Untitled - Rizzoli Libri

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ANTONIA ARSLAN
Lettera a una ragazza
in Turchia
Proprietà letteraria riservata
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli
© 2016 by Antonia Arslan
Published by arrangement with Agenzia Santachiara
ISBN 978-88-17-08999-9
Prima edizione: novembre 2016
Lettera a una ragazza
in Turchia
Prologo
La strada lunga una vita
È lunga la strada dal Vecchio al Nuovo Mondo, piena di imprevisti, irta di pericoli e disavventure. Oggi, 30 marzo 2016, la percorro su un
comodo aereo, anche se non posso leggere, e mi
stanco a pensare che ci vogliono nove ore e mezzo di volo da Venezia a New York. Ma cent’anni fa, quando approdavano a Ellis Island – prima di essere accolti in America – cosa pensavano
i disperati “resti della spada” in fuga dalla loro patria perduta, l’Anatolia armena, gli erranti
sopravvissuti alle mattanze spietate dei Giovani
Turchi, dopo settimane passate a bordo di quelle navi lente cariche all’inverosimile? Da quali ri-
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cordi, quali speranze, quali incubi erano ossessionati?
La memoria era per loro una persecuzione
sempre in agguato – soprattutto nei momenti in
cui la tensione di vivere si allentava un poco, in
cui un barlume di pace come un arcobaleno lontano illuminava i loro cuori – un riaffiorare continuo di quelle scene di massacro tanto bestiali
quanto insensate, delle immagini dei volti amati
colti nel momento dello strazio finale.
Nella nostra fievole Europa, dopo settant’anni di pace, oggi non abbiamo personali ricordi
di sangue, ma oscure visioni di orrendi eventi
che imperversano in un altrove immaginato, fotografato, descritto ma non presente: e tuttavia
siamo pervasi da oscure premonizioni, anche se
con mille esorcismi tentiamo di ignorarle, di sistemarle in angoli bui e chiusi della nostra testa,
fra i timori che non ci riguardano direttamente.
Cerchiamo di non mettere in fila gli attentati, le esplosioni suicide, i morti innocenti, di
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non sentirne la minaccia vicina, ma di incasellarli ognuno in una scatoletta separata, con la sua
brava etichetta, di cui cerchiamo di perdere la
chiave.
E tuttavia l’accumularsi di eventi drammatici in realtà ce lo impedisce, e una paura subdola, sottile, come un gas venefico si insinua in
ogni cuore. Perché loro, i superstiti di un tempo, avevano più speranza: l’orrore indicibile c’era stato, ma era dietro di loro, nel passato, non
da qualche parte in un futuro possibile. Potevano combattere contro i ricordi, scacciare gli incubi: avevano già pagato abbastanza cara la loro sopravvivenza. Potevano finalmente pensare a
un domani più sereno, in cui con il duro lavoro
e la testarda volontà di farcela sarebbero riusciti
a farsi strada nel mitico Paese della Città Splendente sulla Collina, gli Stati Uniti dove così tanti di loro erano già emigrati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – e li aspettavano.
Ritrovarsi come comunità, costruire una chie-
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sa e una scuola, cercare un rifugio, una casa – ma
non lontana dalle altre dei compatrioti – riascoltare i suoni della lingua dei padri, non come lamento o maledizione, ma come scambio usuale
di voci, tranquillizzante chiacchiera quotidiana;
ricominciare a cucinare, sentire gli odori perduti,
non volevano altro; e fare famiglia. Tante ragazze
arrivavano con sposalizi combinati, due solitudini, due disperazioni antiche che provavano a guarirsi l’una con l’altra.
E spesso ci riuscivano: unendosi senza passioni o sogni romantici, costruivano insieme il cerchio magico di un’alleanza profonda, basata su
un passato di cui condividevano il rimpianto e
su un futuro comune di quiete e di lavoro. Cercavano, scrivevano dovunque, per sapere se fosse ancora vivo da qualche parte nel vasto mondo
un parente, un compaesano, un vecchio conoscente. Intrecciavano nuove reti di relazioni, ma
fragili, con ampi buchi che mani solerti cercavano di riparare, versando lagrime amare, tastando
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nelle tasche degli sformati grembiuli da lavoro
quel singolo oggetto, quella fotografia, quel ditale d’argento che materne mani scomparse avevano toccato nel Paese Perduto.
Io sto volando sull’Atlantico, quieta. Ma loro
arrivano da tutte le parti, sfiorano con dita trasparenti gli oblò rettangolari, si affollano. «Cosa volete da me, perdute anime?» sussurro a voce bassissima. La mia vicina, in top a fiori e jeans
molto stretti, dorme a bocca aperta, e non la vorrei risvegliare. Siamo così alti sopra le nuvole, ma
loro stanno lì, di momento in momento più numerosi, e oscurano il cielo, e dicono cose che io
non posso sentire.
È primavera, nuvole sfioccano basse sotto di
noi, vedo un tappeto di occhi e piccole mani
scure che si appoggiano al vetro, senza pregare,
senza minacciare, solo mostrandosi. E sulle mie
spalle si posa inflessibile il popolo scomparso.