a capo dell’associazione erano
responsabili del passaggio all’età adulta delle ragazze eleggendole a possibili mogli.
In un momento di crisi e cambiamenti economici e politici, il potere femminile ha trovato
spazi di azione creativa che, pur uscendo fuori dai consueti canoni comportamentali,
trovavano la propria legittimità nella tensione alla difesa della propria popolazione dei
capi alleati e, non ultimo, del mantenimento e riconoscimento del proprio potere.
Per concludere, se è vero che i ruoli di potere maschile e femminile possono prevedere
modalità di gestione diverse determinate dal genere, questo non autorizza a pensare
che i ruoli femminili siano stati un’invenzione del governo coloniale e che non abbiano
una loro propria legittimità tradizionale.
3 Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminili
In un articolo del 2006 John K. Thornton, uno storico del regno del Kongo 23, ripercorre
gli eventi salienti dell’area tentando di individuare in che modo le donne dell’élite reale
hanno esercitato la propria influenza. Egli si preoccupa di sottolineare come
inizialmente queste concorressero a tirare i fili da dietro le quinte, favorendo di volta in
volta parenti a loro prossimi nella successione al trono e mostra come abbiano
23
Il Regno del Kongo comprendeva le regioni oggi situate fra lo Zaire e l’Angola. Fu fondato nel XIV secolo, ma una serie
di conflitti interni incrementò le spinte disgregatrici fino alla sua disgregazione, nel XVII secolo, in numerosi domini.
65
acquisito sempre più potere arrivando ad esercitarlo in maniera aperta ed esplicita. Il
regno si configurava come una struttura centralizzata le cui unità fondamentali di
villaggio erano riunite in province (wene). Ogni wene aveva il suo capoluogo (mbanza),
retto da un governatore (mwene) eletto dal re, la cui carica veniva riassegnata ogni tre
anni. Alcune province, come Mbata, erano tradizionalmente assegnate a membri della
famiglia reale. La successione non era determinata unicamente dal grado di
consanguineità, infatti la scelta del nuovo re era determinata da un’assemblea di
funzionari tra i quali gli mwene delle province più importanti. Tale impostazione limitava
la funzione del lignaggio nel determinare il futuro regnante. Il ruolo fondamentale in
questo senso era svolto dai mkanda (sing. kanda) che nella traduzione assegnata dai
portoghesi indica il clan o la gerarchia. Con questo termine oggi si intendono delle
fazioni che originatesi all’ interno dei singoli lignaggi, incorporavano sostenitori
attraverso l’acquisizione di schiavi o altre forme di clientelismo. I gruppi di alleanza
potevano essere più o meno labili. Questi si costituivano indipendentemente dal grado
di consanguineità o di divario generazionale ed entravano in conflitto a ogni nuova
successione dinastica.
Secondo quanto riferito da Thornton (Thornton, 2006), per un lungo periodo di tempo le
donne legate a vario titolo alla corte, esercitarono la loro influenza in modo più o meno
indiretto attraverso i loro figli, fratelli e mariti. Da un punto di vista di genere può
risultare interessante ripercorrere queste fasi per esplorare un’ altra delle forme
attraverso le quali queste donne hanno espresso il loro potere politico, influenzando in
un modo o in un altro la vita delle comunità di appartenenza.
In questo caso non si tratta di regine in senso stretto come si è visto per la Sierra
Leone. Non è in causa neanche la crescente capacità di autodeterminazione da parte
di donne comuni come è stato nel caso della fuga delle mogli. Si tratta qui di
intravedere, negli interstizi delle lotte per le successioni dinastiche, l’emergere di figure
influenti le quali, sia che operassero nell’ombra sia che agissero in modo più scoperto e
dichiarato, hanno avuto o avrebbero potuto avere un ruolo determinante nella scrittura
della storia del regno del Kongo.
Le vicende del regno sono state caratterizzate dall’incontro determinante con i
portoghesi e con la loro opera di evangelizzazione. Il primo contatto risale al XV secolo
66
quando, tra il 1482 e il 1483, l’esploratore portoghese Diogo Cão rapì alcuni membri
della nobiltà del regno, portandoli in Portogallo e riconducendoli indietro due anni dopo.
Nel 1491, l’allora re Nzinga a Nkuwu e molti altri nobili decisero di convertirsi al
cattolicesimo.24 In questo periodo le mogli dell’harem del re, sapendo che la loro
posizione sarebbe stata compromessa dal dettame cattolico della monogamia, presero
contatto con le mogli dei più importanti nobili affinché questi dissuadessero il re dal suo
proposito. L’iniziativa non ebbe successo e il re cambiò il proprio nome in João I in
onore al re portoghese dell’epoca João II.
La moglie scelta per restare accanto al re, Leonor, chiese di ricevere il sacramento del
battesimo ed agì da buona cattolica agli occhi del clero portoghese. Potendo gestire le
risorse economiche e alimentari della città, si mostrò magnanima nel patrocinare la
chiesa. Leonor era la cugina di primo grado del re; Thornton (Thornton, 2006) descrive
questa forma matrimoniale come una prassi dovuta al sistema di alleanze dei mkanda
sottolineando come di fatto, lo stretto legame di consanguineità nelle alleanze
matrimoniali, avesse rafforzato il ruolo delle donne collocandole in posizioni strategiche
rispetto alla scelta dei possibili contendenti al trono. Egli cita inoltre, più di un caso nel
quale la moglie del re era anche una delle figlie di un precedente sovrano, cosa che
deve avere conferito loro una certa sfera di influenza all’interno del proprio kanda. A
Giovanni I (morto intorno al 1509) succedette suo figlio Mvemba a Nzinga, che prese il
nome di Afonso I. Alla successione tentò di opporsi inutilmente un suo fratellastro.
Afonso I spiegò di aver avuto un presagio di vittoria in cui gli erano apparsi San
Giovanni e la Vergine Maria25 Tuttavia stando a quanto riferito da Thornton (Thornton,
2006),fù la madre di Afonso a spingerlo contro il fratellastro, fornendogli preziosi
consigli per conseguire la vittoria.
L’allora imperatore del Portogallo, João III, si riferì a Leonor come figlia e madre di un
re sottolineando il fatto che essa deteneva tradizionalmente, il potere su tutto il Kongo.
Nel 1513 Afonso I, dovendo assentarsi, affidò l’amministrazione e il controllo della
capitale a un portoghese di nome Lopez. L’improvviso divampare di una rivolta di
schiavi dà l’idea dell’influenza delle donne dell’élite reale. Infatti sedati i disordini e
arrestati i sovversivi Lopez intendeva limitarsi a punirli, ma dovette cedere davanti alla
24
25
http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno
http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno
67
volontà della prima moglie di Afonso,(il cui nome ci è ignoto) che impose sugli schiavi
un destino di morte.
In questa fase di contatto con gli europei il commercio degli schiavi subì un’impennata
tale che lo stesso re dovette rivolgersi all’ imperatore del Portogallo, affinché esortasse
i suoi sudditi in Kongo a limitare il fenomeno.
La seconda moglie di Afonso, Catarina, fu ritenuta essere una donna timorata di Dio e
venne nominata istruttrice in una scuola femminile.
A causa del loro legame molto stretto ( tre gradi di consanguineità) Afonso dovette
ottenere una bolla papale affinché la loro unione fosse riconosciuta dalla chiesa. Alla
sua morte si crearono due fazioni opposte che videro coinvolti i governatori di
importanti province e membri del consiglio. Nella contesa entrarono in gioco anche gli
interessi del clero, che aveva acquisito potere politico durante il regno di Afonso
A contendersi la carica erano il figlio di Afonso (probabilmente avuto dalla sua prima
moglie) che fu incoronato come Pedro I nel 1542, e Nkumbi a Mpudi che lo detronizzò
nel 1545 prendendo in nome di Diogo I.
Pedro fuggì in esilio a Mbanza Kongo ed ordì una cospirazione assieme ai suoi
sostenitori e a un suo cugino di nome Rodrigo. Da un carteggio tra i due sappiamo che
Diogo aveva fatto arrestare Catarina, (sorella o cugina di Pedro) assieme alla sorella di
Rodrigo. Il titolo di manyluqueyne, riservato a Catarina,potrebbe indicare che lei sia
stata in quel tempo, la più anziana discendente di una persona chiamata Lukeny,
probabile fondatore o fondatrice del regno. Questo non fa che aumentare il sospetto
che, vista la sua importanza, costei avrebbe potuto costituire un serio pericolo per
Diogo il quale, venuto a conoscenza di un complotto, aveva deciso di imprigionare
nemici potenzialmente temibili.
Catarina doveva essere a capo del kanda Kilukeni al quale entrambi i contendenti
appartenevano. Da questa contesa nacquero le fazioni di Kibala, cui faceva capo
Pedro e una di cui non ci è giunto il nome che sosteneva Diogo. Nonostante vari
complotti e qualche perdita, quest’ultimo mantenne il controllo del territorio fino alla sua
morte (1561).
Dopo una serie di regni di breve durata fu eletto re, Άlvaro I (1568) che sua madre
Izabelle, (figlia di Afonso I), aveva avuto da una sua precedente unione, ma che era
68
ugualmente stato riconosciuto dall’ allora re Henrique I(figlio di Diogo).
L’ attuale regnante era quindi esterno al kanda degli ultimi due. Izabelle come già prima
di lei Leonor era figlia e madre di re, e la sua capacità di persuasione doveva essere
molto grande altrimenti sarebbe stato difficile fare accettare come nuovo sovrano un
figlio nato da un unione precedente. Essa era cugina in primo grado con Henrique ed
aveva legami di parentela con molti esponenti del consiglio non le fu quindi così difficile
fare eleggere suo figlio. Alla morte di questo però, i discendenti diretti di Diogo
entrarono nella contesa e Alvaro II (1587), discendente dal deceduto reggente dovette
stipulare una serie di alleanze con numerosi aristocratici a scapito dei propri parenti.
Oltre le alleanze matrimoniali si servì del conferimento del titolo di mwene (da allora
modificato in conte, duca, marchese) rendendolo permanente.
Due dei beneficiari di questa politica avrebbero giocato un ruolo determinante nei futuri
giochi di potere; si tratta di Manuel, nominato Conte di Soyo (a partire dal 1591) e
António da Silva, eletto Duca di Mbamba.
Nel frattempo, la figlia di Alvaro, al fine di legare le donne reali alla chiesa, si adoperava
per l’apertura dell’ordine delle suore Carmelitane E’ il terzo esempio di donna che tenta
di esercitare la propria influenza attraverso il clero, ma probabilmente si era spinta
troppo oltre, infatti la sua proposta non venne accolta.
Il potere di Da Silva era intanto cresciuto al punto che, nel 1614 poté permettersi di
essere lui a nominare Alvaro III come nuovo regnante. Dopo circa due anni, Da Silva
ordì una rivolta e anche Alvaro III fu costretto a stringere alleanze e elargire titoli
importanti, come quello di Governatore di Nsundi, assegnato a Manuel Jorda˜o e quello
di duca di Mbamba concesso a Pedro Nkanga a Mvika.
Alvaro dovette far fronte a molti nemici e non potendo contare sull’aiuto di uomini adulti
tra i suoi parenti, ricorse alle alleanze femminili inviando ad esempio,sua madre, sorella
del Duca di Nsundi, a trattare con lui.
Alla morte di questo, nel 1622, il duca Pedro di Mbamba si appellò alla sua parentela
con la terza figlia di Afonso, Non si sa se qualche donna abbia avuto influenza diretta
nell‘elezione di Pedro II, ma si ha notizia certa di almeno quattro potenti donne
all’interno della sua corte, appartenenti a fazioni reali e non. Le conosciamo attraverso
il rapporto di un Prete gesuita che visitò la corte nel 1925, quando a Pedro era
69
succeduto suo figlio Garcia I.
Tra queste c’era la moglie di Pedro II, Luiza. Essa va considerata come la protagonista
principale del kanda emergente di Pedro II,grazie al quale lo stesso, era giunto al
potere
L’altro kanda reale che potrebbe aver favorito l’ascesa di Pedro II era rappresentato da
Leonor Afonso, figlia di Alvaro II e sorella di Alvaro III. Probabilmente si trattava di una
di coloro che caldeggiavano la creazione dell’ ordine di Carmelitane all’interno del
Kongo. Questo kanda era rappresentato dalla moglie di Alvaro II, Escolastica.
Entrambi i makanda, capeggiati da donne, avevano reclamato immediatamente il trono
per Pedro II.
Cardoso, nel 1624 parla dell’ esistenza di due makanda, riferendoli a due famiglie reali.
Uno sarebbe stato quello di Kwilu, cui faceva parte Alvaro I; l’altro era il kanda di Pedro
II, ossia il kanda di Nsundi dove suo padre era stato duca e dove lui era nato.
( Thornton, 2006).
Oltre le donne reali, altre figure femminili molto potenti agivano all’ interno della corte.
Una di queste era Christina Afonso, vedova di quel Da Silva che aveva sostenuto
Alvaro III alla successione,ed ex duchessa di Mbamba. Costei aveva una grandissima
autorità ed agiva all’ interno del kanda Kwilu.
In seguito a intricati giochi di potere, le potenti donne di corte ad eccezione di Luiza, la
madre di Garcia I, succeduto a Pedro nel 1625, strinsero alleanza con il Duca di
Nsundi Manuel Jorda˜o per detronizzare Garcia a favore di Ambrosio, (nipote di Alvaro
III), Alla morte di Ambrosio si aprirono nuove lotte di successione e i makanda di Nsudi
e di Kwilu si fusero nel Kinlaza cui apparteneva il nuovo re Garcia II, discendente di
una figlia di Afonso.
Dopo la morte del conte Paulo (1641), sostenitore della dinastia Kinlaza, la contea di
Soyo passò nelle mani di Daniel da Silva, un aristocratico del casato di Kwilu probabile
erede eredi di quel Da Silva che era stato eletto duca di Mbamba da Alvaro II. Egli era
un sostenitore della casa di Kimpanzu, che si opponeva alla dinastia reale e cercò di
svincolare progressivamente la contea di Soyo dal controllo di Garcia II.
Il ducato di Soyo divenne quindi un rifugio per i delatori di Garcia II che si ritrovò ad
assegnare le cariche lasciate vacanti a suoi parenti e clienti. I rapporti tra Soyo e la
70
capitale si inasprirono ulteriormente con il rifiuto da Parte di Da Silva, di sposare la
figlia di Garcia II dopo che sia lui che suo fratello avevano preso due Da Silva come
mogli
Pur non essendo chiare le dinamiche è certo che le quattro donne di corte sono entrate
nelle contese, esattamente come le donne reali anni addietro e che queste donne
hanno cercato l’appoggio della chiesa in molti modi.
Tra queste la più importante era Leonor Afonso, legata, come già accennato,al kanda
Kwilu con il quale avrebbe potuto mediare. Essa era conosciuta come mwene nlaza,
(capo di un kanza fondato da qualcuno di nome nlanza). Era anche conosciuta come
mwene Simba uno Mpungi, titolo detenuto anche da Izabel, forse un titolo onorifico per
il quale alle due era corrisposto un vitalizio.
Una seconda Leonor, era sorella del conte di Soyo Da Silva e sorella della regina,
avrebbe invece potuto costituire il ponte tra i Da Silva e il consiglio reale
Garcia II però decise di fare ameno della attività diplomatica di queste due importanti
donne di palazzo, considerando di non averne più bisogno: le arrestò entrambe
assassinando la più giovane, mentre l’anziana Leonor potè in seguito rientrare nella
capitale.Le due donne avrebbero potuto svolgere un ruolo diplomatico non indifferente
con ambo i gruppi rivali del re, ma per la prima volta nella storia del regno si preferì
estrometterle.
Garcia II nel processo di consolidamento del suo potere, era stato insolitamente
spietato nei confronti dei i suoi rivali. Egli sembra essere stato il primo re del Kongo a
perseguitare direttamente le donne. Diogo ne aveva rimosse alcune dalla capitale, ma
generalmente i re avevano tollerato la presenza di donne collegate ai loro rivali. Questo
si vede bene durante il regno di Garcia I Queste donne, rappresentanti dei nemici
mortali del re, erano trattate con deferenza e i i re si erano mantenuti neutrali nei loro
confronti poiché si erano mostrate utili nelle negoziazioni.
La persecuzione delle due Leonor, nel 1652 era stata ampiamente percepita come un
orrore senza precedenti. (Thornton, 2006)
A questa fase corrispondono le prime testimonianze nei confronti delle donne dell’ élite
che operavano nelle aree rurali. La gestione autonoma delle ricchezze da parte di
queste, ha certamente fornito loro un’indipendenza superiore rispetto a quella di chi
71
risiedeva all’interno della corte reale. In qualche fonte del XVII si fa riferimento a donne
che governavano autonomamente piccole aree.
Nel 1650 un Cappuccino si trovò ad attraversare il territorio di Mpemba Kasi, a nord
della capitale San Salvador e primo insediamento governato dal primo re del Kongo. A
reggere questo insediamento era una donna il cui nome ci è ignoto, ma che aveva
l’appellativo di “Madre di tutto il Kongo” con evidente riferimento all’origine del potere
reale a Mpemba. Ancora, dieci anni dopo, un altro sacerdote riferisce che non solo
reggenze autonome femminili non erano rare, ma che queste donne potevano decidere
di sposare chiunque e che l’uomo era visto dalla popolazione locale come un semplice
aiuto alle attività della loro sovrana.
Nel 1661 viene incoronato Antonio I. Durante il suo regno si scatenò la guerra civile
contro il governo coloniale portoghese, che ottenne la vittoria nella battaglia di
Mbwila(1665). Secondo quanto riferito da Thornton, parte dei motivi dell’ intervento
portoghese erano legati al fatto che Antonio I intendesse spodestare Isabel dal suo
governo di Mbwila Gli scontri portarono alla morte del re e di molti membri della corte
indebolendo ulteriormente il potere reale a favore della contea di Soyo.
Lo scontro fra le dinastie Kimpanzu e Kinlaza intanto continuava a protrarsi e a
diventare più violento, tanto che, nel 1678, la stessa capitale San Salvador, fu
saccheggiata e distrutta. Il controllo del territorio andò sempre più frammentandosi (a
partire dall'indipendenza ottenuta dalla contea di Soyo), fino alla completa
disgregazione del potere centrale. Persino le due dinastie principali si scissero in rami
contrapposti.
Alla fine del XVII secolo, i due principali gruppi erano i Kinlaza e la linea di Kibangu,
che vantava discendenza mista Kinlaza e Kimpanzu. Nonostante le alleanze
matrimoniali, la frattura tra questi makanda continuò a protarsi.
Durante il periodo di crisi, una giovane donna di nome Kimpa Vita, sostenendo di avere
ricevuto da Sant’ Antonio la missione di riunificare il regno, si attribuì il nome di Donna
Beatriz. Fu ricevuta prima da Pedro IV della casa di Kibangu nel 1704 e poi da João III,
che governava su Mbula. Non avendo ottenuto nulla dai due sovrani, si recò nella
capitale abbandonata di San Salvador, e diede inizio a un movimento popolare che
raccolse migliaia di persone e che rifondò formalmente l'antico Regno del Kongo.
72
Beatriz non ebbe la pretesa di essere regina come sarebbe stato nel suo pieno diritto,
ma promise che sarebbe stata il tramite di Dio nella scelta del nuovo Re. Quando la
sua scelta cadde su Constantinho, (alleato di un Da Silva), Pedro IV re di Kibangu
decise di farla processare per stregoneria con un pretesto Nel 1707 Beatriz fu quindi
arsa al rogo e Pedro IV, portò a termine l’ opera di riunificazione(1709).
Per porre fine alle lotte di successione si stabilì un principio di rotazione,ma la regola
fu seguita per poco tempo e senza continuità.
Il periodo immediatamente successivo alla battaglia di Mbwila non è ben documentato,
ma verso la fine del XVII secolo, emerge un quadro più chiaro, in cui le donne erano
ormai impiegate attivamente nelle cariche di potere locale.
Una di queste fu Donna Suzanna de No'brega, capo del lignaggio Kimpanzu.
Supportata da potenti Conti di Soyo, Donna Suzanna vedeva costantemente
assecondate le sue pretese e molti suoi figli detennero il potere a San Salvador
Nel XVII secolo l’ apice del potere femminile è comunque rappresentato da Donna Ana
Afonso de Leao, sorella di Garcia II e moglie di Afonso II. Dotata del titolo mwene
nlaza, era il capo riconosciuto del kinlaza. Durante la resistenza contro Raphael I essa
fu un membro molto attivo, per non dire che ne fu la principale promotrice. Rifugiatasi a
Mbanza Nkondo ha operato inizialmente per l’installazione di Joao II, un suo parente, e
in seguito per suo nipote Alvaro.
Joao aveva come roccaforte Mbula, retta dal fratello Pietro III ed era sotto la guida di
sua madre Potencia. La sorella di Joao era una collaboratrice stretta di Pietro, loro
comune fratello, e aveva quindi più influenza rispetto a Potencia. Tuttavia, quando
Pietro dovette allontanarsi lei fu disertata da molti nobili sostenitori di Pedro IV, che
reclamava il suo diritto al trono in quanto discendente da i makanda Kimpanzu e
Kinlaza.
Mbula era divisa quindi in due fazioni anche se probabilmente i sostenitori di Re Pedro
erano più che altro semplicemente ostili a Elena che comunque fu riconosciuta come
avente diritto al governo della zona.
Nel frattempo Donna Ana esercitava sempre più influenza nei dintorni di Nkondo e
favorì molti suoi parenti e sostenitori nell’ acquisizione di importanti cariche. La sua
autonomia e forza sono dimostrate da due fatti.
73
Primo:nel 1700 Ana firmò un trattato di pace scritto di suo pugno, nel quale si
impegnava a mantenere la pace per conto dei suoi nipoti titolati.
Secondo e ancora più sorprendente, le fu concesso addirittura l’ onore di indossare le
vesti di frate Cappuccino. (Thornton, 2006)
Durante il XVIII secolo, il potere effettivo era giocato a livello di province piuttosto che
nella capitale.
Alla morte di Manuel II (1743), gli successe nell'ufficio Garcia IV, appartenente alla
stessa fazione di Joao II. Egli era probabilmente uno di quei nobili che avevano
disertato per Pedro IV intorno al 1700.
Quando il sacerdote cappuccino Bernardo Ignazio d' Asti visitò San Salvador nel 1747,
notò che Garcia era un re molto pio giovane, mentre Luvota, una delle province, era
controllata dalla vedova di Manuel considerata altrettanto pia(Thornton, 2006). La
donna impose ai suoi seguaci di seguire la via del cristianesimo pur non avendo mai
ricevuto missionari. Il compromesso di Pedro IV non fu accolto di buon grado e i
governati di Luvota tentarono più di una volta di ascendere al trono.
Oltre i casi citati numerose donne hanno dominato il paesaggio del Kongo a vario titolo,
alcune come capi di piccole province, altre con ruoli più rilevanti in marchesati e ducati
strategici. Queste erano legate agli uomini che si andavano succedendo al trono, da
vincoli di parentela, ma mentre i re cambiavano abbastanza rapidamente, gli esercizi
delle donne erano più o meno permanenti. C’era chi tra loro esercitava un potere quasi
regale e chi era considerata una vera e propria regina Nkondo, ad esempio,
riconosciuto semi-indipendente nel 1760, è stato sempre retto da una donna. Una
figura interessante in questo senso è quella della Regina Violante. Costei aveva
ricevuto il ducato di Wadu da una precedente donna il cui nome ci è ignoto, ma della
quale sappiamo che tutti si rivolgevano a lei con l’appellativo di “madre. Quando
Violante venne eletta regina,il vecchio ducato si era trasformato in uno dei quattro regni
usciti fuori dal vecchio Kongo.
Wandu era parte di quei territori che includevano Nkndo e Holo, percepiti dai
governanti come una continuazione orientale del Regno del Kongo. La stessa regina
percepiva se stessa come una parte vitale del vecchio Kongo; aveva infatti inviato,nel
1764, le sue truppe contro Alvaro XI in favore dei propri parenti.
74
Un’ altra azione militare a danno dei portoghesi in Angola le costò la carica nel 1766 e
al suo posto fu insediata una Da Silva.
In questo caso la regina deteneva un potere concreto ed effettivo al punto di sentirsi
autorizzata ad organizzare spedizioni militari. Il regno era stato riunificato solo
formalmente e nel corso del XVIII secolo i tumulti interni non si erano stabilizzati.
Pedro V nella seconda metà dell‘ ottocento concesse poteri sempre più forti ai
Portoghesi, i quali ottennero gran parte del regno del Kongo in seguito alla Conferenza
di Berlino (1884-1885). La figura del sovrano si svuotò progressivamente del proprio
potere, acquisendo un significato puramente simbolico
L’ultimo re del Kongo fu Manuel III che rimase sul trono fino al 1914, quando il titolo fu
definitivamente abolito dal governo potoghese.26
Da quanto riferito emerge che il ruolo delle donne dell’élite del Kongo è andato sempre
più rafforzandosi nel corso del tempo. Se inizialmente queste agirono in qualità di
consulenti, o ricorrendo a figure di uomini potenti per favorire i loro protetti, poi
iniziarono ad esercitare potere, attraverso i kanda, all’interno della corte e del consiglio
reale. Esse agirono sia come mediatrici che come tessitrici di complotti favorendo di
volta in volta chi ritenevano opportuno. Se già nel XVII secolo quelle che detenevano il
potere nelle aree rurali avevano una discreta autonomia decisionale, i loro ruoli si
rafforzarono con la frammentazione del territorio. Con l’evolversi degli eventi
acquisirono cariche dirette arrivando ad essere considerate regine a tutti gli effetti in
grado anche, come nel caso della regina Violante di muovere un esercito in armi per il
conseguimento dei propri interessi.
CAPITOLO III
REGINE MADRI
1)regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali
1.1) iyoba
Nel descrivere le lotte di successione che hanno caratterizzato il regno del Lagos
(attuale stato del Benin) tra il 1816 e il 1853, Sandra Barnes (Barnes, 1997) sottolinea il
26
http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Nascita_del_Regno
75
ruolo svolto da due ricche e influenti figure femminili dell’epoca.
Si tratta di Opo Olu e Tinubu, entrambe madri adottive di uno dei re coinvolti nei conflitti
per l’accesso al trono. Tra le due, solo la prima era stata insignita del titolo di iya oba (
o eruelu) che letteralmente significa: madre del re.
Barnes non entra nello specifico dei ruoli svolti dalle regine madri, né sappiamo se ci
siano state affinità di fondo con la carica di iyoba del regno del Benin che, nel XV
secolo, aveva conquistato le popolazioni awori ( sottogruppo yoruba) del Lagos.27
Qualche notizia sul ruolo dell’iyoba dell’impero del Benin ci viene fornita da Flora
Kaplan (Kaplan, 1997), il cui approccio combina lavoro sul campo e studio delle fonti
orali all’analisi dell’arte di corte.
In questo caso l’iyoba, la regina madre, è colei che tra le tante mogli dell’oba è
predestinata a partorire il futuro sovrano.
La prima regina madre a cui fu assegnato il titolo fu Idia, all’inizio del XIV secolo.
II suo intervento a favore del figlio Esigie, nella lotta di successione che seguì la morte
del precedente oba, salvò il regno dal concreto rischio di invasione nel quale si trovava
a causa della forte instabilità politica.
Le madri dei sovrani erano ritenute possedere speciali poteri magici e in ragione di
questa forza incontrollabile, erano decapitate al momento dell’installazione. Questo
costume cadde in disuso per intervento di Oba Esigie il quale ottenne che la vita di sua
madre fosse risparmiata, in virtù del fatto che questa aveva salvato il regno dalla
conquista straniera.
Da allora le madri biologiche del nuovo re assumono il titolo di iyoba, ma vivono in una
propria separata residenza a Uselu, un villaggio fuori dalla capitale.
Re e regina madre non potranno avere più contatti diretti, ma l’iyoba ha il compito di
continuare a proteggere suo figlio e lottare per la stabilità del regno.
Un punto di interesse è determinato dal fatto che in questo caso la carica di regina
madre nasce in seguito all’azione salvifica di una madre nei confronti del regno stesso.
Inoltre, sempre secondo quanto riferito da Kaplan (Kaplan, 1997), la madre del re
27
Il primo oba insediato in Lagos fu Ashipa. Questi nonostante il suo compito fosse quello di tutelare gli interessi del Benin
godette di una discreta autonomia. Da quel momento gli yoruba iniziarono a riferirsi a quel territorio con il nome di Eko.
Questo termine significa campo di guerra, ma può essere interpretato anche come un termine derivato da Oko, che in
linguaggio yoruba significa fattoria di manioca. Lagos fu un nome dato alla città dai coloni europei. Ancora oggi le
popolazioni yoruba utilizzano questo termine per riferirsi a quel territorio.
76
accede al titolo solamente nel momento in cui questa ha raggiunto la menopausa,
ossia quando la sua sessualità non ha più vita.
Anche nella contemporaneità,a regina madre è l’unica, tra le mogli dell’oba, ad essere
immortalata nell’arte di corte. Questo la pone al pari degli altri sovrani, ma Kaplan nota
che la regina madre può accedere alla carica solo nel momento in cui la sua capacità
riproduttiva, massima espressione di femminilità tra gli edo, viene meno( Kaplan,1997).
Così, pur avendo l’ iyoba, ottenuto il diritto a una carica importante grazie alla sua
capacità di concepire, questa carica le viene attribuita formalmente solo nel momento
in cui la sua sessualità è inattiva. Avendo perso il potere di procreare, è come se fosse
possibile non considerarla più una donna;è la perdita di un’identità sessuale definita,
quindi, che la mette nella condizione di essere celebrata e ricordata, come è
consuetudine per gli uomini della casa reale.
La sua principale preoccupazione deve essere quella di assicurare la stabilità del regno
e la continuità della stirpe attraverso la protezione del re, suo figlio. Questa protezione
avviene a distanza in quanto la madre del re è ritenuta essere depositaria di poteri
magici che potrebbero nuocere all’oba.
In quanto iyoba essa ha anche il compito di intervenire in eventuali dispute portate alla
sua attenzione esattamente come ogni altro capo nella propria area di influenza.
Non sappiamo se e quali di queste caratteristiche possano essere assimilabili a quelle
della iya-oba del regno del Lagos in quanto le notizie intorno al suo ruolo sono piuttosto
scarse.
La prima regina madre del regno è detto essere stata Erelu Kuti, sorella di
Akinsemoyin, terzo oba del Lagos.
Fonti orali raccontano che questo, legato da un profondo amore nei confronti della
sorella e non potendo contare su figli maschi adulti, le conferì il titolo di Erelu e
profetizzò che suo figlio sarebbe stato il futuro sovrano. Probabilmente questa
onorificenza fu una conseguenza del matrimonio tra Kuti e un potente sacerdote di Ife
che, oltre ad aver previsto la successione al trono di Akinsemoyin, gli era stato accanto
come consigliere e lo aveva assistito con successo nel consolidamento del suo potere.
Non sono chiare le funzioni svolte dalle regine madri in Lagos, cosi come non
sembrano esserci delle regole stabilite per determinare chi potesse detenere il titolo di
77
diritto.
Opo Olu, una delle donne coinvolte negli eventi di cui parla Barnes (Barnes, 1997), era
sorella e madre adottiva di un re e pare che fu proprio durante il breve regno di
quest’ultimo che le venne assegnato il titolo di erelu.
In seguito ad una serie di eventi, questa fu accusata di aver causato la morte dei figli
dell’eletu odibo, una sorta di primo ministro della città il cui compito più importante
consisteva nella scelta del nuovo oba tra i possibili candidati.
Queste accuse potrebbero suggerire che le regine madri del Lagos, al pari di quelle del
Benin fossero considerate in possesso di speciali poteri magici.
Tinubu, l’altra potente donna che esercitò una notevole influenza negli eventi di quegli
anni, pur essendo anch’essa madre adottiva di un re, non ricevette il titolo di Iya oba.
Essa era una commerciante venuta da Abomey (regno del Dhaomey) e giunse nella
capitale in quanto moglie di un ex oba esiliato prima e richiamato al potere poi.
Perché Tinubu non ha ricevuto il titolo come Opo-Olu? Entrambe erano donne ricche,
influenti e soprattutto madri adottive di re. Forse le ragioni sono da ricercarsi
nell’appartenenza al lignaggio reale.
Sia Erelu Kuti che Opo-Olu erano infatti non solo madri, ma anche figlie e sorelle di
precedenti re, mentre Tinubu era fondamentalmente un’estranea.
Questa supposizione andrebbe supportata da una lettura più approfondita delle
genealogie dei lignaggi reali e da un più approfondito corpus di dati etnografici.
Il ruolo giocato da queste due madri reali può contribuire a sostanziare un punto di
vista sulle donne legate al potere regale, che le vede come soggetti politicamente attivi
e capaci di esercitare una propria specifica influenza nel contesto in cui si trovano ad
agire.
Oba Ologunkutere il figlio di Erelu Kuti, ebbe a sua volta tre figli: Eshinlokun, Adele e
Akitoye. Tra questi tre, il successore designato fu Adele il quale, nel 1821, fu
detronizzato dal fratellastro Eshinlokun e trovò rifugio nel villaggio natale della propria
madre. Negli anni dell’esilio conobbe e sposò Tinubu, che aveva esteso i suoi
commerci da Abomey allo stato del Lagos.
Il complotto fu appoggiato da Opo-Olu, sorella di Eshinlokun che, in qualità di madre
adottiva di suo figlio Idewu, assunse il titolo di Erelu.
78
Quest’ultimo morì in giovane età e il trono si trovò ad essere conteso tra Adele, che nel
frattempo era stato richiamato in città, e Kosoko, fratello dell'oba deceduto (Barnes,
1997).
Tinubu e Opo-Olu erano entrambe coinvolte nel commercio di avorio e nella tratta degli
schiavi; si trovarono quindi a rivaleggiare sia su quel fronte che nel supporto offerto ai
candidati al trono.
Fu in questa occasione che l’eletu Odibo rivolse le sue accuse di stregoneria nei
confronti di Olu-Opo la quale venne tuttavia assolta.
E’ probabile che tale inimicizia da parte del primo ministro derivasse dal fatto che
l’Erelu stesse perorando la successione di Kosoko, il quale aveva preso in moglie una
giovane ragazza destinata all’Eletu, senza averne chiesto il permesso. (Barnes,
1997:7).
La scelta finale ricadde su Adele e conseguentemente Tinubu ebbe la possibilità di
ampliare i propri commerci nella capitale del Lagos.
E’ possibile che ragioni squisitamente personali abbiano mosso il primo ministro a
ignorare la volontà della Iya oba? Non sappiamo se Tinubu abbia avuto o meno
un’influenza determinante sulla decisione dell’eletu, ma da questi fatti si potrebbe
evincere che l’erelu in sè non avesse alcuna voce nella scelta dell’erede al trono.
Nel 1836 Opo-Olu ordì una ribellione che ebbe esito negativo, in favore del suo
protetto. Tale guerra è ricordata con il suo nome, cosa che lascia pensare che gran
parte delle milizie inviate contro l’oba le appartenessero.
In seguito a questo evento l’erelu venne esiliata e Tinubu diventò la donna più influente
e importante del regno.
Alla morte di Adele (1837), essa sostenne l’ascesa al trono del suo figliastro Oluwole e
poco dopo sposò un capo guerriero a cui l’oba era stretto da forti legami di
riconoscenza in quanto aveva guidato una spedizione volta a recuperare merci di
proprietà dell’oba che erano state razziate da Kosoko.
In segno di gratitudine, il re fece dono alla coppia di gran parte dei beni recuperati e
Tinubu poté estendere ulteriormente i suoi traffici. La donna a quel tempo era diventata
proprietaria di circa 360 schiavi, si era dotata di una propria milizia e si era immessa
nel commercio delle armi acquisendo un ruolo molto rilevante all’interno degli affari di
79
stato (Barnes, 1997: 8)
Nel 1841, alla morte dell’oba, riuscì ancora una volta ad avere la meglio su Kosoko,
sostenendo l’ascesa al trono di suo cognato Akitoke che regnò fino al 1845, quando
Kosoko, con un nuovo colpo di stato, riuscì ad accedere al potere28.
Anche in questo caso Tinubu sostenne il suo protetto trasferendosi con gran parte dei
suoi beni nella città natale della madre di suo cognato, dove questi si era rifugiato in
esilio.
Nonostante i numerosi attacchi sferrati contro il nuovo oba per mezzo delle milizie di
Tinubu, fu solo grazie all’intervento delle truppe britanniche 29 che, nel 1851, Akitoye
ottenne di nuovo il potere che gli era stato tolto.
Opo-Olu e Tinubu hanno svolto in questi anni un ruolo politico di primo piano, sostenendo e proteggendo i loro favoriti attraverso l’attività diplomatica e la fornitura di
supporto militare.
L’erelu, nel sostenere Kosoko, è stata prima accusata di stregoneria e poi esiliata in
seguito all’organizzazione di una guerra che porta il suo nome. Tinubu ha saputo
tessere una trama di alleanze che hanno incrementato la sua ricchezza come il suo
potere al punto che essa è stata definita “il potere che è dietro al trono” ( Barnes, 1997:
11).
La sua influenza era così grande che gli inglesi, nel 1856, decisero di esiliarla nel
villaggio in cui era stato precedentemente esiliato suo cognato, dove ricevette il titolo di
Iyalode (lett. Madre dall’esterno).
Se è vero che alla base dello spazio di azione delle madri reali c’era un’instabilità
politica di fondo determinata dall’incertezza delle regole di successione, va loro
riconosciuto il merito di aver saputo utilizzare la loro ricchezza per tessere alleanze che
le hanno rese competitive sul piano dell’azione politica e che hanno allargato il loro
potere e la loro sfera di influenza.
1.2) Kpojito
28
29
Questa guerra è passata alla storia con in nome di “guerra dell’acqua salata”. I lagosiani furono circondati e, non avendo
accesso alle riserve d’acqua dolce, furono costretti ad attingere a quella della palude. In 21 giorni di assedio furono uccise
tra le 1000 e le 2000 persone incluso l’eletu Obi e tutti i membri della famiglia dell’oba deposto. (Barnes, 1997: 9)
L’intervento inglese avvenne in conseguenza all’impegno, da parte di Akitoye, di porre fine al commercio degli schiavi.
La lotta alla tratta fu probabilmente uno dei motivi che portarono all’esilio di Tinubu.
80
E. Bay (Bay, 1995; 1997), nell’indagare la carica delle regine madri del Dahomey
precoloniale30, rende conto della rete di relazioni intessute, attraverso le alleanze
matrimoniali, tra il potere centrale e i vari strati della popolazione.
Il palazzo reale di Abomey, capitale del regno, era il centro della burocrazia dove
risiedevano le mogli e i famigliari del re.
Il palazzo funzionava come un’enorme famiglia poliginica dove le mogli del re erano
impegnate nello svolgimento di compiti di ogni genere (Bay, 1995: 8).
Esse erano attive nei campi più disparati(militare, economico, politico, artigianale,
rituale) e, provenendo da non importa quale,livello sociale, costituivano una sorta di
ponte tra il potere centrale e i vari strati della popolazione. La macchina amministrativa
era basata su principi di gerarchia e di merito in modo che chiunque fosse dotato di
particolari capacità, poteva essere mess nelle condizioni di acquisire ricchezza e
prestigio.
Tra tutte le cariche di palazzo, la più prestigiosa e importante era quella di kpojito, la
regina madre.
Alcune di loro furono sacerdotesse di divinità di una certa rilevanza e questa loro
posizione ne determinò il loro chiave nella legittimazione della dinastia Alladahonu al
potere regale nel rafforzamento dello stesso. (Bay, 1997)
Durante i secoli XVII e XIX, non solo la storia politica del regno, ma la stessa concezione del potere furono profondamente influenzate dalla sfera del sacro; inoltre i
regnanti manipolarono coscientemente il pantheon dahomeyano, promuovendo alcune
divinità (vodun) piuttosto che altre e introducendone di nuove.
Nella visione del mondo fon, lo stretto legame che unisce delle dimensioni del visibile e
dell’invisibile si rifletteva necessariamente sull’accettazione dei regnanti da parte delle
divinità più seguite dalla popolazione; era quindi indispensabile che i sovrani fossero
collegati a sacerdoti e sacerdotesse dei culti più sentiti.
Nella concezione cosmologica del Dhaomey troviamo due tipologie di vodun: la prima
era collegata alla casa regnante, mentre la seconda costituiva un eterogeneo insieme
30
Il regno del Dahomey è stato creato nel XVI secolo intorno al centro di Abomey (a sud dell'attuale repubblica del Benin)
ed è diventato colonia francese nel 1899. Non ci sono dati certi riguardo la data della fondazione ufficiale del regno, nè
sul luogo di origine degli Alladahonu, la dinastia Fon che detenne il potere durante tutto il periodo di durata del regno.
L’unico dato storicamente accertato è che questi, in un periodo non meglio precisato, si sono insediati a Wassa, nei pressi
di Abomey, e che da lì hanno perseguito la loro politica di espansione aprendo la strada al commercio con l'Europa. (Bay,
1995)
81
di divinità popolari associate alle forze della natura (Bay, 1995: 3).
Il regno degli spiriti (kutome) era ritenuto essere uno specchio di quello dei vivi e gli
abitanti dei due mondi erano legati da rapporti di dipendenza reciproca.
Così, se da un lato gli esseri viventi avevano bisogno del sostegno degli spiriti,
quest'ultimi traevano forza dai sacrifici offertigli nel mondo visibile.
Le implicazioni politiche di questa concezione non sono irrilevanti, poiché non solo il
raggiungimento del successo era la prova del favore delle divinità, ma l’introduzione di
nuovi vodun legati alla casa regnante ha consentito il controllo di molti culti e
incrementato la devozione da parte della popolazione nei confronti della dinastia in
carica.
La creazione del titolo di kpojito, il cui termine indica letteralmente la persona che ha
generato il leopardo, sembra essere legata direttamente alla nascita della dinastia
regnante e alla sua legittimazione nel nascente regno del Dahomey.
Secondo il mito di fondazione degli Alladahonu, una principessa reale di nome
Aligbonon si era accoppiata con un leopardo dando alla luce Agasu, una creatura ibrida
con caratteristiche sia umane che animali.
Entrambi sono diventati importanti vodun il cui culto era affidato a specifici officianti.
Quando gli Alladahonu giunsero a Wassa, una città tra Cana e Abomey, la
sacerdotessa di Aligobon era una donna del posto di nome Adonon.
Costei pare essere stata il tramite tra Wegbala, padre putativo del casato di Alladahoun
come dinastia regnante, e Dokodonu, sovrano che lo precedette e sulle cui origini le
fonti hanno pareri discordanti. Quello che pare probabile è che Adonon fosse la sua
sposa promessa e che egli avesse adottato Wegbala. In seguito ad un unione tra
Adonon e Wegbala quest’ultimo fu diseredato dal padre adottivo, ma riuscì ad ottenere
il suo perdono sconfiggendo un suo nemico (Bay, 1997).
Più tardi, Wegbala riuscì ad accedere al trono di Wassa e compensò il lignaggio di
Dokodonu assegnandogli permanentemente l’incarico di Agasunon (sacerdote del culto
di Agasu).
Il matrimonio di Wegbala con Adonon e l’assunzione del mito del leopardo come
fondativo della dinastia, pose le basi per individuare in Adonon la madre putativa della
dinastia Alladahonu. Il conferimento del primo titolo di kpojito ad Adonon, così come
82
l’associazione del mito di Wassa con la nascita del nuovo casato, hanno avuto luogo
tra il 1716 e il 1740, durante il regno di Agaja.
Da allora ogni re venne considerato la metaforica incarnazione di Agasu e ogni kpojito
scelta tra le mogli del precedente sovrano, collegata a Aligobon. In questo caso, la
regina madre non è solo madre metaforica del re, ma di una dinastia intera: il suo titolo
è stato creato appositamente per legittimare il nuovo casato al potere attraverso il
collegamento con due tra i più importanti vodun locali.
Non si hanno molte notizie attorno alle prerogative delle regine madri del Dahomey, ma
è certo che fino al XIX secolo esse hanno governato con i re come coppia reale.
Il parallelismo di genere nei ruoli di comando era già presente nell’organizzazione
sociale fon; infatti a capo di ogni lignaggio c’erano una figura femminile (taninon) e una
maschile (hennugan). Nel XIX secolo tuttavia, i ruoli di potere di queste due figure
furono indeboliti da una mutata politica delle alleanze che avrà come conseguenza
anche la perdita di influenza politica delle regine madri.
Essendo le kpojito mogli reali, e quindi persone esterne al lignaggio reale, non avevano
ufficialmente alcuna voce in capitolo nella nomina del nuovo re.
Questi era designato il più delle volte dal precedente sovrano, ma quasi sempre
accadeva che alla sua morte si aprissero lotte di successione.
Anche qui e influenti donne di palazzo complottavano in favore di uno dei pretendenti al
trono; è quindi plausibile che il titolo di kpojito, conferito dal nuovo re, si sia configurato
come premio per l’appoggio ricevuto già a comiciare da Hwanjile, seconda regina
madre del regno, che aveva aiutato Tegbesu ad ottenere il trono alla morte di Agaja
(1840).
Anche Hawanjie, come Adonon, aveva familiarità con il mondo degli spiriti e la sua
figura fu centrale nel rafforzare la legittimità della casa regnante.
Tegbesu era salito al trono con la forza e qualche sacerdote iniziò a far circolare la
voce che alcuni dei vodun popolari erano adirati per l’esito della battaglia.
Ciò causò una disaffezione da parte del popolo. La soluzione trovata da Hawanjie fu
quella di importare nuovi vodun
che rafforzassero l’immagine del casato reale.
L’introduzione della coppia di divinità creatrici Mawu e Lisa, del cui culto era
responsabile la stessa Hwanjle, ribadiva il concetto che al centro del potere c’era una
83
coppia e che questa coppia si giovasse dell’equilibrio tra la regalità della coppia
regnante nelle cui mani era accentrato il potere e le popolazioni che vivevano nelle
aree periferiche del regno, da dove provenivano le regine.
Da Hwanjile in poi, infatti, tutte le kpojito furono reclutate tra donne venute da aree
lontane dalla capitale.
La concezione del potere reale, durante il XVIII secolo, si appoggiava quindi su una
coppia che rappresentava l’equilibrio e il legame tra strati alti e strati umili, essi
governavano come pari e la kpojito aveva ruoli di rilevanza non indifferente.
Durante il regno successivo furono introdotti culti legati alla casa reale come quello dei
thohossu, bambini della famiglia reale morti subito dopo la loro nascita, o i nesuhwe
che includevano tutti i morti divinizzati del casato.
L’aumento di questi vodun legati al lignaggio al trono, indica una concezione del potere
che tende a porre una certa distanza tra la popolazione e i regnanti, anche se il
comando continuava ad essere espresso dalla coppia reale.
Sul finire del XVIII secolo re Angolo, interessato ad espandere i propri commerci,
introdusse il dio cristiano come vodun e prese contatto con i portoghesi affinché questi
inviassero degli emissari evangelizzatori.
Tuttavia i sacerdoti dei culti più importanti si opposero a questo tentativo ed ordirono un
complotto che portò all’avvelenamento del re.
Agontime, la donna che eseguì materialmente il regicidio, tentò allora di supportare
Dogan come successore, ma il tentativo fallì, essa fu venduta come schiava e inviata
nel Nuovo Mondo e Adandozan divenne il nuovo sovrano (Bay, 1997).
Nel 1918, questi fu detronizzato da Gezo il quale, pur avendo ricevuto l’appoggio di
numerose donne di palazzo, non ripose fiducia in nessuna di loro e scelse come suo
consigliere un mercante di schiavi afro-brasiliano.
In seguito mandò a cercare Agontime che fu eletta regina madre intorno al 1840.
Probabilmente la donna fu infine scelta per la sua familiarità con il mondo degli spiriti in
riconoscimento del suo impegno nella lotta alla cristianizzazione del regno.
Tuttavia il consigliere effettivo del re rimase il mercante di schiavi e la coppia reale era
ormai tale solo nominalmente, poiché non sembra che Angotime prendesse parte alle
decisioni del re.
84
A partire dalla seconda metà del XIX secolo e precisamente dal regno di Glele, la
visione del potere come prerogativa maschile si rende ancora più evidente.
Egli scelse come kpojito sua madre Zoindi, ma concentrò i poteri e le responsabilità
riservate alle regine madri nelle mani di suo cognato Gedegbe. Che fù nominato
responsabile di tutti i culti attivi incluso quello di Manwu e Lisa, cosa che comportò
l’annullamento dell’influenza delle donne anche all’interno della sfera del sacro.
A partire da questo momento, le future kpojito riceveranno il titolo in quanto coloro che
hanno partorito il re e non saranno più parte attiva nella vita politica e religiosa del
regno. Anche se ci saranno ancora influenti donne di palazzo che complotteranno in
favore di questo o di quell’atro candidato al trono, i riconoscimenti loro assegnati
saranno di altro genere.
Bay (Bay, 1997) spiega questa mutata concezione della dimensione della coppia reale
con le influenze esercitate da una parte dal contatto con gli europei e dall’altra
dall’introduzione di alcuni culti yoruba.
Nel XVIII secolo la prassi, per la casa regnante, di prendere metaforicamente in moglie,
gli uomini appartenti a lignaggi non reali aveva sminuito il ruolo di raccordo delle donne
di palazzo tra il potere centrale e le altre fasce della popolazione.
Attraverso questo stratagemma infatti, interi lignaggi, legati agli uomini presi come
“mogli”entravano a far parte di un ramo della famiglia reale.
Le influenze occidentali hanno contribuito a modificare la concezione del potere.
I contatti sempre più frequenti con gli europei avvenivano infatti sempre attraverso
governatori o rappresentanti di sesso maschile ed il sacerdozio del dio occidentale
escludeva categoricamente la presenza femminile.
L’introduzione del culto yoruba della divinazione Ifa contribuì in modo decisivo ad
affermare la concezione della supremazia maschile in termini di controllo politico e
religioso. Non solo si trattava di un sacerdozio di prerogativa maschile, ma le stesse
divinazioni si concentravano su problematiche che interessavano gli uomini e alle
donne venivano concesse solo predizioni di carattere molto generico, in quanto il loro
destino era visto come legato a quello di un uomo.
Nel XVIII secolo, le donne in generale e le kpojito in particolare ebbero un ruolo
fondamentale nel legittimare il potere regale attraverso appoggi di tipo politico e grazie
85
alla loro competenza in materie religiose.
Progressivamente e attraverso una serie di influenze esterne, l’asse del potere si è
spostato da una visione di equilibrio tra centro/periferia, a una visione accentratrice
maschio-centrata.
Tutte le donne di palazzo erano diventate sul finire del XX secolo semplici ausiliarie del
re e la cosa è stata vista da qualche informatore di Bay (Bay, 1997: 38) come una delle
cause dell’indebolimento del potere regale che precedette la dissoluzione dell’impero,
conquistato dai francesi nel 1890
2) Regine madri in Ghana tra Ashanti e Krobo
Nel Dahomey precoloniale, come abbiamo visto, le regine madri erano scelte
direttamente dal re tra le mogli del suo predecessore.
A Lagos invece, ruoli di primo piano tra le mogli reali sono assegnati dal re in carica o,
come nel caso di Erelu Kuti, dal loro predecessore.
In Entrambi i casi il potere loro assegnato è, subordinato alla figura del sovrano. Per
quanto le donne agissero attivamente sul piano politico, esercitando un potere
concreto, la ragione prima delle loro cariche risiede nella salvaguardia del sovrano e,
cosa più importante, esse non sono state riconosciute come tradizionali figure di
comando.
Tornando agli ashanti,31di cui si era parlato a proposito dele regine dei mercati,
troviamo una situazione differente per la quale il ruolo delle regine madri è ampiamente
riconosciuto sia a livello tradizionale che di governo nazionale. La chieftaincy è quindi
ancora attiva e ben radicata nella regione.
Nel XVII secolo, Osei Tutu creò la confederazione degli stati ashanti diventando il
primo asantehene.
La suddivisione amministrativa tradizionale è basata su una scala gerarchica al vertice
della quale si hanno una figura di potere maschile, l’ashantehene, e un’altra femminile
detta ashantehema. Al gradino immediatamente successivo si hanno delle divisioni, più
o meno ampie, che includono un certo numero di città e villaggi. Ognuna di queste
unità politiche è retta da una coppia di sovrani, maschio e femmina, i cui ruoli
31
Gli ashanti appartengono al gruppo Akan (stanziati nelle aree centrali e meridionali del Ghana e nelle zone a sud-est della
Costa D’Avorio). La loro lingua è il Twi, sottogruppo della famiglia linguistica Volta-Comoe. L’attuale regione Ashanti
occupa la fascia centrale del Ghana e la sua capitale amministrativa è Kumasi.
86
differiscono completandosi a vicenda.
Il lignaggio, unità politica fondamentale, rispecchia in piccolo questa formula di potere
duale basato sul genere ed ha alla sua testa una coppia di membri probabilmente scelti
tra i più anziani del segmento di discendenza.
Rattray (Rattray, 1923) traduce con il termine queen mother 32 ogni livello di carica
femminile accennata sopra, ma tra gli ashanti esistono specifiche definizioni twi per
ognuna di queste cariche (B.J. Stoeltje, 1997).
A livello di lignaggio i termini con i quali ci si riferisce all’autorità sono abusuapaniyin
per gli uomini e obapanin per le donne.
Queste avranno cura di rappresentare tutte le figlie del proprio abusua (termine a
grandi linee, riferibile al clan o al lignaggio) nelle occasioni pubbliche, mentre il primo
diventerà un sottocapo dell’odikro, capo maschile a livello di villaggio o città, e farà
parte dei consigli tradizionali locali.
Odikro per l’uomo e obapanin per la donna sono i termini utilizzati in riferimento ai
villaggi e alle città, mentre per quanto riguarda la reggenza sulle divisioni più ampie, i
titoli sono quelli di ahemaa (per le donne) e omhanene (per gli uomini). Infine, come già
ricordato, a livello più alto troveremo l’ashantehene, l’ashantehema. Costoro sono
considerati i sovrani di tutti gli ashante a livello assoluto.
Il sistema di governo tradizionale sopra descritto, è definito nella stessa costituzione
del Ghana come chieftaincy. Entrambi i governi, coloniale e nazionale, ne hanno
riconosciuto la legittimità lasciando ai capi tradizionali un discreto margine di azione
(Stoeltje, 1997).
Grazie a queste politiche, la chieftaincy ha mantenuto la propria vitalità.
Non è facile invece stabilire fino a che punto l’impatto con le società occidentali abbia
influenzato la concezione del potere femminile in un’area dove questo si è comunque
mantenuto forte, ma l’esclusione delle queen mother dalle case nazionali e regionali
dei capi33 potrebbe essere un segnale del ridimensionamento del loro impatto politico a
32
33
La definizione queen mother è entrata a far parte del linguaggio comune a ogni livello della popolazione Akan. Pertanto
quando non farò riferimento a cariche specifiche con la propria definizione twi utilizzerò indifferentemente il termine
inglese sopra riferito o la sua traduzione italiana, regina madre.
Le case dei capi vengono istituite dalla costituzione del 1969 come strumento di raccordo tra i poteri tradizionali e il
governo centrale. La costituzione del 1992 ne definisce ulteriormente limiti e competenze. Per un approfondimento si
veda
il
titolo
22
della
costituzione
del
Ghana
reperibile
all’indirizzo:
http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/constitution
87
livello più ampio.
La base dell’organizzazione politica appena descritta è costituita dalla parentela e dal
sistema di discendenza matrilineare.
Prerequisito fondamentale per accedere a una qualsiasi delle cariche tratteggiate sopra
è l’appartenenza, in linea materna, al lignaggio che detiene legittimamente il potere
sulla base del diritto allodiale.
Le queen mother sono quindi regine in un sistema gerarchico che si basa sul lignaggio
ed è caratterizzato da parallelismo di genere (Stoeltje, 1997: 44).
Tale parallelismo si riflette nella patrifiliazione ashanti e nella loro concezione della
procreazione.
I figli sono ritenuti ricevere il sangue e l’appartenenza lignatica dalla madre, ma è dal
padre che ricevono lo ntoro (l’anima/nome dell’anima).
Inoltre, cosi come ci sono otto grandi gruppi di discendenza provenienti da
un’ancestrale antenata comune, esistono otto gruppi di ntoro e coloro i quali
posseggono lo stesso nome dell’anima sono ritenuti avere lo stesso spirito.
Secondo tale concezione quindi padre e madre concorrono in egual misura alla
procreazione e alla perpetuazione del lignaggio.
Inquadrando il ruolo delle queen mother di questa specifica area in un’ottica di
parallelismo di genere, Stoeltje (Stoeltje, 1997) fornisce un quadro delle loro attività.
Si è detto che re e regina ricoprono due cariche parallele e complementari inscindibili
l’una dall’altra. Entrambi hanno la propria residenza ed il proprio seggio (simbolo del
potere reale, qualcosa di simile a quello che è il trono per i monarchi europei); i due
operano a stretto contatto consultandosi frequentemente. Una delle responsabilità
principali di ogni queen mother deriva dal suo ruolo di “madre” nei confronti del re, con
tutto ciò che questo comporta.
Nel sistema di discendenza matrilineare, il sangue e l‘appartenenza al lignaggio si
trasmettono per linea femminile, in un lignaggio che detiene il seggio quindi questa
trasmissione riguarderà anche il potere reale.
E’ in questo senso che può essere intesa la maternità della regina nei confronti del re,
infatti uno dei suoi compiti riguarda la scelta, che dovrà essere approvata dagli anziani
del lignaggio, del futuro monarca nel momento in cui il posto diventa vacante.
88
Non si hanno fonti certe riguardo al coinvolgimento del re nella scelta della sua queen
mother, ma le fonti di Stoeltje riferiscono che nessuno dei due potrà essere coinvolto
nella deposizione dell’altro in caso di cattiva condotta.
Tale incarico spetta agli anziani che osserveranno attentamente il loro comportamento.
I due appartengono entrambi al lignaggio reale, ma difficilmente la relazione di
parentela che intercorre tra loro sarà del tipo madre-figlio.
Più frequentemente questi saranno fratello e sorella oppure zio/zia e nipote etc.
Il ruolo di madre nei confronti del re assume connotati politici in quanto la regina dovrà
avere cura di consigliarlo sulle questioni attinenti gli affari politici nelle aree di loro
competenza e su tutti gli affari che riguardano la sfera del sacro affinché non vengano
violati importanti tabù.
La queen mother è colei che detiene la memoria genealogica del lignaggio e che
conosce a fondo le norme della tradizione. Questa sua conoscenza, unita alla
saggezza che ci si aspetta provenire da qualunque madre, devono essere messe a
disposizione del re per consigliarlo, sostenerlo e proteggerlo. Un proverbio ashante
recita che “ il re succhia il seno alla regina” (Stoeltje, 1997: 58), ossia: il nutrimento del
re, sotto forma di saggezza proviene dalla sua queen mother.
Uno degli ambiti di azione più rilevanti per entrambi risiede nella gestione delle
controversie che possono sorgere all’interno della loro giurisdizione.
I casi di natura pubblica o le dispute che riguardano il possesso delle terre sono
prerogativa dei re in quanto tradizionalmente è stato uno dei suoi predecessori ad
assegnarle in forma più o meno permanente alla popolazione.
Le altre questioni possono essere portate all’attenzione di entrambi, ma generalmente
le liti che occorrono tra donne a livello domestico e non, o quelle che insorgono tra
moglie e marito, vengono presentate alle corti delle queen mother, nelle loro rispettive
residenze.
Le ͻhema e la Asantehemaa dispongono di un gruppo di portavoce denominati
Akyeame che fanno da tramite tra queste e chi viene ricevuto a colloquio.
Generalmente le regine madri sono assistite dagli anziani che le consigliano in merito
alle risoluzioni da adottare.
Il più delle volte colui che verrà ritenuto colpevole dovrà pagare una multa o eseguire
89
un rituale conciliatorio.
Ogni queen mother inoltre farà regolarmente visita alla famiglia del re e farà in modo di
mantenere la pace al suo interno.
Da una prima ricognizione intorno al significato simbolico del suo ruolo di madre e della
sua posizione come giudice, sembra uscire fuori l’immagine di una figura che, oltre ad
avere su di sè la responsabilità del re e del lignaggio, sia anche responsabile della
condotta delle donne e, più in generale, dell’equilibrio all’interno della sua area di
competenza.
Il loro ruolo in quanto capi e le loro corti sono riconosciuti a livello istituzionale e
tradizionale. La risoluzione delle controversie non avviene in modo informale, ma
all’interno di una corte vera e propria, poco importa se a livello di villaggio questa
coinciderà con il compound di residenza.
Le queen mother ashante, sono ritenute essere in diritto e dovere di esercitare la
propria competenza in materia di norme tradizionali, per mantenere l’equilibrio sociale
e il loro ruolo di giudici è istituzionalizzato nella corte.
Tra le sfere di azione in ambito rituale se ne possono citare due, come esempi di
intervento a livello di lignaggio e nei confronti delle donne della sua giurisdizione. Ogni
sei mesi re e regina devono svolgere un rituale di purificazione dei rispettivi seggi, ma
mentre la presenza del re non è richiesta durante la cerimonia dello seggio della sua
queen mother, quest’ultima dovrebbe partecipare alla purificazione di quello del re.
Il seggio, simboleggiando il potere regale, incorpora anche quello dei sui precedenti
detentori. Essendo la regina madre colei che possiede la memoria genealogica di tutto
il lignaggio, nonché madre dello stesso, ella si pone come tramite ideale tra il presente
e il passato assicurando la continuità del regno.
Per quanto riguarda le attività svolte nei confronti delle altre donne, ella è responsabile
dell’inserimento, in un apposito registro, di tutte le ragazze che raggiungono l’età della
pubertà.
Poiché sarebbe disdicevole per una ragazza, rimanere incinta prima che essa sia
dichiarata ufficialmente fertile, la queen mother deve assicurarsi che la giovane non sia
in stato interessante prima di effettuare la registrazione.
Al di là delle pratiche comuni, è interessante notare l’utilizzo della posizione di capo, da
90
parte di qualcuna, nello sviluppo economico e sociale delle donne in generale. Stoeltje
riporta l’esempio di Nana Ama Serwah Nyarko, Offinsahemaaa della divisione di
Offinso.
Questa al momento della sua installazione aveva trent’anni e ha chiesto consiglio a
membri del clero e insegnanti su come essa avrebbe potuto agire per promuovere il
benessere tra le donne.
Per acquistare la fiducia di queste ha reintrodotto il Dabone, un costume che era stato
abolito in seguito a pressioni della chiesa cattolica e che prevedeva l’assenza dai
campi per un giorno a settimana in segno di rispetto della madre terra Asase Yaa.
L’Offinsahemaaa ha istituito un incontro mensile con tutte le queen mother sotto la sua
giurisdizione e come membro attivo del movimento “31 Dicembre” 34 le ha esortate ad
associarsi al gruppo. Visto che le regine madri sono tenute fuori dalle case regionali e
nazionali dei capi, la militanza in associazioni femminili ad ampio raggio potrebbero
costituire un momento formativo e di organizzazione mirati allo sviluppo e al
raggiungimento di un miglior tenore di vita.
Mijke Steegstra (Steegstra, 2009), nel suo lavoro sulle regine madri tra i patrilineari
krobo35, mostra come queste utilizzino l’associazionismo per rafforzare la loro influenza
in termini di azioni concrete e mirate.
Fino al XVIII secolo non c’è traccia, nell’area, di un’istituzione simile alla chieftaincy e le
responsabilità politiche, giudiziarie e religiose erano concentrate nelle mani dei
sacerdoti (djemeli).
Secondo Steegstra, l’adattamento al modello akan avvenne in concomitanza con
l’instabilità del XVIII secolo, che portò i capi della guerra ad assumere sempre più
rilievo. Steegstra non riferisce tuttavia di capi guerrieri che avessero assunto le prime
cariche di potere come regnanti. Egli propone che tra i cambiamenti che hanno portato
alla creazione di nuove strutture di governo tradizionale, ci siano l’espansione del
34
35
Il movimento delle donne 31 Dicembre è stato creato nel 1982 per volontà di Nana Konadu Agyeman Rawlings, moglie
dell’allora presidente del Ghana. La nascita del movimento si inserisce in un più ampio contesto di riforme volte a
favorire il coinvolgimento della popolazione nei processi decisionali ed è mirato a favorire la creazione di progetti di
sviluppo da parte delle donne. Le iniziative si rivolgono in particolar modo alle aree rurali e negli ultimi anni ha visto la
partecipazione
sempre
più
attiva
di
regine
madri
provenienti
da
tutto
il
Ghana.
Cfr
http://www.modernghana.com/news/329173/1/31st-december-womens-movement-marks-29th-anniversa.html
I krobo appartengono al gruppo linguistico Ga-Dagme e occupano le zone a sud-est del Ghana, vicino al lago Volta. Il
governo coloniale ha diviso il loro territorio in due aree denominate rispettivamente Krobo Ilo e Krobo Manya. Situati tra
gli ewe e gli akan, hanno preso questi ultimi come modello di riferimento per l’istituzione di un governo tradizionale,
sotto forma di chieftaincy, a partire dal XVIII secolo.
91
mercato di olio da palma e i contatti sempre più frequenti con le popolazioni akan e con
quelle occidentali.
L’attuale organizzazione politica, a livello tradizionale, ricalca in tutto e per tutto quella
ashante. Per ognuna delle due aree tradizionali stabilite dal governo coloniale, Krobo
Ilo e Krobo Manya, c’è un capo denominato konor.
Ognuna di queste aree è composta da sei divisioni rette da un proprio capo e a loro
volta formate da unità minori composte da grandi gruppi di discendenza, ognuno dei
quali ha a capo il suo asafoatse, un ex capo militare.
L’introduzione della carica di regina madre (manye in dagme) non avvenne in
contemporanea con la creazione dei titoli maschili, si è trattò di un processo graduale
incominciato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Ancora prima dell’istituzione del titolo di manye (lett. Madre), le fonti d’archivio
consultate da Steegstra36riportano notizie dalle quali si può dedurre che le sorelle dei re
godessero di un discreto grado di prestigio e influenza (Steegstra, 1999).
Tanto per fare un esempio: nel diario di un missionario che si trovava nell’area nel
1848 è scritto che la sorella di Odonkor Azu, primo konor riconosciuto dei manya krobo,
era stata inviata presso di lui in qualità di messaggero per informarsi sul perché costui
non si fosse recato in visita a casa del re.
Questa notizia, oltre a rendere conto della partecipazione delle sorelle reali alla vita del
regno, riferisce di un costume ampiamente diffuso tra gli akan e cioè la necessità che
qualunque straniero in visita presso le loro terre si rechi dal capo locale per presentarsi
e dichiarare il motivo della propria presenza.
Nel 1892 Emmanuel Mate Kole fu insediato come konor. L’istituzione della carica di
regina madre è dovuta alla sua volontà e pare essere legata a una più larga diffusione
delle cariche maschili a ogni livello dell’organizzazione politica krobo.
La prima regina madre risulta essere stata Giuliana Makutu Sakite, figlia del re
precedente e cugina di Mate Kole.
A quanto pare questa fu anche una delle prime bambine della famiglia reale ad aver
ricevuto una formazione scolastica presso la missione di Basilea.
36
Si tratta di rapporti e diari redatti dai missionari della confessione protestante di Basel che vanno dal 1857, data di
fondazione della prima missione permanente nell’area, al 1917, anno in cui i missionari hanno abbandonato la Costa
d’Oro.
92
Gli informatori di Steegstra riferiscono che alla morte di suo padre, Giuliana fu
chiamata dal governatore britannico per avere consigli sulla nomina del successore
(Steegstra, 2009: 110).
Questo aneddoto può essere letto come il risultato della familiarità, da parte delle
amministrazioni britanniche, con il modello akan, dove le queen mother sono
direttamente coinvolte nella selezione del futuro regnante, ma in quel periodo la carica
di manye non era ancora stata introdotta, né la scelta del nuovo capo è mai
determinata dall’intervento delle regine madri.
Potrebbe darsi che Giuliana godesse di una certa influenza e che, in essendo stata
istruita in una missione protestante, fosse vista come il ponte ideale tra il governo
coloniale e le locali strutture di potere.
La scelta ricadde su Emmanuel Mate Kole che era stato istruito assieme a lei.
Non è da escludere che la nascita del ruolo di regina madre sia stata condizionata
anche dai rapporti che legavano i due cugini e dalle capacità diplomatiche di
quest’ultima. Inoltre le autorità coloniali, avendo in qualche modo seguito l’usanza akan
per la selezione del nuovo re, potrebbero avere avuto una certa influenza nella
creazione del titolo di manye.
Nel 1939 fu scelto come erede al trono Fred Mate Kole e nel 1947, tre anni dopo la
morte di Giuliana Makutu Sakite, fu installata come regina madre Manye Maku Aplam,
una cugina di primo grado di Emmanuel Mate-Kole (Steegstra, 2009).
Il nuovo konor proseguì la campagne di riforme amministrative avviate dal suo
predecessore: cercò di collegare il ruolo delle regine madri alla promozione dello
sviluppo e, nel fare ciò, istituì la carica di Yewie uno manye (“regina madre delle
giovani donne”).
Pur non essendo legittimata da un proprio seggio e non avendo posto nel consiglio di
stato, la Yewie uno manye ricopre un ruolo di primaria importanza in quanto
responsabile della promozione di attività mirate alla crescita delle attività economiche
delle giovani.
Durante il regno di Fred Mate Kole il numero di regine madri aumentò considerevolmente e oggi ogni capo fa in modo di avere la propria manye al suo fianco.
Si è detto che il governo tradizionale krobo ha preso le mosse dalla chieftaincy akan, in
93
particolar modo ricalcando il modello ashante. Tuttavia vi sono differenze fondamentali
tra le queen mother di questi ultimi e la carica di manye.
A livello simbolico troviamo che il seggio di queste ultime ha un valore puramente
onorifico, ma non è consacrato al legame con gli antenati come è invece per tutte le
queen mother akan e per i re krobo.
E’ solo attraverso la cerimonia di installazione che il loro ruolo viene legittimato, ma il
loro potere non si lega a quello degli antenati nonostante la loro appartenenza al
lignaggio reale.
Questo fatto potrebbe essere associato al sistema della discendenza patrilineare,
all’interno del quale il potere femminile non può essere trasmesso direttamente Tuttavia
tra i matrilineari ashanti abbiamo visto che entrambi i seggi sono connessi al potere
degli antenati.
La spiegazione, a parere di chi scrive, va cercata nella modernità stessa della carica di
manye, collegata fin dalla sua nascita con la nozione di sviluppo femminile. Non c’era
alcun bisogno che le regine madri trovassero legittimità attraverso la connessione con
le precedenti regine. Inoltre collegare la manye al potere ancestrale avrebbe posto le
regine madri allo stesso livello dei capi, minandone potenzialmente l’autorità.
Si noti che, sebbene attualmente la quasi totalità delle regine madri più giovani ha
ricevuto un’adeguata istruzione, esistono ancora diversi capi anziani che preferiscono
sostenere una donna analfabeta e manipolabile rispetto a una donna di “moderna”
generazione che, preparata e consapevole, potrebbe oscurarne l’immagine (Steegstra,
2009).
Una seconda importante divergenza è data dal fatto che, come accennato, la manya
non ha voce in capitolo nella selezione del futuro capo, cosa che rientra tra le principali
prerogative delle regine madri akan.
Sono gli anziani, con il sostegno del re, a determinare la successione e la manya non
ha il diritto di trasmettere il potere. Anche in questo caso non è semplice stabilire un
confine tra le influenze del sistema di discendenza nella reinvenzione del modello e le
esigenze alle quali questo modello corrisponde.
Stando a quanto riferito da Stoeltje per gli ashante, tra questi ultimi non si può
affermare con certezza l’esclusione dei re dalla selezione della futura regina (Stoeltje,
94
1997).
Tra i matrilineari nzema (popolazione akan molto vicina a quella ashante), il capo,
almeno a livello formale, non ha alcuna influenza nel determinare la nuova regina e lo
stesso discorso è valido per gli akan di Akuropon, a sud est del Ghana (Gilbert, 1993).
Il fatto che il sistema di discendenza sia matrilineare è solo uno dei motivi che
determina la posizione della regina madre nella selezione del nuovo re.
Essa è la persona che conserva la memoria della genealogia del lignaggio ed è in virtù
di questa sua conoscenza che il nuovo re potrà legittimamente essere insediato.
La modernità dei sistemi di governo tradizionale krobo non rendeva necessaria la
conoscenza di genealogie tanto recenti formatesi in un periodo in cui la scrittura e
l’archiviazione dei dati erano diffuse da tempo. Senza contare inoltre che mettere nelle
mani delle donne un potere di questo tipo avrebbe potuto ancora una volta minare
l’influenza dei capi. L’altro scarto notevole è dato dalla risoluzione delle controversie.
Mentre tra gli ashanti uno dei compiti principali risiede appunto nella risoluzione dei
conflitti, tra i krobo questo compito pare essere marginale, poiché generalmente le
donne sono dette risolvere i loro problemi in modo autonomo, magari ricorrendo
all’aiuto degli anziani del proprio lignaggio.
Al di là di queste variazioni quello che appare essere degno di nota è che l’introduzione
di un governo tradizionale mutuato da una popolazione vicina è stata dettata dalle
spinte verso la modernizzazione.
Le nascenti cariche di regine madri sono state collegate alle idee di sviluppo e
partecipazione portate avanti da soggetti politici che avevano avuto larga parte nella
lotta all’emancipazione del paese dal retaggio coloniale.
I movimenti per la mobilitazione femminile, come abbiamo visto nel caso
dell’Offinsahemaa, fungono anche da strumento di raccordo per le politiche di sviluppo
da parte delle regine madri, ma si tratta di situazioni che non sono attecchite in
profondità, non fosse altro che per le difficoltà a sostenere economicamente le spese
degli spostamenti.
Tra le regine madri krobo, il cui ruolo si è sviluppato in un contesto di spinte
modernizzatrici, la tendenza a lavorare insieme in una prospettiva di sviluppo femminile
si è sviluppata in parallelo all’aumento delle donne che detnevano il titolo
95
Intorno agli anni 60, il CPP 37 aveva creato i comitati di sviluppo cittadini nei quali erano
coinvolte molte di loro, già durante il periodo in cui la regina madre dei manya krobo
era Manye Maku Aplam.
Il dato di maggiore interesse in questo senso è la creazione ad opera di Manye Mamle
Okleyo,
dell’associazione
delle
“queen
mother
krobo”
(MKQMA),
inaugurata
ufficialmente nel 1998.
Manye Mamle Okleyo era stata insediata nel 1983 e durante i sette anni di interregno,
trascorsi tra Konor Azu Mate-Kole e Sakite II, aveva governato il territorio manya krobo
come se fosse stata un konor.
Durante gli anni della sua attività, sono state insediate molte regine madri, ma il segno
più grande del suo lavoro consiste appunto nella promozione di azioni collettive mirate
allo sviluppo.
L’ MKQMA, oggi registrata come ong, tiene incontri mensili a Koforidua, capitale della
regione occidentale krobo. Tra i suoi membri (370 al momento della ricerca di
Steegstra) ci sono anche le regine madri del mercato.
Questa cosa ha attirato alcune critiche, soprattutto da parte dei membri più anziani
della società, manya e non, che sostengono che le donne del mercato non hanno il
proprio seggio e non possono quindi essere coinvolte nelle attività delle regine madri.
In questo caso il seggio acquisisce importanza e viene posto come discriminante
nonostante il suo valore sia fondamentalmente rappresentativo.
I rapporti tra chi detiene il titolo e le donne dei mercati, nonché il ruolo di queste
all’interno dell’associazione meriterebbero sicuramente un’analisi più approfondita.
E’ comunque interessante notare che, mentre tra gli ashante era stata un’ͻhemma (una
delle cariche di livello più elevato) a contestare i titoli delle market queen, in quanto non
riconoscibili dalla tradizione, tra i krobo queste sono entrate a far parte del più ampio
gruppo di regine madri associate per volontà della sua fondatrice nonché regina di
un’intera regione tradizionale.
All’interno dell’associazione, queste donne uniscono le loro forze e organizzano forme
37
Il CPP (Partito della Convenzione dei Popoli) nasce nel 1949 durante la lotta per l'indipendenza del (1956). Il suo
fondatore fu il primo presidente Osagye Dr. Kwame Nkrumah. E 'stato il primo partito a governare il Ghana dopo
l'indipendenza. Il CPP si è posto come un veicolo di emancipazione della nazione e di tutta l'Africa. L’immagine che
lancia è quella di un partito di massa che abbraccia contadini, pescatori e agricoltori e si rivolge tutti gli strati sociali della
popolazione.
Per saperne di più cfr: http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/cpp.php
96
di microimpresa e solidarietà.
Una delle attività perseguite con maggior abnegazione riguarda l’assistenza dei
bambini che hanno perso i genitori a causa dell’AIDS/HIV.
Attraverso l’autofinanziamento (raccolta fondi, ma anche produzione e vendita di monili
e saponi artigianali) hanno creato un fondo destinato a sovvenzionare le famiglie che
accetteranno di prendere gli orfani in affidamento.
In questo modo i bambini non subiscono ulteriori stigmatizzazioni che deriverebbero
dal loro isolamento in un orfanotrofio e le famiglie che decidono di partecipare al
progetto sono supportate economicamente.
Un altro ambito di intervento riguarda la promozione dell’educazione femminile. Uno
dei membri più attivi nel gruppo ha riferito a Steegstra che il loro motto consiste nel
detto: “se educare un uomo vuol dire educare un individuo, educare una donna vuol
dire educare una nazione” (Steegstra, 2009: 115).
Gran parte dei membri dell’associazione hanno un discreto grado di istruzione e sono
piuttosto benestanti.
Molte tra loro esercitano pressioni per favorire l’ingresso delle donne nelle case
regionali e nazionali dei capi e poter partecipare attivamente ai processi decisionali, ma
per il momento non paiono esserci aperture in questo senso.
Le regine madri, che per ragioni economiche non sono in grado di affrontare gli
spostamenti previsti per le riunioni mensili, si organizzano a livello locale attraverso reti
di solidarietà e raccolte fondi che avvengono per lo più durante i funerali, una delle rare
occasioni di ritrovo con le loro “colleghe” più o meno vicine.
I krobo si sono impossessati del modello tradizionale akan, piegandolo alle loro
esigenze; questo è avvenuto in seguito alle esigenze poste da contingenze
contemporanee ed è stato sempre sulla scia di rapidi cambiamenti che il ruolo della
manye si è potuto configurare come direttamente collegato alle esigenze reali della
popolazione.
Questo è stato possibile solo grazie alla presenza di politiche nazionali che si
muovevano in una certa direzione ma, mentre tra gli akan la commistione tra tradizione
e modernità pare essere ancora un’eccezione, tra i krobo sta diventando la norma.
Non stupisce quindi che la presenza delle regine del mercato sia stata accolta di buon
97
grado da molte regine madri; il loro ruolo è stato legato quasi fin dalla nascita alla
nozione di sviluppo, di conseguenza persone avvezze alle attività economiche non
possono che essere le benvenute in un’associazione che si propone di favorire il
raggiungimento del benessere femminile attraverso microattività generatrici di reddito.
Per concludere si può dire che l’adozione della chieftaincy da parte dei krobo è stata
una scelta operata da uomini che hanno rimodellato la base akan a seconda delle
proprie esigenze.
Nello stesso tempo le loro regine madri stanno creativamente cercando di ritagliarsi
spazi di azione attraverso canali più aperti ad ascoltare le loro proposte in quanto
rappresentanti dei bisogni femminili.
Se le cariche maschili sembrano essere rivolte più allo spazio chiuso della propria
personale area di influenza, le regine madri krobo, e in una certa misura anche quelle
ashanti, paiono avere una visione più ampia che miri allo sviluppo e al miglioramento
della condizione della donna a livello nazionale.
Capitolo IV
Il ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio del
Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History:
Finora è stato effettuato un excursus etnografico sul modo in cui, in diverse aree e in
diversi periodi storici, le donne hanno esercitato ed esercitano forme di potere e
autodeterminazione.
In molti casi esse sono depositarie di saperi fondamentali al mantenimento
dell’equilibrio sociale e che, in quanto tali, andrebbero tutelati e valorizzati. Si è potuto
osservare che anche in assenza di ruoli tradizionalmente accreditati, le donne hanno
saputo cogliere le opportunità contingenti al fine di migliorare la propria condizione.
Quello che mi propongo di fare in questo capitolo, attraverso la descrizione di un
museo sorto recentemente in area nzema, è proporre l’applicabilità del concetto di
patrimonio come fattore di sviluppo al contesto africano.
Le proposte di sviluppo locale, in Africa, dovrebbero tenere in grande considerazione la
posizione della donna, la quale è spesso il centro di gran parte delle attività
98
economiche nelle aree rurali, ma nonostante questo viene spesso lasciata al margine
delle concrete politiche decisionali.
Il loro potenziale andrebbe quindi promosso sia attraverso la tutela e valorizzazione dei
saperi di cui sono depositarie, sia favorendo la loro partecipazione, anche a livello
associato ad attività mirate al rafforzamento della loro condizione.
Attraverso la mia esperienza di campo, mi propongo di sollevare questioni in merito
all’effettiva parte che le regine madri nzema potrebbero svolgere nel loro territorio in
questo senso.
Inoltre tenterò di avanzare alcune proposte di percorsi volti al rafforzamento femminile
nell’area. Infine abbozzerò un’ipotesi d’installazione sulle regine madri nzema che parta
dalla mia indagine e che sia in linea con l’impostazione generale del Fort Apollonia
Museum of Nzema Culture and History.
1 Musei e sviluppo
1.1 Quadro generale
Il termine sviluppo entra a far parte dello statuto dell’ICOM (International Council of
Museums) nel 1971, nel corso di un dibattito tutt’ora in atto che metteva in discussione
l’istituzione museale in un tentativo di ridefinizione della sua funzione e legittimazione
sociali.
Nel corso di quegli anni si incominciò a parlare di eco-musei tratteggiandoli, in linea di
massima, come una tipologia di musei volti a promuovere la conoscenza dell’ambiente
da parte del pubblico, sensibilizzandolo nei suoi confronti e spronandolo alla sua
difesa.
Si tratta di una realtà che ha assunto forme estremamente diverse, non solo da paese
a paese, ma da realtà a realtà e che è stata recentemente inquadrata come pratica
partecipata di valorizzazione del patrimonio culturale
L’eco-museo assume quindi un valore diverso da quello assegnato al museo inteso
come istituto di cultura e sostituisce il concetto di collezione permanente con quello di
patrimonio comunitario e collettivo, dove il patrimonio è inteso come l’attività congiunta
e creativa dell’uomo e della natura (De Varine, 2005) e come eredità di conoscenze e
valori che, agito nel presente e a partire dallo stesso, può assumere senso e
99
configurarsi come fondamentale fattore di sviluppo (Jalla in De Varine, 2005).
Non esiste una regola fissa per questo tipo di esperienza; piuttosto il concetto di ecomuseo si è allargato fino a raccogliere più idee tra loro complementari.
Tra queste troviamo la centralità dell’intero patrimonio di una comunità o di un territorio
rispetto a qualsivoglia collezione; il fatto che l’ambito di azione si estenda all’intero
territorio; l’autonomia decisionale della comunità in merito ai propri ambiti di
partecipazione; la vocazione educativa della pratica eco-museale e l’idea che la
conservazione e la valorizzazione siano mezzi di promozione piuttosto che fini o
funzioni (De Varines, 2005).
Questa pratica è andata ad integrare quegli approcci alla gestione dei patrimoni locali
che trovano la loro espressione nei musei di sito (o centri di interpretazione), in quelli
comunitari e in quelli del territorio.
Ognuna di queste tre espressioni fa riferimento a pratiche e tipologie specifiche.
I centri di interpretazione possono avere o meno una collezione; la loro finalità consiste
nel valorizzare un tema o un contesto specifici. Il patrimonio si trova all’esterno della
struttura che è finalizzata, attraverso il suo commento, a preparare il visitatore. Esso è
quindi un punto di partenza o di ritorno rispetto a un incontro che ha luogo sul territorio
che lo ospita.
Il museo del territorio può essere considerato come un’applicazione più ampia del
centro di interpretazione, con la differenza che mentre quest’ultimo è di carattere
prevalentemente tematico, il primo ha come obiettivo la valorizzazione del territorio
nella sua globalità. Anche in questo caso il museo si pone come tramite, e strumento di
interpretazione di quanto è all’esterno. Le popolazioni presenti sul territorio non
partecipano alla sua realizzazione, ma il museo dovrebbe farvi costantemente
riferimento integrandole in tutte le sue fasi di crescita e in una prospettiva di sviluppo.
(De Varines, 2005)
Si noti che non necessariamente esiste identità tra un territorio e le sue comunità e che
un museo del territorio non è in sé per sé un museo di comunità.
Il museo comunitario infatti non parte dal territorio, ma nasce per volontà di una
comunità che opera delle scelte soggettive ed esprime se stessa.
Museo comunitario e patrimonio tendono a coincidere e sono espressione
100
dell’orizzonte di senso, selezionato da una specifica comunità che si guarda dentro in
un momento specifico. Poiché nasce nel presente ed esprime valori contingenti,
soggetti a mutamenti, il museo comunitario è soggetto a trasformazioni o finanche alla
propria dissoluzione.
Le realtà brevemente passate in rassegna possono essere accomunate tra loro da due
caratteristiche. Innanzitutto l’idea di patrimonio cui fanno riferimento prende le distanze
dalla concezione istituzionalizzata che ha come fulcro l’eccezionalità dei beni (culturali
e ambientali) la cui fruizione e tutela sono regolamentate e finalizzate al turismo di
massa.
Per contro, il patrimonio concepito come bene comune che vive nel presente, deve
essere promosso ai fini dello sviluppo ( De Varines, 2005).
In quest’ottica i responsabili primi della gestione e salvaguardia del patrimonio sono
coloro che lo mantengono in vita e per i quali esso costituisce il retaggio culturale di
riferimento.
A queste due opposte tendenze ne corrispondono altre due, ossia quella di direzionare
le attività di promozione e tutela per beneficiare dei flussi turistici e quella che invece,
concentrandosi sulla comunità, la pone al centro delle politiche da intraprendersi.38
Un’altra distinzione, di tipo interno, si rende necessaria per quelle realtà che operano a
livello locale. Esistono due tipi di tendenze: una riguarda le istituzioni che si rivolgono al
passato e che ruotano intorno a collezioni di oggetti morti; mentre l’altra riguarda quelle
che si focalizzano sulla partecipazione della comunità come agente di un patrimonio
vivo e attivo.
L’attuale panorama museale è caratterizzato dall’invecchiamento di molte strutture e
dalla costante diminuzione di finanziamenti. Mentre per quanto riguarda i siti di una
certa rilevanza, i flussi turistici giustificano l’intervento di fondi pubblici e privati, per
quanto riguarda i musei locali la situazione è differente.
Nel periodo successivo alla II guerra mondiale, i rapidi processi di urbanizzazione e
globalizzazione hanno provocato, soprattutto nelle nascenti classi medie europee, una
sensazione di spaesamento.
Come conseguenza, queste si sono rivolte al passato alla ricerca di un orizzonte di
38
De Varines, intervento tenutosi a Pontebernardo(CU)il 22 maggio 2011
101
senso che stava venendo a mancare.
In Italia, tanto per fare un esempio, negli anni '60 iniziò una diffusa campagna di
raccolta di oggetti legati al mondo contadino in via di dissoluzione sotto la crescente
urbanizzazione in atto.
Tale fenomeno è stato letto come l'effetto di un sentimento nostalgico, prodottosi
dall'allontanamento di condizioni preesistenti, in concomitanza con il mancato
raggiungimento di situazioni immaginate come nettamente migliori (Cirese, 2002).
A livello europeo, a cavallo tra gli anni 60 e 70, si è assistito a un proliferare di musei.
Questa tendenza si è amplificata nel ventennio successivo, sotto la speranza di una
rapida crescita economica legata allo sviluppo del turismo di massa.
La realizzazione di strutture che, a vario titolo, si caratterizzavano per la loro vocazione
locale, trovava la propria giustificazione nei discorsi sul patrimonio come collante
sociale e come strumento identitario di preservazione della memoria delle comunità.
Pur non sminuendo il valore del patrimonio come eredità di conoscenze e valori in cui
una comunità si rispecchia, occorre fare attenzione a non cadere in una retorica
identitaria astratta, a-storica e a-critica che appiattisca le diversità insite in ogni
collettività. Senza entrare nel merito del dibattito intorno alle questioni sulla costruzione
dell’identità e sulla sua potenziale strumentalizzazione politica, bisogna comunque
ricordare che qualsivoglia collettività è composta da elementi differenti i cui interessi e
le cui esigenze non sempre coincidono e che anzi spesso entrano in conflitto tra loro.
Di conseguenza, qualsivoglia iniziativa in ambito locale non può prescindere da queste
relazioni conflittuali e deve tenere conto di tutti gli attori, politici e sociali, che
potrebbero concorrere alla stessa.
Il panorama attuale è caratterizzato da un molteplicità di realtà museali, ormai slegate
dal contesto nel quale si erano prodotte e che non hanno gli strumenti (o la volontà) di
raccogliere gli imput che giungono dalla modernità.
Essi non sono cioè nelle condizioni di esprimere la conflittualità e il mutamento né
tantomeno di creare connessioni sociali. Rischiano di trasformarsi in realtà asettiche,
prive di una connessione con il tessuto vivo della società, perdendo il loro potenziale
attrattivo e non ultima la loro già debole sostenibilità economica.
La tendenza ad accordare finanziamenti a istituti e siti prestigiosi e rilevanti va a
102
scapito delle realtà che operano a livello locale e che vanno quindi necessariamente
ripensate.
Il punto fondamentale, emerso già negli anni 70 e richiamato da De Varines (De
Varines, 2005), riguarda la necessità di legare il concetto di patrimonio a quello di
sviluppo locale inteso come miglioramento sostenibile della vita della comunità.
Il patrimonio non costituisce solo il retaggio materiale e immateriale del passato, ma
anche e soprattutto la cultura viva; esso va quindi considerato come ponte con il futuro.
Così come, ogni processo che abbia come oggetto lo sviluppo locale deve tenere conto
del patrimonio, quest’ultimo acquisisce senso solo se preso come riferimento costante
di ogni processo di sviluppo locale ( De Varines, 2005).
Conseguentemente, è in una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita che la
valorizzazione del patrimonio acquisisce senso, ed è solo a partire da questo che i
cambiamenti connessi ad ogni piano di crescita possono essere ammortizzati dalle
comunità senza causare eccessivi traumi.
I musei locali, in quanto espressione diretta del patrimonio, sono responsabili del
territorio e del coinvolgimento di tutte le parti politiche e sociali che detengono il
patrimonio stesso mantenendolo in vita.
Compito di tali istituzioni è quindi quello di adeguarsi alle esigenze reali dell’uomo
moderno integrandosi alla comunità. Dovrebbero essere strumenti flessibili, centrati
sulla comunità ed avere come scopo principale quello di servire l’essere umano, sia
accompagnandolo durante le fasi di cambiamento, sia aiutandolo a ripensare e
ridefinire se stesso in armonia con il proprio contesto ambientale e con il proprio
universo culturale.
Queste tendenze, opportunamente rimodellate, potrebbero giocare un ruolo non
indifferente in un contesto sottoposto a rapidi e traumatici come quello africano.
La stessa idea di museo nasce in Africa ad opera degli occidentali.
Se questa istituzione è in fase agonizzante presso le popolazioni che l’hanno prodotta,
essa necessita di ripensamenti ancora più urgenti presso popolazioni ai quali è stato
imposta e che non ne hanno mai tratto alcun tipo di vantaggio.
1.2 L’istituzione museale Africa
103
Quando si parla di processi di patrimonializzazione e, nello specifico, di musei africani
non si può prescindere dal discorso coloniale.
Sia che si tratti di contesti occidentali, sia che si faccia riferimento al continente
africano, i musei e le collezioni africane sono nate come istituzioni coloniali pensate per
un pubblico europeo.
Le prime raccolte etnografiche allestite in ambito occidentale si costituivano come
laboratori di rappresentazione dell’alterità, frutto di viaggi di missionari, commercianti e
avventurieri. Gli oggetti esposti venivano presentati in una dimensione cristallizzata e
a-storica, frutto di un paradigma evoluzionista che, decontestualizzandoli dal loro
territorio di provenienza e sottraendogli la loro funzione, li relegava a espressioni d'arte
primitiva.
Questo tipo di impostazione trovava la sua ragione d'essere nella ricerca di consenso
alle missioni coloniali, che venivano quindi ritenute necessarie per la “missione
civilizzatrice” di popolazioni presentate come ferme a uno stadio evolutivo inferiore
rispetto ai più moderni popoli occidentali.
Tale approccio, presente anche laddove gli intenti non erano spiccatamente
propagandistici, contribuì alla costruzione di un immaginario permeato da una forte
tensione esotizzante che escludeva ogni problematizzazione di tipo,storico politico e
sociale.
Si diffuse una sorta di mania nei confronti degli oggetti di produzione africana concepiti,
è bene ricordarlo, come oggetti d'arte primitiva, senza che però a tale fascinazione
corrispondesse alcuna volontà conoscitiva nei confronti delle civiltà che li avevano
prodotti.
Nel mutato panorama odierno, con la presa di coscienza della necessità di instaurare
un dialogo con la massiccia presenza di popolazioni immigrate dalle ex colonie, e con
la presa di distanza dalla prospettiva evoluzionista, il ripensamento dell'esperienza
museografica, sopra delineata, si va traducendo in diverse tendenze.
Ai due estremi si collocano da un lato la scelta di ignorare le esigenze di rinnovamento
degli impianti allestitivi e dall'altro quella di restituire alle popolazioni di origine le
collezioni di cui ci si era indebitamente appropriati.
Altrove si lavora in direzione della creazione di allestimenti temporanei che,
104
risemantizzando di volta in volta gli oggetti in contesti differenti, consentono il
superamento di una visione straniata e a-storica, reincorporandoli in discorsi dotati di
senso ed inquadrabili entro specifiche coordinate.
Non mancano in questo panorama scelte che muovono verso una ridefinizione degli
interi apparati espositivi.
Un'altra interessante tendenza punta infine al coinvolgimento delle comunità presenti
sul proprio territorio nella riorganizzazione e riallestimento delle proprie collezioni
(Pennacini in Remotti, 2000).
Per quanto riguarda le colonie, i governi si dotarono immediatamente di tre strumenti
atti a esprimere il nuovo stato di cose: l'archivio, le carte geografiche ed il Museo.
Le implicazioni di questo procedimento sono molteplici; la creazione di archivi, in una
cultura dell'oralità, imponendo un nuovo modo per fissare il passato, crea squilibri non
indifferenti non solo perché spesso impone logiche estranee attraverso uno strumento
parimenti estraneo, ma anche perché con la delegittimazione degli strumenti di
trasmissione dei saperi, si delegittimavano anche i contenuti da essi veicolati.
Inoltre, sulle carte topografiche è del tutto assente la toponomastica locale.
Quello che si viene a creare è l'imposizione di un nuovo ordine che, anche attraverso il
concetto di etnia, istituisce categorizzazioni, crea gerarchie e rapporti sociali, costruisce
nuovi immaginari attraverso la sostituzione dei simboli.
“Questo è un po’ il contesto: l’estirpazione dello spazio e del tempo attraverso cui
l’autopercezione collettiva dei popoli veniva sostituita dalle rappresentazioni del
colonizzatore. E quindi il museo, così come ha vissuto e vive in Africa, è una
gigantesca operazione da riferire a quella corrente filosofica che possiamo definire
etnofilosofia” (Touadi, in Cristofano, Palazzetti, 2011: 172).
I Musei coloniali in Africa, pensati non per le popolazioni locali, ma per gli europei che
vivevano nelle città, diventano espressione di un nuovo ordine costruito, ancora una
volta, senza alcuna attenzione ai processi e alle dinamiche conflittuali che lo avevano
determinato.
Intorno gli anni 50, ha luogo una sorta di operazione di “archeologia del sapere” da
parte di missionari e studiosi. Questi incominciano ad interessarsi allo studio degli
oggetti prodotti in terra africana, con la pretesa di restituire alle popolazioni locali il
105
passato che precedentemente avevano estirpato.
Ma il criterio che informa queste forme di rappresentazioni continua ad essere un
criterio di stampo occidentale e dà luogo, ancora una volta, a istituzioni lontane dal
vissuto collettivo.
I musei continuavano a vivere in una torre d’avorio, privi di ogni rapporto con i luoghi di
produzione e riproduzione del senso legato agli oggetti esposti, i quali perdevano
logicamente ogni interesse agli occhi delle popolazioni locali.
L’oggetto diventava “altro” non solo per il processo di de-funzionalizzazione e
musealizzazione cui era sottoposto, ma soprattutto in virtù del fatto che “altri” erano
coloro i quali gli attribuivano un certo significato (Touadi, in Cristofano, Palazzetti,
2011).
Negli anni che seguirono le indipendenze nazionali, la tendenza è stata quella di una
problematica riappropriazione della memoria storica da parte delle nascenti istituzioni
governative.
Spesso l'impostazione ha teso a prescindere dalle contaminazioni dinamiche con il
quotidiano, concentrando il focus su una costruzione identitaria basata su
anacronistiche condizioni precoloniali. Altre volte si dà il caso che i musei non
subiscano sostanziali revisioni rispetto al periodo in cui vennero realizzati, mantenendo
fondamentalmente un’impostazione di stampo coloniale.
Quello che permane è un modo di leggere il passato (e di rappresentarlo) secondo
un’impostazione di stampo occidentale, a volte ancora intrisa di letture coloniali.
Si tratta di realtà in cui mancano sia la dialettica tra il recupero del passato e il presente
sia una visione complessa e articolata di una realtà in trasformazione.
Questo non meraviglia più di tanto, in quanto il museo africano, come ricordato, nasce
sotto una certa concezione e tale concezione viene trasmessa a coloro i quali si erano
trasferiti nelle città e avevano ricevuto un formazione di stampo occidentale.
Nel panorama attuale, la trasmissione orale della cultura sta perdendo smalto sotto le
spinte globalizzanti della modernizzazione e della scolarizzazione e non è più
sufficiente ad assicurare la riproduzione e la sopravvivenza di determinati saperi.
In siffatto contesto, costumi e credenze rischiano di venire travolti senza che ci sia il
tempo per elaborare altri orizzonti di senso.
106
Alla luce di queste considerazioni, il ripensamento del ruolo dei musei nei territori
africani è di vitale importanza.
L'impostazione museale di stampo coloniale investe di sé le politiche dei musei
nazionali, attraverso una rappresentazione che non tiene conto delle esigenze reali di
coloro i quali vivono e vivificano il proprio patrimonio.
E’ significativo che, sebbene l’occidentalizzazione del pensiero sia entrata a far parte
dei sistemi di rappresentazione del passato, queste culture continuino ad essere
radicate nell’oralità.
L’heritage, il custom, il patrimonio, sono da inquadrarsi come un qualcosa che, ricevuto
in dono dagli antenati, ha sempre a che vedere con le sue ricadute sul quotidiano.
La prima cosa da tenere presente è che il rapporto con la tradizione e il rispetto per la
stessa si legano direttamente al rapporto con e al rispetto per gli antenati (e con gli
spiriti).
Le storie locali, i miti di fondazione o le pratiche di medicina tradizionale, tanto per fare
qualche esempio, ben lungi dall’essere reminiscenze di un lontano passato, agiscono
nelle pratiche in modo diretto.
Quello che qui è considerato heritage, è qualcosa di attivo che incide sulla vita delle
comunità ed è qualcosa che va tutelato in quanto parte attiva delle culture africane.
La concezione occidentale-istituzionale di tutela non è applicabile a un terreno di
questo genere. L’idea di valorizzazione e promozione a livello locale dei saperi e delle
pratiche, dovrebbe favorire le condizioni che ne consentano la roproduzione e creare
un terreno a partire dal quale i processi di cambiamento siano guidati dalla popolazione
in modo consapevole.
Come si è già accennato sopra, le rapide trasformazioni in atto stanno seriamente
compromettendo tutto questo insieme di pratiche e conoscenze, e il rischio di una loro
rapida scomparsa, che lascerebbe il vuoto, va arginato attraverso delle strategie mirate
ed elaborate di volta in volta a seconda dei contesti.
I patrimoni africani mantengono la loro vitalità ed incidenza nel quotidiano e
qualsivoglia operazione di salvaguardia e tutela non va inquadrata in un'ottica di
"salvataggio" (raccogliere e censire prima che scompaiano del tutto), quanto piuttosto
in una dimensione progettuale che miri al loro rilancio soprattutto tra i giovani.
107
L'approccio storiografico andrebbe messo in dialogo con le storie locali tramandate
oralmente, e queste ultime dovrebbero essere registrate ed archiviate affinché non se
ne perda memoria nelle nuove generazioni scolarizzate e cresciute in una cultura della
scrittura.
In questo senso i musei del locale, in una versione ibrida e concepiti come centri di
cultura aperti sulle attività circostanti, potrebbero svolgere un ruolo di una certa
rilevanza.
Tali strutture dovrebbero puntare su una stretta collaborazione con le comunità locali
che intendono salvaguardare e promuovere, tenendo conto delle trasformazioni e delle
contaminazioni in atto, anche in funzione di uno sviluppo sostenibile, che miri alla
gestione comunitaria delle potenzialità insite nel territorio e nelle pratiche locali.
Si vuole a questo proposito rendere conto di un’esperienza che potrebbe essere
definita come un buon esempio di pratica museale, verificatasi presso gli nzema del
Ghana.
2 Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History
Nel 2010 ho trascorso tre mesi e mezzo in territorio nzema, con lo scopo di partecipare
alla realizzazione di un museo, il cui studio progettuale era stato avviato anni addietro.
Durante questo periodo mi sono potuta confrontare con le problematiche di tipo
sociale, politico, e materiale che stanno dietro a una proposta di così ampio respiro
come la realizzazione di un museo locale pensato come centro per lo sviluppo.
Tale complessità non può essere trasmessa solamente dalla narrazione del percorso
espografico e dalle poetiche che soggiacciono l’allestimento.
Si rende pertanto necessario raccontarne i propositi e dare un nome a tutte le istituzioni
che hanno cooperato assieme.
Vanno sottolineate le possibilità di sviluppo e le aperture sul territorio e per rendere
comprensibili le iniziative auspicate nel progetto occorre dare un’idea del contesto nel
quale questo è nato e si è sviluppato.
Nel corso di questo paragrafo, si procederà a fornire tutte le indicazioni necessarie alla
comunicazione dell’esperienza che ha portato alla nascita del Fort Apollonia Museum
of Nzema Culture and History.
108
Si fornirànno pertanto indicazioni intorno alla popolazione nzema e in merito alla storia
del forte che ha accolto il Museo.
Si procederà poi alla descrizione del progetto e alla descrizione del museo. Infine si
renderà conto della mia esperienza di campo che vuole aprire un’ulteriore prospettiva
di ricerca, sempre nell’ottica del rafforzamento femminile per il tramite dei processi di
patrimonializzazione.
2.1 Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopolitico
Durante il periodo della dominazione coloniale, la zona era nota col nome Apollonia o
Amanhea. L'area, da un punto di vista amministrativo, consta di tre unità: Jomoro
District con capoluogo Half Assini, l'Ellembelle District con capuologo Nkroful e infine lo
Nzema East Municipality, con capoluogo Axim, che include i territori evaloe ad ovest
del fiume Ankobra.
Lo Jomoro coincide con la Western Nzema Traditional Area, antico regno precoloniale
la cui capitale è Beyin, mentre L'Ellembelle District coincide con l’antico Eastern Nzema
la cui capitale tradizionale è Atuabo.
Queste due aree sono frutto di una divisione avvenuta nel 1851 dopo l’uccisione, ad
opera degli Inglesi di Kaku Aka, ultimo re unitario.
La regione Nzema propriamente detta è delimitata ad est dal basso corso del fiume
Ankroba mentre a ovest il confine geografico è segnato dal basso corso del fiume Tano
e dal sistema lagunare che separa il Ghana dalla Costa D' Avorio.
A sud confina direttamente con l'Oceano Atlantico, mentre a nord confina con le aree
Wassa e Aowin. La costa, con un'estensione di oltre 90 km, si caratterizza per la
presenza di dune e lagune retro-costiere, mentre all'interno l'Ankasa River Forest
reserve costituisce l'ultimo residuo di foresta pluviale dell'area.
Il clima è essenzialmente umido, la temperatura è mite con escursione termica
irrilevante.
Le popolazioni locali distinguono tre stagioni prinipali: wawa (stagione secca, da
dicembre a aprile-maggio), fɔsϵlϵ (stagione delle grandi piogge, da maggio a luglio) e
bokile (stagione delle piccole piogge da agosto a novembre).
Gli nzema appartengono al gruppo akan e sono stanziati prevalentemente nell'area del
109
Ghana sopra delineata.
Vi sono tuttavia consistenti enclaves di Nzema che risiedono stabilmente in Costa
D'Avorio, in una serie di villaggi collocati nella parte settentrionale della laguna di Ehy,
e che dipendono dal seggio di Kyapum.
La loro lingua, lo Nzema anye, è classificata tra le lingue Volta-Comoë ed è più
prossima a quelle del sottogruppo Proto-Bia (Anyi), che a quelle del sottogruppo ProtoTano (Grottanelli, 1977).
Le principali risorse economiche sono la pesca (praticata negli ambienti marini,
lagunari e fluviali) e l'agricoltura.
I prodotti maggiormente coltivati sono: manioca; banano da fecola; igname; cocolasia;
riso; mais; melanzane; pomodori; patate dolci; cipolle; fagioli; banane da frutto; arance;
limoni; ananas e arachidi.
L'intera area è inoltre ricoperta da piantagioni di palme da cocco i così detti Cashcrops, destinate al commercio, ma di regola ciascun abitante della zona può usufruire
tranquillamente delle noci cadute a terra o procurarsele direttamente dalle palme.
Altra pianta regolarmente adibita allo sfruttamento commerciale è la palma da olio, che
è anche una componente basilare (il frutto e l'olio) dell'alimentazione quotidiana locale.
Sono
presenti, seppur in modo meno consistente, piantagioni di caffè e di cacao
anch'esse destinate alla vendita. Per quanto riguarda l'allevamento, si registra una
consistente quantità di pecore, (che però non producono latte sufficiente per essere
munte) polli, anatre, faraone, cani e gatti. La carne, sopratutto quella di maiale, viene
solitamente utilizzata per rimpolpare le zuppe che possono altresì contenere pesce o
entrambi gli ingredienti.
Molto apprezzata è la carne di tartaruga, specie recentemente dichiarata protetta, e
quella di pitone. In generale nessun tipo di carne è disdegnata e non è raro che
vengano uccise scimmie a scopo alimentare.
La società nzema è organizzata in sette gruppi tradizionali di discendenza chiamati
Abusua e tradotti col termine famiglia:
Adahonle
Alɔnwɔba
Azanwule
110
Ezohile
Mafole
Ndweafoɔ
Nvavile
Come gran parte delle società akan, gli nzema hanno un sistema di discendenza
matrilineare, ragion per cui Ego appartiene all’abusua della madre ed eredita dal
proprio zio materno (awuvonyi).
In questo specifico sistema di parentela, assimilabile pur con qualche divergenza ai
sistemi di tipo Crow (Palumbo, 1992), si suole riferirsi, indipendentemente dal proprio
sesso, alle sorelle della madre col medesimo termine col quale ci si riferisce a quest'
ultima (Nli,ɔmo).
Per quanto riguarda la linea uterina della famiglia del padre, va rilevato che i suoi figli si
riferiranno a tutti i suoi membri con l'appellattivo egya (padre) e saranno a loro volta
chiamati da questi ultimi mralɛ (figli).
La norma della virilocalità e della patrifiliazione fa si che l’abusua non sia identificabile
come unità residenziale e che i vari segmenti del gruppo di discendenza siano dispersi
nel territorio.
La patrifiliazione porta con sè conseguenze anche sul piano delle relazioni padre-figli.
Questi ultimi infatti nascono e vengono allevati nella casa del padre rimanendovi in
alcuni casi anche dopo il suo decesso.
Il legame che si instaura tra il genitore e la sua prole è fortissimo ed essi son tenuti a
darsi mutua assistenza. Nonostante viga un sistema a discendenza matrilineare,
l’importanza del padre nel processo di concepimento e formazione dei figli è molto
sentita: l’individuo è ritenuto ricevere la carne (nwonane) e le ossa (mbowulɛ) dalla
madre e il sangue (mogya) e il soffio vitale (sunsum) dal padre.
Il padre è inoltre colui che dà il nome (nzabelano) al figlio ed è da uno dei suoi figli che
si fa sostituire in caso di impedimento a partecipare a occasioni importanti.
Si rende a questo punto necessario operare una distinzione nei riguardi del termine
abusua. Esistono infatti due livelli dell’abusua : quello del suakunlu e quello dell'asalo,
termini che indicano rispettivamente la camera da letto e l’ingresso (salotto, vestibolo)
della casa.
111
Il termine sua(casa)kunlu(utero in senso sociale) si riferisce anche al palazzo reale
inteso come utero della città, in quanto sua indica sia la città che la casa (Pavanello
2007). Questi due ambienti sono presenti in ogni abitazione e tutti vi si riferiscono in
questi termini.
L'accesso alla camera da letto è riservato a pochi intimi, mentre l'asalo è il luogo dove
si ricevono i visitatori. suakunlu abusua ed asalo abusua vanno a designare l'insieme
delle matrilinee legittime e quello che comprende le linee illegittime derivanti da schiave
o da persone adottate. La differenza tra questi due livelli è data dal fatto che gli
appartenenti ai rami illeggittimi non "mangiano l'agya", ossia non possono usufruire
dell'eredità della famiglia (Pavanello 2007).
Ne "Il segreto degli antenati", Pavanello mette in discussione la sovrapposizione
operata dagli antropologi italiani, che da Grottanelli in poi hanno fatto coincidere i
concetti di suakunlu abusua e di asalo abusua con le tradizionali categorie
antropologiche di lignaggio e clan (Pavanello, 2007).
Per quanto una simile problematizzazione si renda necessaria, questa non può essere
affrontata nei limiti di una breve introduzione alla struttura sociale Nzema.
Nel corso di questa presentazione quindi, utilizzerò il termine abusua per riferirmi ai
tradizionali gruppi di discendenza all’interno dei quali i loro membri riconoscono avere
un' ancestrale antenata in comune, ma che non sono necessariamente legati da stretti
vincoli di parentela, e il più specifico suakunlu abusua in riferimento ai gruppi di
persone discendenti in linea uterina dalla stessa riconosciuta antenata e nei quali sia
possibile stabilire con precisione le relazioni genealogiche tra gli individui appartenenti
allo stesso.
All'interno di ciascun suakunlu abusua viene eletto un capo denominato abusua kpanily
(grande) che ha, tra gli altri, il compito di rappresentare i suoi membri davanti alla
comunità.
Per quanto riguarda le norme di alleanza matrimoniale, a livello di abusua non è
riscontrabile la norma esogamica che viene invece osservata a livello di suakunlu
abusua.
Per quest'ultimo va inoltre osservato che, stabilita un'alleanza matrimoniale tra due
suakunlu abusua, nessun altro vincolo di tale natura potrà essere contratto tra i loro
112
membri. Gli appartenenti a un medesimo suakunlu abusua sono detti genericamente
mmusuanli e si riferiranno l'uno all'altro a seconda dei legami di parentela esistenti tra
loro.
Viceversa gli appartenenti al medesimo abusua si riconosceranno, indipendendemente
dall’età, come fratelli (adiema pl. Mediema). I sette tradizionali gruppi di discendenza
quindi, pur non avendo alcuna funzione sul piano politico e sociale, conservano
comunque un certo valore simbolico.
La zona, come sopra accennato, è divisa in tre aree tradizionali di origine precoloniale,
ognuna delle quali è sottoposta all'autorità di un capo supremo (Twi:ɔmanhene).
Il potere tradizionale (chieftaincy) è stato istituzionalizzato dalla costituzione del 1992,
ma già in epoca coloniale godeva di riconoscimento da parte del governo
inglese(Pavanello, 2002).
L'autorità tradizionale poggia sulla base di memorie orali, secondo le quali i sette
abusua occuparono gradualmente il territorio nel corso di flussi migratori insediandovisi
per primi.
Ogni porzione di territorio fu dunque originariamente presa (o perchè non popolata o in
seguito a uno scontro con popolazioni che si trovavano in loco) da una parte dei sette
abusua che vi si stabilirono, acquisendone il possesso in modo permanente.
Questi primi abitatori disboscarono la terra, rendendola adatta alla coltivazione.
Successivamente, altri membri dello stesso o di differenti gruppi di discendenza vi si
insediarono ed ebbero in usufrutto porzioni di terra per il loro sostentamento.
In accordo con queste memorie, ciascun gruppo portò con se degli elementi che
sarebbero diventati i loro simboli distintivi. Ogni villaggio ha il suo mito di fondazione
e, a partire da questi racconti dell'origine, si sviluppano le linee di successione
legittimate a esercitarvi il potere il cui simbolo è l'ebia (seggio).
Materialmente questo consiste in un piccolo seggiolino ricavato, intagliandolo in un
pezzo unico, dall' albero emenle, mentre lo spirito incorporato in esso, ha il potere di
regolare le vicende tra gli uomini che sono sotto la sua influenza.
L'autorità si manifesta soprattutto in due aspetti: quello della giustizia locale e quello
riguardante il diritto sulle terre.
Si è sopra accennato al fatto che il capo supremo di ogni area tradizionale sia
113
l'ɔmanhene, ma questo non è l'unico livello in cui il potere tradizonale trova
espressione.
Ogni città è infatti subordinata al potere dell'ɔhene (pl. ahene), cui ci si rivolge
generalmente con l'appellativo nanà (nonno) fatto seguire dal nome della città stessa.
Costui è scelto tra i discendenti in linea uterina dell’originario gruppo che per primo
prese possesso del territorio. Questo significa che i suoi figli non potranno mai aspirare
a tale carica in quanto appartenenti per nascita al suakunlu abusua della loro madre.
Per ogni nanà c'è una corrispondente figura femminile denominata ahemaa (tradotto in
inglese col termine queen mother) che è la depositaria ufficiale delle memorie
genealogiche e dinastiche.
Generalmente sorella o nipote dell’ɔhene, essa può essere scelta dagli anziani della
famiglia o nominata direttamente da colei che la precede nell'incarico.
La sua opinione, assieme a quella dell' abusua kpanily, è determinante nella scelta del
nuovo nanà ed è sempre lei che può scegliere di destituirlo qualora non si mostrasse
all'altezza del suo compito o nel caso adottasse comportamenti inappropriati.
Queste figure compongono il Traditional Council con competenze giuridiche tradizionali
riconosciute dalla legge. In ogni villaggio è presente inoltre la figura del tufuhene, la
cui carica è generalmente elettiva.
Questo, oltre ad essere il capo dell' asafo (compagnia militare), ha il dovere di
amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà, col quale i rapporti possono
essere di collaborazione o di antagonismo.
2.2 Fort Apollonia
La scelta di ubicare un museo nei locali di un forte coloniale britannico è
particolarmente significativa e se da un lato è legata alla volontà, da parte del Ghana
Museum and Monument Board (l'istituzione ghanese che ha l’incarico di custodire e
gestire i forti presenti sulle coste), di patrimonializzazione dello stesso, dall’altro si
allaccia ai rapporti che nel corso di oltre cinquant'anni di ricerche sono intercorsi tra la
MEIG39 e la popolazione locale.
39
La Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) è stata la prima missione etnologica, a carattere interdisciplinare,
realizzata nel nostro paese. Prese avvio con le ricerche di Vinigi L. Grottanelli tra gli Nzema del Ghana (1954 - 1976), ed
ha ripreso le sue attività dal 1989 con le ricerche di Mariano Pavanello ed altri studiosi. La MEIG, nella sua prima fase,
ha avuto la sua sede nell'Università di Roma dove Vinigi L. Grottanelli ha ricoperto la prima cattedra di Etnologia
114
Dalla fine degli sessanta fino al 2001, il forte è stato la sede dei ricercatori italiani,
configurandosi in un certo senso come il simbolo dell’isolamento di una parte di questi,
piuttosto che come immagine dell'incontro tra due mondi.
Se la realizzazione di un museo sulla cultura nzema vuole essere anche figlio della
fondamentale pratica antropologica della restituzione, collocarlo negli ambienti della
fortezza significa favorirne la riappropriazione (forse sarebbe più corretto parlare di
appropriazione) da parte della popolazione locale.
Il Castle, come è chiamato dagli abitanti della zona, fu costruito dagli inglesi nella
seconda metà del 700 e, come tutti i forti di origine coloniale, aveva prevalentemente
funzioni di difesa e di controllo dei traffici commerciali (prevalentemente oro schiavi ed
armi, ma anche materie prime come legnami pregiati e avorio).
I primi europei a giungere in Africa Sud-occidentale furono i portoghesi (9 febbraio
1471).
Questi battezzarono Cabo de Santa Apollonia (dal nome della santa del giorno) il
piccolo promontorio al quale erano approdati.
Gli europei, interessati all’oro dell’impero ashanti, costruirono numerose fortezze
militari lungo tutta la Costa d'Oro.
Nella seconda metà del 500, l'Olanda si impadronì di tutte le piazzeforti portoghesi,
trasformando la zona nel più importante nodo della rete di tratta degli schiavi in Africa
occidentale.
Oltre
agli schiavi, ad essere oggetto di commercio erano prevalentemente oro e
tabacco. Nel frattempo altri attori si erano inseriti nel complessivo scenario coloniale.
Tra questi i francesi, che si insediarono nell'attuale Costa d' Avorio, e gli inglesi.
Nel 1750 Amihya Kpanyinli, un capo locale entrato in conflitto con gli olandesi per il
controllo dei traffici costieri, cercò l'appoggio della Gran Bretagna e mise a disposizione
il Cape Apollonia per la costruzione di un bastione di difesa.
Questo fu eretto tra il 1765 e il 1771 e prese il nome di Fort Apollonia.
istituita in Italia. Nella seconda fase, sotto la direzione di Mariano Pavanello, la sede della MEIG è stata l' Università di Pisa
dal 1989 al 2004. Dal 2005, la Missione è di nuovo incardinata nella Sapienza Università di Roma, dove M. Pavanello è
stato chiamato a succedere al suo maestro. La MEIG ha recentemente esteso i propri interessi nella regione Ashanti, dove,
con la collaborazione del Prof. Kwame Arhin, sono in corso ricerche etnologiche e storiche. Inoltre, dal 2008, sono state
avviate ricerche anche in Mali.
115
Nel 1867, il conflitto anglo-olandese terminò a vantaggio della Gran Bretagna che
l’anno successivo abbandonò il forte.
Gli anni seguenti videro gli inglesi impegnati in un conflitto con la confederazione
ashanti che aveva inflitto delle offensive militari ad alcuni alleati britannici.
Poiché il forte si trovava nel territorio degli nzema, alleati degli ashanti, fu bombardato
dagli inglesi nel 1873. Il conflitto terminò l'anno successivo con l'occupazione di Kumasi
e la proclamazione della colonia della Costa d’Oro.
Il Ghana è stata la prima colonia europea a raggiungere l'indipendenza nel 1957.
Nel 1960 fu proclamata la repubblica presidenziale sotto lo nzema Kwame Nkrumah.
Agli inizi degli anni 60, il GMMB (Ghana Museum and Monument Board), approvò il
restauro della struttura che lo stesso Nkrumah voleva vedere trasformata in
monumento nazionale.
I lavori furono portati a termine nel 1968. Durante gli anni 70 nei suoi locali fu costruita
una guest house che ospitò gli studiosi della MEIG fino al 2001, anno in terminò la
convenzione stipulata tra la missione e il GMMB.
In quello stesso anno, il GMMB chiese sostegno all'università di Pisa e all'ONG
toscana "Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti" (COSPE), per la
realizzazione di un Museo sulla cultura nzema nei locali del Forte.
Nel 2010 fu necessario un nuovo restauro. Durante un'analisi preliminare infatti la
struttura fu trovata in condizioni di pesante degrado dovute all'azione degli agenti
atmosferici.
Nell'Ottobre del 2010 è stato ufficialmente inaugurato il Fort Apollonia Museum of
Nzema Culture and History.
2.3 Un progetto di valorizzazione integrale
Il progetto basa la sua strategia di intervento sul riconoscimento che le popolazioni
nzema dispongono di un importante patrimonio naturale, sociale, culturale e storico,
che ne determina la coesione sociale.
Tale patrimonio è sempre più minacciato da un insieme complesso di fattori quali: lo
sfruttamento indiscriminato delle risorse; le nuove domande e nuovi bisogni legati al
processo di modernizzazione; la mancanza di partecipazione delle comunità nei
116
processi decisionali e gestionali legati al proprio territorio; la carenza di sbocchi
occupazionali e conseguenti fenomeni migratori vero i grandi centri urbani; la
mancanza di adeguati investimenti per lo sviluppo degli insediamenti rurali.
La tutela del patrimonio naturale e culturale delle comunità nzema rappresenta quindi il
primo passo verso la difesa della loro memoria storica e collettiva e delle loro risorse.
Al tempo stesso la valorizzazione di tale patrimonio può rappresentare un’opportunità
di sviluppo, favorendo l’accesso a più elevati livelli di consumo e di benessere, e
un’accresciuta consapevolezza delle risorse e delle potenzialità del proprio territorio.
Il primo “obiettivo generale consiste (quindi) nel migliorare le condizioni materiali delle
comunità locali attraverso la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale
come forma di reddito e nell'ottica di uno sviluppo eco-compatibile ed autosostenibile”40.
Il paese non si trova ancora nelle condizioni per poter valorizzare in maniera adeguata
le proprie risorse e cogliere così le opportunità di sviluppo socio-economico che il
turismo può offrire.
Tra i vari problemi con i quali occorre fare i conti si annoverano, la precaria situazione
igenico-sanitaria, la mancanza di adeguate strutture di ricezione turistica (in particolare
al di fuori della capitale e nelle aree rurali), l’erogazione di acqua ed elettricità
insufficiente e discontinue.
Inoltre la distribuzione dei benefici economici derivanti dal settore del turismo è limitata
nelle mani di pochi. E le popolazioni locali sono spesso rimaste escluse dalla maggior
parte dei profitti derivanti dallo sviluppo del settore turistico ed eco-turistico.
Le aree rurali inoltre soffrono della mancanza o inadeguatezza di infrastrutture
produttive, soprattutto legate all’agricoltura, magazzini, mercati e strade.
La realizzazione di una struttura museale aperta al territorio circostante e la creazione
di percorsi eco-turistici, unita all’implementazione di attività culturali e a forme di
accesso a microfinanziamenti, rispondono alla duplice esigenza, da un lato di
promuovere, soprattutto tra le nuove generazioni, la conoscenza e il rafforzamento
della propria cultura, dall’altro di porre la stessa alla base di attività generatrici di
reddito.
40
Riferimento diretto al documento di progetto elaborato dal COSPE nel settembre 2005.
117
Il criterio informatore della pianificazione e attuazione operativa del progetto si basa
dunque sulla volontà di inquadrare il patrimonio, ambientale e culturale, in un’ottica di
gestione integrata e partecipata affinchè questo sia posto al servizio delle comunità
locali che ne sono depositarie e che lo mantengono in vita.
Di particolare importanza per la realizzazione del progetto è stata l’adesione allo stesso
da parte del GMMB (Ghana Museum and Monument Board) e della National
Commision on Culture.
In base al dettato costituzionale, la National Commission on Culture, istituita nel 1990,
rappresenta il massimo organismo deliberativo, di supervisione e controllo sulle altre
istituzioni culturali, tra i quali il Ghana Museums and Monuments Board.41
Il National Museum Decree del 1969, riconosce allo stesso l’autorità di dichiarare
monumento nazionale ogni monumento di proprietà statale e di disporne secondo le
modalità giudicate più opportune per la sua conservazione e valorizzazione.
Nel 1972 è stato pubblicato il decreto esecutivo in base al quale una serie di forti e
castelli, tra cui Fort Apollonia, sono stati proclamati monumenti nazionali.42
Durante lo studio di fattibilità del progetto, il GMMB ha mostrato la sua volontà di
raggiungere un accordo con le strutture di potere tradizionali (Western ed Eastern
Nzema Traditional Councils) per l’uso del Forte come centro di sviluppo locale a
gestione comunitaria.
A tale proposito è stato firmato un accordo di impegno e collaborazione tra le ONG
promotrici (Cospe e GWS), le autorità tradizionali, le amministrazioni locali e le
istituzioni governative (GMMB e Commission on Culture) che hanno costituito un
comitato di supervisione sulle attività del progetto.
Oltre queste fondamentali collaborazioni, un altro elemento a favore dell’accoglimento
della proposta è stato determinato dal fatto che questa si è collocata in un clima
propenso a cogliere le possibilità offerte dall’interazione tra sviluppo locale e patrimonio
culturale.
Per quanto riguarda l’attività di consultazione scientifica, tra le istituzioni coinvolte a
livello nazionale, possiamo citare la University of Science and Technology, Kumasi, e il
Center for Science and Industrial research, Accra, per la consulenza sulla raccolta e
41
42
ivi
ivi
118
conservazione dei campioni di flora e fauna nell’allestimento del museo.
In Italia, relativamente alle attività di consulenza e attuazione del progetto sono state
invece coinvolte: l’Università degli Studi di Pisa e il Dipartimento di Ingegneria civile,
per la realizzazione della progettazione esecutiva e per consulenza sui lavori di
restauro di Fort Apollonia; la Missione Etnologica Italiana in Ghana, per le ricerche
etnologiche e storiche sul territorio e la cultura nzema e per l’allestimento del museo; i
vari attori della cooperazione decentrata toscana (Provincia di Pisa, Comune di
Peccioli, Associazione Ghanese di Prato, regione Toscana) coinvolti negli ultimi anni
nelle iniziative di scambio e collaborazione con il territorio nzema.
Nella progettazione e realizzazione del Museo, i vari punti di vista, (italiani e ghanesi,
ma anche istituzionali e tradizionali) si sono confrontati dando vita ad un’esperienza di
patrimonializzazione condivisa.
Con questo termine non ci si riferisce a costruzioni prive di conflitti e resistenze, bensì
all’azione di mediazione tra universi semantici differenti, portata avanti da singoli
“traghettatori culturali”, in un
processo dialettico caratterizzato da una reciproca
appropriazione di concetti e immaginari che si caricano continuamente di significati
nuovi, imprevisti e almeno in parte inediti 43.
Altra fondamentale peculiarità della proposta portata avanti risiede, come già
accennato, nel porre il patrimonio al servizio dello sviluppo locale.
Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History nasce quindi come centro di
sviluppo comunitario, intorno e attraverso il quale promuovere iniziative volte a favorire
il rafforzamento delle capacità di promozione economica, sociale e culturale delle
popolazioni dell’area nzema.
Tale assunzione di fondo si è concretizzata nella scelta strategica di promuovere la
creazione di una struttura museale intesa come punto focale di un programma più
ampio di promozione dell’eco-turismo nell’area.
Questo è stato assunto dal progetto come trampolino per la crescita e la qualificazione
di altre attività generatrici di occupazione e di reddito per le comunità, in particolare
quelle legate all’accoglienza turistica e alla produzione artigianale.
L’obiettivo finale è quindi di attirare visitatori stranieri e ghanesi in una struttura pensata
43
http://www.formazione.univr.it/documenti/Seminario/documenti/documenti870633.pdf
119
e realizzata in costante collegamento col territorio e la cultura dell’area, i cui beneficiari
principali rimarranno comunque le comunità rurali dei villaggi circostanti, sia per quanto
riguarda gli introiti derivanti dall’eco-museo e dalle attività economiche indotte
(dall’artigianato alla ristorazione, dalle guide ai trasporti, dalle manifestazioni culturali
all’organizzazione di soggiorni turistici), sia per le attività di promozione culturale,
educazione ambientale e miglioramento della qualità della vita.
La stretta connessione tra gli aspetti di tutela e di valorizzazione risponde ad un
approccio di sviluppo locale sostenibile che collega la creazione di nuove opportunità di
sviluppo alla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale delle comunità.
Il Fort Apollonia Museum vuole infatti rappresentare uno strumento che possa
consentire alle comunità locali di partecipare in prima persona alla valorizzazione del
patrimonio culturale e ambientale di un territorio a forte vocazione turistica, traendone
adeguati benefici economici ed occupazionali e limitando il monopolio di sfruttamento
delle risorse turistiche dei grandi operatori turistici.
La sfida principale consiste nel salvaguardare quella linea di confine che separa una
istituzione culturale redditizia, gestita e fruita dalle comunità locali, da una mostra
mercato di carattere folkloristico ad uso prevalentemente o esclusivamente turistico.
Ecco perché accanto a strategie di redditività, rimangono centrali spazi culturali ed
educativi, con strumenti e strutture di informazione, ricerca e divulgazione.
2.4 Il Museo
Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History non può essere ricondotto alle
esperienze di musei etnografici occidentali o a quelle degli eco musei o musei del
territorio. Esso si pone piuttosto come un’esperienza ibrida, che tenta di coniugare
armonicamente i tre diversi aspetti della sua missione dichiarata44:
Rappresentare un riferimento culturale, simbolico e storico per la popolazione locale
nonché per la preservazione della sua lingua e cultura. Fornire in special modo alle
generazioni future gli strumenti per il rafforzamento della loro cultura; promuovere la
conoscenza e la tutela del territorio.
Sviluppare una migliore consapevolezza all'interno della collettività, della sua
44
Per la missione del museo faccio riferimento diretto al Project Proposal Final, redatto da Mariano Pavanello,
Mariaclaudia Cristofano e Stefano Maltese nel dicembre del 2009
120
importanza
strategica attraverso la creazione di una rete di percorsi ecoturistici e
specifici programmi di educazione ambientale.
Essere il luogo della restituzione da parte degli studiosi della MEIG che, nel corso degli
anni 1954-2009, hanno condotto le loro ricerche storiche ed etnografiche: un luogo
dove condividere con le popolazioni locali i risultati delle loro ricerche.
Le varie anime del museo (culturale, storica, naturalistica) sono state pensate come in
dialogo costante tra loro e in questa direzione si è mosso l’impianto allestitivo.
Le installazioni e i pannelli esplicativi sono il frutto dell’incontro dei diversi punti di vista
della popolazione locale e dei ricercatori italiani.
Un altro tipo di sguardo viene coinvolto nel percorso museale e cioè quello del
visitatore. L’esposizione è infatti concepita in modo che egli sia stimolato a percepire i
diversi aspetti rappresentati, come un tutto nel quale trovare connessioni piuttosto che
come settori differenziati che pretendano di esaurire un discorso a sé stante.
All’esibizione permanente, che è comunque suscettibile di futuri arricchimenti o
modifiche, andranno accompagnati allestimenti temporanei per i quali è stato
predisposto un apposito spazio.
Il museo e le sue attività di connessione con il tessuto culturale e ambientale, sono
comunque da intendersi come il punto di partenza di un discorso in divenire, che non
dovrebbe mai considerarsi chiuso del tutto.
Appena si accede alla coorte esterna, dove sono collocati gli stand degli artigiani, un
cartello di akwaba (benvenuto in nzema) accoglie il visitatore.
Sempre nello stesso spazio, sono illustrate le formule di saluto nzema, aspetto molto
importante delle relazioni quotidiane. Nell’attraversare la soglia che introduce alla
coorte interna, il museo dichiara la sua amaneε (missione), la quale sarà a sua volta
chiesta al visitatore nel passaggio immediatamente successivo.
L’amaneε è una componente essenziale nell’universo relazionale nzema; essa è la
dichiarazione dei motivi di una visita, senza tale dichiarazione è come se non esistesse
l’interrelazione. Al visitatore viene quindi dichiarata la propria missione e gli viene
chiesto di scrivere su un apposito registro il motivo della propria visita.
In questo modo il dialogo può avere inizio.
Non si vuole qui dare una descrizione dettagliata dell’esposizione, ma rendere conto
121
dei criteri che soggiacciono alla sua realizzazione, facendo qualche riferimento
all’impianto allestitivo.
Per quanto riguarda l’aspetto storico del museo, occorre tenere presente che in esso
sono state considerati sia l’approccio storiografico di matrice occidentale, che la
concezione tradizionale di derivazione orale.
Le fonti di archivio degli studiosi occidentali sono state utilizzate per illustrare i rapporti
intercorsi tra le popolazioni nzema e gli occidentali a partire dall’epoca precoloniale e
per rendere conto della storia del forte nei suoi rapporti con le popolazioni akan e con
quelle europee.
Nel medesimo spazio è stata realizzata la mappa del villaggio di Beyin allo scopo di
rispondere a una triplice esigenza: contestualizzare ulteriormente il forte (e il visitatore
che si trova al suo interno) in rapporto allo spazio circostante; fornire un quadro
generale della presenza, in loco, dei vari abusua; essere un luogo dove gli abitanti del
posto possano riconoscersi individuando la propria e le altrui abitazioni anche
attraverso una serie di punti di riferimento.
Si opera, in questo modo, una connessione tra l’approccio storiografico e quello
tradizionale legato all’usufrutto delle terre, trasmesse tradizionalmente all’interno dei
suankulu abusua.
Per quanto riguarda invece il possesso delle terre si apre una questione più delicata
che si lega alla legittimità del seggio regnante.
Si è detto di come i diritti di proprietà di un seggio poggino su memorie tramandate
oralmente e questo comporta talvolta l'insorgere di controversie riguardo alla legittimità
del potere in carica.
E' significativo a questo proposito segnalare quanto esposto da Stefano Maltese nel
corso di un convegno su i patrimoni africani tenutosi all' Università La Sapienza di
Roma, nel mese di aprile 2010.
Nel corso dei suoi colloqui con i capi intorno alla realizzazione del museo, egli si è
sentito più volte dire quanto la musealizzazione di Fort Apollonia fosse di cruciale
importanza, soprattutto per la risoluzione delle controversie in merito alle proprietà dei
seggi.
La loro attenzione era ed è concentrata soprattutto sulla funzione dell’archivio come
122
luogo della verità: testimonianza incontrovertibile in grado di fissare una volta per tutte i
diritti sui propri seggi.
Ho potuto riscontrare io stessa questo tipo di atteggiamento durante la fase di
rilevazione topografica per la realizzazione della mappa. Nei miei discorsi con Noel, la
guida che mi accompagnato anche nel corso dell’indagine preliminare sulle regine
madri, è saltata fuori una questione interessante; infatti nella sua mente era da tempo
maturata la convinzione che la mappa sarebbe stata registrata in qualche ufficio della
capitale e avrebbe sancito una volta per tutte la proprietà delle concessioni, ponendo
fine alle liti e alle occupazioni abusive che nel corso degli anni continuavano a
riproporsi.
Così come i capi vedono nel museo-archivio una fonte di verità storica sulla proprietà
delle terre, Noel aveva creduto che una rappresentazione cartacea delle concessioni
avrebbe avuto valore testimoniale.
Tradizioni tramandate oralmente e approccio occidentale di registrazione della storia
coesistono, non solo idealmente nel museo, ma nella mente stessa di coloro i quali di
queste memorie sono i portatori. Essi mostrano tutta la flessibilità del loro universo
culturale aprendosi a uno strumento estraneo alla tradizione ai fini di legittimarla.
Occorre a questo punto aprire una parentesi in merito al discorso dell’archivio che al
momento è in fase progettuale. L’idea è quella di creare due archivi differenziati:
l’archivio del museo conterrà il corpus di testi e documenti prodotti dagli studiosi italiani
(tradotti in lingua inglese e auspicabilmente in futuro anche in Nzema), le foto e il
materiale audio e video raccolto sul campo mentre l’archivio richiesto dai capi conterrà
le storie dei seggi e queste dovranno periodicamente essere verificate ed approvate
dai traditional councils.
Nell’esibizione sui miti di fondazione dei villaggi vengono mostrati una serie di lavori
realizzati dai bambini delle scuole primarie delle zone interessate.
In uno dei programmi di collaborazione con le scuole, un artigiano locale ha raccontato
alle classi la storia della nascita dei loro luoghi. Dopo averla ascoltata i bambini erano
invitati a rappresentarla, disegnando o utilizzando materiale prevalentemente locale
come rafia, legno e erba.
Il discorso sulla chieftaincy intende mostrare sia l’organizzazione politica, attraverso
123
pannelli che hanno richiesto l’approvazione delle autorità tradizionali, sia i simboli legati
alla regalità, come i seggi e i simboli dei rispettivi gruppi di discendenza.
Nel medesimo spazio sono stati ubicati inoltre i pannelli recanti informazioni sul
sistema di discendenza matrilineare, secondo il modello elaborato dagli studiosi italiani
ed approvato dalle medesime autorità di cui sopra.
Alla medicina tradizionale è dedicata una sala a parte destinata ad illustrare tre
particolari categorie di professionisti nel trattamento della sofferenza: il ninsilima(una
sorta di erborista), l’ahomenle (figura legata al culto di divinità locali) e l’asofo
(sacerdoti della setta dei water carriers).
Tutte queste pratiche sono messe in relazione con la diffusione della medicina
occidentale. Tra gli nzema la sofferenza del corpo e della mente è sempre associata
all’infrazione di un norma e a una componente di disordine.
La cura è quindi un processo articolato la cui complessità è espressa dalla varietà delle
opzioni terapeutiche disponibili.
Per quanto riguarda l’illustrazione della biodiversità e delle attività economiche
connesse ai differenti ambienti, un’apposita sala è stata dedicata ai risultati degli studi
della Ghana Wildlife Society.
A questi aspetti sono stati inoltre connessi i processi di trasformazione del cibo illustrati
attraverso una serie di fotografie scattate da una studentessa italiana nei mesi
precedenti l’inaugurazione.
Uno dei punti della missione del museo sottolinea la volontà di illustrare le potenzialità
insite nella varietà del territorio nzema.
Alla descrizione dell’ecosistema e alle campagne di educazione ambientale da
condursi nelle scuole, sono stati affiancati dei percorsi eco turistici.
Questi non si limitano ad essere sentieri, ma si configurano come appendici del museo
attraverso le quali il visitatore può osservare con i propri occhi le informazione ricevute
nel museo.
Si può qui riportare a titolo di esempio la percorrenza già attiva che interessa la tratta
Beyin (Forte Apollonia) – Nzulezu – Mienda.
Il programma prevede la visita a Nzulezo, un villaggio interamente costruito su palafitte
che è situato all’interno della “Amansuri Community Nature Riserve” a circa 5 Km da
124
Beyin, con una popolazione di 500 abitanti.
Il villaggio consiste in un camminamento centrale in rafia e legno, lungo il quale sono
disposte circa 25 capanne ed è raggiungibile solo in canoa da Beyin.
In questo tragitto è possibile ammirare la laguna situata nella riserva e la sua flora,
visitare il villaggio ed entrare a contatto con la piccola comunità, le sue attività
economiche (pesca, distillazione del gin locale, coltivazione di rafia) e sociali (la scuola,
la casa dello “spirito del lago”).
Da Nzulezo è possibile visitare il Lago Sacro di Mienda, situato nella foresta retrostante
il villaggio. La zona del lago, densa di mitologia e spiritualità tradizionali, è anche
popolata da coccodrilli e scimpanzé.
Altri percorsi riguardano l’osservazione, a seconda delle stagioni, della fauna locale,
ma ne sono previsti altri di vocazione non spiccatamente naturalistica e che riguardano
gli altri aspetti trattati nel museo come ad esempio quelli collegati alla vita spirituale
della comunità.
Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History quindi, non è una struttura
chiusa in sé stessa, ma si apre verso l’esterno, attraverso un insieme di percorsi
turistici nell’area geografica e culturale del territorio, che vive di tutte quelle attività
culturali e tradizionali proprie delle comunità locali.
Il museo quindi costituisce solo il punto di partenza (o di ritorno) per l’esplorazione del
territorio, offrendo gli strumenti di conoscenza e le chiavi di lettura (oggetti, documenti
grafici, testi e fotografie) del patrimonio naturale, culturale e storico.
E questa funzione di rendere visibili i nessi storici, culturali e ambientali che
sottintendono il patrimonio e la vita di un territorio, è rivolta sia ai visitatori che alle
comunità locali.
2.5 Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempi
Qualche parola in più va spesa per i progetti legati allo sviluppo locale tramite le attività
connesse al museo. Oltre alle fonti di reddito derivanti dalle attività di ricezione turistica
e di ristorazione sono previste iniziative volte a rafforzare l’associazionismo culturale e
la piccola imprenditoria artigianale.
Per quanto riguarda il primo punto va segnalata la presenza di tre gruppi tre gruppi
125
culturali giovanili nell’area: a Beyin, Nzulezu e Megyina.
Questi gruppi costituiranno la base per un programma di formazione tra pari per la
diffusione dei saperi tradizionali attraverso la promozione di altri gruppi culturali
giovanili e di attività nelle scuole. Festival e manifestazioni artistiche tradizionali
saranno promossi nei locali del Forte e nelle aree limitrofe del potere tradizionale,
come l’Ahenfie (l’antico palazzo del re).
Gli eventi culturali saranno promossi attraverso la realizzazione di filmati e depliant, la
realizzazione di articoli sui principali quotidiani nazionali e servizi sulla rete pubblica
nazionale. Saranno ricercate collaborazioni con agenzie di turismo per promuovere
l’organizzazione di tour guidati o pullman speciali in occasione dei festival e delle più
importanti cerimonie tradizionali.
In questo modo la valorizzazione diffusione del patrimonio immateriale nzema sarà
coniugato alla promozione turistica.
Il rischio di una eccesiva strumentalizzazione economica dei saperi tradizionali può
essere contenuto attraverso i seminari previsti. Questi infatti oltre a migliorare le
tecniche esecutive contribuiranno ad approfondire i contenuti veicolati dal corpus di
conoscenze trasmesse. Un’attenzione particolare è stata rivolta all’artigianato locale.
Il progetto ha inteso (e intende) infatti sostenere la produzione ed esposizione di
manufatti artigianali locali per la trasmissione del sapere tecnico-artistico e la sua
promozione economica.
Nella corte esterna, come già riferito, sono presenti stand per la vendita delle
manifatture locali. Ancora più importante è l’intenzione di promuovere dei laboratori di
produzione artigianale aperti al pubblico. Tali laboratori saranno affidati ad artigiani
nzema, sulla base di progetti che dovranno essere presentati ad una apposita
commissione. Le proposte saranno valutate sulla base della loro sostenibilità
economica, originalità e sbocchi di mercato, ma anche ponendo attenzione al genere e
alle fasce più svantaggiate della popolazione (giovani disoccupati, donne, etc).
Sarà inoltre possibile per gli artigiani ottenere macchinari di base, usufruendo delle
agevolazioni di credito per i piccoli imprenditori messi a disposizione dal progetto.
Per migliorare e rendere più efficienti, tecnicamente ed economicamente, le capacità
produttive degli artigiani, saranno organizzati specifici moduli formativi relativi a tutte le
126
fasi di produzione e vendita: dall’ideazione del prodotto, alle più appropriate tecniche di
realizzazione, alla presentazione del prodotto per la vendita (cataloghi).
Una prima sperimentazione di tali corsi si è avuta durante i lavori di allestimento del
Museo. Un gruppo di artigiani locali, hanno partecipato ad attività formative retribuite
contribuendo in modo decisivo alla realizzazione della struttura.
I futuri corsi di formazione saranno pianificati e realizzati in collaborazione con ATAG
(Aid to artisans in Ghana), un’organizzazione ghanese specializzata nel supporto
all’artigianato artistico tradizionale. Saranno anche organizzati periodi di stage con
imprese qualificate per l’apprendimento o il miglioramento delle tecniche di produzione.
I prodotti saranno rivolti ad un mercato locale, in cui gli acquirenti potranno essere i
turisti in visita al Forte e alla Riserva, i visitatori in occasione di festival e cerimonie
tradizionali, ma anche le popolazioni locali, come i capi tradizionali per stools (i seggi
dei capi) e bastoni del potere tradizionale, o le donne per cesti e ornamenti femminili.
Saranno comunque sfruttate le occasioni di festival e ricorrenze tradizionali per allestire
particolari esposizioni e fiere.
Inoltre, sempre in collaborazione con ATAG, saranno selezionati i prodotti di qualità
migliore per tentare il loro inserimento nel mercato nazionale, attraverso i punti vendita
gestiti dalla stessa associazione e in corrispondenza delle principali attrazioni
turistiche. I prodotti di successo e più innovativi saranno poi inviati da ATAG a fiere ed
esposizioni internazionali. Saranno infine esplorati in Italia i canali del mercato equo e
solidale per l’esportazione dei prodotti artigiani.
Uno dei problemi principali denunciati dai piccoli imprenditori dell’area è la mancanza di
capitali per avviare o espandere attività economiche.
E’ stato quindi istituito un fondo rotativo di microcredito al quale potranno avere
accesso sia piccoli imprenditori che vogliono espandere attività economiche esistenti
sia nuovi imprenditori che intendono avviare attività generatrici di reddito nell’area.
Le modalità di erogazione del credito e i criteri di eleggibilità sono stati identificati
attraverso uno studio effettuato nel corso del 2002 dalla Ghana Wildlife Society.
Secondo quanto stabilito, i gruppi che saranno selezionati dovranno presentare un
progetto imprenditoriale, sia tecnico che finanziario.
Saranno inoltre sovvenzionati soltanto proposte finalizzate alla creazione o allo
127
sviluppo di attività economiche legate alla valorizzazione delle risorse locali.
Infine, come per i laboratori, i progetti saranno valutati in base a criteri di compatibilità
ambientale, promozione di fasce svantaggiate della popolazione e sostenibilità
economica.
Da quanto esposto l’immagine di un museo, come centro promotore di uno sviluppo
locale integrato e sostenibile, si delinea in modo più definito.
Lo sviluppo integrato va inteso come sviluppo umano in tutta la sua complessità, dove
le componenti ambientali, culturali e sociali sono considerate come interconnesse ed
interdipendenti, e questo risulta in piena armonia con la missione stessa del Museo.
Per quanto riguarda la sostenibilità generale del progetto, questa è assicurata dal fatto
che si inserisce nel quadro della promozione di un settore, come quello turistico, in
forte crescita a livello internazionale e nazionale ed ormai fondamentale per lo sviluppo
economico del paese.
Inoltre lo sviluppo sostenibile coniuga la possibilità di crescita economica alla tutela e
salvaguardia del patrimonio delle comunità locali, favorendo la loro capacità di gestire
ed assorbire le novità introdotte.
In siffatto panorama, le possibilità di porre le donne come tra gli attori principali cui
sono rivolte le politiche di sviluppo è di prioritaria importanza.
Esse costituiscono infatti una fondamentale risorsa economica per la società nzema,
ma non godono di grande autonomia.
Esse sono dedite all’agricoltura, ai processi di trasformazione e vendita del cibo e alle
attività commerciali. Inoltre la loro abilità nella produzione di stoffe tessute e dipinte a
mano potrebbe essere considerato un punto di forza da valorizzare e inserire in un
programma volto al rafforzamento della posizione della donna.
Gli ambiti di applicazione artigianale femminile non si limitano alla produzione di
tessuti; esse sono infatti esperte nella realizzazione di cesti ed oggetti in paglia,
ceramica e terracotta tradizionali, gioielleria.
Si intendono qui suggerire solo due dei percorsi percorribili in un'ottica di miglioramento
della condizione femminile: uno legato alla produzione alimentare, l’altro ai tessuti e
agli abiti tradizionali.
Per quanto riguarda il primo punto, va sottolineato il fatto che i flussi turistici
128
generalmente scelgono di usufruire dei punti di ristoro offerti dai resort.
In queste strutture di ricezione, gli alimenti che generalmente vengono proposti non
hanno nulla a che vedere con l’alimentazione locale; si tratta per lo più di prodotti
standard destinati a un consumo globalizzato.
I punti vendita del cibo locale sono pensati per la gente del posto e constano perlopiù
di banchetti e a volte qualche panca. Nel migliore dei casi si ha un tavolo con una
panca coperto da un tetto in rafia.
In linea i massima l’aspetto generale non invita il turista a tentare un approccio verso il
cibo locale. Un programma mirato alla realizzazione di una struttura più attraente
potrebbe incoraggiare l’incontro con la cucina del posto.
Potrebbe trattarsi di un unico spazio, dove qualche accortezza (pentole rialzate rispetto
al terreno, piatti e ciotole in ceramica sistemati in scaffali, etc.), potrebbe aiutare a
superare la diffidenza della gente di passaggio.
Potrebbero anche essere realizzati dei percorsi sulla preparazione del cibo.
I visitatori avrebbero la possibilità di osservare in diretta quanto hanno appreso
all’interno del museo e come culmine del viaggio conoscitivo, scoprire il sapore della
cucina locale.
L’iniziativa andrebbe studiata attentamente, soprattutto nelle ricadute che potrebbe
avere a livello locale.
Infatti quello del pasto è tra gli nzema un momento di condivisione molto importante e
ad esso si lega anche il divieto di utilizzare la mano sinistra nel portare il cibo alla
bocca.
Andrebbero prese quindi le opportune misure affinché queste strutture non risultino
essere un luogo di separazione tra il turista e i locali quanto piuttosto un luogo di un
vero e proprio incontro “a tavola”. I turisti potrebbero camminare tra i vari banchi e
operare una o più scelte tra la molteplicità delle offerte.
Anche in questo caso andrebbe prevista una formazione di base in merito all’offerta di
migliori condizioni igieniche e una presentazione più accattivante del prodotto.
Tali strutture potrebbero essere tra l’altro realizzate facilmente, ricorrendo a materiali
locali come legno e rafia, in molti dei punti interessati dagli altri tipi di percorsi previsti.
Parimenti andrebbe incentivata la circolazione di stoffe prodotte localmente,
129
abbinandole alla possibilità di farsi fare un vestito su misura dal una delle tante sarte
che lavorano nei vari villaggi dell’area.
A questo proposito, andrebbero senz’altro attivati dei corsi di crescita professionale per
rispondere in modo più adeguato alle richieste provenienti da un’utenza piuttosto
esigente.
Tali attività andrebbero dislocate, piuttosto che concentrate, esclusivamente nell’area di
Beyin; in questo modo, il turista interessato a un’abito tradizionale su misura, sarebbe
stimolato ad andare a cercare la sarta locale in uno dei villaggi della zona.
Offrire la possibilità di avere, ad un prezzo tra l’altro irrisorio, il proprio vestito, scelto e
concordato
direttamente,
sarebbe
arricchirebbe
l’esperienza
del
visitatore
e
stimolerebbe il commercio locale.
3 regine madri Nzema e proposta di installazione nel Museo
A questo punto si vuole rendere conto dell’indagine condotta nell’area, e valutare una
possibile installazione all’interno nel museo sulla base dei risultati raggiunti.
Durante la mia permanenza sul campo (luglio-novembre 2010), ho avuto modo di
intervistare otto regine madri nell’area dello Nzema occidentale col proposito di
individuarne funzioni e peculiarità.
Prima di entrare nel merito più specifico dell’indagine, sarà bene richiamare
brevemente l’organizzazione politica della società nzema nel suo insieme.
Come descritto sopra, ognuna delle tre aree tradizionali è retta da un ɔmanhene (capo
supremo).
Ogni città o villaggio di suddette aree è invece subordinata al potere dell'ɔhene (nanà).
Per ognuno di questi capi, incluso l’ɔmanhene, esiste una carica femminile, parallela e
complementare donominata ahemaa (pl. ahemaa).
In accordo col principio della matrilinearità, ognuna di queste cariche viene trasmessa
in linea uterina a coloro i quali appartengono suakunlu abusua che possiede il seggio in
un determinato villaggio o area.
L’abusua kpanily di ogni suakunlu al potere esercita, un ruolo determinante nella
gestione degli affari del trono.
Infine, in ogni villaggio è presente la figura del tufuhene, il quale ha il dovere di
130
amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà.
I miei incontri con le regine madri sono avvenuti sempre per il tramite di Noel, il mio
traduttore, non solo per regioni linguistiche, ma anche per il fatto che nessun incontro
formale può avvenire senza un tramite tra il visitatore e un’esponente del potere
tradizionale.
A questo proposito, occorre precisare che Noel ha costituito un filtro molto forte tra me
e le risposte che mi venivano fornite.
Egli si era convinto di capire cosa io stessi cercando e molte volte sceglieva
arbitrariamente di tralasciare la traduzione di alcune parti del discorso. Parte delle
interviste sono state trascritte in loco alla sua presenza e anche in quei momenti,
nonostante le ripetute raccomandazioni di fornirmi una traduzione che potesse essere il
più letterale possibile, egli riprendeva dopo poco ad operare la sua sintesi personale.
Noel si era in qualche modo appassionato alla questione e mi aveva domandato di
spedirgli un registratore dall’Italia affinché egli avesse potuto continuare le interviste da
solo per poi inviarmi i risultati.
Purtroppo le nostre strade si sono separate in modo frettoloso prima che io potessi
condurre un’intervista sull’idea che egli stesso si era fatto intorno al lavoro che stavamo
portano avanti, e in questo caso, a differenza che per il la mappatura del villaggio di
Beyin, non si era lasciato andare a commenti espliciti.
In diversi casi, le risposte da me ottenute risultano poco chiare o non del tutto incisive.
Risulta difficile stabilire dove finisca la reticenza delle regine madri e dove incominci la
noia o il riserbo di Noel nell’approfondire determinate questioni.
Tali vuoti si sono aperti in special modo nel momento in cui cercavo di approfondire
quali potessero i motivi di litigio tra due o più donne e mi sono più volte domandata se il
fatto che Noel fosse un uomo non abbia portato a un maggior riserbo in merito a
questioni femminili.
Le questioni che ho tentato di affrontare sul campo si possono suddividere in due
macro-ambiti e cioè: un piano sociopolitico e uno che abbraccia la sfera del personale
e della rappresentazione del sé.
Per quanto riguarda il primo livello, si è tentato di individuare quali sono i doveri delle
regine madri, nei confronti del villaggio e del seggio.
131
Questo ambito va ad abbracciare quello della loro selezione e formazione e da ultimo
della cerimonia, in quanto aspetti che si legano al ruolo che le stesse devono svolgere.
La sfera del personale riguarda invece il rapporto che le ɔhema intrattengono con la
propria carica e il modo in cui lo descrivono.
In questo caso, entrano in gioco l’autorappresentazione e le storie di vita di ognuna, il
senso di responsabilità e di fierezza, ma anche la dimensione umana di ogni singola
storia.
Queste categorie sono chiaramente interrelabili, ma si rendono necessarie ai fini di una
maggiore chiarezza espositiva.
Infine, qualche spunto di riflessione mi è stato offerto da conversazioni informali avute
con donne e ragazze dei villaggi di Beyin e Ngherekazo a proposito del loro rapporto
con le regine madri.
3.1 Ambito socio-politico
Il potere tradizionale nzema (e quello akan in generale) è basato su un sistema di
governo che prevede, a ogni livello, una carica maschile e una femminile.
I loro ruoli sono complementari e l’uno non può esistere senza l’altra.
Entrambi devono discendere, in linea materna, dall’abusua che detiene il potere.
Una delle responsabilità prinicipali delle regine madri riguarda la scelta del nuovo
ɔhene ed è anche in questo senso che lei viene considerata madre del re; infatti
raramente tra i due intercorre un legame di tipo biologico.
L’ahemaa è anche colei che conserva la memoria della genealogia del lignaggio reale
fino ad otto generazioni; il suo intervento nella selezione del futuro re garantisce la
purezza della sua linea d’origine.
Infatti, l’elezione di qualcuno che discende da una linea di schiavi incorporata
generazioni addietro nel lignaggio, non sarebbe accettabile.
La selezione del futuro regnante avviene di concerto con l’abusua kpanily(il capo del
suakunlu abusua), il quale deve approvare il candidato da lei proposto.
Questo può opporre due rifiuti, ma alla terza proposta dovrà accettare perché il posto di
un nanà non può rimanere vacante per troppo tempo. Quanto detto vale in linea di
principio, ma spesso capita che la regina madre si lasci consigliare dall’anziano del
132
lignaggio in questa come in altre questioni.
Per quanto riguarda la selezione dell’ ɔmanhene, il procedimento è differente.
Secondo quanto riferitomi da Nda Bozoma II (ahemaa dell’ɔmanhene dello Nzema
Ovest), il futuro sovrano deve essere scelto da tutti i capi, maschili e femminili, dell’area
tradizionale in questione. La scelta avviene tra tre candidati selezionati dall’abusua
kpanily e dagli altri anziani del lignaggio. L’ahemaa ha il diritto di porre il veto su tale
scelta e in questo caso il candidato vincitore non potrà essere insediato.
I doveri delle regine madri nei confronti del re non si esauriscono nella selezione; esse
infatti sono tenute a consigliarlo e a consultarsi con lui in merito a ogni questione.
I loro incontri possono avvenire con frequenza quotidiana o settimanale, a seconda che
risiedano nello stesso villaggio o meno, ma i due devono essere in contatto costante.
L’ahemaa ha infine il potere, previo appoggio dell’abusua kpanily, di destutire il nanà
qualora questo non si mostri all’altezza del suo incarico.
Viceversa, l’ɔhene non ha alcuna voce in capitolo sull’operato della sua regina madre.
Essa può essere detronizzata solamente dal capo del suakunlu abusua e dagli altri
anziani. In entrambi i casi questo avviene dopo reiterati errori o comportamenti ritenuti
poco consoni alle cariche che i due detengono.
Il fatto di essere depositarie della genealogia del lignaggio, rende centrale il ruolo delle
regine madri nei casi in cui qualche altro abusua rivendichi il seggio.
Si è già accennato al fatto che il diritto allodiale sui territori poggi su memorie
trasmesse oralmente e che spesso questo genera conflitti in merito alla legittimità del
potere di questo o quell’altro gruppo di discendenza.
In caso di contenzioso, l’intervento dell’ahemaa è fondamentale per il mantenimento o
la riacquisizione del trono.
Poiché il sistema di discendenza è matrilineare, è attraverso la donna che il potere
viene trasmesso; quindi è alle ɔhema che spetta il compito di difenderè il seggio.
I parametri in base ai quali si sceglie la futura regina madre paiono essere variabili: in
due casi mi è stato riferito che si segue un principio di rotazione tra le varie matrilinee
del lignaggio, mentre nei restanti sei si è fatto riferimento esclusivamente a doti
caratteriali. Una brava regina madre deve infatti avere un comportamento decoroso e
allo stesso tempo mostrare coraggio e buona proprietà di linguaggio.
133
La scelta della futura ahemaa non segue uno schema fisso; essa può infatti essere
eseguita da colei che la precede, oppure dagli anziani della famiglia.
Nel primo caso, sarà la stessa ahemaa a preoccuparsi della corretta formazione della
sua erede, mentre nel secondo ci sono diverse figure ritenute idonee all’assunzione di
questa responsabilità.
Un’ulteriore distinzione va fatta tra coloro le quali ricevono la carica nel momento in cui
avviene il decesso della regina madre, e tra quelle che sono chiamate a sostituirla
mentre questa è ancora in vita, ma troppo stanca per continuare nel suo lavoro.
In tal caso si instaura una sorta di continuità tra le due donne; infatti non verrà eseguita
alcuna cerimonia di insediamento e non si avrà la “cattura” che avviene invece nel
primo caso.
Poiché la nomina avviene per bocca di colei che sta per lasciare la carica, la neo eletta
è automaticamente legittimata ad assumere su di se il ruolo.
Essa prenderà inoltre il nome di colei che l’ha preceduta, sottolineando il fatto che non
c’è rottura. Se la vecchia ahemaa ha le forze per farlo, si occuperà di formare la sua
erede, consigliandola e assistendola durante i primi periodi di attività, in caso contrario
potrà essere l’abusua kpanily assieme a qualche anziana donna della famiglia, ad
assisterla durante i suoi primi passi oppure un’altra ahemaa che risiede nei paraggi.
La “cattura” cui si faceva riferimento prima avviene nel caso in cui la nomina segue un
decesso.
In questo caso la futura regina madre viene invitata a presentarsi a casa del capo
lignaggio o dal nanà e viene rinchiusa in una stanza per un periodo che può variare dai
tre ai sette giorni.
Dai dati in mio possesso risulta che questa camera può essere una stanza utilizzata
normalmente, cosi come uno spazio appositamente riservato al periodo di isolamento
che precede la cerimonia.
In questo lasso di tempo la donna rinchiusa non può vedere nessuno all’infuori del
l’abusua kpanily e di qualche anziana della sua famiglia, che si preoccuperanno di
darle consigli e di istruirla in merito alla genealogia del proprio lignaggio.
Essa può uscire solamente per lavarsi, ma in un orario in cui nessuno può vederla.
Ci sarà un’unica persona incaricata di prepararle il cibo visto che è sempre presente il
134
rischio di un avvelenamento da parte di qualche rivale.
Qualcuna utilizza delle speciali protezioni contro eventuali malefici, ma quelle che
abbracciano la fede cattolica si proteggono pregando.
Anche se, in entrambi i casi, la formazione vera e propria avviene solo a nomina
avvenuta, quelle che sono ritenute essere potenziali candidate vengono indirizzate fin
dalla prima infanzia verso un comportamento decoroso.
Inoltre, le anziane donne della famiglia incominciano a raccontare loro la storia del
lignaggio affinché inizino ad apprenderla.
Per quanto riguarda l’ahemaa dell’ɔmanhene, essa sarà informata in merito alla storia
di tutti i villaggi e città dell’area tradizionale che è sotto la sua giurisdizione.
Trascorso il tempo necessario, avviene il taglio dei capelli; la regina madre deve infatti
distinguersi da tutte le altre donne e questo è uno dei segnali più forti che marcano tale
distinzione. Nello stesso giorno avviene la cerimonia di insediamento.
La nuova ahemaa viene sul palanchino reale assieme a un bambino e trasportata
innanzi all’abitazione del nanà.
Durante il tragitto essa agita uno “scacciamosche” (un asticella di legno al quale è
applicata una coda ovina), per indicare che tutta la terra che le è intorno le appartiene.
Una volta giunta a destinazione hanno luogo due giuramenti: uno rivolto alla
popolazione e uno rivolto alla famiglia.
Nel rivolgersi alle persone, essa dichiara che sarà sempre disponibile a prestare loro
soccorso in qualunque momento sarà chiamata. La formula viene ripetuta tre volte e al
termine del giuramento la folla risponderà in coro con il suono”iiiiiii”.
Nel rivolgersi alla famiglia essa parla con umiltà, dichiara di avere accettato di essere
ahemaa, perché il seggio appartiene alla famiglia, chiede perdono anticipatamente per
gli errori che commetterà ed invoca il loro aiuto per il difficile compito che l’attende.
Nelle formule di giuramento troviamo alcuni elementi essenziali per la comprensione
del ruolo delle regine madri.
Innanzitutto lei è responsabile del villaggio e di tutti i suoi abitanti, inoltre essa assume
il ruolo di rappresentare la sua famiglia che sarà comunque presente nelle decisioni
che verranno prese. Si è già riferito dei doveri che legano la regina madre al suakunlu
abusua di cui rappresenta il potere.
135
Il suo ruolo di madre non si esaurisce nella gestione dei problemi di varia natura che
potrebbero riguardare la famiglia. Essa, in quanto madre ha doveri precisi anche nei
confronti del villaggio. Capita spesso tuttavia, che la residenza dell’ahemaa, come
quella del nanà, non coincidano con il luogo dove questi detengono il seggio.
In tal caso, se dovesse esserci qualche problema particolarmente grave, occorrerà che
lei si metta in viaggio per discutere la situazione e concordare una soluzione.
Questo è vero più nella teoria che nella pratica. Si era accennato al fatto che a livello di
villaggio esiste una figura di tipo elettivo, il tufuhene, che funge da tramite tra la
popolazione e la famiglia al potere.
Spesso la coppia reale è distante dalla propria zona e se ne disinteressa.
La gente tende quindi a rivolgersi al tufuhene che vive quotidianamente a contatto con
le esigenze e i problemi della gente.
La casa di Egya Belecci, il tufuhene di Kenghen dove sono stata ospite, era un
continuo viavai di persone, che si rivolgevano a lui per ogni tipo di questione.
Da un certo punto di vista, la vera ragione d’essere della regina madre sembra
risiedere nella difesa del potere del suo lignaggio e questa cosa mi è stata confermata
in più colloqui.
Quasi sempre manca il contatto con la gente, questa considerazione mi è stata
suggerita da due fatti.
Nel corso delle interviste, ogni volta che chiedevo in modo diretto alle regine madri
quali fossero le ragioni (a livello personale o di conflitti interpersonali) per i quali le
persone si rivolgevano loro, la risposta era più o meno la stessa, ossia: se qualcuno
chiede il loro aiuto, loro intervengono perché è loro dovere.
Ho pensato che probabilmente per un questione di riservatezza queste preferissero
non entrare nel merito.
Il secondo suggerimento mi è venuto dai colloqui informali avuti con le ragazze e le
donne dei villaggi di Beyin e Ngherekazo. Ho domandato loro a chi chiedono consiglio
in caso di problemi e quello che è saltato fuori mi ha lasciata inizialmente perplessa.
Tutte hanno infatti dichiarato che in caso di problemi o di litigi esse si sarebbero dirette
al tufuhene, il quale avrebbe poi valutato se gestire lui stesso la situazione o se
mandare a chiamare il nanà.
136
La mia perplessità derivava dalle mie letture sulle regine madri ashanti (appartenenti
come gli nzema al gruppo akan e tra i quali ci sono molte somiglianze), le quali hanno
una propria corte nella quale ascoltano e giudicano i casi che riguardano le questioni
femminili.
Solo dopo aver parlato con le donne dei villaggi ,mi è sorto il dubbio, confermatomi poi
da altre conversazioni, che le regine madri nzema non avessero alcuna incidenza nella
risoluzione delle controversie che riguardano le donne.
I problemi e i conflitti che riguardano la popolazione vengono quindi gestiti
esclusivamente dai capi.
Restava comunque da chiarire in che modo le regine madri concorrano al benessere
della propria gente e al miglioramento dei villaggi.
Eva Avilabob mi ha fornito qualche indicazione più specifica, facendo riferimento a
sostegni di tipo economico in caso di malattia o estremo bisogno.
Ama Gnamole Alloi mi ha riferito che nel caso in cui dovesse esserci un problema che
riguarda le giovani del villaggio, lei vi si recherebbe per discutere la questione con la
popolazione, ma non è entrata nel merito del tipo di problemi.
Un’altra differenza con le regine madri ashanti risiede nel fatto che in area nzema
l’ahemaa non ha nessun ruolo connesso alla maturazione sessuale delle ragazze,
mentre le prime, come già segnalato, appuntano in un apposito registro i nomi delle
ragazze che hanno avuto la loro prima mestruazione.
La sfera di intervento delle ɔhema a livello di villaggio si applica ad ambiti più che altro
gestionali-organizzativi o di costume e trova applicazione nel momento in cui la regina
madre risiede sul posto.
L’unica persona dalla quale ho avuto una descrizione più dettagliata dei lavori della
regina madre nel proprio villaggio è stata Ebala Etchi, ahemaa di un villaggio in cui il
seggio è conteso da decenni da due differenti lignaggi.
Ebala è una donna molto forte e determinata che ha particolarmente a cuore la sua
gente. Spesso si reca a casa di famiglie particolarmente indigenti e offre loro un
sostegno economico.
Tutti nel villaggio sembrano tenerla sinceramente in grande considerazione.
Ella mi ha spiegato che la cosa più difficile del suo lavoro consiste proprio nel ruolo di
137
comando sulle persone.
Quando c’è bisogno di indire una riunione, occorre informare tutta la gente affinché
l’intera popolazione sia presente.
A tal fine lei manda per le strade un portavoce che al suono del gongon (una campana
utilizzata anche nell’esecuzione delle musiche tradizionali) annuncia l’imminente
raduno. Questo però può non essere sufficiente.
L’ahemaa manda allora un messo di porta in porta affinché la notizia raggiunga più
gente possibile.
Una delle cose più difficili è quindi convincere le persone a partecipare alle riunioni.
I motivi per i quali organizza incontri sono di vario tipo, ma mi pare opportuno riportare
tutti quelli che mi sono stati riferiti. La chiamata della popolazione avviene nel momento
in cui occorre fare dei lavori di pulizia del villaggio; bisogna diffondere notizie intorno a
un’epidemia contagiosa; è prevista la visita di qualche autorità politica; c’è un problema
che riguarda la frequenza scolastica; i giovani e le giovani assumono comportamenti
poco decorosi, come indossare vestiti troppo succinti o portare i capelli lunghi; è
necessario informare in merito a eventuali possibilità lavorative.
Si tratta fondamentalmente di azioni volte al miglioramento del villaggio e alla sua
salvaguardia, sia sotto il puto di vista sanitario che morale.
L’ahemaa dell’ɔmanhene mi ha riferito che a volte convoca le donne del villaggio e offre
dei suggerimenti per le migliorie che potrebbero essere apportate.
Pare non esserci una grande differenza tra quest’ultima e le altre ɔhemaa; l’unica cosa
che la rende riconoscibile sta nel fatto che essa è l’unica che può sedere al lato sinistro
dell’ ɔmanhene durante gli incontri pubblici.
In caso di grandi eventi essa può rivolgersi alle altre per avere il loro aiuto, ma, a
differenza del re, non ha voce in capitolo sugli affari dei seggi che non le competono.
Da questi dati si può affermare che i doveri delle regine madri nei confronti della loro
popolazione ricalchino quelli che hanno nei confronti del re ossia: consigliare;
preservane l’integrità e l’ordine; proteggerlo da eventuali minacce.
Tutti questi attributi sono da collegarsi alla maternità, che trova nel ruolo dell’ɔhemma
la sua massima espressione.
Bisognerebbe però verificare, sulla base di una casistica più ampia, se tale
138
abnegazione riguarda pochi casi isolati dovuti alla solerzia individuale, o se è prassi
laddove residenza e villaggio sul quale le regine madri detengono il potere coincidono.
3.2 Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazione
In che modo le regine madri nzema si rapportano con le loro responsabilità? Quali
sono secondo loro, le caratteristiche che le rendono riconoscibili rispetto altre donne?
Come descrivono la propria carica? Questi aspetti mi sono sembrati particolarmente
interessanti da esplorare, soprattutto nell’ottica di un’eventuale proposta di installazione
nei locali del Museo.
Ho cercato innanzi tutto di comprendere la relazione che c’è tra le responsabilità cui
sono investite e la loro sfera emotiva; a tal fine ho domandato ad ognuna di loro di
raccontarmi come hanno vissuto la notizia della propria nomina.
In secondo luogo, ho domandato loro come io avrei potuto riconoscere un’ɔhemma in
mezzo ad altre donne e quali sono le eventuali interdizioni cui le regine madri sono
sottoposte. Infine ho chiesto ad ognuna di loro di citarmi un proverbio sul loro ruolo.
L’atteggiamento generale nei confronti della carica è investito in cinque casi su otto, da
una volontà di rifiuto iniziale. Una tra queste, mi ha raccontato di essere fuggita prima
che potessero convocarla per catturarla e metterla nella stanza, perché aveva sentito
delle voci intorno alla sua nomina.
In seguito, al momento del decesso della regina madre scelta al suo posto, lei si è
sentita pronta ed ha accettato la carica che le era stata riproposta.
Un’altra mi ha invece riferito di una sua fuga temporanea, e di essere però stata in
seguito convinta dalla famiglia a tornare sui suoi passi e ad accettare.
Le altre quattro hanno ammesso che se avessero conosciuto in anticipo il motivo della
loro convocazione, non si sarebbero presentate e si sarebbero allontanate dal villaggio.
Una volta ricevuta la nomina in via ufficiale non è possibile opporre un rifiuto, l’unica
soluzione rimane quindi la fuga.
Solamente due su otto hanno dichiarato di non avere avuto alcuna esitazione, di
essere state felici perché veniva offerta loro la possibilità di battersi per la difesa della
loro famiglia e per il bene della propria gente.
139
Le motivazioni di questa tendenza al rifiuto stanno nei problemi che provengono dalla
carica. Questa è vista come continua fonte di rischi e problemi.
Eva Avilabob, che è stata insediata all'età di 35 anni, ritiene che, anche se per il
momento il suo lavoro è interessante e le condizioni generali sono tranquille, in futuro
giungeranno sicuramente dei problemi, perché questi provengono dal passato e non si
può mai prevedere il momento in cui torneranno a manifestarsi.
I problemi potrebbero giungere dalle stesse persone che l’hanno scelta come ahemaa,
perché inizialmente tutti si mostrano riverenti, ma sembra che il tempo porti
necessariamente con sè delle complicazioni. Eva Avilabob prima di rispondere a
questa domanda ha voluto conoscere l’uso che avrei fatto di queste informazioni e se
sarebbero circolate anche in area nzema.
Solo dopo essere stata rassicurata su questo punto ha iniziato a parlare liberamente,
questo non fa che confermare le sue parole in merito alla delicata situazione in cui le
regine madri si trovano ad operare.
I problemi possono essere interni alla famiglia così come riguardare la legittimità del
seggio, ma si possono anche collegare ai rapporti con l’ɔmanhene o con agenti esterni.
Ena II mi ha fornito un esempio di situazione conflittuale nel suo villaggio per il quale lei
continua a battersi strenuamente.
A Nhaule, il villaggio di Ena II, esistono pesanti tensioni tra la popolazione e la casa
regnante.
Vent’anni fa il precedente nanà aveva sottoscritto un contratto con un cementificio. Tale
contratto era stato stipulato senza previa consultazione con la regina madre e con
l’abusua kpanily, cosa che in sé va contro la tradizione.
A quanto pare, le attuali condizioni contrattuali tendono a svantaggiare la popolazione
la quale, tuttavia, vede nell’impresa interessata un’opportunità lavorativa.
Lo stesso ɔmanhene appoggia la ditta. Le parole dell’ahemaa lasciano intravedere due
livelli di conflitto: uno nei confronti della popolazione, che deve essere convinta ad
accettare decisioni prese per il suo bene, l’altro nei confronti dello stesso ɔmanhene il
quale riceve degli introiti dalla concessione delle terre all’impresa, ma che non
potrebbe ignorare la volontà dell’ahemaa e dell’abusua kpanily.
Questo preambolo è servito ad Ena II come esempio per spiegare quale sia la vera
140
natura della regina madre in area nzema.
Essa dichiara senza mezzi termini che, poiché è attraverso la linea materna che si
trasmette il lignaggio ed il potere ad esso connesso, sarà l’ahemaa, piuttosto che il
nanà, a lottare più forte per difendere il diritto sulla gestione delle terre di famiglia.
Ribadisce inoltre l’importanza della conoscenza della storia perché il potere è sempre
soggetto a rovesciamenti, è quindi essenziale essere in possesso delle giuste
conoscenze per difendere la posizione della propria famiglia.
Tra i proverbi citatimi uno può illustrare bene questo pensiero e cioè: "Abusua bedi ye
be nli akunlu nu" che significa che “il ventre della madre è la vera catena dell’abusua”.
Un’ahemaa deve sempre essere di esempio e mantenere un comportamento che sia
composto e rispettoso della tradizione.
Per questo motivo sono a lei precluse attività quali mangiare o danzare in mezzo alla
strada e discutere in pubblico.
L’immagine che le ɔhema trasmettono in merito a loro stesse è quella di una persona
dotata di una straordinaria forza di carattere ed educata ad avere decoro e rispetto.
Essa deve essere nello stesso tempo combattiva e protettiva.
Gli attributi della sua maternità non si limitano alla propria area di giurisdizione.
Infatti, quando un’ahema è in viaggio essa è immediatamente riconoscibile.
I suoi capelli devono essere corti, altrimenti non ci sarebbe differenza con tutte le altre
donne.
I sandali sono di una foggia particolare rispetto alle scarpe indossate comunemente, ed
essa indossa sempre abiti tradizionali e comunque non può mai portare i pantaloni.
Un altro segno distintivo è costituito dai bracciali e dalle collane di pietre dipinte, che
sono tipici attributi della regalità.
Anche se questi ornamenti hanno ormai un’ampia diffusione anche a livello turistico,
non è mai decoroso che un locale ne indossi troppi o di troppo elaborati perché
sarebbe indice di superbia.
Quando una regina madre è in viaggio è tenuta a prestare soccorso a chiunque ricorra
al suo aiuto, foss’anche uno straniero, perché “l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo”.
Il suo ruolo di protezione come madre è invece espresso dalle formule che stabiliscono
che “un buon pollo copre i suoi pulcini” e che “mai le zampe di un pollo pestano i suoi
141
pulcini”.
Ho incontrato due livelli di rappresentazione del potere tradizionale femminile presso gli
nzema: da un lato, quello delle dirette interessate che descrivono se stesse come
soggetti combattivi e che hanno in mano la sopravvivenza del suakunlu abusua e del
villaggio.
Dall’altro quello della gente che, pur esplicitando l’importanza del ruolo delle ɔhema, ha
dichiarato che in caso di problemi gravi ricorrerebbe non a quest’ultima, ma al giudizio
del nanà o al consiglio del tufuhene.
La mia impressione è che, nonostante la dichiarata responsabilità nei confronti della
popolazione, il loro ruolo effettivo consiste nel salvaguardare il potere e mantenerlo
nelle mani della propria famiglia.
Le regine madri sono spesso viste come ausiliarie dei capi visto che :"raalε sie boane a
renya a pε ye bolε a" (anche se la donna alleva la pecora, è l’uomo che conosce il
prezzo al quale venderla).
Sarebbe auspicabile una più approfondita analisi dei rapporti che intercorrono tra le
regine madri e i propri villaggi, in particolare dove seggio e residenza coicidono.
Tale indagine dovrebbe essere mirata a verificare se esistano o meno le premesse per
utilizzare queste donne come punto di raccordo per iniziative volte al miglioramento
della condizione femminile.
Idealmente, le regine madri potrebbero costituire un ponte tra i villaggi e le attività del
Museo.
Queste infatti, in linea teorica, dovrebbero essere a conoscenza dei problemi che
riguardano la loro zona; inoltre gran parte di loro ha dichiarato di svolgere un lavoro
(piccolo commercio, sartoria, etc.) per potersi permettere gli spostamenti legati ai loro
doveri, cosa che le rende più vicine al quotidiano delle donne comuni; infine godono di
una maggiore mobilità che le porta ad incontrarsi tra di loro in occasioni pubbliche o
durante i funerali.
Si tratta di verificare fino a che punto il loro coinvolgimento in eventuali programmi di
sviluppo rivolti alle donne, sia fattibile e potenzialmente fruttuoso.
Un’ipotetica installazione sul senso comune che gira intorno alle regine madri dovrebbe
tenere conto sia del punto di vista delle stesse, che di quello della popolazione.
142
Quello che mi pare opportuno mostrare, è l’esaltazione delle ɔhema in quanto madre
del seggio in primis e di tutto il mondo poi.
La mia proposta è di localizzarla nella sala “della tradizione” dove sono trattate le storie
di fondazioni dei villaggi; il festival del Kundum (capodanno Nzema); la memoria storica
di tradizione orale; le musiche e gli strumenti tradizionali.
L’esibizione potrebbe consistere in un dipinto su tela di medie dimensioni.
Questo potrebbe rappresentare una donna che sia immediatamente riconoscibile come
un ɔhemma e cioè: dai capelli rasati, abbigliata in modo tradizionale (vestiti e
ornamenti) e con in mano “lo scacciamosche”.
Per quanto riguarda l’esaltazione della maternità, si potrebbe pensare a un cordone
ombelicale che termina in un seggio (“il ventre della madre è la vera catena
dell’abusua”).
Parallelamente, si potrebbe disegnare un globo terrestre all’interno del ventre della
donna (l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo). Sullo sfondo andrebbero scritti i
proverbi in lingua nzema. Accanto a questi potrebbe essere disegnate le perline con le
quali si realizzano i bracciali e le collane regali.
Queste servirebbero come richiamo per un breve commento in inglese di ognuno, da
trascriversi su un piccolo pannello da porsi accanto al dipinto.
Il richiamo potrebbe essere reso concreto incastrandovi materialmente il corrispettivo
tangibile delle perline disegnate.
Nella sala dedicata al potere tradizionale, posta al pian terreno, il visitatore ha già
ricevuto informazioni sul sistema di discendenza e sull’organizzazione politica
tradizionale.
Attraverso le fotografie dei capi e delle regine madri ha inoltre presente il modo in cui
questi si presentano ed è quindi in grado di stabilire un collegamento.
Questo tipo di installazione risulterebbe quindi leggibile anche da chi non è avvezzo
all’universo culturale nzema e fornirebbe una rappresentazione coerente sia con
quanto espresso dalle stesse regine madri, che con il generale senso comune
veicolato dai proverbi.
Il resto del materiale, raccolto con tanto di documentazione audio, dovrebbe essere
inserito nel futuro archivio, per consentire una panoramica più completa e fornire la
143
basi per eventuali future ricerche
Conclusioni
I casi etnografici riportati, eterogenei sia sotto il punto di vista dei contenuti che sotto il
profilo della contestualizzazione storica, forniscono un ampio panorama di situazioni
che hanno a che vedere con i ruoli di potere femminile in alcune società dell’Africa
Occidentale.
Dalla comparazione di questi casi è emerso che l’azione delle donne, che svolgono
funzioni tutt’altro che marginali, è mirata e consapevole. Ciò è valido sia per quella
serie di situazioni in qualche modo riconducibili all’ambito tradizionale, sia per quanto
riguarda tendenze, individuali o associative, volte al miglioramento della propria
condizione. Le figure di potere passate in rassegna si configurano in molti casi come
fonti di cambiamento e di conflitto, soprattutto in situazioni d’instabilità politica.
In altri casi,il ruolo è formalizzato ed ha principalmente la funzione di mantenere
l’ordine e la stabilità,ma questo non esclude spazi d’intervento individuali.
Per quanto riguarda l’ambito rituale si è potuto osservare che questo incorpora
tendenze potenzialmente disgregatrici e contribuisce a preservare l’ordine.
Questa caratteristica non è pertinente solamente ai rituali di ribellione presenti tra gli
ondo yoruba, ma è ravvisabile anche nel culto di Nne Mmiri osservato tra gli igbo di
Onithsa.
Nel primo caso le donne esprimono il proprio disappunto nei confronti del re La
disapprovazione e la ribellione al controllo esercitato sulle donne si esprime attraverso i
versi satirici durante l’oramfe, e per il tramite del “ritardo” delle mogli reali durante
l’odun-obi.
Tra gli igbo invece, le tensioni latenti nei rapporti tra generi sono espresse dal fatto che
adepte e officianti del culto della divinità acquatica sono soprattutto donne che non
accettano di sottomettersi ai dettami della vita coniugale.
Sempre tra gli igbo, i gruppi delle “figlie del lignaggio”, delle “mogli del lignaggio” e
quelli costituiti dalle classi d’età, svolgono funzioni di educazione e sostegno, ma sono
144
anche uno strumento di pressione e controllo sociale dal quale possono muoversi
istanze conflittuali.
A livello di comando, donne di corte e mogli reali hanno agito singolarmente o in
gruppo, per favorire i propri interessi. In Benin, Lagos e Dhaomey, coloro le quali
sarebbero poi state scelte come regine madri, hanno parteggiato attivamente in favore
di un candidato alla successione al trono, fornendo in qualche caso anche supporto
militare ed organizzando ribellioni.
Nel Dahomey, le kpojito hanno governato alla pari con il re, favorendo in modo decisivo
il riconoscimento della dinastia attraverso l’introduzione di nuovi culti. Anche se,
attualmente, le donne del palazzo reale sono considerate semplici ausiliarie e vivono
nel più rigoroso isolamento, queste muovono le fila per favorire i propri famigliari
nell’accesso a cariche importanti.
L’instabilità politica e l’incertezza delle regole di successione hanno probabilmente
giocato in favore di queste donne, ma ciò non deve sminuire il fatto che le azioni
intraprese siano state il frutto di scelte individuali, mirate ad aumentare e consolidare il
proprio potere e la propria ricchezza.
Nel regno del Kongo, le donne legate all’elite reale hanno acquisito sempre più potere,
inizialmente attraverso gli eredi al trono, in seguito esercitando il controllo diretto di
molte aree periferiche. Queste giunsero a muovere eserciti e ad essere considerate
vere e proprie regine.
A livello di leadership politica tradizionale le regine mende hanno esercitato il loro
potere in aree molto ampie. Esse hanno agito come qualunque altro capo avrebbe
agito: stringendo alleanze e mobilitando truppe. Hanno inoltre colto la portata dei
cambiamenti in corso e costruito buoni rapporti con il governo coloniale. Ben lungi
dall’essere state soggetti deboli nelle mani degli amministratori britannici, esse hanno
elaborato, in un momento di crisi, la migliore strategia per mantenere il proprio potere e
per difendere la propria gente.
In area Akan, dove le regole della successione sono ben definite, il ruolo di regina
madre viene a assumere connotati più specifici. La carica ha mantenuto la sua
legittimità sia durante l’imposizione dei governi coloniali che con l’entrata in vigore delle
varie costituzioni nazionali.
145
Al di là delle responsabilità specifiche, che differiscono sotto alcuni aspetti a seconda
che ci si trovi in territorio nzema o in area ashanti, la loro peculiarità risiede nell’essere
considerate “madri” del re e del lignaggio reale. Esse sono responsabili prima che di
ogni altra cosa, di mantenere saldo il potere nelle mani della propria famiglia ed
incarnano tutti i valori connessi alla maternità.
Le regine madri Krobo, presso i quali il modello di governo tradizionale si è costituito
alla fine del XVII secolo sulla base di quello akan, lavorano in modo congiunto e
associato per favorire il miglioramento delle condizioni economiche femminili e si
battono per la propria inclusione nelle case regionali e nazionali dei capi.
Forti tendenze all’autodeterminazione sono esistite in passato tra le donne dello stato
di Edo, le quali hanno saputo approfittare della benevolenza mostrata nei loro confronti
da parte dell’amministrazione coloniale, per scappare da situazioni di vessazione e
abbandono.
In tempi più recenti le commercianti edo, riunite nei gruppi di mercato, hanno cercato
un collegamento con le associazioni che operano a livello nazionale, ai fini di
incrementare le loro possibilità di crescita economica.
L’associazionismo e il cooperativismo, soprattutto nelle aree rurali, sono da
considerarsi a pieno titolo strumenti attraverso i quali le donne dell’Africa Occidentale
contemporanea
manifestano
la
propria
azione
politica
e
la
propria
spinta
all’autodeterminazione.
Generalmente, i programmi nazionali e locali per il miglioramento della condizione delle
donne prendono le mosse dalle attività di produzione e trasformazione del cibo e
dall’artigianato locale. Questo rientra in piena linea con le riflessioni condotte in
precedenza in merito all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo locale.
Da un lato abbiamo i luoghi, i saperi, le tecniche, le memorie genealogiche e i ruoli di
potere che si legano alla tradizione e che sono indispensabili all’equilibrio sociale;
dall’altro c’è la tendenza al rafforzamento della propria condizione, che abbiamo visto
affiorare nel corso della storia laddove le circostanze l’hanno reso possibile e che
trovano oggi espressione in forme di sostegno reciproco che spaziano dalle raccolte di
fondi alla partecipazione a forme di associazionismo.
In qualche caso questi due aspetti dialogano tra loro, come nel caso delle regine madri
146
krobo o in quello delle associazioni di commercianti edo.
Questa volontà delle donne di porre in relazione saperi tradizionali, potenzialità insite
nel territorio, con il miglioramento generale delle condizioni materiali dell’esistenza
(propria e dei loro villaggi), potrebbe trovare un valido campo di applicazione nelle
tendenze museali cui si è fatto riferimento.
Nelle aree prese in considerazione, i processi di valorizzazione e tutela dei patrimoni
locali al servizio dello sviluppo, dovrebbero porre una particolare cura verso il
miglioramento della condizione femminile e puntare al coinvolgimento di coloro che
detengono ruoli di potere. Le donne, infatti, soprattutto nelle aree rurali, pur godendo di
una relativa autonomia economica, sono ancora subordinate all’autorità maschile.
Come proposto per il caso nzema occorrerebbe implementare programmi di sviluppo
collegandoli, dove possibile, alle reti associative locali e nazionali e le figure di potere
potrebbero svolgere in questo senso un’importante funzione di raccordo.
147
Bibliografia:
ABIMBOLA W.,1997, Images of women in the Ifa literary corpus. The New York
Academy of Sciences,New York
ABRAHM A.,1978, Mende Government and Politics Under Colonial Rule, Sierra Leone
University Press ,Oxford -Freetown
AMADIUME I,1987,Gender and Sex in an African Society, Zed Books,Londra/New
Jersey
AIME, M.; LATOUCHE, S.,2002, La casa di nessuno i mercati in Africa occidentale
Marco Aime introduzione di Serge Latouche,Boringhieri,Torino
AKYEAMPONG, E.; OBENG, P.,1995, Spirituality, Gender, and Power in Asante
History. The International Journal of African Historical Studies, Vol. 28, No. 3
AMSELLE, J.-L.,1999,Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove.
Bollati Boringhieri, Torino
BAMFO, N.,2000, The Hidden Elements of Democracy among Akyem –chieftaincy:
Enstoolment, Deestoolment, and Other limitation of power.Journal of Black Studies,
Vol. 31 N.2
BARLEY, N.,1997, Designing women, Cameroon. The New York Academy of
Sciences,New York
BARNES, S.,1997, Gender and the politics of support and protection in precolonial
West Africa. The New York Academy of Sciences,New York
BAY, E. G.,1995,Belief, Legitimacy and the Kpojito: An Institutional History of the
'Queen Mother' in Precolonial Dahomey. The Journal of African History, Vol. 36, No. 1
CALCHINOVATI, G.; VALSECCHI, P.,2005, Africa: La storia ritrovata. Dalle prime
forme politiche alle indipendenze nazionali,Carrocci,Roma
CHOEN, R.1997, Oedipus Rex and Regina: The Queen Mother in Africa. Africa:
Journal of the international African Institute, Vol 47. N. 1
148
CLARK, G.,1997, Market Queens. Innovation within Akan Tradition. The New York
Academy of Sciences,New York
CLIO92,(a.c.d.),2008, Per l’educazione al patrimonio 22 tesi,Franco Angeli
Edizioni,Roma
CRISTOFANO, M. , PALAZZESCHI Claudia ,2011, Il museo verso una nuova identità.
Roma, Gangemi
DE HEUSCH, L.,1958, Essai sur le Symbolisme de l’Inceste Royal en Afrique,
Université Libre de Bruxelles,Bruxelles
DE Varine Hugues, 2005, Le radici del ffuturo. Il patrimonio culturale a servizio dello
sviluppo locale, Clueb, Bologna
GROTTANELLI V.L.,(a.c.d.),1977, Una società guineana: gli Nzema. Boringhieri,
Torino.
F.; KAPLAN, 1997, Iyoba, the Queen Mother of Benin. Images and ambiguity in
Gender and Sex Roles in Court Art. Annals of the New York Academy of Sciences,
Wiley Online Library
______. " Runaway Wives", Native law and custom in Benin, and early colonial courts,
Nigeria, The New York Academy of Sciences,New York
EMOVON, A. C.,1997, Women of power. A study Market Women's Associations in
Benin City, Bendel State, Nigeria. The New York Academy of Sciences,New York
GILBERT, M.,1993, The Cimmerian Darkness of Intrigue: Queen Mothers, Christianity
and Truth in Akuapem History. Journal of Religion in Africa, Vol. 23, Fasc. 1
GLUCKMAN M.,1965, Custom and Conflict in Africa, Blackwell, Oxford
HÉRITIER, F.,2000, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza,Laterza,Bari
Maffi I,2006, Il patrimonio culturale, in U.Fabietti(a cura di) Antropologia, anno 6 num 7.
Meltemi Editore,Roma
JELL-BASEN, S.,1997, Eze Mmir Di Egwu. The water monarch is awesome.
Reconsidering the Mammy Water Myths. The New York Academy of Sciences,New
York
KAPLAN, F. EDOUWAYE S.,1993, Images of the Queen Mother in Benin Court Art.
African Arts, Vol. 26, No. 3
149
KAPLAN, F. EDOUWAYE S.,1997, Iyoba,the queen mother of Benin,The New York
Academy of Sciences,New York
KARP, I.; LAVINE, S. D.; DRUGMAN, F.,1995, Culture in mostra poetiche e politiche
dell'allestimento museale,Clueb,Bologna
KREIDERHENDERSON, H.,1997, Onitsha Women.The Traditional Context for Political
Power. The New York Academy of Sciences,New York
KRIGE, E. J.,1956, The Realm of a Rain-Queen: A Study of the Pattern of Lovedu
Society., Oxford University press,Oxford
LATOUCHE, S.,1997, L' altra Africa tra dono e mercato Serge Latouche. Bollati
Boringhieri,Torino
LOPASIC, A.,1997, Gender And traditional village art in Benin province, Nigeria. The
New York Academy of Sciences,New York
LÉVI-STRAUSS, C.,2003, Le strutture elementari della parentela. Feltrinelli, Milano
MATORY, J. L.,1997, The King’s Male-Order Bride. The Modern-Making of a Yoruba
Priest. Annals of the New York Academy of Sciences,New York
MCCASKIE, T. C.,2007, The Life and Afterlife of Yaa Asantewaa. Africa: Journal of the
International African Institute, Vol. 77, No. 2 (2007).
NWAPA, F.,1997, Priestesses and power among the Riverine Igbo, The New York
Academy of Sciences,New York
OBERG K., 1948,The Kingdom of Ankole in Uganda, in: Fortes M, Evans-Pritchard
E.E, African political System, Oxford University Press,London
OLUPONA, J. K.,1997, Women’s rituals, kingship and power among the Ondo-Yoruba
of Nigeria. The New York Academy of Sciences,New York
PAVANELLO, M.,2000 Il segreto degli antenati. Edizioni Altravista,Torrazza Coste(PV)
2000
______1992, The bureaucratization of traditional Authority under colonial rule: the
Asante Stool Treasuries, 1927-1944. L'Uomo, Volume V n.s.-nn.1/2
PICTON, J.,1997, On (men?) placing Women in Ebira. The New York Academy of
Sciences,New York
RAY, L.,2007,Nyarroh of Bandasuma, 1885-1914: A re-interpretation of female
150
chieftaincy in Sierra Leone. Journal of African History, 48
REMOTTI F.(a.c.d.),2000,Memoria, terreni, musei. Contributi di antropologia,
archeologia, geografia,Edizioni dell'Orso,Alessandria
ROSALDO M.,LAMPHERE L.(a.c.d.),1977, Woman, Culture and Society, University
Press, Stanford
ROSCOE J,1911,TheBaganda:
beliefs,Macmillan,Londra
an
account
of
their
native
customs
and
Turner V.,1957, “Schism and continuity in an African Society. A study of Ndembu
village.”, University Press, Manchester
SIGNORINI, I.; PALUMBO, B. le inspiegabili stranezze di un sistema Crow. L'uomo,
Volume V, nn.1/2
STEEGSTRA, M.,2009, Krobo Queen Mothers: Gender, Power, and Contemporary
Female Traditional Authority in Ghana. AfricaToday, Vol. 55, No. 3
STOELTJE, B. J.,1997, Asante Queen Mothers. The New York Academy of
Sciences,New York
THORNTON, J. K.,2006,Elite women in the kingdom of Kongo: Historical perspectives
on women’s political power. Journal of African History 47
Sitografia:
http://www.everyculture.com
http://www.edowomen.org
http://it.wikipedia.org
http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/constitution
http://www.modernghana.com/news/329173/1/31st-december-womens-movementmarks-29th-anniversa.html
http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/cpp.php
http://www.formazione.univr.it/documenti/Seminarioassegnando loro una determinata
personalità. L’iniziazione ha luogo al raggiungimento della
151