IL VIAGGIO ARTISTICO IN ITALIA NELLA SAGGISTICA POLACCA
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IL VIAGGIO ARTISTICO IN ITALIA NELLA SAGGISTICA POLACCA
DIANA KOZIŃSKA-DONDERI IL VIAGGIO ARTISTICO IN ITALIA NELLA SAGGISTICA POLACCA CONTEMPORANEA Nella letteratura polacca, il viaggio artistico in Italia ha una lunga tradizione che inizia con il Secolo dei Lumi, assume forma stabile durante l’Ottocento e, con fortuna alterna, si è mantenuta fino ai giorni nostri. Per «viaggio artistico», intendiamo quel tipo di viaggio intellettuale nel quale appare come elemento prioritario la ricerca, da parte dell’autore, della verità, del significato della vita e dell’arte. In questo senso, nell’ambito della letteratura polacca, l’Italia, nella geografia europea, si manifesta quale meta essenziale e capitale del viaggio artistico: l’ importanza che riveste infatti può essere paragonata a quella esercitata dall’India per quanto riguarda il viaggio in Oriente. Nella presente comunicazione, tratteremo solamente di opere che presentano un carattere documentaristico, aventi come referente reale il viaggio compiuto, e tralasceremo invece quelle in cui prevale l’elemento finzionale. Da un punto di vista formale ci interesseranno i resoconti di viaggio redatti in forma di saggio, i quali, a differenza di altri generi – il reportage, per esempio – sviluppano l’abilità dell’autore nel trasmettere, in modo più ricercato, le proprie emozioni e impressioni, e in cui è proprio l’interiorità dell’autore ad organizzare il materiale testuale. Le opere che abbiamo scelte, le quali sono tutte scritte in forma di saggio, sfruttano appieno le potenzialità insite nel genere, dato che in esse l’autore propone al lettore le proprie considerazioni sull’eredità e sui valori culturali perpetui trasmessi dal mondo mediterraneo. Dovendo definire il nostro viaggiatore, diremo perciò che si tratta di una persona colta – nella fattispecie uno scrittore, un artista o un poeta – che descrive i luoghi visitati attraverso i filtri della letteratura e dell’arte, avendo ben presenti gli scritti di coloro che l’hanno preceduto. Nei nostri testi, non meno importante di ciò che si descrive sarà quindi chi e in che modo descrive, dato che per il lettore di relazioni di viaggio di oggi forse non conta tanto la realtà italiana 221 così com’è – e come la può conoscere dalle guide turistiche e dai media – quanto lo sguardo e le impressioni di chi la osserva. Le relazioni di viaggio di cui ci occuperemo possiedono in definitiva una duplice valenza dato che in essi coesistono l’esperienza autentica, di prima mano, e la riflessione estetica. Molti sono gli esempi di cui si potrebbe disporre per trattare l’argomento in questione, la nostra scelta si fisserà comunque solo su due testi che, senza nulla togliere ad altri analoghi (come, per esempio, Pollakówna 1999, Wt 2002, Bieńkowska 1999, Karpiński 1997, Zagajewski 1998, Kubiak 1998, NBE 2002, UK 2001, Zagańczyk 1999), a nostro parere esprimono le peculiarità sopra accennate del viaggio artistico in Italia. Essi sono: Barbarzyńca w ogrodzie (Il Barbaro in giardino) di Zbigniew Herbert, del 1962 (edizione di riferimento Herbert 1991), e Sześć medalionów i Srebrna Szkatułka (Sei medaglioni e un cofanetto d’argento) di Gustaw Herling-Grudziński, del 1994. La raccolta di saggi di Herbert contiene le impressioni del suo viaggio in Francia e Italia, compiuto nel 1958. L’autore, nella prefazione, onde evitare possibili equivoci, svela al lettore lo scopo e il carattere del libro: Secondo me, cos’è questo libro? È una raccolta di schizzi. Un resoconto di viaggio. Da un lato, viaggio reale a città, musei e rovine. Dall’altro, viaggio attraverso i libri riguardanti i luoghi visitati. Questi due punti di vista, o metodi, si intrecciano l’uno con l’altro. Non ho scelto la forma più facile, vale a dire il diario delle mie impressioni, perché questo avrebbe finito con l’essere una litania di aggettivi o avrebbe condotto alla mera esaltazione estetica [...] Volevo scrivere un libro destinato alla lettura e non allo studio. Nell’arte, mi interessa il valore sovratemporale dell’opera (l’eternità di Piero della Francesca), la sua struttura tecnica (come si sovrappongono le pietre in una cattedrale gotica) e la sua relazione con la storia. (Herbert 1991:7)1 Tutte le citazioni sono state tradotte dall’originale polacco in italiano dall’autrice dell’articolo. 1 222 La cultura europea allora è vista da Herbert come una catena dello sviluppo dell’umanità, come un insieme di valori perpetui e indistruttibili dal tempo. La tradizione che appare ogni volta nelle opere d’arte avrà quella particolare facoltà di unire il passato con il presente. Il viaggio in Italia avrà quindi, in un certo senso, lo scopo di convincere l’autore che questi valori esistono e che i tesori della cultura mediterranea costituiscono un punto di riferimento per tutta Europa e un’eredità comune anche per la Polonia, patria dello scrittore. Ecco spiegato allora il senso ironico del titolo del saggio, laddove per giardino si deve intendere metaforicamente l’orto delle Esperidi, rappresentato dal mondo greco-romano, e per barbaro, il viaggiatore straniero, che pur essendo colto, si sente debitore della propria cultura nei confronti del mondo classico. Bisogna tuttavia sottolineare che nei suoi saggi, Herbert crea il suo personale elenco di opere degne di essere note, polemizzando sia con i canoni dell’arte delle enciclopedie, sia con i giudizi dei critici e, soprattutto durante i viaggi, con le stelline di eccellenza delle guide turistiche2. Possiamo definire il suo metodo di visita, come un anti-Baedeker, mentre la massima che lo guida verso l’opera d’arte è una parafrasi di quella espressa da Goethe: «Chi vuole conoscere il poeta deve andare nel paese del poeta», che per quanto riguarda la pittura dovrebbe tradursi: «I quadri che sono frutto della luce bisogna guardarli sotto il sole della patria dell’artista»(Herbert 1991:166). I soggiorni compiuti da Herbert nei luoghi presecelti per la visita si svolgono sempre in modo molto metodico: la ricerca dell’alloggio, la visita vera e propria, le soste a ristoranti e osterie e, infine, la partenza. Tutto ciò viene 2 Ad accompagnare questo suo viaggio è proprio una vecchia guida turistica, pubblicata a Leopoli nel 1909 e appartenente alla biblioteca di famiglia. Come sottolinea Dorota Kozicka (2003:130), v’è tuttavia discrepanza tra gli itinerari consigliati dalla guida e quelli effettivamente compiuti da Herbert. Possiamo interpretare questa presenza di una guida, oramai obsoleta, sia come un segno dei tempi – nella Polonia del dopoguerra le guide non si stampano più perché non si fanno più viaggi turistici come una volta – sia come un legame nostalgico alla sua città, nella quale non potrà mai più fare ritorno – rappresentato dal luogo e dalla data di pubblicazione della vecchia guida. 223 compiuto senza fretta alcuna, anche quando il luogo da visitare non è di facile accesso con i mezzi pubblici. Da notare l’assenza della macchina fotografica: Herbert come i viaggiatori d’altri tempi preferisce consegnare al disegno la memoria dei luoghi e dei monumenti, al fine di conservare un contatto diretto con l’opera d’arte, poichè, secondo lui, fotografie e cartoline rappresentano soltanto il modo più rozzo e falso di conoscere il mondo. Anche in questi elementi possiamo intravedere il metodo seguito da Herbert, il quale consiste non tanto nell’offrire al lettore un’immagine bell’e pronta, quanto nell’accendere in lui il desiderio e la curiosità di condividere le stesse esperienze estetiche. Il primo luogo d’Italia che si incontra in Barbarzyńca w ogodzie è Paestum, dove, come ci dice l’autore stesso, sarebbe valsa la pena di andare a piedi. Dopo aver descritto il suo arrivo, dopo un excursus di carattere storico-mitologico, infine dopo aver dedicato qualche riga alla colazione consumata in una trattoria, il viaggiatore-poeta passa alla descrizione vera e propria del luogo, accompagnata dalle proprie impressioni: Ecco, li vedo, per la prima volta in vita mia, con i miei occhi, realmente. Tra un attimo potrò andare lì, avvicinare la faccia alle pietre, annusarle, passare la mano sulle scanalature delle colonne. Bisogna liberarsi, ripulirsi, scordarsi di tutte le fotografie viste, dei grafici, delle informazioni contenute nelle guide. E anche di quello che mi ripetevano sulla purezza e nobiltà dei Greci. La prima impressione è stata quasi una delusione: il templi greci sono più piccoli e, a dire il vero, più bassi di quanto non mi aspettassi. Quelli che ho davanti agli occhi stanno su un pianoro piatto come un tavolo, sotto un gran cielo che li schiaccia ancora di più. (Herbert 1991:26) La delusione non dura però a lungo e il fascino dello stile dorico torna a catturare le impressioni del visitatore: 224 Mezzogiorno: gli asfodeli, i cipressi e gli oleandri si fanno immobili. C’è un silenzio afoso intessuto di grilli. Dalla terra al cielo sale l’infinita offerta dei profumi. Sto seduto all’interno del tempio e osservo il percorso dell’ombra .Il melanconico vagabondare del nero non è casuale, ma è il movimento preciso di una linea che taglia un angolo retto. Tutto ciò suggerisce l’idea dell’origine solare dell’architettura greca. (Herbert 1991:29) Lo scritto U Dorów (dai Dori), dedicato alla visita a Paestum termina con le amare considerazioni sull’impossibilità, da parte del turismo moderno, frettoloso e superficiale di cogliere il vero significato delle rovine, che andrebbero invece contemplate a lungo, nel succedersi delle ore del giorno e delle stagioni, perché si possa cogliere il loro intrinseco valore e il loro «calore umano»3. Il secondo saggio è invece dedicato alla visita ad Orvieto con il suo celeberrimo duomo, all’interno del quale il nostro barbaro rimane estasiato nel contemplare i capolavori di Luca Signorelli e di Fra’ Angelico: La prima impressione non è diversa dall’ultima ed è dominata dalla sensazione dell’impossibilità di familiarizzarsi con questa architettura [...] L’enorme rosone di pizzo ricamato nel marmo, dà più l’impressione di una scultura nell’avorio che di un elemento di architettura monumentale. Alla varietà di colori della facciata, si aggiunge la precisione dei particolari degna di un miniaturista e se si potesse paragonare il duomo di Orvieto con qualcosa potremmo paragonarla alla prima lettera di un manoscritto miniato, una lettera A molto alta e densa di ebbrezza estatica.. (Herbert 1991:51) Anche qui incontriamo il tipico linguaggio espressivo dell’autore che si discosata dai comuni moduli e apprezzamenti; il suo anticonformismo si manifesta pure nel giudizio conclusivo sugli affreschi che ammira all’interno del Duomo, poiché non esita a 3 Op.cit.., p. 35. 225 giudicarli più impressionanti di quelli della Cappella Sistina, ben sapendo di incorrere nelle ire dei critici d’arte. Questo linguaggio fatto di impressioni ritroviamo anche nell’ecfarsi degli affreschi e nel passo in cui Herbert attribuisce un colore particolare ad alcune città italiane: Le città italiane si differenziano tra loro grazie ai colori. Assisi è rosa, se questa parola banale può dare l’idea del rosso tenue dell’arenaria; Roma rimane impressa nella memoria come una terracotta su uno sfondo verde, Orvieto invece è marrone-oro. (ibidem) Siena, il terzo pannello dedicato all’Italia, è costruito come una breve monografia sulla città, la quale ci viene presentata da un punto di vista storico e artistico, in cui compaiono, oltre ai suoi monumenti, i suoi personaggi famosi: i poeti, gli architetti, i santi e soprattutto i suoi pittori. Nell’ecfrasis delle loro opere si mescolano talvolta distaccati giudizi da manuale e vivaci polemiche con i critici, sia con quelli del passato sia con quelli più vicini all’autore. Elemento essenziale di questa sezione di Barbarzyńca w ogodzie sono le passeggiate, o meglio potremmo dire il suo andare a zonzo per la città, senza un itinerario predefinito. Esco in città di buon’ora per vedere se aveva ragione Suarez, il quale ha scritto che Siena, al mattino, profuma di bosso. Purtroppo no. Odora di escrementi di automobili. Peccato che non esistano impiegati addetti alla conservazione dei profumi. Che piacere sarebbe, passeggiare per Siena, la più medievale delle città italiani, avvolti in una nuvola del Trecento [...] le prime ore, dopo l’arrivo in una città ancora sconosciuta, dovrebbero essere dedicate al girovagare, attenendosi alla seguente regola: dritto, terza a sinistra, ancora dritto, terza a destra. Di sistemi ce ne sono tanti e tutti sono buoni [...] Siena è una città difficile. Con ragione la si paragonava a creazioni della natura – una medusa o una stella. Il piano delle strade non ha nulla in comune con la «moderna» monotonia e la tirannia dell’angolo retto. (Herbert 1991:58-59) 226 In questa visita mattutina improvvisata, c’è per così dire una sorta di programma – scoprire i profumi della città; altrove, è l’attesa dell’apertura della pinacoteca a creare l’occasione per una passeggiata imprevista che offre ad Herbert quelle sensazioni che non aveva trovate prima. Valgono qualcosa solo quelle città in cui ci si può perdere. In Siena si può scomparire come un ago in un pagliaio. In via Galluzza, le case si toccano con gli archi, si va come in fondo ad una stretta valle; odora di pietre, gatti e Medioevo. (Herbert 1991:79) La sera, alla fine del diurno girovagare, quando l’autore si trova seduto al tavolo di un ristorante, dove sta cenando, o quando rientra in albergo, rappresenta sempre un momento di riflessione metafisica in cui si intrecciano fissità e movimento, cosmici e individuali. Sopra Piazza del Campo – luna piena. Le forme si addensano. Tra cielo e terra una corda tesa. Un momento come questo dà una forte impressione di eternità pietrificata. Le voci taceranno. L’aria si tramuterà in vetro. Saremo così tutti fissati: io che sto portando il bicchiere di vino alla bocca, la ragazza alla finestra che si sta pettinando, il vecchietto che vende cartoline sotto la lanterna, e anche la piazza con il Palazzo Pubblico e Siena. La terra girerà con me, inutile pezzo del museo cosmico delle cere, che nessuno guarda. (Herbert 1991:68-69) L’ultima sera è pure il momento di una confessione che non si ritrova mai altrove nelle opere di Herbert, la confessione di una nostalgica felicità alla quale l’autore non osa dare un nome: La vita è bella e la gente e buona [...] È l’ultima sera che trascorro a Siena. Vado al Campo a buttare una monetina nella Fontegaia, anche se non ho molte speranze di tornare qui. Poi dico – a chi devo dirlo – al Palazzo Pubblico e alla Torre del Mangia, addìo. Auguri Siena, tanti auguri. 227 Torno alle “Tre donzelle”. Ho una gran voglia di svegliare la padrona e di dirle che domani parto e che stavo bene qui. Se non avessi paura di questa parola, direi che ero felice. (Herbert 1991:89) L’ultimo saggio riguardante l’Italia è interamente dedicato alla figura e all’opera di Piero della Francesca. Assistiamo qui al compiersi di un pellegrinaggio che lo porta a tutti i dipinti che gli è consentito di vedere del suo pittore preferito. Il suo primo incontro con l’opera dell’artista italiano avviene alla National Gallery di Londra, dove rimane affascinato dalla «Natività» e da quel momento comprende che è necessario vedere un quadro nell’ambiente in cui questo è stato eseguito per poter cogliere appieno il messaggio in esso contenuto: di qui la decisione di compiere un viaggio in Italia che lo porti sulle tracce dell’autore della «Natività». Esso inizia a Perugia, prosegue per Monterchi, Borgo San Sepolcro, Urbino, Firenze, Arezzo, Milano. Le ecfrasis di Herbert descrivono dettagliatamente ogni tela o affresco incontrato durante il suo itinerario un po’ casuale, sottolineando il genio nascosto in ognuno di essi e il mistero al quale egli intende avvicinarsi, senza mai svelarlo del tutto. Ciò che conta maggiormente per lui è l’epifania del dipinto, un’epifania giocata tutta su sottili antinomie: ora il quadro appare nel suo farsi materialmente, grazie ai riferimenti biografici, storici, delle tecniche usate, ora invece pare staccarsi dal tempo della storia per manifestarsi in tutta la sua eternità di valori. Per esempio, a proposito della «Flagellazione», dopo aver descritto i particolari della sua genesi, la composizione, l’aspetto cromatico, le influenze, i commenti dei critici conclude; Qualsiasi chiave interpretativa prendiamo, sembra che la «Flagellazione» rimarrà uno dei meno interpretabili quadri al mondo. Lo guardiamo come attraverso un sottile strato di ghiaccio, incatenati, affascinati e impotenti come in sogno. (Herbert 1991:180) 228 Quasi a voler mantenere il mistero che circonda l’opera d’arte, Herbert conclude il saggio dedicato a Piero della Francesca tracciandone brevemente la vita: una vita della quale si conosce ben poco, oltre a qualche aneddoto, una vita quindi che pare non voler svelare i suoi segreti e che finisce col celarsi dietro i quadri. Me lo immagino mentre va per la stretta strada di San Sepolcro in direzione della porta della città, dietro alla quale ci sono soltanto il cimitero e le colline dell’Umbria. Veste un mantello grigio sulle spalle larghe. È basso, tarchiato, va con il passo sicuro da contadino. Risponde ai saluti silenziosamente. La tradizione vuole che alla fine della sua vita sia diventato cieco. Un certo Marco di Longara diceva a Berto degli Alberti che quand’era fanciullo andava per le strade di San Sepolcro con un vecchio pittore cieco, che si chiamava Piero della Francesca. Il piccolo Marco sicuramente non pensava che guidava per mano la luce. (Herbert 1991:182) Con queste parole dell’autore, riavvolgiamo, usando un’immagine di Herling-Grudziński, «il rotolo di vecchia pergamena» (1993:257) di Barbarzyńca w ogrodzie, e passiamo ad analizzare invece i viaggi artistici di questo appassionato lettore e ammiratore di Herbert, il quale oltre ad essere suo amico e collega, condivide lo stesso amore e lo stesso interesse per l’Italia e la sua arte. Trattare dell’insieme dei viaggi artistici di Herling-Grudziński sarebbe un’impresa che richiederebbe un lungo e articolato studio, dato che le sue riflessioni sull’arte e le sue descrizioni dei viaggi si trovano disseminate un po’ dovunque nei sette volumi che compongono il Diario scritto di notte (dal 1971 al 1996), nonché nelle novelle, le quali spesso contengono in embrione gli effetti dei suoi soggiorni in diverse città italiane. Ci soffermeremo perciò solamente su Sześć medalionów i Srebrna Szkatułka. La nostra scelta non è tuttavia nè casuale nè arbitraria, al contrario crediamo che proprio in quest’opera, che raccoglie un piccolo numero di saggi apparsi dapprima separatamente o presenti nel suddetto Diario, possiamo vedere, da parte dell’autore, una volontà ben precisa di riunire una serie di impressioni che costituissero di fatto un 229 insieme organico, pervaso dalla costante riflessione sui misteri dell’arte, analogo al Barbarzyńca dell’amico. I luoghi prediletti da Herling-Grudziński in Italia sono soprattutto le città d’arte o quelli scoperti, molte volte, per caso durante i suoi viaggi, i quali racchiudono qualche mistero, del quale era venuto a conoscenza grazie allo studio di vecchi manoscritti o di vecchi testi presenti nelle biblioteche e negli archivi. Per citarne solo alcuni, Siena, Firenze, Arezzo, Borgo San Sepolcro, Cortona, Assisi, Perugia, Todi, Orvieto, Urbino, Parma, Venezia, Roma, e soprattuto Napoli, dove lo scrittore viveva. La struttura del volume Sześć medalionów i Srebrna Szkatułka si articola in sette brevi saggi: i primi due dedicati rispettivamente a Parma e a Siena, i quattro successivi ad altrettante figure di artisti – Caravaggio, Rembrandt, Vermeer e Ribera – e infine il misterioso «cofanetto d’argento». «Parma» e «Siena e dintorni» sono di certo il frutto di viaggi compiuti in precedenza ed hanno senz’altro la funzione di preparare il lettore all’incontro con il mistero della pittura contenuto nei successivi saggi: va sottolineato infatti che la materia dell’intero volume è costituita dalla perfezione dell’arte, insieme con la forza nascosta nei quadri, nell’architettura, e anche in un piccolo oggetto di pregio. Non senza importanza, in questo itinerario artistico, è la presenza stendhaliana, messa in evidenza dall’autore stesso nel primo di questi brevi saggi, la quale ricorre in ogni ecfrasis. Infatti, come dice Marek Zagańczyk: C’è in essi sia il dettaglio pittorico sia l’elemento biografico. Ma più importanti sono quella mescolanza stendhaliana di descrizione dettagliata e minuziosa e di passione, in bilico sulla frontiera della follia e quel confronto tra mistero e quotidianità. (Zagańczyk 1994:134) La Parma di Herling-Grudziński è soprattutto la città dell’Antelami e di Correggio; una città, come dice l’autore, antitetica, provinciale e monumentale al tempo stesso. Essa rientra nella categoria preferita dallo scrittore polacco; quella delle «città medio-piccole», ma con una lunga e celebre tradizione storica (Herling-Grudziński e Bolecki 1997:377). 230 Particolarmente si sofferma sul duomo, in cui ammira le severe bellezze delle sculture dell’Antelami e la grazia e la fantasia della pittura del Correggio. Questa, per lui, è la Parma reale, ma è proprio dal fascino del «divino Correggio» che quasi insensibilmente si passa alla Parma mitica, quella completamente inventata che incontriamo nella Certosa di Stendhal. Siena invece si presenta come la città di Duccio, di Simone Martini e di Lorenzetti, ma è anche una città scenografica: Siena è una grande scena con in mezzo il Campo, a mo’ di conchiglia infossata. Una scena dalle ricche decorazioni architettoniche che danno spesso l’impressione che si stia partecipando ad una spontanea e affollata rappresentazione teatrale [...] Anche nella mia breve descrizione c’è qualcosa di teatrale. Ma dov’è il retroscena di Siena? Quando si esce a fatica dal Campo, ci si trova su una scena laterale, davanti alla facciata dorata della cattedrale. O si entra nella scena fluente dei pedoni in Via di Città. Allora forse Siena è una composita scena girevole? Forse sì. (Herling-Grudziński 1994:19) Tutta la teatralità di Siena, per il nostro, si nota ancor di più, quando si vede la città incorniciata dal paesaggio toscano. Essa, di giorno si presenta come un piccolo theatrum mundi, lo stesso che è stato fissato negli affreschi del Lorenzetti e che rimane sempre tale a dispetto dei cambiamenti. Di notte invece, si rapprende nel sonno e nell’immobilità, come una perla, simbolo di eternità. La notte senese suggerisce a Herling-Grudziński che lì tutto invecchia, ma nulla muore. Anche in «Siena» aleggiano le evocazioni stendhaliane: la figura dello scrittore francese fa capolino infatti durante la visita alla biblioteca dei Piccolomini, affrescata dal Pinturicchio, sotto le sembianze di quell’Historia duobus amantibus di Enea Silvio che Stendhal ricorda nelle Promenades, per riapparire in seguito durante l’escursione del nostro a Volterra, dove l’autore dell’Amour aveva seguito l’amata Matylda Dembowska. Ultima tappa del viaggio a Siena e dintorni è Cortona: qui la visita è dominata dalle antitetiche figure del Beato Angelico e di Luca Signorelli, chiamato dall’autore «Luca Tenebroso», accomunate da un’ispirazione religiosa dagli esiti però molto diversi: 231 Luca Signorelli, il pittore dei Dannati di Orvieto, in Cortona, piange senza parole il Cristo morto. Fra’ Angelico è tutto nell’Annunciazione di Cortona, nelle ali dell’angelo che sta entrando con passo leggero, recando la buona novella, tra le colonne della casa-tempio. (Herling-Grudziński 1994:33) Un intero saggio è dedicato da Herling-Grudziński a Caravaggio, definito come «maestro di luce ed ombra». Questa è la peculiarità sulla quale si basano tre ecfrasis di altrettanti dipinti. In «Davide con la testa di Golia» la luce e l’ombra simboleggiano il bene e il male: Davide, precursore di Cristo, è al centro della tela, in piena luce, mentre la testa dell’avversario sconfitto – autoritratto dell’artista – si trova in basso a sinistra, appena sfiorato dalla luce che emana dall’alto. Nella «Resurrezione di Lazzaro» e nella «Vocazione di San Matteo» viene maggiormente definita la frontiera tra luce e ombra: la mano di Lazzaro, nel primo dipinto, e la finestra, nel secondo, infatti oltre a segnare questa frontiera rappresentano il punto in cui luce ed ombra vengono a fondersi assieme. Nella «Morte della Vergine» e «Maddalena» si manifesta invece il male di vivere dell’artista simboleggiato dalle pose dei corpi e dall’espressione dei volti delle due donne dipinte. In questi due capolavori appare la sua tormentata religiosità, o per dirla con le parole di Herling-Grudziński «la sua ricerca di Dio tra la luce e l’ombra». Luce ed ombra insieme alla concezione di assoluto, in quanto Deus absconditus, ispirano allo scrittore il parallelismo che fa tra la vita e la morte di Caravaggio e la vita e la morte di Giordano Bruno: Sia Caravaggio sia Bruno, con ostinazione, giravano attorno a un Dio «per metà nascosto e per metà rivelato». Non credevano e non desideravano neanche che si rivelasse del tutto, amavano a modo loro il Dio nascosto, quello che erra tra la luce e l’ombra, tra la divina promessa e l’umana miseria. Ed è proprio per questo che 232 amo il pittore «maledetto». Ripensando a Pascal, unisco Caravaggio ucciso dal sole e Bruno incenerito dalle fiamme del rogo. Nell’attimo della loro morte conobbero soltanto la loro miseria. Dio si era nascosto a loro completamente. (Herling-Grudziński 1994:44-45) Le riflessioni di Herling-Grudziński sull’arte, come possiamo vedere, vanno oltre la semplice rappresentazione di ciò che si può osservare sui dipinti. Le sue meditazioni non solo tendono a chiarire la genesi, le tecniche e il contesto storico dell’opera d’arte, ma cercano di svelarne – anche se di ciò l’autore è ben consapevole – il nocciolo, la verità nascosta. Emblematico in questo senso è il saggio conclusivo di Sześć medalionów i Srebrna Szkatułka, dedicato alla storia e alla «morte» di questo oggetto prezioso, in cui verità e immaginazione si fondono in modo tale da affascinare, ma anche da disorientare il lettore. Si tratta di un cofanetto d’argento – dell’esistenza del quale è lecito dubitare – finemente cesellato, che presenta, sulle quattro facce laterali e sul coperchio, scene della Crocefissione e della Resurrezione di Gesù. L’oggetto, avuto in dono da un amico, esercita sullo scrittore un fascino quasi irrazionale, e a poco a poco finisce col perdere la sua fisicità per contare solo in quanto rivelatore di una torbida storia cinquecentesca di amore, passione, incesto e delitto. I ventiquattro piccoli fogli di pergamena che nasconde una sua apertura segreta gli svelano infatti un mistero legato ad un antico possessore del cofanetto. A mano a mano che il mistero viene alla luce il cofanetto comincia ad annerire fino al punto tale che le incisioni non sono neppure più riconoscibili quasi a voler significare che quando l’opera d’arte svela i suoi segreti essa cessa di esistere. In questo saggio, dove ancora una volta pare venire evocata la figura di Stendhal nel clima delle sue Cronache italiane, il cofanetto d’argento pare voler significare il mistero dell’arte e la relazione che esiste tra essa e la vita umana. Un mistero che non può essere svelato o che è meglio non svelare affatto, affinché non vengano distrutti la bellezza e il messaggio che l’arte ci trasmette. Herling-Grudziński pare proprio volerci consigliare di guardare e meditare senza mai oltrepassare la porta del 233 mistero, ma tenendola socchiusa, come fa lui nella cronaca personale dei suoi viaggi attraverso i luoghi e i capolavori. Con queste immagini, terminiamo il nostro breve excursus nell’ambito della prosa polacca contemporanea, dedicata al viaggio artistico in Italia. Ci auguriamo di aver mostrato l’importanza di questi scritti, di Herbert e di Herling-Grudziński, in quanto «genere» a sè, e cioè, ben diversi sia dai saggi critici specialistici, sia dai reportages; al tempo stesso speriamo di aver sufficientemente messo in rilievo il loro intrinseco potere di trasmettere la bellezza e la profondità di questa dimensione intellettuale del viaggio. 234 Bibliografia Bieńkowska 1999 Herbert 1991 Herling-Grudziński 1993 Herling-Grudziński 1994 Herling-Grudziński e Bolecki 1997 Karpiński 1997 Kozicka 2003 Kubiak 1998 NBE 2002 Pollakówna 1999 UK 2001 Wt 2002 Zagajewski 1998 Zagańczyk 1994 Zagańczyk 1999 E. Bieńkowska, Co mówią kamienie Wenecji, słowo/obraz terytoria, Gdańsk Zbigniew Herbert, Barbarzyńca w ogrodzie, Wydawnictwo Test, Lublin G. Herling-Grudziński, „Barbarzyńca w ogrodzie” Zbigniewa Herberta, in Wyjścia z milczenia, Warszawa Gustaw Herling-Grudziński, Sześć medalionów i Srebrna Szkatułka, Czytelnik, Warszawa G. Herling-Grudziński e W. Bolecki, Rozmowy w Dragonei, Szpak, Warszawa W. Karpiński, Pamięć Włoch, słowo/obraz terytoria, Gdańsk D. Kozicka, Wędrowcy światów prawdziwych. Dwudziestowieczne relacje z podróży, Universitas, Kraków Z. Kubiak, Brewiarz Europejczyka, Biblioteka „Więzi”, Warszawa Nowy Brewiarz Europejczyka, Biblioteka „Więzi”, Warszawa J. Pollakówna, Glina i światło, Wydawnictwo Dolnośląskie, Wroclaw Uśmiech Kore , Biblioteka „Więzi”, Warszawa Weneckie tęsknoty, Wydawnictwo W.A.B., Warszawa A. Zagajewski, W cudzym pięknie, Wydawnictwo a5, Kraków M. Zagańczyk, Kajet lektur in «Zeszyty literackie 48», 1994, n. 4, p. 134. M. Zagańczyk, Krajobrazy i portrety,słowo/obraz terytoria, Gdańsk 235